Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
DA KKR ALLE PRESE CON IL ROSPO OPEN FIBER AL DETESTATO DECRETO CAPITALI, DALLE PRESSIONI SU BLACKSTONE E MACQUARIE PER FAR ENTRARE GAVIO IN ASPI, FINO ALLA VELLEITARIA MINACCIA DI GIORGETTI DI AZIONARE LA GOLDEN POWER PER AMMAZZARE L’OPERAZIONE DI CONQUISTA DI UNICREDIT SU BANCO BPM … DOV’È FINITO IN ITALIA IL LIBERO MERCATO? CONVIENE ANCORA MANTENERE I NOSTRI INVESTIMENTI MILIARDARI NEL PAESE DEI FAZZOLARI?
C’è grossa agitazione tra i grandi fondi internazionali. Raccontano che la Milano degli affari negli ultimi tempi sia testimone di riunioni informali tra i rappresentati dei più grandi fondi infrastrutturali del mondo, come Blackstone, Macquarie, Kkr, che investono in beni e servizi pubblici come l’energia e i trasporti, e quei “mostri” della finanza che investono in banche e grandi aziende come BlackRock, Fidelity, Pinko, etc
All’inizio del governo Meloni (2022) i grandi poteri finanziari internazionali hanno apprezzato la stabilità economica e politica Italiana e hanno doviziosamente investito nelle società del Bel Paese, ma due anni dopo si ritrovano davanti il crescente statalismo messo in opera dai Fazzolari di Palazzo Chigi, con la Draghetta di ieri, che pigolava consigli a “Mariopio” Draghi, trasformatasi ben presto nella Ducetta di oggi.
E la domanda che è sorta spontanea tra gli esponenti italiani dei fondi internazionali è: ma con questo governo che ha abbracciato una politica economica e finanziaria di stampo statalista, dov’è il libero mercato? Conclusione di Lor Signori: ci conviene ancora mantenere i nostri investimenti miliardari in Italia?
Il fondo americano Kkr, ad esempio, che dopo aver acquisito la Rete unica da Tim tra gli applausi di Palazzo Chigi, ora si ritrova in preda a un’incazzatura suprema: vuoi vedere che ci hanno rifilato una “sòla”, l’immancabile “italian job”? Non solo per il possibile accordo della Statista della Garbatella con Elon Musk e i suoi satelliti a bassa quota di Starlink che avrebbe ripercussioni negative sui bilanci delle varie telecom (Tim, Vodafone, Wind, etc), con conseguente crisi di ricavi per la Rete di Kkr.
Il rospo, pronto sul piatto, che dovrebbe ingoiare il fondo Usa sono i miliardi di profondo rosso di Open Fiber che, secondo i piani del governo, dovrebbe unirsi in matrimonio a Fibercop, di cui Kkr controlla il 37,8% con una presenza diretta del Mef (16%). Malgrado le tante smentite, molti analisti scommettono che Kkr aspetti solo che Open Fiber vada a gambe all’aria per poi prenderla a zero euro.
‘Sto guazzabuglio di miliardi da cacciare vede al centro il Mef di Giorgetti con il suo braccio operativo Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) che controlla Open Fiber al 60%, in tandem con il fondo australiano Macquarie (40%), mantenendo nel contempo una quota di minoranza (9,81%) anche in Tim. Sul rospo Open Fiber, Kkr ha puntato seccamente i piedi e Cdp è stata costretta, per non portare i libri in tribunale, a intervenire presso le banche creditrici per ristrutturare il debito, ancora per un anno, della fallimentare Open Fiber.
Un altro motivo di scontento (eufemismo) arriva da Autostrade per l’Italia (ASPI), che ha come azionisti Cdp (51%) e i due colossi dell’asset management, Blackstone e Macquaire, con il 24,5% ciascuno. I quali hanno seccamente respinto al mittente le richieste dei fazzolari di Palazzo Chigi riguardante un possibile cambio di proprietà con l’entrata nel capitale di un socio industriale come l’ASTM della famiglia Gavio.
Non solo: il rappresentante di Blackstone in Italia, Andrea Valeri, batte cassa: vuole più dividendi di quanto già incassa dallo Stato. Il fondo americano non è solo azionista forte di Aspi: nello stesso tempo lo ritroviamo col 37,8% nell’ex benettoniana Atlantia, ora Mundy’s, e nelle autostrade spagnole dove incassa dividendi più alti.
Stessa insoddisfazione, ma moltiplicata per due, per l’altro socio di Aspi, il fondo australiano Macquarie, sofferente di liquidità. Per far sì che Blackstone e Macquarie cedano parte delle loro quote a Gavio, il governo non ha altra via di riempirli di doviziose plusvalenze: dove trovano i dindi?
La luna di miele tra i fondi finanziari internazionali e Roma è finita nel cestino col Decreto Capitali, voluto da Palazzo Chigi dai fan di Caltagirone, da anni in preda alla fissa di conquistare Generali. Un decreto che non piace assolutamente ai poteri forti tanto da aver spinto il loro house-organ, “Financial Times”, a sparare almeno quattro articoli contro il decreto che rivoluziona, a favore dei Milleri e Caltagirone, il potere nei Consigli di Amministrazione.
A far saltare definitivamente i nervi ai Paperoni dei due lati dell’Oceano è stata la minaccia furibonda ma velleitaria del Mef di Giorgetti di azionare la Golden Power per ammazzare l’operazione di conquista di Unicredit su Banco Bpm, storicamente in quota Lega.
Una mossa, quella di Unicredit, messa repentinamente in atto proprio quando il Ceo di Bpm, Giuseppe Castagna, era partito, lancia in resta, alla conquista del Monte dei Paschi in compagnia di Milleri e Caltagirone, due imprenditori, soprattutto il secondo, cari alla Fiamma Magica.
La grande operazione messa in moto da Lega e Fratelli d’Italia (Forza Italia contraria) per creare il terzo, se non il secondo, polo bancario italiano con l’obiettivo futuribile di fusione Bpm-Mps per partire poi alla conquista di Generali, attraverso il 27% di azioni di Milleri e Caltariccone in Mediobanca, è saltato in aria, per ora, sulla bomba piazzata dal ‘’Cristiano Ronaldo delle fusioni e acquisizioni’’ che porta il nome di Andrea Orcel.
Nelle stanze di Palazzo Chigi, dove impera “Qui, comandiamo noi!”, l’operazione Unicredit l’hanno presa ovviamente malissimo; ma checché ne dicano gli economisti Salvini e Giorgetti (l’istituto guidato da Orcel ‘’non è praticamente una banca straniera’’), la Golden Power se la possono mettere in quel posto.
Difatti, Unicredit è una public company (l’azionista che detiene di più, il 7%, è il fondo americano BlackRock), mentre i principali azionisti di Bpm vedono i francesi di Crédit Agricole con il 12%, poi sbuca di nuovo BlackRock (5,2%), il finanziere Leone (tramite il suo fondo Dlp) con una partecipazione potenziale del 5,47%, infine Fondazione Enasarco con il 3%.
Quindi: di che cianciano Salvini e Giorgetti, quando tirano fuori, la “sicurezza nazionale”? Se andrà in porto l’operazione di Orcel, al massimo l’Antitrust farà dismettere a Unicredit le filiali in Veneto di Bpm, come è successo a Intesa quando si portò a casa Ubi.
Comunque l’Ops di Orcel su Bpm non potrà diventare Opa, cioè oltre allo scambio di titoli occorre mettere sopra almeno un miliardo e mezzo di euro cash, finché resterà aperta un’altra sua operazione di conquista, la banca tedesca Commerzbank, dove Unicredit ha una partecipazione al 21%.
Acquisizione messa in stand-by dal governo del cancelliere Olaf Scholz, in attesa delle elezioni anticipate in Germania in calendario il 23 febbraio 2025. Se, come è probabile, andrà a capo della Bundestag la Cdu democristiana di Fredrich Merz, l’ipotesi che la seconda banca tedesca venga assorbita da Unicredit diventa remota.
Intanto, i media hanno annunciato contatti parigini di Orcel con il Credit Agricole, che pare non abbia finora ottenuto grandi soddisfazioni col suo 12% in Bpm a causa della politica di Castagna, che ha rilanciato e ricostruito una banca intorno a sé, concedendo poco al suo primo azionista.
Ma per ora la banca controllata dallo Stato francese, col suo investimento non speculativo ma strategico, sta alla finestra a vedere come si evolverà la situazione. Mentre corre un ottimo rapporto tra Orcel e l’altro socio di Bpm, il finanziere Leone, hedge-fund di stanza a Londra.
Riuscirà l’arroganza del governo Ducioni ad avere la meglio sui poteri forti internazionali? La ‘’guerra del grano’’, nel senso di vil denaro, è in corso. Allacciate le cinture…
(da Dagoreport)
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Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
LA FRECCIATINA A BEATRICE VENEZI: “DIRIGERE NON SIGNIFICA MUOVERE LE BRACCIA”… LA CHIAMATA DELLA CALLAS, LO SCAZZO CON PAVAROTTI (“UNA DELLE VOCI PIÙ STRAORDINARIE CREATE DAL PADRETERNO”), LA POLEMICA CON IL VATICANO (“CON BERGOGLIO SI FA POCA MUSICA”) E LA POLITICA: “SONO LIBERO. SE UNO NON È DI SINISTRA, DEV’ESSERE PER FORZA DI DESTRA?
Maestro Muti, nel suo ultimo libro, Recondita armonia, lei scrive: «La musica non è una cosa che abbiamo inventato noi».
«Certo. Fanno musica gli uccelli che cantano, il tuono che rimbomba, il mare che si muove, le foglie che vibrano. Poi io ho una fantasticheria, di cui gli scienziati rideranno…»
Quale?
«L’universo non è muto. L’universo canta. I pianeti, gli astri, hanno un suono. Una musica celeste. Questi suoni li ho sempre pensati come raggi, che attraversano i cieli e i corpi viventi. Chi è più colpito da questi raggi sonori ha la natura musicale più intensa. Alcuni sono sordi. Altri, come Mozart, ne sono trafitti. Forse si spiegano così le loro morti precoci».
Chi è il più grande di ogni tempo?
«Quando lo chiesero a Rossini, rispose: Beethoven. “E Mozart?”, gli dissero. E lui: “Mozart è fuori categoria”. Mozart è un artista indispensabile. Senza non si può vivere».
Perché?
«Nel campo sinfonico è chiara la sua immensità. E se ci spostiamo sul palcoscenico, in teatro, Mozart ci dice quello che noi siamo: le nostre qualità, i nostri difetti, le nostre gelosie, le nostre violenze, le nostre passioni. La sua grandezza è anche nel fatto che non punta mai il dito. Beethoven era un moralista. Pensi alla Quinta».
Ta-ta-ta-tan!
«È il destino che bussa alla porta, anche se nelle enfatiche interpretazioni che si usano adesso diventa il bussare alla porta dell’inferno. Beethoven dedica la Terza, l’Eroica, a Napoleone; poi si accorge che Napoleone non veniva a portare la libertà, e ne cancella il nome».
E Mozart?
«Mozart è al di sopra o al di fuori di tutto questo. Si preoccupa meno della visione politica europea; guarda al fatto umano. Per questo è necessario: perché nelle sue opere troviamo noi stessi».
E Verdi?
«Non posso fare a meno di Verdi. Ha ragione d’Annunzio: “Diede una voce alle speranze e ai lutti, pianse e amò per tutti”. Eppure Verdi a scuola non si studia, non si ascolta. Siamo convinti che educare alla musica i nostri ragazzi consista nell’obbligarli a suonare il piffero, traendone orrendi suoni striduli. […]».
Di lei dicevano che fosse rivale di Abbado.
«Una stupidaggine messa in giro da falsi intenditori. Eravamo di generazioni diverse, abbiamo fatto un percorso diverso. E ci siamo sempre stimati».
Chi sono i falsi intenditori?
«L’intenditore non esiste. Consiglio a tutti di porsi in maniera virginale di fronte alla musica, e stare lontani dal competente. Chi non sa può ricevere sensazioni molto più vere e commoventi di chi crede di sapere tutto».
E abbiamo sistemato i critici. Quali sono invece le voci più grandi?
«Ho avuto la fortuna di incontrare cantanti strepitosi. Richard Tucker, che incise l’Aida con Toscanini. Cesare Siepi. Sesto Bruscantini. Krista Ludwig, grandissima mezzosoprano. Aureliano Pertile, il tenore di Toscanini, che indico ai giovani cantanti e ai giovani direttori d’orchestra come maestro del fraseggiare. Perché la frase musicale ha leggi fisiche interne da cui non si può prescindere. Dicono: “Io la sento così”. Un corno!».
Chi è il più grande tra i tre tenori?
«Il più musicista è Domingo. Ma la voce più bella è quella di Pavarotti: una delle voci più straordinarie create dal Padreterno».
Litigaste.
«E ci ritrovammo. Organizzai un concerto per sostenere una comunità di tossicodipendenti. Pavarotti venne apposta dall’America. Non volle una lira, si pagò lui il biglietto aereo. Mi misi al pianoforte, cantò per un’ora. Il programma, preparato da lui, partiva dall’Orfeo ed Euridice di Gluck e arrivava alle canzoni napoletane attraverso Verdi e Puccini.
Quando lessi il primo brano — “Che farò senza Euridice?” — rimasi sgomento: si confaceva a un tenore castrato settecentesco, o a un mezzosoprano, più che a una voce eroica come quella di Pavarotti. Però mi adattai alle sue scelte; e fu un grande successo. Il concerto, nel Palasport di Forlì gremito, fu ripreso per metà dalla Rai e per metà da Mediaset. Un miracolo».
E la Callas?
«Non l’ho mai incontrata. Ma nel 1973 stavo pensando di fare Macbeth al Maggio fiorentino, cercavo una Lady Macbeth, e avevo in testa e nelle orecchie la grandissima interpretazione della Callas alla Scala. Mi rivolsi a un comune amico, che lavorava alla Emi. Ero in America, direttore invitato all’orchestra di Philadelphia, quando squillò il telefono nella stanza d’albergo. Era una voce di donna. Non disse il nome. Giocò per un paio di minuti: “Lei maestro mi conosce, anche se non ci siamo mai visti…”. Poi gettò la maschera: “Sono Maria Callas”».
E lei?
«Ebbi quasi un colpo. Chiamava dalla Florida, dove era ospite del nostro amico comune. Aggiunse: “So che lei mi cercava per Macbeth a Firenze…”. Si fermò in una breve pausa, poi, come nella Traviata di Verdi, fece cadere parole che ancora mi risuonano nella testa: “È tardi!”.
Lo disse cambiando tono nella voce. Sentii il dramma della grande artista al passo d’addio. Fu l’unico contatto, incredibilmente commovente, che ebbi con lei. Nel timbro di quella voce c’erano lo scherzo leggero e la tragica espressione delle ultime parole. Pochi anni dopo morì».
Bocelli?
«“Con te partirò” ha imperversato per un’estate sulla Riviera romagnola. Come tenore non lo conosco».
Nel suo libro lei scrive che all’estero gli italiani non sono presi sul serio, che Verdi non è eseguito con il rispetto riservato a Wagner.
«È una cosa molto grave, che ho combattuto per tutta la vita. Ma la colpa è anche di noi italiani, che incoraggiamo questo modo circense di cantare, per cui un certo tipo di pubblico aspetta l’acuto. Tipo il Vincerò, di cui, me lo lasci dire, non se ne può più».
Perché?
«Questa nota — vinceeeee… — che dura sempre più a lungo… Dalla musica italiana ci si attende il languore infinito, lo strillo senza misura. Perché non accade con Wagner, con Mozart, con Schubert?
Eppure c’è una lettera in cui Mozart scrive al padre Leopoldo: “Un’esecuzione a Napoli vale più di duecento in Germania. Ps: anche se pagano poco”. (Muti sorride). Ora siamo tornati al cliché del pomodoro, della mozzarella, del mandolino, della mamma. In America le trattorie hanno sempre il nome della mamma: Mamma Maria, Mamma Rosa… Noi siamo il Paese di Dante, Leonardo, Michelangelo, e pure di Marconi e di Fermi. Ma tutto questo l’abbiamo abbandonato».
«La musica classica viene adoperata come sigla di pubblicità. Seul ha ventidue orchestre sinfoniche, di cui quattro nate negli ultimi anni. Noi ne abbiamo due. In Asia hanno capito l’importanza dell’acquisizione della cultura occidentale, in cui l’Italia ha un posto molto importante. Per loro è la premessa alla conquista dell’egemonia».
Noi però abbiamo Beatrice Venezi.
«Sì, lo so. Lo so».
Parliamo in generale: lei non ama la gestualità eccessiva.
«Dirigere non significa muovere le braccia. Il lavoro del direttore è nella preparazione, nella concertazione. Ci sono cento musicisti e un coro: serve un leader che equilibri le parti, che spieghi cosa intende fare di una partitura. Quando s’inizia il concerto, il lavoro è già fatto.
Toscanini dirigeva a cenni. Cerchi su Internet i filmati di Richard Strauss: guida l’orchestra con piccoli tratti della mano. Anche Karajan aveva una gestualità molto trattenuta. Arthur Nikisch scrisse al giovane Fritz Reiner: “Non badare alle braccia, con i tuoi musicisti usa gli occhi. Guardali negli occhi, e amali”. La gestualità eccessiva mette un muro tra l’orchestra e il pubblico. Non senti la musica; vedi il direttore».
Lei è di centrodestra?
«Io sono una persona libera di pensiero. Non ho mai avuto protettori politici, sponsor, manager. La mia “carriera” è stata determinata dalle orchestre».
Quest’anno dirige il concerto di Capodanno.
«Per la settima volta, ed è un grande onore. Peccato che la Rai, a differenza di molti altri Paesi, non lo trasmetterà in diretta».
Lei non è certo di sinistra.
«Se uno non è di sinistra, dev’essere per forza di destra? Gentile era di destra, ed era un grande filosofo: forse non dobbiamo studiarlo? Certo, non sono mai andato a sbandierare il libretto rosso per la strada. Non mi piace essere classificato. Sono un indipendente. Quando ero direttore musicale della Scala, ricevetti da un politico una lettera di raccomandazione per un cantante».
Cosa rispose?
«Non risposi. E di lettere non ne ho più ricevute. Non so se oggi farei carriera; il mondo è molto cambiato, uno come me faticherebbe a farsi strada. Siamo un Paese in cui la cultura è sorella minore».
La vedo molto preoccupato per l’Italia.
«Non sappiamo più chi siamo. Abbiamo reciso le nostre radici».
Colpa della cultura woke? Della cancel culture?
«È una cosa cui sono assolutamente contrario. Non si deve cancellare nulla, al contrario, si devono far conoscere ai giovani tutti gli errori commessi nel passato. La storia non è solo san Francesco d’Assisi; è fatta anche da tiranni, dittatori, sanguinari. Non dobbiamo costruirci un immaginario passato paradisiaco; dobbiamo conoscere per poter correggere. Non si devono imbiancare i muri, perché i muri dalla storia sono imbrattati»
Succede anche nella musica?
«In certi teatri cambiano i libretti. Ma così diventa una dittatura del pensiero; che è la forma dittatoriale più pericolosa. Qualcuno ti dice: questo non si può dire, questo non si può fare.
Nel “Ballo in maschera”, Verdi fa dire al giudice che la maga Ulrica ha l’“immondo sangue dei negri”. Vari teatri, compresa la Scala, hanno cambiato la frase. Quando ho portato il “Ballo in maschera” in forma di concerto a Chicago, città dove la presenza della gente di colore è molto forte, allora governata da una sindaca democratica e nera, non ho cambiato una sola parola. Ho spiegato al cantante (che oltretutto era nero) che Verdi non era razzista; mette in bocca al giudice bianco questa frase orrenda, ma l’accusa di Verdi era rivolta non ai neri, bensì ai bianchi razzisti. E il cantante si era trovato d’accordo».
Altri esempi?
«Due anni fa, in una prova a Chicago, ho usato la parola “orientale”. Dopo la prova mi è stato fatto notare, gentilmente e privatamente, che la parola “orientale” era sbagliata, metteva a disagio, in America non si usa più. Si deve dire “asian”, asiatico. Allora ho chiesto: e io chi sono?».
Lei chi è?
«Mi hanno detto che ero “caucasian”, caucasico. In realtà, io sono pugliese. E se dico a un contadino pugliese che è caucasico, mi insegue con il forcone, perché pensa sia un insulto».
Com’è finita?
«Sono tornato dall’orchestra e ho detto: “Mi dispiace se qualcuno pensa che abbia usato una parola sbagliata. Però venendo io dall’Italia, un Paese colto, ho imparato a scuola ad amare la pittura orientale, la filosofia orientale, i profumi orientali. Il sole nasce a oriente. Per cui, mi dispiace, io continuerò a usare la parola orientale”».
Com’è la Scala oggi?
«Non lo so. Ho lasciato la Scala nel 2005. Sono stati vent’anni meravigliosi. Non rinnego uno solo degli anni scaligeri. Ho riportato la trilogia popolare verdiana, Traviata Rigoletto Trovatore, che mancava da più di vent’anni, la Traviata da ventisei.
Opere che in qualsiasi teatrino tedesco sono in repertorio, mancavano alla Scala da una generazione: fatto grave. Ricordo le prove della Traviata nella Scala semivuota. Quando le prime note del preludio si sono librate nell’aria, ho visto la commozione di molti professori d’orchestra che avevano eseguito quelle stesse note ventisei anni prima… E poi la trilogia dapontiana di Mozart, il ciclo delle nove sinfonie di Beethoven, il Parsifal e il Ring di Wagner… Anni meravigliosi. Si è compiuto un ciclo».
E papa Francesco?
«Con lui di musica in Vaticano credo se ne faccia poca, non come ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che era un musicista. Quando Montini da cardinale di Milano divenne Papa, una delegazione del conservatorio andò da lui a Roma, a cantare il Magnificat. Ora Milano non è più sede cardinalizia, non capisco perché. Nell’aula Nervi si tenevano concerti importanti, l’organo della Sistina reca i nomi dei grandi organisti che l’hanno suonato…».
Ha mai incontrato il Papa?
«Una volta, con Napolitano. Gli dissi: “Santità, non dimentichi quanto la Chiesa ha fatto nei secoli per la musica”. Non ebbi risposta. Quando senti i fedeli cantare nelle chiese austriache, sembrano un coro professionale. Il che dimostra una cultura musicale diversa dalla nostra».
Come immagina l’aldilà?
«Non come un posto dove ci incontriamo e ci baciamo. Siamo fatti di energia. Possiamo chiamare questa energia anima, o spirito: qualcosa che dà vita alla vita. Quando moriamo, questa energia si libera nell’universo. Quando morì mia madre, l’ho sentita, quasi vista, esalare l’ultimo respiro; dopo di che il corpo, da morbido che era, divenne rigido. La comunione dei santi, come dice la Chiesa, è l’unione di queste energie, che non si esauriscono, ma continuano a fondersi e a confondersi».
E la resurrezione della carne?
«Oggi ci si fa cremare. Ricomporre un corpo dalla cenere la vedo dura».
Aldo Cazzullo
per il “Corriere della Sera”
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Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
È UNA VENDETTA DEL GOVERNO CONTRO I GIUDICI CHE HANNO CAZZIATO L’ESECUTIVO SU PNRR, BALNEARI E FONDI ALLA SANITÀ… SE PASSASSERO LE NUOVE NORME, CHE TOLGONO POTERI ALLA CORTE (ASSEGNANDO FUNZIONI PIÙ CONSULTIVE) E LIMITANO LA RESPONSABILITÀ DEI FUNZIONARI PUBBLICI, SAREBBE L’ENNESIMA DICHIARAZIONE DI GUERRA
I giorni decisivi per quello che sarà nei fatti l’unico esame parlamentare della legge di bilancio 2025 si profilano ormai sull’orizzonte della Camera. Ma nella settimana che inizia domani a Montecitorio si parlerà molto anche di giustizia: perché arrivano all’appuntamento con i voti in commissione due riforme diverse per genesi e modalità attuative, accomunate però da una contemporaneità di calendario.
Martedì si dovrebbero infatti chiudere i lavori in commissione Affari costituzionali e giustizia sulla separazione delle carriere dei magistrati Affrontato l’ultimo correttivo, già martedì o al più tardi nella seduta successiva in programma giovedì, si passerà alla riforma della Corte dei conti, basata sul disegno di legge presentato dal capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Tommaso Foti.
Fin qui il tema ha acceso discussioni periodiche sulla natura dell’intervento, e un dibattito vivace all’interno di una Corte dei conti dove si incontra una maggioranza di chi, a partire dall’Associazione nazionale dei magistrati contabili, vede nel disegno di legge il pericolo di uno “svuotamento della sostanza delle funzioni della Corte” come si legge nel comunicato successivo all’assemblea di fine ottobre.
Ora però si entra nel vivo. E la temperatura promette di salire, alimentata anche dalla contemporaneità con la separazione delle carriere che rischia di polarizzare il dibattito intorno a un doppio “attacco” del Governo alle magistrature.
Il cuore del progetto è un’evoluzione del ruolo della Corte in direzione delle funzioni consultive, riequilibrando il peso assegnato agli interventi successivi da parte delle Procure. Questa, almeno, è la visione rilanciata a più riprese dallo stesso Governo, che ha sposato da subito la riforma nata con la veste della proposta parlamentare.
“Il passaggio a una maggiore funzione consultiva è essenziale per dare alla Corte un ruolo di supporto alla corretta amministrazione, e per superare quella paura della firma che è un fatto reale, non un’invenzione”, ha ribadito ieri il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Nazario Pagano (Fi), ricordando nel suo intervento agli “Stati generali della Ripartenza” organizzati a Bologna dalla fondazione “Riparte l’Italia” anche l’atteggiamento non ostile espresso da più di un esponente dell’opposizione.
Sul piano concreto, nel testo si incontra un potenziamento dei sistemi di consultazione preventiva dei controllori della Corte dei conti, accompagnato da un salvacondotto che mette al sicuro da rischi di contestazioni chi poi agisce in linea con le indicazioni dei magistrati.
Cambia anche la quantificazione delle condanne, che nella riforma non puntano più sempre alla restituzione integrale (ma spesso teorica) del danno ma trovano un tetto che impedirà di superare i due anni di stipendio del dipendente pubblico coinvolto (norma complicata da applicare quando la condanna riguarda un privato in rapporto di servizio con la Pa).
Sul tavolo c’è poi la proposta di accentramento delle Procure regionali, accompagnata da un emendamento a firma di Paolo Emilio Russo (Fi) che chiede anche alla Corte dei conti una netta separazione delle carriere tra controllo e giurisdizione e prevede un drastico sfoltimento di sezioni centrali e relative presidenze.
(da il Sole 24 Ore)
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Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
L’EX COGNATO D’ITALIA, DA QUANDO ARIANNA L’HA MOLLATO, È STATO MARGINALIZZATO E MEZZO COMMISSARIATO… IL MINISTRO DELLA DIFESA PAGA IL PASSATO DA BATTITORE LIBERO DEMOCRISTIANO… LE SUPERCAZZOLE DI GIULI, “PROTETTO” DALLA SORELLA ANTONELLA E DA ARIANNA MELONI, E IL “JOLLY” ALFREDO MANTOVANO, CHE HA UN SOGNO: IL QUIRINALE
Quando i fedelissimi iniziano a riposizionarsi, vuole dire che qualcosa è cambiato. Se ne è accorto Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, finito sempre più ai margini di Fratelli d’Italia. Prima decideva, spostava pedine a ogni livello. Oggi deve muoversi con circospezione.
La rottura sentimentale con Arianna Meloni, plenipotenziaria del partito, non è stata indolore dal punto di vista emotivo. E nemmeno politicamente. Se l’ex compagna ha detto: «Per Lollo mi butterei nel Tevere», in realtà la carriera politica del ministro rischia di «annegare», per usare un’espressione spietata usata da un deputato del partito durante una chiacchierata in Transatlantico
Un segnale del cordone costruito intorno a Lollobrigida è stata la nomina del nuovo portavoce, Gennaro Borriello. È finito al Masaf dopo che il suo nome è stato caldeggiato da palazzo Chigi.
Borriello, infatti, era la figura-chiave che concordava le presenze in radio e in tv dei meloniani. Decisione che, come è noto, passa sotto la supervisione del gran visir della propaganda meloniana, il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari.
Borriello viene dal Publitalia, Cdp, prima di avvicinarsi alla comunicazione prettamente politica. Con l’apprezzamento di Fazzolari, uno che – come raccontato da palazzo Chigi – «non ha mai un diverbio con Meloni». Lollobrigida ha pur sempre un ministero di peso tra le mani. Ma anche quello sta diventando fonte di problemi. I numeri dello scorso anno, il suo primo al Masaf, non sono stati dei migliori per l’agricoltura: è andata in controtendenza rispetto all’economia nazionale con un calo della produzione dell’1,8 per cento e un aumento della disoccupazione del 2,4 per cento.
Si addensano poi questioni che intersecano rapporti personali e politici. Lollobrigida ha rischiato la collisione con Coldiretti, con cui c’è sempre stata un’ottima intesa. La scintilla è stata innescata da un suo fedelissimo, l’assessore al Bilancio della regione Lazio, Giancarlo Righini, entrato in rotta di collisione con la branca regionale dell’associazione degli agricoltori. Il nodo era una dote economica non stanziata.
La protesta stava travolgendo appunto Righini con conseguenze a catena sull’amministrazione guidata da Francesco Rocca. L’operazione è stata portata a fari spenti all’interno del partito di Giorgia Meloni anche nemici di Lollobrigida che ambiscono a rimescolare le carte della giunta. Il peggio è stato congiurato con un fondo da 84 milioni, grazie alla mediazione dei vertici nazionali di Coldiretti, tra cui il presidente Ettore Prandini.
Ma nel mosaico politico sono tanti i fedelissimi in via di riposizionamento. Tra questi il deputato e responsabile Turismo di FdI, Gianluca Caramanna, che ora dialoga con Meloni, non più con Lollobrigida. Stesso discorso per Manlio Messina, vicecapogruppo alla Camera e uomo forte del partito in Sicilia, che ha accesso direttamente al confronto con le sorelle Meloni. E a cascata altri nomi, come quello del viceministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, ha gradualmente compreso che per contare occorre parlare con i vertici di Fratelli d’Italia. E «Lollo» non ne fa più parte.
Per un Lollobrigida che cala, inesorabile, c’è un Fabio Rampelli in risalita poderosa.
È diretto verso i lidi più importanti di Fratelli d’Italia, ben consapevole che c’è un limite invalicabile: «La leadership è di Giorgia», ripete a chi cerca di strappargli qualche battuta al vetriolo nei confronti della guida del partito.
Rampelli si gode la sua seconda giovinezza esattamente come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, di cui si raccontano di «ambizioni quirinalizie». Il pretoriano del melonismo si muove nei palazzi tessendo la tela per arrivare allo sdoganamento definitivo degli uomini della fiamma: la conquista del Colle.
Mantovano vuole essere l’alter ego di Giorgio Napolitano, l’ex comunista che ha espugnato il fattore K che teneva lontano dall’apice delle istituzioni gli ex comunisti. Il fedelissimo di Meloni beneficia di ottime sponde dentro le mura vaticane. Anche se sul punto nessuno azzarda una parola: «Il presidente della Repubblica è Sergio Mattarella».
Mentre di contro un altro big di Fratelli d’Italia, il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha un rapporto quantomeno altalenante con i vertici del partito. Il co-fondatore paga i suoi trascorsi da battitore libero, seppure nell’alveo di centrodestra, che per i puristi alla Mantovano o alla Fazzolari sono uno stigma. I contrasti sulle varie nomine, per ultima quella sul comandante dei carabinieri, non hanno riportato in auge Crosetto.
Nel silenzio dei compromessi parlamentari, invece, il ministro Luca Ciriani sopravanza posizioni. Forte del suo aplomb friulano, è stato mandato in avanscoperta, in un’intervista al Foglio, a dire l’indicibile: la fiamma prima o poi sarà spenta nel simbolo. Certo, sono seguite frotte di distinguo per evitare reazioni scomposte tra i più nostalgici. Il messaggio nella bottiglia è stato lanciato.
E se alcuni dei grandi vecchi sono in risalita, di contro Alessandro Giuli è segnalato in crollo nelle gerarchie. Del resto fin dalla nomina a ministro della Cultura non è mai stato in auge nel governo. La sua “santa protettrice” è la sorella Antonella Giuli, oggi in forza all’ufficio stampa della Camera, che vanta un legame di ferro con Arianna Meloni.
Ma l’erede di Gennaro Sangiuliano al Collegio romano ne sta passando di tutti i colori. Ed è stufo. Prima il caso di Francesco Spano, ora i tagli al settore della Cultura nell’ambito dei fondi per la Coesione.
Accomunato a Giuli, nella discesa delle preferenze interne, è il responsabile Organizzazione di FdI, Giovanni Donzelli. La sconfitta alle ultime regionali è stata in parte addebitata sul suo conto, in asse con il suo sodale, il viceministro delle Infrastrutture, Galeazzo Bignami, che in Emilia-Romagna si è eclissato.
A dispetto delle intenzioni iniziali circolate su una sua candidatura. La loro stella si è appannata, dunque. Ma sempre meno rispetto al ministro delle Politiche del mare, Nello Musumeci. Le sue intemperanze verbali sono fonte di quotidiani malumori a palazzo Chigi.
(da EditorialeDomani)
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Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
MA I DATI SPESSO SONO INACCESSIBILI, IL REPORT AL PARLAMENTO NON E’ STATO ANCORA PUBBICATO… L’INCHIESTA DELLA ASSOCIAZIONE LUCA COSCIONI
In Italia l’accesso all’aborto non è garantito in modo uniforme, il tasso di obiezione è talmente alto da rendere problematica l’interruzione di gravidanza in molte regioni e le donne che vogliono ricorrere all’ivg non riescono a reperire informazioni. È ciò che emerge dall’indagine “Mai dati 2” sull’applicazione della legge 194, che disciplina da 46 anni il diritto di accesso all’aborto, delle giornaliste Chiara Lalli e Sonia Montegiove per conto dell’Associazione Luca Coscioni. Il problema che ha il nostro Paese con i dati accessibili a tutti non riguarda dunque soltanto i femminicidi o, più in generale, la violenza di genere. Anche ottenere dataset pubblici e aperti sull’aborto è praticamente impossibile. Da dieci mesi si attende inoltre il report sull’applicazione della 194. Che quest’anno non è stato ancora pubblicato, sebbene debba essere presentato al parlamento entro il mese di febbraio. L’ultimo risale a ottobre 2023 e contiene i dati del 2021.
Neppure l’interrogazione parlamentare al ministro Schillaci della pentastellata Gilda Sportiello e dall’attivista e ideatrice del progetto “Ivg, ho abortito e sto benissimo” Federica Di Martino è servita per spingere l’esecutivo di Giorgia Meloni a pubblicare il rapporto. Per questo motivo, riporta il Domani, hanno deciso di presentare – insieme all’avvocata Giulia Crivellini – una formale diffida ad adempiere al ministero. Sono anni che diverse associazioni denunciano le problematiche di tale relazione. Oltre al ritardo cronico con cui viene resa nota, le modalità di raccolta dei dati non sono sufficienti a capire quale sia il reale stato dell’accesso all’aborto. «La relazione pubblica i dati aggregati per media regionale e non per struttura quindi abbastanza inutili per capire se la legge è ben applicata e come il servizio di ivg è garantito», spiegano le esperte. Eppure, anche vietare o rendere difficile l’accesso all’interruzione di gravidanza è una forma di violenza e una violazione dei diritti fondamentali.
Secondo la relazione del ministero della Salute (2021), in Italia si è dichiarato obiettore il 63,4% dei ginecologi, il 40,5% degli anestesisti e il 32,8% del personale non medico. È la stessa legge 194 a consentire a un medico l’obiezione di coscienza, ovvero il rifiuto da parte dell’individuo di compiere atti, previsti dall’ordinamento giuridico, ma contrari alle sue convinzioni ideologiche, politiche, religiose. Eppure, la suddetta normativa all’art. 9 dice anche esplicitamente che «gli enti ospedalieri e le case di cura» sono tenute «in ogni caso ad assicurare» l’interruzione volontaria di gravidanza, vietando quindi l’obiezione di struttura. Ma ciò non sempre accade. La fotografia che scatta il ministero sull’obiezione di coscienza, e più in generale sull’applicazione della legge 194, non è infatti esaustiva. Servono dati suddivisi per singole strutture sanitarie e più aggiornati rispetto a tre anni fa. E d’altra parte va anche considerato che non tutti i ginecologi non obiettori eseguono l’ivg.
«Per sapere com’è applicata la 194 e per poter davvero scegliere di andare in un ospedale o in un altro, dobbiamo avere delle informazioni aggiornate che riguardano le strutture e non le Asl (aziende sanitarie locali, ndr) o le regioni – spiegano Lalli e Montegiove -. A cosa ci serve sapere cosa succede in Umbria o nel Lazio? A niente. E non basta sapere la percentuale degli obiettori di coscienza, perché la valutazione – concludono – deve considerare molte altre variabili». Ovvero l’accessibilità delle informazioni, i tempi di attesa, i numeri di richieste, la mobilità, la garanzia del farmacologico e il regime ambulatoriale. Tuttavia, l’accesso ai dati della pubblica amministrazione è un diritto garantito dal FOIA (freedom of information act). L’accesso civico generalizzato garantisce a chiunque il diritto di accedere ai dati e ai documenti posseduti dalle pubbliche amministrazioni, se non c’è il pericolo di compromettere altri interessi pubblici o privati rilevanti, indicati dalla legge.
Alcuni numeri per Regione
Dall’accesso agli atti ottenuto dalle giornaliste tra il 2021 e il 2022 risulta che in Italia 31 strutture sanitarie (24 ospedali e 7 consultori) hanno il 100% di obiettori di coscienza per medici ginecologi, anestesisti, infermieri o OSS. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%. Rispetto a un anno fa la situazione rimane critica. Nel corso dell’indagine, le richieste dell’associazione, quasi mai hanno trovato risposte soddisfacenti. Da Sicilia, Calabria e Abruzzo non è arrivato alcun dato; nella grande maggioranza degli altri casi i dati erano invece parziali, poco accessibili, datati o non a livello di singola struttura. Le poche informazioni ottenute, comunque, confermano le difficoltà di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza in molti contesti, con molte strutture in cui si riscontrano tassi di obiezione superiori all’80% e in alcuni casi del 100%.
L’indagine ha rivelato come il diritto all’aborto non sia garantito ovunque. Se da un lato ci sono regioni più “virtuose”, dall’altro le donne che vivono in alcune zone d’Italia devono fare i conti con carenze e difficoltà nell’accesso ai servizi e gravi mancanze nell’applicazione della legge 194. Che dovrebbe garantire l’accesso all’interruzione di gravidanza senza alcun tipo di discriminazione territoriale, ma che al contrario non è mai stata applicata correttamente in tutte le sue parti.
(da Open)
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Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
DOVRÀ ESSERE DI FRATELLI D’ITALIA E UN FEDELISSIMO. IL GUAIO È CHE NON CI SONO FIGURE ALL’ALTEZZA DI UN INCARICO COSÌ DELICATO (I FONDI DEL PNRR E GLI AFFARI EUROPEI), E CIRCOLANO NOMI DA FAR VENIRE I BRIVIDI: TOMMASO FOTI, ALESSIO BUTTI O WANDA FERRO
Un nuovo ministro che avrà le stesse deleghe che per due anni ha tenuto Raffaele Fitto. Un esponente politico e non un tecnico. Che, come è stato per il nuovo vicepresidente italiano della Commissione europea, avrà un ventaglio di deleghe interne all’esecutivo di Giorgia Meloni ad ampio spettro: dalla Coesione al Sud, dalla supervisione sul Pnrr al delicato compito di gestire gli Affari europei in seno a Palazzo Chigi.
Se ieri Raffaele Fitto si è formalmente dimesso dall’incarico, per la sua sostituzione a Palazzo Chigi cominciano ad avere idee più definite e diverse rispetto a quelle circolate finora. Per molte settimane è circolata la possibilità che gli incarichi del politico pugliese potessero essere spacchettati, lasciando alcuni dossier ai sottosegretari della presidenza del Consiglio, e individuando per altri, come quello di gestire gli Affari europei, un nuovo titolare
Nelle ultime ore invece Giorgia Meloni sembra aver maturato l’intenzione di non toccare assolutamente nulla dell’equilibrio precedente e di affidare l’incarico di Fitto a un esponente politico, ovviamente di strettissima fiducia e ovviamente di Fratelli d’Italia. Se non altro, ma non solo per questo, per non modificare gli assetti e i pesi delle rappresentanze nel governo dei tre partiti che sostengono la maggioranza.
Sul nome però le carte restano coperte, e questo forse perché il capo del governo sta ancora valutando diverse opzioni, interne al suo partito, osservando un riserbo stretto sul dossier, anche se la scelta potrebbe arrivare già nei prossimi giorni.
L’incarico è destinato a un politico di FdI. Fino a ieri sera, diverse fonti spiegavano che «una decisione si prenderà tra poche ore». Nel toto-nomi degli ultimi giri d’orologio finiscono Wanda Ferro, sottosegretaria all’Interno, Tommaso Foti, capogruppo alla Camera, e Alessio Butti, sottosegretario all’Innovazione. Che sia «un politico pronto» e non un tecnico reclutato da fuori l’ha auspicato ieri mattina anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, guardando ad «energie disponibili già in Parlamento».
Con questo schema, si allontana anche l’ipotesi di una promozione a sottosegretaria per la capo di gabinetto uscente di Fitto, Ermenegilda Siniscalchi. Anche per l’intervento della seconda carica dello Stato, ieri ha ripreso a circolare per qualche ora il nome di Marco Osnato, presidente della commissione Finanze (è anche il genero di Romano La Russa, fratello di Ignazio). Ma la carta del deputato bellunese, in serata, sembra avere perso quota. Come l’altro schema, che sembrava il prediletto di Meloni (e che come “opzione B” resta): tenere tutto il pacchetto a Palazzo Chigi, tra i sottosegretari Mantovano e Fazzolari
(da La Repubblica)
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Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
IL TYCOON NOMINA CHARLES KUSHNER, PADRE DEL GENERO JARED (MARITO DI IVANKA) NUOVO AMBASCIATORE IN FRANCIA…KUSHNER SENIOR IN PASSATO HA SCONTATO DUE ANNI DI CARCERE DOPO ESSERSI DICHIARATO COLPEVOLE DI EVASIONE FISCALE E CORRUZIONE
Altra nomina controversa di Donald Trump, quella del 70enne imprenditore immobiliare Charles Kushner – padre del genero Jared – ad ambasciatore in Francia. Nel suo pubblico elogio su Truth, il presidente eletto ha dimenticato di dire che il suo ‘nominee’ in passato ha scontato una pena detentiva di due anni, dopo essersi dichiarato colpevole nel 2004 di 18 capi di imputazione per evasione fiscale, corruzione di testimoni e contributi illegali alla campagna elettorale.
Il caso, che fu perseguito dall’allora procuratore Chris Christie, includeva dettagli sordidi ammessi poi dallo stesso Kushner: ossia che aveva assunto una prostituta per sedurre suo cognato, un uomo che collaborava a un’indagine sul finanziamento della campagna, e poi aveva filmato l’incontro inviando la clip alla moglie dell’uomo, la sorella di Kushner, per dissuaderla dal testimoniare contro di lui.
Nel 2020 Trump ha concesso la grazia a Kushner, la cui condanna aveva portato alla sua radiazione dall’albo degli avvocati in tre stati.
I candidati per le cariche di ambasciatore chiave sono spesso soci in affari di un presidente eletto o importanti donatori politici. Ma è raro, se non senza precedenti, nominare un criminale condannato, pur se graziato. I primi due uomini a ricoprire la prestigiosa carica di ambascatore a Parigi sono stati il ;;famoso inventore e statista Benjamin Franklin e un futuro presidente, Thomas Jefferson.
(da agenzie)
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Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
COSTI ZERO E TASSI BASSISSIMI, PER FARE CONCORRENZA ALLA FILIALE “STORICA” DI INTESA SANPAOLO DENTRO IL PARLAMENTO…UN ESEMPIO? UN MEMBRO DEL GOVERNO HA OTTENUTO NEL 2019 UN MUTUO TRENTENNALE CON TAEG ALL’1,8%, MENTRE IL TASSO MEDIO NELLO STESSO PERIODO ERA DEL 2,6% …IL SERVIZIO DI “REPORT”, IN ONDA STASERA
Questa sera, in una inchiesta firmata da Chiara De Luca e Carlo Tecce, Report intervista per la prima volta Marcello Saitta, direttore della filiale Montecitorio di Banco Bpm che ha sede nel palazzo di fronte alla Camera. Il suo nome non dice nulla al grande pubblico, ma fra i palazzi della politica è famosissimo.
Senza insegne su strada e con accesso limitato, la filiale di Saitta è molto speciale, è una cuccagna per pochi clienti selezionati, soprattutto politici e partiti: costi zero, spese zero, tassi sempre bassissimi, introvabili altrove, come dimostra il documento inviato in passato ai parlamentari.
In questa filiale non ci sono distinzioni politiche. Per esempio, qui hanno i conti Fdi, Avs, Pd e i gruppi parlamentari della Lega…
Non solo la filiale di Intesa San Paolo a Montecitorio che offre condizioni da leccarsi i baffi ai parlamentari con un tasso del 5,6% sulla liquidità del conto corrente, zero costi, zero spese o commissioni. C’è anche un’altra banca che offre, anche senza quella convenzione, condizioni da Re Mida alla sua onorevole clientela, come rivela Report nel servizio in onda stasera a cura di Chiara De Luca e Carlo Tecce.
La banca in questione si trova sempre in Piazza Montecitorio ma fuori da Palazzo: si tratta di una filiale della Banca Popolare di Milano che ha tentato di strappare gli onorevoli clienti a Intesa spingendo quest’ultima a rilanciare sulle condizioni di favore pur di tenersi il servizio. Ma anche se alla fine ha perso la gara che vale 800 milioni, fa condizioni ancora più favorevoli.
Chi la dirige? Marcello Saitta che per anni ha diretto proprio la filiale della Camera, poi come se fosse il Messi dei bancari è passato alla concorrenza: due anni fa, all’avvio della nuova legislatura Bpm ha inviato ai neoeletti una lettera per illustrare l’offerta a loro disposizione. Tra le condizioni, il super favore di dare apertura di credito allo 0,5 ossia dare soldi a prestito a un tasso bassissimo, idem sui mutui grazie a tassi vantaggiosissimi
Per dire delle condizioni agevolatissime in favore della sua clientela d’elitè, Report ha fatto esaminare un mutuo concesso dalla filiale Bpm nel 2019 a un esponente di un partito attualmente al governo. Un mutuo trentennale con Taeg all’1,8% quando il tasso di riferimento medio, nello stesso periodo, era del 2,6% per i comuni mortali: il risparmio per l’anonimo eletto vale un risparmio di 46 mila euro.
Saitta ai microfoni della trasmissione di Sigfrido Ranucci nega che vi siano anomalie di sorta. “Qualsiasi banca offre a un cliente un vestito su misura” dice.
Fatto sta che vestiti di questa misura sono riservati soltanto a un certo tipo di clientela. Concorrenza a offrire di più che invece è preclusa ai comuni correntisti che non possono accedere alla filiale di Intesa interna alla Camera: a quanto pare nemmeno la filiale di Bpm di piazza Montecitorio sgomita per avere tra i propri clienti i comuni mortali. Laddove tassi, prestiti, mutui vengono accordati senza vantaggi deluxe. Non a caso anche alcuni partiti hanno aperto il conto in Bpm/Montecitorio, come la Lega, Fratelli d’Italia, Allenza Verdi Sinistra. O anche il Pd che proprio in quella filiale ha aperto il conto dove finiscono le donazioni del 2×1000
(da agenzie)
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Dicembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
E QUELLI DI ALEXANDROVICH TOPOROV, OLIGARCA KAZAKO DIETRO A CUI CI SAREBBE IL MAGNATE RUSSO VIKTOR KHARITONIN… L’ALBERGO ROMANO DA 50 MILIONI DI EURO E QUELLA COINCIDENZA: SIA TOPOROV CHE KHARITONIN ERANO TRA LE PERSONE DOSSIERATE DALLA EQUALIZE DI ENRICO PAZZALI, GRANDE AMICO DELLA “PITONESSA”
La ministra del Turismo, Daniela Santanchè, ha un grande sogno: regalare a Cortina un aeroporto, magari prima delle prossime Olimpiadi. Nella puntata in onda oggi, Report racconta però un particolare. Che quello stesso sogno ce l’ha un imprenditore kazako assai attivo in Italia, si chiama Alexandrovich Toporov.
Ed è un signore che a casa Santanchè conoscono bene: è il socio infatti del fidanzato della ministra, Dimitri Kunz. I due dividono la proprietà di un famoso ristorante proprio a Cortina, El Camineto
E, come per la ministra, Cortina sembra avere un posto importante nel cuore di Toporov. Secondo quanto ricostruisce Report , l’imprenditore ha presentato infatti un progetto per la realizzazione di un un’elisuperficie nell’area, nella zona di Fiames.
Un piccolo aeroporto che potrebbe inizialmente servire come scalo per voli privati ma che, in prospettiva, potrebbe mirare ad altro. Anche perché Toporov non è uno sconosciuto nel mondo italiano dell’imprenditoria del turismo. È un amico di Flavio Briatore con cui è stato socio, insieme a Kunz, proprio nel Camineto di Cortina.
Lui e il fidanzato di Santanchè hanno permesso al’ex manager di Formula 1 di fare un grande affare: dopo averlo rilevato, il ristorante – uno storico locale di Cortina – ha avuto un boom, riuscendo a fatturare 700mila euro in pochi mesi. E così Briatore ha deciso di capitalizzare cedendo le sue quote agli altri soci: quello che aveva comprato a 50mila, ha venduto a 200mila. Quattro volte tanto in meno di un anno.
Il ristorante e, se la politica vorrà, l’aeroporto, sono però solo un pezzo degli affari di Toporov sulle Dolomiti. Le sue società controllano da tempo diversi alberghi in città e attorno alle stazioni sciistiche.
Tutto cominciò con l’acquisizione dell’hotel Lajadira. Poi misero le mani sull’hotel Ampezzo, ora in fase di ricostruzione. Si tratta di un cantiere importante che è stato oggetto anche di una serie di difficoltà giudiziarie proprio per il tipo di intervento previsto. Difficoltà che ora sembrano superate: l’albergo dovrebbe riaprire per i Giochi del febbraio 2026, il vero grande affare in cui sperano tutti gli imprenditori della zona.
Tutti questi investimenti, secondo alcuni accertamenti svolti dalla guardia di Finanza, non sono però frutto delle casse delle azienda dell’imprenditore kazako. La società che ha in pancia la gestione degli alberghi è a sua volta controllata da un’azienda anonima lussemburghese, la Mountain Resort SA. Uno dei veicoli finanziari utilizzati da Viktor Kharitonin, magnate russo di origine kazaka. C’è Kharitonin, quindi, dietro gli affari di Toporov in Italia.
D’altronde i loro nomi spuntano insieme per la prima volta in Italia: Toporov diventa presidente di una società agricola in Franciacorta, assai importante. E tra i soci di quell’azienda c’è proprio Kharitonin. Non toccato dalle sanzioni (seppur inserito nel libro nero del governo ucraino), il magnate ha un patrimonio di diversi miliardi che arrivano principalmente dal controllo di un’azienda farmaceutica, la Pharmstandard.
In questi anni ha però – grazie anche al suo amico Roman Abramovich, l’ex patron del Chelsea – compiuto importanti investimenti in occidente: è suo il circuito di Formula uno del Nurburgring, in Germania. Ha firmato un preliminare per l’acquisto dell’aeroporto di Francoforte-Hahn, ma il suo ingresso nel capitale è stato bloccato anche per le condizioni politiche venutesi a creare con la guerra in Ucraina.
Problemi che, evidentemente, non esistono in Italia. Dove invece le società di Kharitonin, […] fa grandi affari. A Repubblica risulta che, sempre con il tramite di Toporov, abbia acquistato a Roma, per realizzare un albergo, Palazzo Trevi in via delle Muratte. Un immobile – del valore superiore ai 50 milioni di euro – con una storia giudiziaria in quanto in precedenza era stato di proprietà di una società, poi fallita, legata a doppio filo con il crac della Banca popolare di Bari.
Di più. Sia Kharitonin sia Toporov sono nell’elenco delle persone dossierate da Equalize, l’agenzia di investigazione milanese che si muoveva come una centrale di spionaggio attorno al mondo degli affari. Il perché di quelle ricerche non era stato esplicitato. Ma è un fatto che Enrico Pazzali, uno dei soci dell’agenzia, è un grande amico della ministra Santanchè.
(da agenzie)
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