Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
POI MASCHERA IL TUTTO “IN NOME DELL’UNITA’ DEL PARTITO”
Il segretario della Lega evita la conta e si accorda col senatore “critico”. Il candidato più vicino al vicepremier dovrebbe ritirarsi entro domani
Domenica 15 dicembre, alle ore 9.15, si aprirà ufficialmente il congresso lombardo della Lega. Per ora, a contendersi la segreteria ci sono due candidati, visto che il bergamasco Christian Invernizzi si è ritirato dalla corsa una settimana fa, in polemica con Matteo Salvini.
Ma la questione potrebbe risolversi prima di arrivare alla conta presso lo Sheraton San Siro. Secondo Repubblica, il deputato Luca Toccalini, capo della giovanile del Carroccio, sarebbe prossimo a fare un passo indietro. Così, i 373 delegati non potrebbero che eleggere segretario regionale Massimiliano Romeo, il capogruppo al Senato che da tempo sta lavorando per la partita lombarda. Ad ogni modo, la conferma definitiva arriverà alle 9.30 di giovedì 12 dicembre, termine ultimo per depositare la firme a sostegno delle candidature.
Per Salvini “arrivare al congresso con un candidato unico restituirebbe l’immagine di un partito compatto”. Anche se ciò gli costerà una sonora sconfitta della propria linea: il candidato preferito dal leader leghista era Toccalini, mentre il rapporto con Romeo si sarebbe sfilacciato già da diversi mesi. Ma la Lega, in crisi di consensi elettorali, ha bisogno di non palesare scossoni in un territorio fondamentale per la sua stessa esistenza come la Lombardia. L’accordo per la desistenza di Toccalini prevederebbe un ruolo di peso – per lui o per uno dei suoi – nella gerarchia regionale del Carroccio.
(da Open)
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Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
SUL TEMA SI ERA SPACCATO L’ESECUTIVO CON FORZA ITALIA FAVOREVOLE E LA LEGA CHE AVEVA ALZATO UN MURO: “NON E’ UNA PRIORITA’… PER IL 51% DEGLI ITALIANI UNA SOCIETÀ MULTIETNICA È UN SEGNO DI PROGRESSO SOLO PER IL 35% DI RAZZISTELLI È UNA MINACCIA
Lo ius scholae è percepito dagli italiani principalmente come un metodo corretto per dare accesso alla cittadinanza, non uno strumento per facilitarne l’accesso. Come principio per ottenere la cittadinanza è visto infatti con favore dal 52%, contro il 32% di contrari.
Ma se il principio è corretto, la sua applicazione non dev’essere uno strumento agevolato.
Infatti, il 37% degli italiani non ritiene che le maglie per l’accesso della cittadinanza debbano essere allargate (37%). Il 28% ritiene che andrebbe facilitato, il 21% lo lascerebbe così com’è.
E’ quanto emerge da un sondaggio di YouTrend sull’opinione degli italiani su Legge di cittadinanza, integrazione e gestione dei flussi migratori, i temi trattati nel corso della seconda puntata di Materia Grigia, nuovo programma di Sky TG24 condotto da Fabio Vitale.
Dalla rilevazione è inoltre emerso che per il 51% degli italiani una società multietnica è un segno di progresso culturale, sociale ed economico, mentre per il 35% è una minaccia ai valori e all’identità nazionale del Paese che la ospita.
Accogliere più immigrati regolari sarebbe infine un sostegno all’economia italiana per il 44% mentre non è d’accordo il 40%. YouTrend ha, inoltre, rilevato che la violenza giovanile è il tema che suscita più interesse fra gli italiani (42%), in particolare tra donne (46%) e over 55 (47%).
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
IL “CAPITONE” È PURE INCAZZATO CON IL DEPUTATO LEGHISTA ANTONIO ANGELUCCI, CHE SUI SUOI GIORNALI HA SUONATO LA GRANCASSA ALLA ”GIORGIA DEI DUE MONDI”… L’INSISTENZA DELLA DUCETTA CON MUSK E MACRON PER ESSERE INVITATA A PARIGI E L’ILLUSIONE DELLA PREMIER DI FRONTE A TRUMP: NON SA, LA “TAP(P)INA” CHE IL TYCOON SE NE FOTTE DI TUTTI, E SPERARE DI AVERE CON LUI UN RAPPORTO DI FIDUCIA, SENZA ALIENARSI GLI ATTUALI ALLEATI EUROPEI, È UNA MERA ILLUSIONE
Matteo Salvini irritato è un caritatevole eufemismo. Diciamo che non ha apprezzato granché le smancerie a Parigi tra Donald Trump e Donna Giorgia.
Si è sentito scavalcato, isolato, proprio lui che del tycoon è sempre stato il primo tifoso in Italia, mentre l’Underdof della Garbatella scodinzolava ai piedi di Joe Biden. E proprio ora che The Donald è tornato in rampa di lancio, lui finisce ai margini. E il centro della scena è tutto per la “nana malefica” (copyright Crosetto).
A infastidire ulteriormente un già inviperito Salvini è stata la grancassa suonata alla Ducetta dai quotidiani di proprietà di Antonio Angelucci, deputato della Lega ma in evidente sbornia meloniana.
“Il Giornale”, “Libero” e “il Tempo” hanno dato grande evidenza all’incontro a margine della cena di gala a Parigi definendo la Meloni “Notre Dame”, evidenziando che la premier potrebbe diventare il “Ponte tra Usa e UE”, e via pompando di saliva.
Mentre Salvini viene descritto alla stregua di un povero sfigatello che si sta facendo in quattro per strappare un invito in piccionaia all’Inauguration Day del 20 gennaio a Washington (la premier l’ha ricevuto direttamente da Trump che l’ha anche riempita di lodi in un’intervista al “New York Post”: “È una vera fonte di energia, è grande”).
Il contrariato Salvini deve però masticare amaro e tacere, visto che il re delle cliniche Angelucci è un generoso finanziatore della Lega: e non gli rimane che abbozzare.
Di certo, la rosicata per aver visto Giorgia Meloni volare a Parigi è stata enorme, soprattutto considerando che alla cerimonia, organizzata da Macron, erano stati invitati solo i capi di Stato, e non i primi ministri.
C’era infatti il presidente tedesco Steinmeier e non Scholz, c’era il principe William e non Starmer, non c’era Ursula von Der Leyen, nessun Paese era presente con il suo primo ministro, tranne l’Italia.
Giorgia Meloni si è attaccata al telefono e ha chiamato il suo caro amico ketaminico Elon Musk, per sondare il terreno e capire se ci fosse la possibilità di scambiare quattro chiacchere con Trump a margine dell’evento.
Quando Musk le ha fatto presente che era anche lui nello staff parigino di Trump, anch’egli presente alla cerimonia, l’ha rassicurata sul tete-a-tete con Donald, la Sora Giorgia ha smosso mari e monti pur di convincere Macron a invitarla. E le ha trovato un posticino in terza fila.
Al termine della cena di gala, Trump e Meloni hanno scambiato quattro chiacchere fugaci – altro che bilaterale! – a favore di obiettivo. Tra i primi a postare l’immagine del Presidente eletto con la premier, non a caso, è stato il braccio destro di Elon Musk in Italia, Andrea Stroppa.
L’ambiziosa Meloni, forse, si è illusa di poter tessere con Trump lo stesso legame vissuto con Joe Biden, che le dava i bacini sulla cofana bionda, ma non sa, la “Tap(p)ina” che il tycoon è un cinicone anzichenò che non guarda in faccia a nessuno e se ne fotte di tutti.
Ti usa, ti spreme e ti getta via a seconda delle sue convenienze: sperare di avere con lui una relazione di fiducia, da pari a pari, è una mera illusione.
Con un opportunista così non si può tenere il piede in due staffe: o si è con lui o contro di lui (comandamento ben noto al primo piano di Palazzo Chigi). Ma essere “con lui” vuol dire abdicare ai propri interessi. E a quelli europei.
(da Dagoreport)
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Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
IL DIPARTIMENTO DI STATO USA STIMA LA RICCHEZZA DEL DITTATORE IN 2 MILIARDI DI DOLLARI, PARCHEGGIATI IN CONTI CORRENTI E SOCIETÀ OFFSHORE IN PARADISI FISCALI … NELLE CASSE DI ASSAD FINIREBBERO ANCHE I RICCHI PROVENTI DEL TRAFFICO INTERNAZIONALE DI CAPTAGON, UN’ANFETAMINA ILLEGALE
Un tempo i leader dei Partiti comunisti stranieri in esilio a Mosca vivevano tutti insieme all’hotel Lux, in pieno centro sulla Ulitsa Tverskaja, a poche centinaia di metri dal Cremlino. Adesso gli ex potenti, “amici” deposti dell’ex Paese dei Soviet, si godono la pensione a Barvikha, borgo residenziale alle porte della capitale russa. Già 12 anni fa, quando il suo potere vacillava – prima dell’intervento militare in suo soccorso di Putin nel 2015 – correva voce che Assad avrebbe trovato rifugio a Mosca.
Del resto nell’esclusiva Barvikha c’è tutto quello che può piacere a sua moglie Asma a incominciare dai negozi extra-lusso e super selezionati. E uno dei loro tre figli ha pure discusso all’università Mgu, una quindicina di giorni fa, una tesi di dottorato in matematica. La Russia sembra proprio essere nel destino della famiglia al-Assad. Il capostipite, Hafiz, da giovane, fu addestrato dalle Forze armate sovietiche e diventò un fedelissimo del Cremlino a partire dal 1971, quando, con un golpe, diventò presidente della Siria.
Da allora Mosca ha impostato la sua strategia geopolitica in Medio Oriente proprio sulle relazioni privilegiate con questa famiglia. Ecco perché Putin non poteva permettersi di lasciare nelle mani dei ribelli siriani un alleato del genere. Il boomerang, innescato da una tale scelta a livello internazionale, sarebbe stato troppo pericoloso.
Bashar al-Assad e la sua famiglia hanno ottenuto dalla Russia “asilo politico” in modo che potranno godere di protezione ed avere una vita tranquilla. Lo stesso accadde nel 2014 all’allora presidente ucraino Viktor Janukovich, in fuga da Kiev, dopo la vittoria dell’EuroMajdan e a membri del suo Esecutivo come l’ex premier Nikolaj Azarov.
A Barvikha Janukovich si ritrovò come vicini i familiari dell’ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, morto nel 2006 in un carcere in Olanda, dove era giudicato dal Tribunale del L’Aja per crimini contro l’umanità. In precedenza sua moglie, Mira Markovic, suo figlio Marko e il fratello Borislav si erano trasferiti a Mosca.Una uguale sorte da esiliato nella capitale russa l’ha avuta il presidente del Kirghizistan Askar Akayev, deposto nel 2005 dalla “rivoluzione dei tulipani”, noto per i suoi studi accademici.
Dopo il crollo del Muro di Berlino, nel novembre 1989, il leader storico della DDR (che, però, aveva già lasciato il potere) Erich Honecker e sua moglie Margot volarono in Urss per evitare di finire sotto processo nella Germania unita. Ma, dopo il crollo della superpotenza comunista nel 1991, il primo presidente democratico russo post sovietico, Boris Eltsin, li consegnò alla giustizia tedesca.
Dopo il passaggio della presidenza siriana tra padre e figlio nel 2000 per la morte di Hafiz, l’Occidente aveva posto speranze di democratizzazione del Paese arabo in Bashar, di professione oftalmologo, con lunghi studi in Gran Bretagna. Proprio a Londra aveva conosciuto sua moglie Asma, che è ancora cittadina britannica e si è laureata al King’s college in Informatica e Letteratura francese.
A lungo ammalata di tumore e poi di leucemia, la consorte di Bashar è stata descritta come una persona che vive una vita nel lusso più sfrenato ed è abituata a spendere centinaia di migliaia di dollari in mobili e in vestiti. Dopo lo scoppio della guerra civile la donna ha speso in acquisti online in negozi e boutique di Chelsea vere fortune.
I gioielli sono la sua passione. Il Dipartimento di Stato americano stima la ricchezza degli al-Assad in 2 miliardi di dollari, parcheggiati in numerosi conti correnti, società di favore, offshore in paradisi fiscali. A Mosca, ad esempio, la famiglia possiede una ventina di appartamenti – alcuni nel distretto finanziario della capitale – del valore di 36 milioni di euro. Loro parenti hanno rilevanti investimenti nel settore immobiliare.
Qualcuno sui social ha provato a spacciare fotografie d’archivio scattate nel 2013 in un ospedale siriano come le prime immagini dell’arrivo di Bashar al-Assad e della moglie Asma a Mosca. Il solito tiro mancino.
Al momento l’unica traccia dei due coniugi oramai esuli in Russia è la traiettoria radar dell’aereo che domenica sera li ha portati dalla base di Hmeimim a un aeroporto di Mosca. Interrogato più volte, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov si è rifiutato di fornire dettagli. «Non ho nulla da dire sull’andirivieni del presidente Assad». Non ha neppure confermato che il presidente Vladimir Putin gli abbia concesso asilo.
Ma nessuno dubita. «Gli troveranno una dacia alle porte di Mosca», è certo il politologo russo-israeliano Vladimir Khanin. C’è anche chi ha ricordato che, stando a un’inchiesta del 2019 di “Global Witness”, i Makhlouf, cugini di Assad, possiederebbero 19 appartamenti da 40 milioni di dollari in due grattacieli della City di Mosca. Dove alloggerà il clan Assad, però, poco importa.
Quello che conta per il Cremlino è salvare la reputazione di alleato affidabile che Putin si era guadagnato con l’intervento in Siria del 2015. «La Russia non tradisce i suoi amici in difficoltà», rivendica il diplomatico Mikhail Uljanov.
Tutta la propaganda di Stato si affanna a limitare il danno d’immagine, spiegando che il regime siriano era oramai spacciato. «Non potevamo essere più patrioti della Siria che il compagno Assad», sbotta l’opinionista politico Andrej Medvedev. «Il tentativo di mantenere Assad al potere sarebbe comunque stato destinato al fallimento», sostiene il politologo Fjodor Lukjanov.
Molti osservatori, però, non nascondono i loro timori per il destino delle due basi in Siria, avamposti strategici per la presenza russa nel Mediterraneo e in Africa: lo scalo aereo di Khmeimim, vicino a Latakia, e il porto di Tartus, unico porto russo in acque calde. «È prematuro parlarne.
Sarà oggetto di discussione con chi sarà al potere in Siria», ha detto Peskov assicurando che la Russia sta facendo «tutto il possibile e il necessario per stabilire un contatto con coloro che possono essere responsabili della sicurezza».
Ma perché il dittatore siriano si sarebbe gettato tra le braccia del Cremlino? Le ragioni possono essere molteplici. Innanzitutto perché è stato l’intervento militare del regime di Vladimir Putin a tenere in piedi fino a ieri il suo regime, rinnovando un asse tra Mosca e Damasco che risale all’epoca sovietica. E che ai tempi della Guerra Fredda vedeva la Siria in pugno del padre di Bashar al-Assad, Hafez.
La Russia è stata sempre vicina al regime di Damasco. Ed è forse per questo che – stando a un’inchiesta pubblicata cinque anni fa dal Financial Times – alcuni parenti di Bashar al-Assad, tra cui alcuni cugini, avrebbero investito sul mattone a Mosca, acquistando almeno 18 appartamenti di lusso in due grattacieli per un valore di circa 40 milioni di dollari.
Difficile dire quanto denaro o quante proprietà abbia l’ormai ex dittatore Assad (o a quanto ne avesse prima di perdere il potere). «Le stime basate su informazioni open source pongono generalmente il patrimonio netto della famiglia Assad tra uno e due miliardi di dollari, ma si tratta di una stima inesatta che il Dipartimento non è in grado di corroborare in modo indipendente», affermavano un paio d’anni fa gli Usa in un rapporto citato dall’Ansa.
Ma secondo alcune inchieste giornalistiche, ad aiutare Bashar al-Assad a rimanere al potere non sarebbero stati solo Russia e Iran, ma anche «un’industria illegale della droga gestita da potenti soci e parenti del presidente» e «diventata un’operazione multimiliardaria»: un traffico internazionale basato principalmente sul captagon, un’anfetamina illegale. E che secondo il New York Times era in «gran parte supervisionato dalla quarta divisione corazzata dell’esercito siriano: un’unità d’élite comandata da Maher al-Assad, fratello minore del presidente e uno degli uomini più potenti della Siria».
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
NEGLI SCANTINATI C’ERA UNA PRESSA DI METALLO FORSE USATA SERVITA PER MACIULLARE I CORPI… ORA SI SCAVA ALLA RICERCA DI CELLE SEGRETE SOTTERRANEE– NELL’OBITORIO DI UN OSPEDALE VICINO ALLA CAPITALE SIRIANA I RIBELLI HANNO TROVATO ALMENO 40 CADAVERI, CON EVIDENTI SEGNI DI TORTURA
I ribelli guidati dall’Hts che hanno preso il controllo della Siria hanno dichiarato di aver trovato almeno 40 cadaveri accatastati con evidenti segni di tortura nell’obitorio di un ospedale vicino a Damasco.
“Ho aperto la porta dell’obitorio con le mie mani ed è stato uno spettacolo orribile: una quarantina di corpi erano ammucchiati, con segni di terribili torture”, ha affermato Mohammed al-Hajj, combattente delle fazioni ribelli del sud del Paese. raggiunto telefonicamente dall’Afp a Damasco.
Abdel Wahab Daadoush non sa più chi è, non sa chi è stato. Ha perso la memoria per le torture. Resta accovacciato quando i liberatori aprono le porte dell’inferno ed entra luce dopo tanto buio. Aveva 20 anni 13 anni fa, era uno studente di medicina di Hama sceso in piazza per la rivoluzione democratica siriana e mai più tornato, inghiottito come migliaia di siriani nelle viscere di Damasco, a Sednaya.
Non è solo una prigione, è l’orrore: un enorme penitenziario a 30 km dalla città, costruito agli inizi degli anni Ottanta, in cui per quattro decenni gli Assad hanno stritolato i loro oppositori, abusati, picchiati, seviziati, tenuti a decine in celle di pochi metri quadri e senza finestre, fino a due piani sotto terra. Un “mattatoio umano” lo definì Amnesty International. E lo è, letteralmente.
I ribelli hanno trovato una pressa di metallo in uno degli scantinati: potrebbe essere servita per maciullare i cadaveri dei morti sotto tortura, poi dispersi chissà dove. La giustizia, se ci sarà, racconterà a cosa è servita quella diabolica macchina di morte.
Dal braccio femminile scappano decine di donne, c’è anche un bambino tra loro, e gli uomini della protezione civile non escludono che possa essere nato lì, forse figlio della violenza che i secondini usavano sulle prigioniere e documentata ormai in decine di inchieste.
Sednaya è costruita come un labirinto, profonda almeno tre piani, compartimentati con sistemi automatici per le aperture. Prima di scappare, le guardie criminali di Assad hanno bloccato le porte e spento le ventole dell’aria. Li hanno sigillati vivi.
Ieri mentre le squadre della protezione civile lavoravano per liberare i detenuti, migliaia di familiari si sono accalcati intorno alla prigione in cerca di notizie sui loro cari scomparsi anche 20 o 30 anni fa, rovistando tra gli stracci lasciati a terra e le pareti delle celle ancora piene di sangue e feci, sperando in un indizio, una traccia.
Un altro sopravvissuto racconta: «All’alba facevano irruzione nelle celle e leggevano i nomi di quelli che sarebbero stati giustiziati. Li lasciavano senza cibo né acqua per tre giorni. Portavano il patibolo nella prigione, li giustiziavano e poi mettevano in fila i corpi come sacchi di patate». NELLA MACELLERIA UMANA DI ASSAD «VI PREGO, CERCATE MIO MARITO»
Tutta la Siria sta andando a Sednaya, il macello degli umani. Famiglie intere, in 5 su una motocicletta, vecchi aggrappati ai furgoni, donne in automobile, ma poi, siccome l’unica strada che porta al carcere degli incubi è un serpente di lamiera immobile, con le automobili incollate l’una all’altra, si prosegue a piedi. Per chilometri.
Il carcere dei prigionieri politici degli Assad è lassù, sulla collina. «Non doveva essere rosso?» chiede qualcuno. Non ci sono mai stati, non hanno mai avuto il coraggio neppure di passarci davanti facendo finta di niente. Per anni la paura è stata troppo grande.
E ora che sembra si possa fare qualunque cosa, ora che è arrivata la rivoluzione, ora che il dittatore non c’è più e migliaia di kalashnikov sono usciti dalle soffitte e dalle caserme, ora, con il mitra in mano, tutti si sentono padroni. Lo portano per la canna come un bastone da tirare al cane e sarà per il kalashnikov o sarà perché nessuno ha cominciato a fare la voce grossa, fatto sta che soltanto adesso la Siria ha trovato il coraggio di percorrere quei trenta chilometri che separano Damasco da Sednaya.
A Sednaya è stato incarcerato o è morto almeno un membro di ogni famiglia della Siria. A migliaia non ne sono mai usciti. Così un figlio va a cercare nei registri strappati il nome del papà che non ha mai conosciuto. Una mamma entra in una cella e si accascia: sente lo spirito del figlio ancora gridare per il dolore.
La routine del carcere era semplice. Torture e botte, fame e freddo, la ricetta del regime per spezzare la volontà di un popolo. «Nel 2011, all’inizio della primavera siriana, finivi in prigione solo per partecipare a un corteo. E allora ti picchiavano a sangue, ti pigiavano in dieci in una cella di 3 metri per tre, ma poi ti rilasciavano». Ali Nasser Youssef racconta i suoi tre mesi di «rieducazione a Sednaya» che l’hanno convinto ad arruolarsi in Al Qaeda.
Dentro è un carcere come tanti, con le serrature dei raggi comandate a distanza, lo spiazzo per l’ora d’aria e le torrette dei secondini. Poi però c’è la stanza della pressa. Dicono servisse a schiacciare i corpi, vivi o morti. Ci sono i sacchi delle corde rosse. Dicono per impiccare i prigionieri, per appenderli dalle mani o dai piedi. Nelle celle, anche quelle di riguardo, con il bagno annesso, si dormiva per terra, in 50. Il Covid qui ha fatto una strage. Dei 20 mila prigionieri ne sono morti la metà.
Un agente dell’intelligence dei ribelli venuti da Idlib ha interrogato il panettiere che lavorava nel carcere. «Faceva 15 mila sacchetti di pane. Alcuni, ha testimoniato, li buttavano in una buca nel pavimento profonda 15 metri. Là sotto dovevano esserci le celle segrete di cui parlano tutti, altrimenti perché sprecare il pane?».
Non si sa se le celle segrete esistano oppure no. Non si sa se centinaia di prigionieri stiano soffocando nei sotterranei perché le guardie prima di andarsene hanno spento i sistemi di ventilazione. Non si sa neppure se è vero che si stia cercando di far venire il tecnico di una ditta tedesca che ha venduto i sistemi di controllo al regime. Ma quel che sicuramente è reale, palpabile, concreta è la psicosi delle celle segrete. Tutti ci credono, tutti sperano, vogliono mantenere viva la fiammella della speranza contro ogni logica.
Arrivano le scavatrici, le ruspe. Con la folla a mezzo metro, buttano giù un muro, scavano in un punto del cortiletto, poi in un altro. Riescono a trovare un passaggio. Un coraggioso si offre di entrare con la torcia del telefonino. Niente. Il tunnel non va avanti, c’è il cemento armato. E allora ecco un ex prigioniero che arriva a dare indicazioni precise. «Durante l’ora d’aria mi ricordo benissimo che sentivo le urla arrivare da là sotto».
Cinquant’anni di dittatura sono difficili da metabolizzare in due giorni. La gente resta in allerta. Corridoi infiniti, porte arrugginite, sotterranei che trasudano muschio e celle dove ancora rimangono le sottili coperte che facevano da materasso su un pavimento di cemento gelido. La speranza Qualcuno vede aprirsi un vuoto nella terra sotto l’azione della ruspa. «Eccolo, è il piano segreto, l’abbiamo raggiunto». La voce vola fuori dal cortile, sui tetti, nei corridoi.
In un attimo la «notizia» diventa «li hanno trovati, ci sono prigionieri vivi nei sotterranei e stanno uscendo». Partono gli spari in aria. Due, tre raffiche di kalashnikov dal tetto, altri rispondono dalla strada. Rattattattatà, rattattatatà, così sembra una festa. Quelli che ancora arrancano sulla salita si mettono a correre, chi stava andandosene torna indietro. «Sono sono ancora vivi». Non è vero, ma per un momento ha pompato adrenalina come per una resurrezione.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
SECONDO DEMOSKOPIK, CHI FA PIÙ AFFARI È LA ‘NDRANGHETA CON UN INTROITO DI 1 MILIARDO 650 MILIONI, POI LA CAMORRA A 950 MILIONI E LA MAFIA A 400 MILIONI (12,1%)
Sarebbe pari a 3,3 miliardi di euro il giro d’affari della criminalità organizzata italiana derivante dall’infiltrazione nell’economia legale del settore turistico del Belpaese di cui quasi 1,5 miliardi concentrato nelle realtà del Nord.
Emerge da uno studio realizzato da Demoskopika che ha stimato l’attività di welfare criminale delle mafie sul turismo.
Assoluto primato della ‘ndrangheta con un giro d’affari di 1 miliardo 650 milioni (50% degli introiti totali), poi camorra a 950 milioni (28,8%), mafia a 400 milioni (12,1%).
Demoskopika ha utilizzato una serie di dati rilevati da alcune fonti ufficiali o autorevoli: Unioncamere, Direzione Investigativa Antimafia, Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, Istat, Cerved e Banca d’Italia.
Si tratta di un’attività sempre più pervasiva di controllo del territorio che metterebbe a rischio quasi 7mila imprese attive pari al 14,2 per cento su un totale di oltre 48mila realtà a “rischio default”, maggiormente fiaccate da crisi di liquidità e indebitamento e, dunque, più vulnerabili al “welfare criminale” delle mafie che dispongono, al contrario, di ingenti risorse finanziarie pronte per essere “ripulite”.
Sono nove i sistemi turistici regionali a presentare i rischi più elevati di infiltrazione criminale nel tessuto economico: Campania, Lombardia, Lazio, Puglia, Sicilia ma anche Liguria, Emilia Romagna, Piemonte e Calabria. Le regioni sono state classificate in tre raggruppamenti, in relazione al loro livello di infiltrazione nel tessuto economico: alto, medio e basso.
In particolare, a pesare sul primato negativo della Campania, che ha totalizzato il massimo del punteggio (122,0 punti), i 67 alberghi e ristoranti confiscati, pari al 21,8% sul totale delle strutture turistiche confiscate dalle autorità competenti, le quasi 2mila richieste di avvio di istruttorie antimafia connesse al Pnrr, i 155 provvedimenti interdittivi antimafia emessi dagli Uffici Territoriali del Governo, nell’intero anno 2023, a seguito degli approfondimenti svolti dalle articolazioni della Dia e, infine, le quasi 16mila operazioni finanziarie sospette comprendenti anche le SOS a rischio criminalità organizzata.
A completare l’area caratterizzata da un livello “alto” di infiltrazione economica nel comparto turistico, in relazione a pesi diversi ottenuti sugli indicatori individuati, si collocano Lombardia (119,3 punti), Lazio (117,7 punti), Puglia (106,9 punti), Sicilia (103,5 punti), Liguria (101,7 punti), Emilia Romagna (101,3 punti), Piemonte (100,9 punti) e Calabria (100,5 punti). Sul versante opposto, sono sei i sistemi turistici a presentare una minore vulnerabilità, presenti nel cluster delle realtà con un rischio “basso” di infiltrazione criminale: Valle d’Aosta (90,6 punti), Molise (91,1 punti), Friuli Venezia Giulia (92,4 punti), Basilicata (92,5 punti), Umbria (92,8 punti) e Trentino Alto Adige (93,3 punti).
“Il turismo italiano – spiega il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio – è sotto attacco. Oltre 7mila aziende vulnerabili rischiano di diventare ghiotta preda dei sodalizi criminali, con la ‘ndrangheta, Cosa Nostra, camorra, criminalità pugliese e lucana che si infiltrano nei settori dell’ospitalità, dalla ricettività alberghiera alla ristorazione passando per l’intermediazione. Debiti erariali, prestanome legati ai clan e una fragilità imprenditoriale sempre più diffusa creano le condizioni ideali per un controllo mafioso. Eventi internazionali come le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 e il Giubileo 2025 non fanno che amplificare il rischio di infiltrazioni”.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
E’ PROPRIO IL MONDO AL ROVESCIO, RISPETTARE LE REGOLE NON VALE PER LA DESTRA DELL’ILLEGALITA’
Il governo Meloni ha annullato le multe per i no vax. Con il decreto Milleproroghe il governo, che ha avuto il via libera in Cdm, sono state interrotte definitivamente le sanzioni. Il provvedimento, introduce disposizioni urgenti in materia di termini normativi, intervenendo con proroghe e modifiche che servono a garantire la continuità dell’azione amministrativa e a introdurre misure organizzative essenziali per l’efficienza e l’efficacia dell’azione delle pubbliche amministrazioni.
Tra le misure che sono state approvate ieri, c’è l’abrogazione delle sanzioni pecuniarie in materia di obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da virus SARS-CoV-2 (previste dall’articolo 4-sexies del decreto-legge 10 aprile 2021, n. 44). L’intervento annulla di conseguenza le sanzioni pecuniarie già irrogate e non riscosse e relativo discarico.
Cosa dice la norma sulle multe ai No Vax, contenuta nel Milleproroghe
Il Consiglio dei ministri di ieri ha dato il via libera al decreto Milleproroghe, che contiene come dicevamo lo stop alle multe di 100 euro o alle relative cartelle che non sono state ancora pagate da chi ha ignorato l’obbligo di vaccinarsi durante il Covid.
Una bozza del testo prevede appunto l’interruzione “definitiva” dei procedimenti sanzionatori in corso. Mentre, si legge ancora nel testo, “le sanzioni pecuniarie già irrogate sono annullate”. In una versione precedente si prorogava semplicemente il congelamento delle multe. Non è previsto però alcun rimborso per quanti hanno già pagato la sanzione, al contrario di quanto emergeva da alcune anticipazioni.
(da Fanpage)
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Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
I SINDACATI PROPONGONO PREMI DI RISULTATI E PASSAGGI DA PART TIME A TEMPO PIENO, L’AZIENDA DICE NO
Succede solo da McDonald’s. Oggi 10 dicembre Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs faranno partire una mobilitazione nei 700 ristoranti della catena americana in Italia. Nell’estate 2023 i sindacati hanno presentato una proposta di contratto aziendale per aggiungere premi di risultati, il passaggio dal part time al tempo piene e permessi per chi ha carichi familiari per i 3300 dipendenti diretti e per gli oltre 30 mila dei siti gestiti in franchising. A cui attualmente la multinazionale riconosce solo il minimo contrattuale.
Le paghe da fame
«In McDonald’s più del 70% dei lavoratori è part time», spiega al Fatto Quotidiano Sonia Paoloni della Filcams Cgil. «Sei full time solo se hai i ruoli di responsabilità. In alcuni casi parliamo di contratti da 18 ore, alcuni dei quali volontari, ma avere l’aumento è difficile, specialmente se non hai un contratto integrativo con relazioni sindacali ben avviate. Anche per questo lo chiediamo». Attualmente chi lavora 32 ore ha una paga di circa mille euro al mese. Chi fa meno ore arriva a 700. «Il contratto prevede che l’operatore della ristorazione commerciale a catena deve stare al quinto livello, McDonald’s ce li ha tutti al sesto. Anche su questo non rispondono», aggiunge Paoloni. I sindacati vogliono far crescere gli stipendi attraverso l’introduzione di premi di risultato e favorendo accordi per l’aumento del monte ore individuale.
Autogrill, Roadhouse e Chef Express
Autogrill, Roadhouse e Chef Express hanno un contratto integrativo. Nel 2022 McDonald’s Development Italy ha registrato un fatturato di 579 milioni (rispetto ai 432 del 2021, condizionato dal Covid) e un utile di 101, più che raddoppiato rispetto al 2021. Per il personale spende annualmente 81,4 milioni, in media 24.666 euro per ognuno dei 3.300 dipendenti diretti. L’azienda ha confermato l’indisponibilità a negoziare un contratto integrativo: «McDonald’s è una realtà complessa e articolata per oltre il 90% in franchising con 160 imprenditori su tutto il territorio nazionale. McDonald’s evidenzia che la rete dei propri licenziatari in modo autonomo mette già a disposizione dei propri dipendenti diversi programmi e iniziative aggiuntivi al Ccnl. Tuttavia, va considerato che allo stato attuale l’ampia frammentazione sul territorio non consente di poter individuare un contratto di secondo livello per tutte le realtà locali».
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2024 Riccardo Fucile
“SE L’EUROPA VA IN DIREZIONE SOVRANISTA COME SI POTRÀ PERCORRERE UNA STRADA PER L’INTEGRAZIONE?…“C’È UN VUOTO DI LEADERSHIP, MA BISOGNA AVERE PAZIENZA E ATTENDERE L’ESITO DELLE ELEZIONI IN GERMANIA”
«Quando si fanno le cose bisogna essere ottimisti. Se si è pessimisti si sta a casa». Leadership, collegialità e ottimismo. Sono queste le tre parole da cui deve ripartire l’Europa. Le ripete più volte Mario Draghi, ieri a Milano intervistato da Sarah Varetto per ricevere il premio Ispi 2024 a palazzo Clerici, sede dell’Istituto per gli studi di politica internazionale.
«Chi ha responsabilità in Europa deve prendere delle decisioni collegiali e poi portare con sé gli elettori» dice l’ex presidente del Consiglio ed ex banchiere centrale europeo, elencando punti di contatto e differenze fra la sua operazione di rilancio della Bce e le sfide che attendono oggi i leader europei.
Ad ascoltarlo ci sono studenti e docenti universitari, ma anche Marco Tronchetti Provera, Paolo Scaroni ed Emma Marcegaglia, Mario Monti e Marta Cartabia. «La leadership franco-tedesca si è indebolita ma non vedo altre leadership capaci di dirigere l’Europa verso un futuro comune – riflette Draghi, senza mai citare Giorgia Meloni, entrata a palazzo Chigi dopo di lui -. C’è un vuoto di leadership, ma bisogna avere pazienza e attendere l’esito delle elezioni in Germania. Se l’Europa va in direzione sovranista come si potrà percorrere una strada per l’integrazione?».
E ancora: «Lo stallo e le trattative per la nomina dei commissari e per il varo della commissione dipendevano da lotte intestine ai singoli Stati membri». Quindi, di nuovo facendo un paragone fra la sua esperienza e quella di chi invece è stato eletto, aggiunge: «Chi va alle elezioni fa qualcosa in più di chi non ci va: ricevere la legittimazione dei cittadini è importante per fare le riforme, la legittimazione dà forza e scopo al proprio mandato. Un mandato di un non eletto deve essere per forza circoscritto, mentre il mandato di un eletto può essere più ampio e abbracciare riforme importanti». Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Oltre ai famigerati 800 miliardi annui di investimenti pubblici comuni, l’ex premier elenca cinque interventi a costo zero che andrebbero messi in campo al più presto. Il primo è realizzare un vero mercato unico, perché «le barriere fra i nostri Paesi sono tre volte più alte rispetto a quelle fra gli Stati americani per la manifattura, e addirittura otto volte più alte per i servizi».
Il secondo è l’integrazione dei mercati dei capitali dove «occorre smarcarsi da un mercato fondato sul debito e andare verso l’equity» perché «le banche non sanno finanziare l’innovazione». Il terzo riguarda la regolamentazione, in particolare del digitale, il quarto le regole della concorrenza mentre il quinto la lotta alla frammentazione, tanto delle regole quanto degli investimenti.
Rispetto agli effetti della geopolitica internazionale, invece, e alla minaccia dazi sollevata da Trump, Draghi è altrettanto netto. «L’Ue è un continente più aperto e dunque più vulnerabile perché trae circa il 53% del prodotto dal commercio internazionale» spiega.
Per questo di fronte ai movimenti protezionistici «è inutile fare muri e dobbiamo essere pragmatici, guardando settore per settore». «Dovremo avere una politica industriale, era un anatema fino a 5-6 anni fa. Ora quel mondo è finito – conclude Draghi -. Ci sarà sempre più l’intervento dello Stato e sempre più politica industriale».
(da La Stampa)
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