Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
MA INCOMBONO QUESTIONI LEGALI CHE GRILLO HA ANNUNCIATO: NON SI FIDA DEL SISTEMA E DELLA CERTIFICAZIONE DEL VOTO, NÉ RICONOSCE L’ATTUALE PLATEA DI VOTANTI…IL NO DI VIRGINIA RAGGI E ALESSANDRO DI BATTISTA ALL’IDEA DI UN NUOVO M5S ANTI-CONTE
«Gli iscritti della nostra comunità hanno votato e deciso, purtroppo per lui, la defenestrazione del garante Beppe Grillo: evidentemente non accettano che ci sia una persona che dica cosa si può fare e cosa no». È l’ultima staffilata che Giuseppe Conte rifila al fondatore. L’ex premier, pur ribattendo (veleno con veleno) a Grillo, non aveva ancora mai usato un termine così duro, specie per il suo lessico compassato: «Defenestrato».
Ma nella telenovela a 5 Stelle, schermaglie a parte, l’unica parola che conta davvero è solo una: «Quorum». Conte, per cacciare davvero di casa Grillo, ha infatti bisogno che alla votazione in corso partecipi il 50% più uno degli aventi diritto. La consultazione si concluderà oggi alle 22 e solo dopo la chiusura delle «urne online» si capirà se Conte avrà sconfitto o meno al secondo round Grillo, il quale, secondo i poteri a lui conferiti dallo statuto del Movimento 5 Stelle, aveva chiesto la ripetizione del voto che due settimane fa lo aveva già messo alla porta.
I fedelissimi di Conte, forti del 61,2% di affluenza raggiunta due settimane fa, danno per scontato che il quorum venga di nuovo superato senza problemi. Già ieri sera, secondo fonti vicine a Conte, era stata oltrepassata la soglia dei 40 mila votanti, quindi a un soffio dai circa 45 mila necessari per «vincere».
Nel frattempo, Conte allontana lo spettro di una scissione di Grillo: «Direi di no perché obiettivamente la situazione è evidente: il garante non riconosce il percorso della comunità degli iscritti, e si è contrapposto a gamba tesa alla sua stessa comunità». Mentre l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi, data come regista di uno strappo interno, smentisce le indiscrezioni: «Non esistono mie ipotetiche scalate, cordate, tavolate: è tutto falso».
Ancora più distante il «grande ex» Alessandro Di Battista: «Parlare di questioni interne al Movimento, che ho lasciato quattro anni fa per profondi disaccordi politici, mi annoia. Specie mentre c’è in corso una Terza guerra mondiale».
Oggi dopo le 22 il M5S capirà, e stavolta davvero, se Beppe Grillo è solo un ricordo del passato, perlomeno sul piano statutario. […] incombono questioni legali che Grillo ha ampiamente annunciato. Il fondatore infatti non si fida: del sistema di voto, della certificazione del voto, né riconosce l’attuale platea dei votanti, falcidiata nei mesi scorsi dalla rimozione di coloro che non accedevano più al portale da oltre un anno. Una mossa che secondo il comico è stata decisa a tavolino per rendere più facile il raggiungimento del quorum. Ieri su Whatsapp di chi non aveva ancora votato sono arrivati messaggi personalizzati di SkyVote con l’invito a farlo e il link per accedere alla votazione, la volta scorsa fu invece mandato un semplice messaggio di invito.
Il presidente del M5S, parlando a Sky Tg24 e poi ad Accordi e disaccordi, sul Nove, dice che «il garante sulle battute velenose è imbattibile», come un monarca assoluto non riconosce la comunità degli iscritti, il percorso di persone adulte e mature». E ancora, «se continuano così a Casaleggio e a Grillo verrà offerto un incarico più importante di quello per Di Maio, perché c’è tutto un mondo che in questo momento sta godendo delle ingiurie che ci vengono rivolte».
Infine Conte ha ricordato che se è alla guida del M5S è perché «me lo chiese proprio Grillo, e mi presi 2-3 mesi per decidere». Il fondatore che portò i 5S tra le braccia di Mario Draghi, aggiunge. Per il resto le ore prima dell’esito finale la comunità delle 5 Stelle le passa a suon di hashtag contrapposti. Con una parte della giovanile romana che ad esempio srotola lo striscione con su scritto #iorivoto, mentre i Figli delle stelle (l’ala filo- Grillo) pubblica le foto degli attivisti con la scritta opposta, #iononvoto. In gioco non c’è solo il destino del fondatore, ormai 15 anni fa, del Movimento. Se infatti la consultazione non dovesse andare come confida l’ex presidente del Consiglio, a quel punto sarebbe proprio lui a doverne trarre le conseguenze.
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
MA MACRON L’HA FREGATA SUL TEMPO: CON IL TRILATERALE CON ZELENSKY E TRUMP, MACRON SI CANDIDA A PUNTO DI RIFERIMENTO DI WASHINGTON IN EUROPA
Obiettivo: agganciare Donald Trump. Al costo di scontentare la figlia Ginevra, che è « very angry with me », molto arrabbiata con me, come confida Giorgia Meloni alla première dame , Brigitte Macron, mentre i fotografi la bersagliano di flash, davanti al portone di Notre-Dame, accanto al presidente francese in cappotto scuro.
Durante la cerimonia sotto la guglia, Meloni e il presidente eletto degli Usa non s’incrociano nemmeno. Lei è in terza fila. In prima, a rappresentare l’Italia, c’è il capo dello Stato, Sergio Mattarella, accompagnato dalla figlia Laura, seduta accanto a Volodymyr Zelensky. È lui, Mattarella, dopo l’abbraccio con Macron, a stringere la mano e conversare rapidamente col tycoon che tra meno di un mese e mezzo tornerà da plenipotenziario alla Casa Bianca. Meloni osserva, da lontano.
A tratti le telecamere la riprendono, sullo sfondo, mentre cerca con lo sguardo Trump. Che non la nota, anche quando si volta per salutare due invitati seduti alle sue spalle. In quel momento però le diplomazie sono già al lavoro per organizzare il tête-à-tête. Anche rapido, purché si faccia. Meloni è qui per questo. E all’ultimo, dopo la cena di gala all’Eliseo, la presidente del Consiglio riesce a centrare il bersaglio: strappa il colloquio con Trump. Stretta di mano. Sorrisoni.
Un bilaterale in forma «privata», in cui la premier può complimentarsi, di nuovo, col magnate per la vittoria del 5 novembre scorso e lui, il presidente eletto, può invitarla all’insediamento del 20 gennaio prossimo in Campidoglio. Appuntamento a cui Meloni, giurano i colonnelli di FdI che fanno la spola con Washington, «sicuramente» parteciperà (del resto pure Matteo Salvini briga per esserci).
A Parigi, sulle prime, Meloni non sarebbe voluta andare. La trasferta non è stata in agenda fino alla tarda serata di venerdì. Decisione presa all’ultimo, dunque. Ma la stretta di mano con Trump serviva alla premier per accreditare la narrazione che lei, leader dei Conservatori Ue (anche se ancora per poco: a gennaio dovrebbe lasciare il timone), può fare da ponte tra la nuova amministrazione a stelle e strisce e l’Unione europea.
Anche sfruttando il canale diretto con Elon Musk, anche lui presente nella cattedrale. A Parigi poi manca la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, di ritorno dal Sudamerica col contestato accordo sul Mercosur. E mancano, nella cattedrale della Ville Lumière , molti capi di governo del Vecchio continente. L’unico che può oscurare la tattica italiana è Macron, che prima di celebrare la ricostruzione di Notre-Dame riesce a far accomodare, fianco a fianco, Zelensky e Trump. Quasi offrendosi lui come mediatore tra l’Europa e il prossimo presidente Usa.
Una tesi che difficilmente Meloni potrebbe avvalorare, vista la crisi politica che attraversa la Francia e la debolezza del presidente. Meloni non vuole finire relegata ai margini. Non vuole giocare da comprimaria. Per questo ha sentito Zelensky l’altro ieri, alla vigilia del vertice parigino. E per questo ha insistito per ottenere un faccia a faccia con Trump, poco dopo Macron, che pure ieri giocava da padrone di casa. Più del merito dello scambio con Trump, contava il segnale politico: mostrare che il rapporto tra i due, pur sfilacciato dopo due anni di cordialità tra Meloni e Joe Biden, non è danneggiato.
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DI FORZA ITALIA SI E’ DETTO “MOLTO PREOCCUPATO PER LA DENUNCIA DI ATTIVITÀ IBRIDE RUSSE VOLTE A INFLUENZARE IL VOTO IN ROMANIA”… SALVINI FARNETICA A DIFESA DI MOSCA: “ANNULLARE IL VOTO DEMOCRATICO IN ROMANIA PERCHÉ IL RISULTATO NON È GRADITO A BRUXELLES E A CERTI POTENTI COME SOROS, È PERICOLOSO”
Non si respira affatto un’aria da day after a Bucarest all’indomani del clamoroso annullamento delle presidenziali. con un governo alla fine del suo mandato e il nuovo esecutivo non ancora formato dopo le elezioni legislative di domenica scorsa, si teme lo spettro di un’inflazione che potrebbe correre ancora più veloce (ora è al 5%, la più alta d’Europa), e anche la guerra al confine inquieta: la Romania è il Paese che spartisce più chilometri con l’Ucraina.
Oggi si preannuncia una giornata «calda»: Georgescu in serata ha fatto sapere che domenica si recherà al suo seggio per votare e ha invitato tutti a seguire il suo esempio. Così pure l’alleato George Simion, leader del partito di ultradestra Aur,ha chiamato alla mobilitazione. Nel timore di disordini la Chiesa ortodossa romena ha lanciato un appello alla calma: gruppi di alcuni partiti politici oggi intendono recarsi nelle parrocchie per mobilitare i fedeli.
La legittimità dell’intervento dei giudici tiene banco sui social, Il dibattito rimbalza in Europa («Spetta al popolo romeno decidere cosa è meglio per il proprio Paese, senza interferenze straniere», posta la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) e sta dividendo, ancora una volta, i due vicepremier italiani. Antonio Tajani si è detto «molto preoccupato per la denuncia di attività ibride russe volte a influenzare il voto in Romania»: «L’Italia, anche come presidente del G7, è in prima linea per proteggere la democrazia e i processi elettorali» chiarisce il segretario di FI.
Di tenore opposto la nota della Lega guidata da Matteo Salvini: «Annullare il voto democratico in Romania perché il risultato non è gradito a Bruxelles e a certi potenti come Soros, è molto pericoloso».
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
LE MANIPOLAZIONI DEI SITI RUSSI DELLA DISINFORMAZIONE SULLE ELEZIONI IN ROMANIA E GLI UTILI IDIOTI SOVRANISTI
Recenti elezioni nell’est Europa (l’ultima in Romania, invalidata dalla Corte costituzionale) secondo fonti diverse sarebbero state fortemente manipolate dalla disinformazione sistematica di siti russi e dal massiccio invio di rubli ai candidati amici.
Non che le ingerenze esterne siano, in politica, una novità rilevante. L’intera Europa, nel Novecento, è stata il campo di battaglia di americani e russi. Ma troneggiava, al centro della scena, l’ideologia. Capitalismo contro comunismo. Usa contro Urss. Qui lo scontro è meno evidente, anche meno decifrabile. Nel caso in questione, il complotto contro le libere elezioni in Georgia e Romania sarebbe stato ordito da complottisti.
Sono gli stessi siti e le stesse centrali politiche che da anni raccontano la democrazia europea come semplice copertura dei poteri forti, le migrazioni come strumento della sostituzione etnica programmata da Soros, i Paesi occidentali come luogo della corruzione dei costumi allo scopo di negare Dio e distruggere la Patria e la Famiglia, e in ogni pagina della storia vedono solo la foglia di fico che copre un complotto; sono poi proprio loro quelli che avrebbero complottato per falsare le elezioni.
Forse chi vede complotti ovunque non sa, alla fine, a quale altro metodo affidarsi, e dunque complotta a sua volta.
O anche: vede complotti ovunque perché solamente quello è il suo livello di lettura del mondo. Al di fuori di quello schemino, non sa spiccicare parola.
Difatti si legge che, secondo la Lega, il voto in Romania è stato annullato “perché il risultato non è gradito a Bruxelles, al politicamente corretto e a certi potenti come Soros”.
(da repubblica.it)
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Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
HA UN TENORE DI VITA (CON PORSCHE NEL GARAGE) CHE A SOLLEVATO I SOSPETTI DEI SERVIZI
C’è un uomo, che è sospettato del finanziamento illegale della campagna TikTok di Georgescu nelle elezioni presidenziali in Romania, ora annullate dalla Corte Costituzionale.
Si chiama Bogdan Peschir, è un ex programmatore romeno ed è sospettato di esser il tramite con Mosca. Sarebbe lui ad aver versato un milione di euro agli influencer.
Il meccanismo lo ricostruisce oggi Muraglia sul Corriere della Sera. L’uomo, 35enne ex programmatore in aziende legate alle criptovalute, per mesi si è presentato su TikTok a volto coperto con il nome Bogpr. Identificato dal quotidiano Gandul, in base ai documenti dell’intelligence desecretati la scorsa settimana, avrebbe utilizzato il suo account per fare «donazioni» da oltre un milione di euro a influencer contattati da una società sudafricana che si occupa di marketing on line.
A ognuno di loro è stato chiesto di pubblicare un video che parlasse di temi cari al candidato filo-russo Calin Georgescu. In cambio avrebbero ricevuto mille euro.
Per i servizi «si tratta di violazioni delle politiche di TikTok e della legislazione elettorale romena». Il diretto interessato ha una tesi differente. «Non ho finanziato una campagna, ho donato a diversi tipi di account TikTok senza chiedere loro favori o condizionare queste donazioni al loro orientamento politico» si è difeso Peschir che, secondo il Corriere, è paragonato a Elon Musk (questo perché Gerogescu è ritenuto il “Trump Romeno”).
Ma se Musk fa donazioni del tutto trasparenti i dubbi su Bogpr ci sono: a partire dalle Bmw e Porsche Cayenne che ha in garage (e lui si muove sempre in taxi). Un tenore «che non corrisponde alle attività svolte tramite l’azienda di sua proprietà», secondo la relazione dei servizi. Ovvero la Digital On-Ramp Solutions Srl, costituita nel 2021.
L’uomo che intanto ha subito una perquisizione nella sua villa a Brasov, Transilvania.
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
IN TERMINI PERCENTUALI LA REGIONE CON LA MAGGIORE PROPENSIONE ALL’EVASIONE È LA CALABRIA COL 18,4%, SEGUITA DALLA CAMPANIA COL 17,2%, DALLA PUGLIA COL 16,8% E DALLA SICILIA COL 16,5%
In termini assoluti, la regione d’Italia con il maggior gettito fiscale mancato è la Lombardia, conseguenza però di un volume di affari molto maggiore rispetto al Sud. In termini relativi, infatti, la tendenza a evadere è più accentuata nel Mezzogiorno, in particolare in Calabria e Campania.
Anche se con dati in lieve miglioramento, l’evasione fiscale anche per il 2021 è stata forte, con un gettito fiscale mancato pari a circa 84 miliardi di euro. La mappa del fenomeno è stata tracciata dalla Cgia di Mestre, incrociando banche dati collegate in maniera digitale, sulla scorta di informazioni rilasciate dal Ministero dell’Economia e della Finanza.
Confrontando i dati col 2016, si è scesi di circa 24 miliardi di mancati versamenti, con la Lombardia prima in classifica con 13,6 miliardi di euro evasi, seguita dal Lazio con 9,1 miliardi, dalla Campania con 7,8 miliardi e dal Veneto con 6,5 miliardi. In termini percentuali, però, la regione con la maggiore propensione all’evasione è la Calabria col 18,4%, seguita dalla Campania col 17,2%, dalla Puglia col 16,8% e dalla Sicilia col 16,5%.
Le più virtuose sono invece la Provincia Autonoma di Trento con l’8,6%, la Lombardia con l’8% e la Provincia Autonoma di Bolzano con il 7,7%. Questi dati si ottengono considerando il rapporto tra l’importo evaso ogni 100 euro di gettito tributario incassato. In media le statistiche parlano di un’evasione pari all’11,2%, che sale al 16,5% se si prendono in considerazione solo le regioni del Sud Italia.
In totale il numero di contribuenti presenti in Italia è di 43,3 milioni, suddivisi in 42 milioni di persone fisiche e 1,3 di persone giuridiche. Ad avere il maggior numero di contribuenti Irpef è Roma con 2,9 milioni di persone. Seguono Milano con 2,4 milioni, Torino e Napoli con 1,6 milioni. Le società di capitali sono presenti in maggior numero in Lombardia (259.805), Lazio (183.800), Campania (129.300) e Veneto (106.800).
Le frodi fiscali più diffuse
In generale in Europa, gli ultimi dati disponibili parlano di 825 miliardi di euro annui di evasione fiscale. Lo scorso anno, sono stati recuperati 31 miliardi di euro grazie a varie iniziative e azioni poste in essere per arginare il fenomeno. Ma quali sono le principali evasioni e frodi fiscali
Si va da atti illegali come falsificazione di documenti, dichiarazioni di false informazioni per pagare meno tasse o non pagarle affatto, all’evasione perpetrata sfruttando i diversi regimi fiscali internazionali, e quindi con false attestazioni e sedi legali fittizie. E’ poi molto diffusa anche l’esportazione illegale di valuta in paradisi fiscali con regimi favorevoli e segreti bancari, grazie ai quali molti individui e aziende nascondono redditi non dichiarati, evitando di pagare le tasse dovute.
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
VINCE LA TURCHIA, PERDONO RUSSIA E IRAN MA ATTENZIONE ALLO SCENARIO LIBICO
“Per la prima volta, c’è un vero senso di libertà”, così a Damasco hanno accolto la notizia della fine dell’era del presidente Bashar al-Assad. Festeggiamenti e fuochi d’artificio sono andati avanti tutta la notte intorno alla moschea degli Omayyadi nel centro della capitale siriana per celebrare questo momento storico per il paese.
In poco più di una settimana, i ribelli islamisti, insieme ai fuorisciti dell’Esercito siriano libero (Fsa), sostenuti dalla Turchia, del movimento Tahrir al-Sham (Hts) dopo aver conquistato Aleppo, Hama e Homs sono entrati a Damasco nella notte di sabato. Si sono chiusi così 54 anni di potere della famiglia al-Assad, prima del padre Hafez e poi di Bashar, a guida del paese dal 2000.
Bashar al-Assad che ha lasciato il Paese, sebbene non si abbiano notizie certe su dove si trovi in questo momento, ha guidato la Siria con la stessa brutalità e gli stessi metodi repressivi del padre, soprattutto dopo lo scoppio delle proteste anti-regime del 2011, in parallelo con l’avvio delle manifestazioni per le così dette Primavere arabe. La guerra civile siriana ha causato fino a questo momento mezzo milione di morti e 6,6 milioni di rifugiati.
La guerra non è finita
Le immagini simboliche dell’abbattimento delle statue di Bashar e Hafez al-Assad a Homs e Damasco potrebbero far pensare che la guerra civile siriana finisca qui. In realtà si continua a combattere e la fine dell’era degli Assad aprirà una lunga fase di transizione che potrebbe essere altrettanto sanguinosa, come è avvenuto in Iraq dopo la fine del regime di Saddam Hussein nel 2003.
Dopo Damasco, gli insorti sono entrati a Deir Ezzor a Sud di Raqqa. Mentre nelle città conquistate sono stati liberati centinaia di detenuti. In particolare dalla notoria prigione di Saydnaya dove migliaia di prigionieri politici hanno subìto negli ultimi anni torture ed esecuzioni.
Non solo, migliaia di militari dell’esercito siriano regolare, indeboliti da anni di guerra civile, si sono liberati delle uniformi. Almeno 2mila tra loro hanno superato il confine e si sono rifugiati in Iraq, come ha confermato il sindaco della città di frontiera di al-Qaim, Turki al-Mahlawi.
Chi guiderà la transizione?
Il rischio è che in Siria nelle prossime settimane regni il caos che del resto è stata una delle caratteristiche salienti negli ultimi anni di uno stato fallito dopo anni di guerra civile.
I ribelli siriani dopo essere entrati nella capitale hanno mandato in onda alla televisione alla radio pubblica un messaggio in cui hanno annunciato la liberazione del paese. Il leader di Hts, Mohammed al-Jolani aveva intimato ai militari pro-Assad di non avvicinarsi alle “istituzioni poubbliche” che resteranno sotto la “supervisione del primo ministro” fino al passaggio di poteri ufficiale.
Dal canto suo, il premier, Mohammed Ghazi al-Jalali, ha dichiarato in un’intervista televisiva di essere in contatto con Hts e che si svolgeranno presto nel paese libere elezioni.
Al-Jolani si dipinge come un leader nazionalista ma non è ancora chiaro quale sarà il posto dell’islamismo politico nella fase di transizione e quale spazio avrà l’ala militare del gruppo. Il leader di Hts, che ha preso parte all’insurrezione in Iraq contro gli Stati Uniti tra le fila dello Stato islamico (Isis), aveva preso le distanze dai gruppi jihadisti in cui i ribelli sono radicati, come Jabhat al-Nusra e al-Qaeda.
Uno dei leader dell’opposizione siriana, Hadi al-Bahra, che guida la Coalizione nazione della rivoluzione siriana e delle forze di opposizione, ha salutato con favore la fine “dell’epoca nera della storia siriana” con la conclusione dell’autoritarismo di al-Assad. In relazione ai pericoli che potrebbero correre in questa fase le minoranze cristiane e alawite, al-Bahra ha assicurato che non “ci saranno casi di vendetta o violazione dei diritti umani”.
Lo scenario libico
Nonostante la fine del regime di al-Assad, la Siria potrebbe continuare ad essere uno stato fallito in mano a milizie e gruppi jihadisti che si fanno la guerra per il controllo del territorio, così come sta accadendo in Libia. Eppure mentre nel paese del Nord Africa i sostenitori di Khalifa Haftar non sono mai riusciti ad arrivare a Tripoli, nonostante il sostegno di Egitto e Russia, in Siria Hts ha conquistato Damasco.
Se il primo banco di prova sarà la tenuta del Paese in mano a un possibile governo guidato dal gruppo sunnita rispetto ai diritti delle minoranze. Il punto più incerto riguarderà i rapporti con i curdi che continuano a controllare il Nord del paese, da Kobane a Qamishli, con le Forze siriane democratiche (Sdf).
Nelle prossime settimane capiremo quale sarà il rapporto tra un governo di Damasco, con ogni probabilità targato Hts, e le Unità di protezione maschili e famminili (Ypg/Yph), dispiegate nel Nord della Siria. “Stiamo vivendo un momento storico, la fine del regime autoritario di al-Assad”, ha commentato a caldo il comandante di Sdf, Mazloum Abdi, definendola “un’opportunità per costruire una nuova Siria basata sulla giustizia e la democrazia”. Anche in Rojava sono state abbattute le statue degli Assad.
Eppure non è detto che le forze curde avranno con Hts la stessa libertà di azione che aveva assicurato loro l’ex presidente siriano. Anzi il ridimensionamento del progetto del Rojava potrebbe essere uno degli obiettivi dei ribelli, guidati dalla Turchia, che hanno ottenuto la fine di Bashar al-Assad.
Chi festeggia oggi a Damasco
E così il Paese che più potrà avvantaggiarsi dalla sconfitta dell’ex presidente siriano, è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Alla vigilia dell’avanzata dei ribelli, il presidente turco aveva fatto sapere di aver cercato più volte di coinvolgere al-Assad per trovare un accordo con le forze di opposizione ma di non aver ottenuto alcuna risposta.
Ankara non ha mai tollerato la presenza dei combattenti curdi, con radici nel partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), guidato da Abdullah Ocalan, lungo il confine meridionale turco e ha fatto di tutto per mettere a rischio il loro progetto di autonomia democratica.
A festeggiare, per una volta, ci sono anche i rifugiati siriani nei paesi vicini. Il valico di Masnaa con il Libano è affollato di profughi siriani che vogliono rientrare nel Paese e che hanno aspettato da anni questo momento.
Altri simpatizzanti dell’avanzata di Hts in Siria sono sicuramenti i Taliban in Afghanistan che non hanno mai nascosto le “connessioni ideologiche” con i jihadisti nel paese.
Cosa faranno Russia e Iran
A permettere il successo degli insorti c’è stato prima di tutto il ritiro dei miliziani del movimento sciita libanese Hezbollah, decimati dagli attacchi isreliani prima dell’accordo per il cessate il fuoco dello scorso 27 novembre con Tel Aviv. Il gruppo ha ritirato i suoi soldati da alcune aree di frontiera, in particolare da Qusair, al confine con il Libano.
A questo punto è evidente che la Russia di Vladimir Putin ha deciso che la Siria non è una priorità di politica estera per Mosca, come continua ad essere la Libia. Però non è detto che Mosca voglia abbandonare il controllo che ha su Latakia e sul porto di Tartus, la porta russa sul Mediterraneo orientale. Lo stesso vale per la base russa di Hmeimim, dove fino a questo momento arrivavano i rifornimenti di armamenti da Mosca ad al-Assad.
La fine di al-Assad è sicuramente una grande sconfitta per l’Iran. Ali Larijani, consigliere della guida suprema Ali Khamenei, è stato l’ultimo a incontrare al-Assad sabato sera, prima che lasciasse il paese. L’asse tra Teheran e Damasco è stato un punto centrale della politica estera iraniana, estremamente indebolita dopo l’uccisione della guida delle milizie al-Quds, Qassem Soleimani, nel 2020 a Baghdad, e della guida di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il 27 settembre scorso.
Dal canto suo, il presidente Usa, Donald Trump ha confermato la sua linea per cui gli Stati Uniti devono disimpegnarsi dai conflitti dell’area. Mentre l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Geir Pedersen, ha chiesto che si svolgano colloqui urgenti tra i ministri degli Esteri di Turchia, Iran e Russia sull’evoluzione della situazione in Siria a Ginevra appena possibile.
L’8 dicembre 2024 sarà ricordato come una data storica che ha chiuso la pagina della dittatura siriana degli al-Assad. Il futuro è pieno di incognite rispetto al ruolo che alcune componenti jihadiste tra i ribelli avranno in Siria. Eppure dopo 13 anni di guerra civile, la fine del regime sanguinario a Damasco rappresenta per tanti rivoluzionari e le centinaia di migliaia di morti la conclusione di una pagina nera che potrebbe aprire a nuove opportunità per l’intero Medio Oriente, ridimensionando drasticamente il ruolo iraniano nella regione e accrescendo il controllo politico turco nell’area.
(da Fanpage)
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Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
“A 20 ANNI PENSI IN UN MODO, A 40 CAMBI, E’ UMANO”
Scena prima. Un giovane uomo dal volto coperto risponde alle domande di Al Jazeera da una località segreta della Siria. È il 2014, la guerra civile sta bruciando il Paese. L’uomo si presenta col nome di battaglia di al-Jolani (cioè «colui che viene dalle Alture del Golan») ed è il capo di al-Nusra, il più efficiente gruppo fondamentalista che combatte in Siria.
La maggior parte dei miliziani, al-Jolani compreso, ha esperienze di guerriglia contro gli americani in Iraq, nelle file dello Stato Islamico. «Combattiamo per stabilire la sharia — la legge islamica, dice al-Jolani —. Non ci sarà posto nel Paese per infedeli come sono i musulmani sciiti, i drusi, i cristiani e gli alawiti del presidente Bashar al-Assad». Il giovane mascherato ha giurato fedeltà ad Al Qaeda, parla da jihadista.
Scena seconda. Sono passati due anni e con un breve filmato su Internet al-Jolani mostra il suo viso. Ha la barba folta e lunga, ma ben curata, capelli corti sotto un turbante, abiti civili. «Ci siamo allontanati da Al Qaeda — dichiara —. La nostra battaglia ora è solo per liberare la Siria dal dittatore al-Assad». Dichiara il vero nome: Jabhat Fateh al-Shaam.
Il nonno aveva combattuto i francesi e il padre è stato un nazionalista panarabo e sostenitore della lotta dei palestinesi contro Israele. Una famiglia di combattenti, ma laici. La conversione all’Islam politico di al-Jolani è nata attorno ai vent’anni, assieme all’indignazione per la repressione di Israele in Palestina.
Scena terza. Nel 2021, sulla Pbs , una tv americana, al-Jolani risponde a un reporter infedele, cittadino di un Paese, l’America, che ha posto 10 milioni di dollari di taglia sulla sua testa. Al-Jolani sfoggia la stessa barba, ma sui capelli si nota un vezzoso tocco di gel.
«Chi stabilisce chi è terrorista? — argomenta —. Gli Stati. Ma lo Stato americano non è parzialmente responsabile di aver spinto migliaia di persone nell’Isis? E l’Europa che favorisce la persecuzione sionista dei palestinesi non spinge» al terrorismo? «È vero, sono stati uccisi molti innocenti e questo è sbagliato, ma chi è anche colpevole?». Il jihadista ha cambiato tono, non punta più a islamizzare il mondo, ma coniuga il nazionalismo del padre con l’ordine religioso.
Scena quarta. Giovedì scorso. Il capo dei ribelli che avanzano verso Damasco ha ancora la barba folta, il gel sui capelli, ma gli è spuntata la pancetta. Si fa intervistare da una reporter della Cnn , neppure troppo velata. Non si atteggia a capo militare, piuttosto da politico. Vuole unire il Paese e creare «istituzioni comunitarie, non il governo di un singolo». Rassicura le minoranze e le potenze straniere: «A 20 anni pensi in un modo, a 40 cambi, è umano».
Nonostante la battaglia sia vicina, nonostante la taglia americana, è calmo. Al-Jolani sembra sul punto di imporre un nuovo esperimento di governo islamico. In Afghanistan, in Iran, nello Stato Islamico è andato male, è degenerato in dittatura. Se Damasco cadesse, la Siria farebbe da ennesimo laboratorio. Il suo artefice nasce laico, diventa islamista, ne capisce gli eccessi e a parole li rinnega, ma di solito le cose vanno male per due ragioni: interferenze esterne (e nell’area è pieno di Paesi pronti a intervenire) o deliri di potenza del leader. Ci sono tutte le premesse perché succeda anche questa volta.
(da il Corriere della Sera)
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Dicembre 8th, 2024 Riccardo Fucile
IL LEADER JIHADISTA HA IMPARATO DAGLI ERRORI DI BIN LADEN E DEL SUO MAESTRO ABU MUSAB AL ZARQAWI, FONDATORI DI AL QAEDA E ISIS: NON VUOLE INCUTERE TERRORE E SI PRESENTA COME MODERATO, PROMETTENDO UNA GESTIONE “INCLUSIVA” DEL PAESE
Tutti, a partire da Israele, temono che la Siria cada nelle mani di Abu Mohammed al Jolani, l’artefice della coalizione sunnita che ha travolto il regime in undici giorni. Il leader jihadista ha imparato dagli errori di Osama Bin Laden e del suo maestro Abu Musab al- Zarqawi, rispettivamente fondatori di Al Qaeda e Isis, e non vuole incutere terrore: si presenta come un moderato, promettendo una gestione del Paese che includerà ogni etnia e ogni religione.
Ad Aleppo i suoi uomini hanno rispettato le altre comunità e rilasciato i soldati catturati, applicando subito il metodo di efficienza amministrativa messo in campo da anni a Idlib: i servizi pubblici funzionano meglio di prima. Ma la sua legione di mujaheddin è formata da reduci della guerra santa e sulla via per Damasco si è gonfiata di uomini molto meno disciplinati, assetati di vendetta
Le schiere di al Jolani finora si sono impadronite delle città più importanti: con Damasco avranno il dominio dei centri nevralgici di un Paese dove i sunniti sono maggioranza.
C’è chi crede che il leader voglia costruire un modello innovativo di Stato islamico, meno feroce e più inclusivo ma comunque fondamentalista, in cui le altre confessioni verranno progressivamente emarginate. E la sua vittoria potrebbe in ogni caso riaccendere i focolai jihadisti oltre il confine, in particolare in Iraq, in Giordania e in Egitto, oltre a creare un bastione coranico che dal Golan già minaccia Israele.
Per questo adesso c’è la corsa ad accelerare la decomposizione della Siria, tentando di creare contrappesi all’avanzata di al Jolani. È il destino probabile per la regione di Latakia, dove un milione di alawiti si stanno armando e possono contare sulla protezione russa: Mosca ha lì le basi strategiche nel Mediterraneo a cui non intende rinunciare. La difesa di questo territorio però non è facile, ecco che un patto con i sunniti appare come l’unica speranza di sopravvivenza.
Nell’estremo sud, sul confine giordano, una ribellione guidata dai drusi con i gruppi tribali sunniti ha preso il distretto di Daraa: i drusi siriani sono più di 700 mila. Hanno detto di stare dalla parte di al Jolani, ma cercheranno di imporre una loro zona autonoma imitando i cugini libanesi guidati dal clan Jumblatt. L’altro cantone è quello curdo, già diviso in due. C’è il Rojava presidiato dalle milizie del Ypg. E c’è più a sud la provincia strappata all’Isis tra Raqqa e Deir ez-Zor dalle Syrian Defense Forces equipaggiate dagli Usa. I curdi sono combattenti ostinati ma il loro futuro è precario. Erdogan vuole espellerli dalla regione sulla frontiera turca, usando i giannizzeri del Syrian National Army e l’aviazione.
Inoltre il messaggio diffuso ieri da Donald Trump – «questa non è la nostra guerra» – fa prevedere tempi duri per i curdi che potrebbero perdere il sostegno dei jet Usa. Corsi e ricorsi storici: la situazione complessiva ricorda molto quanto è accaduto nel 2013. Anche allora la guerra civile aveva aperto un vuoto spaventoso, dal quale era emerso con ferocia il mostro dell’Isis.
(da La Repubblica)
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