Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
LA SORA GIORGIA VIENE DESCRITTA COME UN “ORBAN CON GLI STEROIDI” CHE STA FACENDO COMPIERE ALL’ITALIA UN “REGRESSO DEMOCRATICO”: “RICORRE AI TRIBUNALI PER METTERE A TACERE I CRITICI, HA PERSEGUITO GIORNALI E GIORNALISTI, E PRESO DI MIRA I GIUDICI… LA MELONI HA USATO IL SUO POTERE PER COLPIRE LE MINORANZE” – “POLITICO”, CHE GIA’ DEFINI’ MELONI UNA “CAMALEONTE”, L’ACCUSA DI MAGHEGGIARE CON “GIOCHI DI PRESTIGIO IDEOLOGICI”
Chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa? Se sei Elon Musk – l’uomo più ricco del mondo e consigliere chiave del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump – il numero da comporre è quello di Giorgia Meloni.
In meno di dieci anni, la leader del partito di destra Fratelli d’Italia è passata dall’essere liquidata come una pazza ultranazionalista all’essere eletta primo ministro italiano e ad affermarsi come una figura con cui Bruxelles, e ora anche Washington, possono fare affari
Anche se sta virando al centro, la Meloni – che ha iniziato la sua carriera politica come attivista nell’ala giovanile del Movimento Sociale Italiano neofascista e ha elogiato il dittatore Benito Mussolini come “un buon politico che ha fatto tutto per il bene dell’Italia” – è stata in prima linea nell’ondata che sta trascinando la politica europea verso l’estrema destra.
In effetti, dalla sua elezione nel 2022, il primo ministro italiano ha introdotto politiche su questioni come l’immigrazione e i diritti LGBTQ+ che un tempo avrebbero attirato la condanna di Bruxelles. Invece, la reazione dei leader dell’Unione Europea ha spaziato dall’indifferenza all’approvazione, con molti che hanno accettato la Meloni come rappresentante appetibile dello zeitgeist sempre più radicale che sta sbocciando su entrambe le sponde dell’Atlantico.
L’incapacità dei politici convenzionali di contrastare una narrazione ultranazionalista sempre più popolare e la loro disponibilità a collaborare con la Meloni sul palcoscenico europeo consentono al quarantasettenne primo ministro italiano – che insiste nell’usare la forma maschile del suo titolo formale, Il Presidente del Consiglio – di essere un “uomo forte” in grado di esercitare un potere enorme in un momento in cui il continente manca di potenti centristi in grado di affrontarla.
L’alfa
La Meloni ha fatto notizia in tutto il mondo quando è diventata il primo primo ministro donna in Italia, ma pochi prevedevano che sarebbe rimasta in carica a lungo. Gli opinionisti si aspettavano che le lotte intestine avrebbero inevitabilmente diviso la sua coalizione di governo composta da partiti di destra, e a Bruxelles non c’era molto interesse per lei.
Dopo aver sopportato per anni le buffonate dell’ungherese Viktor Orbán, i vertici dell’UE non erano entusiasti dell’arrivo di un leader che aveva fatto campagna elettorale su “Dio, patria e famiglia” e aveva formato un governo con partiti simpatizzanti del presidente russo Vladimir Putin.
Ma negli ultimi due anni la Meloni ha consolidato il suo governo come uno dei più stabili mai esistiti nell’Italia del dopoguerra. Sebbene il Paese sia gravato da un debito pubblico pari al 137% del prodotto interno lordo, le previsioni economiche non sono così disastrose da spaventare gli investitori stranieri, attratti da un ambiente politico insolitamente tranquillo.
L’aspetto curato e senza fronzoli della Meloni contribuisce all’immagine di stabilità. Dopo che il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca ha definito il primo ministro “stronza” durante un comizio elettorale, il primo ministro si è presentato a un evento nella sua regione e ha salutato il politico dell’opposizione affermando: “Presidente De Luca, sono io, uqella stronza della Meloni. Come va?”.
(da Politico,eu)
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Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
UNA GRAN CONFUSIONE IDEOLOGICA SUI TEMI CENTRALI… SUL CACIOCAVALLO SIAMO TUTTI D’ACCORDO, ANCHE GRAMSCI
Non ci dobbiamo più nascondere, dice Marco Marsilio detto “il lungo”, presidente della regione Abruzzo, «giovane vecchio» di Azione giovani, durante l’evento conclusivo del primo giorno di Atreju. «Ci dicevano che eravamo catacombali», strilla al microfono, mentre attorno il pubblico accorso nella tensostruttura per ripararsi dalla pioggia compone un tappeto di suoni condito da un forte odore di sigarette iQOS.
Tra baci, abbracci, saluti e strette di mano, la situazione ricorda tanto quella scena di Caterina va in città, quando Claudio Amendola nei panni del sottosegretario postfascista Manlio Germano torna a Latina per un matrimonio e viene sommerso da ossequi e vecchi aneddoti. In questo caso, gli aneddoti sono legati ai tempi di cui parla Marsilio, quelli di Colle Oppio e del 1998, quando non c’erano i cellulari e il parlamento andava in vacanza per tutta l’estate, e quando la giovane destra voleva darsi un volto nuovo, scegliendo il nome del bambino Pelleverde de La storia infinita.
Dal 1998 a oggi
In effetti, dal 1998 a oggi, se c’è una cosa che hanno fatto questi giovani vecchi è proprio smettere di nascondersi, e chi glielo doveva dire che dalle catacombe sarebbero passati al Circo Massimo, tra Måneskin e Pink Floyd, il posto più bello della città più bella del mondo, come diranno più volte durante i panel, a riprova del fatto che la cultura italiana non ha competitor, specialmente quando si tratta di indossare occhiali con telecamere incorporate e lanciare oggetti in testa, aggiungerei.
Nel villaggio natalizio di Atreju, La Via Italiana – questo lo slogan che campeggia su ogni superficie a disposizione – c’è una grande pista da pattinaggio, un vocalist che fomenta il pubblico e mette le canzoni di Coez, adolescenti che giocano a ping pong, un presepe vivente che si rifugia sotto i tendoni per la pioggia e tanti stand di italianissima offerta, come il caciocavallo impiccato, alla faccia di chi ci vuole rifilare hot dog e pokè.
I giovani volontari indossano una felpa bordeaux, mentre i vecchi militanti si distinguono per quell’atteggiamento da rimpatriata in cui si fanno i conti con i successi altrui a distanza di decenni.
Le signore indossano accessori Burberry e trascinano cani di piccola taglia, i signori parlano a voce molto alta di fisioterapia e assicurazioni, nonostante qualcuno faccia loro segno di stare zitti.
Tra Pera e Musk
L’apertura delle danze è affidata a un confronto tra Marcello Pera e Tommaso Labate, perché noi di Atreju, dicono, siamo sempre pronti a confrontarci con chi non è dalla nostra parte, a differenza degli altri; Atreju 1, festa de L’Unità 0. L’intervento di Pera, custode della libertà, insiste su un punto: va bene essere liberali, ma bisogna anche essere conservatori.
Conserviamo il patrimonio artistico, conserviamo i monumenti, conserviamo le nostre radici, conserviamo le nostre tradizioni – nel frattempo, in sottofondo dalla pista di ghiaccio di sente John Lennon che canta Happy XMas, War Is Over, sarà che il titolo inglese ricorda qualcosa di molto italiano – conserviamo l’Occidente che dall’11 settembre del 2001 vive sotto minaccia.
Ed Elon Musk? Chiede Labate, mentre Pera elogia il nuovo corso della politica italiana. Come lo inseriamo nel quadro della tradizione italica il magnate del futuro, il tycoon del tech, quello che punta a Marte e che chiama i figli con codici alfanumerici, quello che ci ha dato PayPal e la Tesla, non proprio un campione di passatismo, se non in ottica turbocapitalista.
«È la prova che la società libera genera l’innovazione», dice Pera, «l’umanità che cresce». Innovazione e tradizione, sembra lo spot su una televisione locale che promuove il restyling di un ristorante sulla Tuscolana che fa carne alla griglia ma anche sushi.
Tre famose B
Dopo un timido applauso al pantheon di Pera, popolato da Thatcher e Reagan, «la vera cultura non ideologica», una folata di anni Ottanta che lascia il pubblico di Atreju un po’ interdetto mentre continua ostinatamente a chiacchierare a tutto volume, arriva il piatto forte della giornata. C’è da chiedersi se per mettere insieme questo trio, gli organizzatori di Atreju abbiano usato lo stesso metodo delle sessioni d’esame all’università: alla B sono chiamati in cattedra Bertinotti, Bonolis e Buttafuoco.
Il tema del loro intervento è «uomini non allineati», un po’ omaggio a Ivano Fossati, un po’ asso pigliatutto della cultura meloniana dei ministri col panciotto e dei parlamentari in Europa con i libri fuori dal coro che esprimono precisamente l’opinione comune della maggioranza spacciandola per minoritaria. Perché la domanda, di fronte a questo bizzarro panel di famose B, è d’obbligo: come mai la destra continua a credersi disallineata se sta al governo da due anni? In cosa, esattamente, si discosta dal pensiero dominante considerato che è lei a dominare?
Vorrei poter dire che la risposta è arrivata durante l’incontro, ma non è stato così. O meglio, in un certo senso il sotto testo degli interventi di Bertinotti lasciava intendere che almeno lui avesse un po’ più chiaro il senso del termine «disallineato», che in questo capannone natalizio e tradizionalista sembra essere stato scambiato per sinonimo di «non essere di sinistra».
Il vecchio comunista col cachemire si lascia trasportare dai suoi cavalli di battaglia recenti, con interventi molti simili a quelli portati da Gramellini qualche ora prima su La7: Stellantis, il capitalismo finanziario, la terza guerra mondiale a pezzi – nel frattempo, in sottofondo si sente Sarà perché ti amo. Il pubblico in sala applaude, confuso, disorientato, forse troppo disallineato, forse per la teoria del ferro di cavallo, o forse solo perché non ha capito che la loro leader, poco prima che Bertinotti parlasse di Olivetti e aziende statali, stava chiacchierando con Trump e Musk tra le nuove luci abbaglianti e barbaradursiane di Notre Dame.
L’indolenza romana
Perché è questo, in sostanza, il tema scottante, quello su cui convergono i nostri disallineati. La tecnologia, la macchina contro l’uomo, l’intelligenza artificiale, il brain rot, per usare la parola che l’Oxford Dictionary ha eletto termine dell’anno. Bonolis ci prova, con il suo savoir-faire forgiato da anni e anni di Ciao Darwin e il suo quintale di braccialetti al polso – come Giambruno, Scanzi e Pablo Trincia, il trend andrebbe studiato –, a dare un tono scherzoso, tragicomico, sordiano potremmo dire, all’evento.
«A Roma noi abbiamo la filosofia degli sticazzi», dice per ribadire il fatto che l’indolenza romana salverà l’antico popolo persino dall’algoritmo e dai nuovi miliardari del tech. Nel frattempo, una signora ride in modo sguaiato a ogni battuta del presentatore, un riflesso pavloviano da Canale 5, e per quanto simpatica sia la reminiscenza di quando Berlusconi – applauso chiamato da Buttafuoco –, la quarta B invisibile del panel, gli chiese di fare da portavoce di Forza Italia nonostante lui non lo avesse nemmeno votato, il clima di caos è irreversibile.
Di cosa stiamo parlando? Di Cina, di pensiero unico, di totalitarismo morbido, di suscettibilità diffusa, di politicamente corretto, dei buoni che hanno vinto, secondo Buttafuoco, e dei cattivi che hanno vinto, secondo Bertinotti. Sono tutti d’accordo, e dicono tutti cose diverse, accomunate da un grande terrore per un futuro incomprensibile fatto di macchine che divorano l’uomo.
Immancabile vittimismo
Eppure, qualcuno avrebbe dovuto farlo notare ai tre disallineati che è proprio la campagna social di Atreju a essere fatta di questi elementi. Immagini create con l’intelligenza artificiale, politicamente corretto strumentale – grande scandalo per una battuta di Filippo Ceccarelli a Propaganda live che ha detto «a Troia» invece di «Atreju», prontamente tacciato di maschilismo, come se non fosse un semplice gioco di parole rivolto al nulla – e vittimismo, l’ingrediente immancabile per ogni ricetta della destra italiana.
Non c’è un post, sul profilo Instagram dell’evento, che non funzioni per macchinosi parallelismi e litoti: «Atreju è come Piazzapulita, realizza interviste con gli avversari politici ma non lo fa di nascosto» o anche «Atreju è come Parenzo, combatte come una tigre ma non difende i centri sociali che lo odiano».
L’impressione è che questa giovane destra non più così giovane, ora che finalmente è uscita dal circoletto di Colle Oppio ed è arrivata sulla piazza più grande, non abbia ancora imparato a mettersi da sola nell’angolo, come se avesse tutto e tutti contro, come se la sua identità culturale esistesse solo nella negazione di quella degli altri, oppositiva e differenziale direbbe Ferdinand de Saussure.
Insiste sul concetto di disallineamento, con una leader perfettamente allineata al presente, tutto gira dalla loro parte, eppure, più che il bambino de La storia infinita, si comporta ancora da brutto anatroccolo. Non è facile rendersi presentabili dopo anni nelle catacombe – qualcuno le avrebbe chiamate «fogne», ma questa è un’altra storia, sempre infinita –, chiaro, ma per fare egemonia culturale, forse, ci vuole un po’ meno confusione ideologica, almeno sulle faccende centrali, che sul ping pong e il caciocavallo impiccato siamo tutti d’accordo, pure Gramsci.
(da editorialedomani.it)
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Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
LA PROCURA: “DIETRO IL DISASTRO UNA CONDOTTA SCELLERATA, UNA CHIARA INOSSERVANZA DELLE RIGIDE PROCEDURE PREVISTE”
Mentre le autocisterne venivano rifornite di carburante a pochissimi metri di distanza erano in corso dei lavori di manutenzione a una delle pensiline. Franco Cirelli e Gerardo Pepe, due delle cinque vittime, non erano autotrasportatori ma «manutentori», da una settimana al lavoro nel deposito Eni di Calenzano per conto della Sergen di Grumento Nova (Potenza).
Ma è possibile fare lavori che probabilmente richiedono l’impiego di attrezzi che possono fare da innesco, mentre alle linee di carico ci sono cinque autocisterne e altre 35 avevano già caricato da inizio giornata
Molti autotrasportatori confermano che era una consuetudine. «Non è la prima volta che ci fanno caricare mentre sono in corso lavori di manutenzione — dice Enzo Celentano che da 20 anni fa la spola con questo deposito —, al massimo bloccano solo qualcuna delle dieci postazioni».
Una «consuetudine» che appare quantomeno strana e sulla quale sta indagando la Procura di Prato guidata da Luca Tescaroli. Perché se è vero che il riempimento delle autocisterne è un’operazione di routine è anche vero che devono essere osservate specifiche misure di sicurezza. Tanto che il personale è obbligato a indossare persino scarpe gommate per evitare anche i più piccoli sfregamenti.
Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire ciò che è accaduto negli istanti che hanno preceduto l’esplosione.
Che ci sia stato qualcosa di imprevisto lo ha già raccontato il testimone oculare che ai carabinieri ha parlato di una perdita di carburante dal bocchettone di carico. Gli inquirenti ora hanno accertato che qualche istante prima della deflagrazione era stato dato persino l’allarme.
Un collega di lavoro ha raccontato che lo stesso Vincenzo Martinelli ha cercato riparo qualche secondo prima dello scoppio. Segno che anche lui aveva capito il pericolo, senza però avere il tempo per evitare di essere travolto dall’esplosione. Oltre all’anomala perdita di liquido infiammabile tra gli autotrasportatori c’è chi ipotizza un possibile malfunzionamento delle valvole di recupero dei gas. Carburante o gas che sia, in ogni caso va ricercata la causa dell’innesco dell’esplosione.
L’inchiesta è ancora alle primissime battute, ma stanno già emergendo dei possibili profili di responsabilità relativi proprio a protocolli di sicurezza all’interno del deposito Eni. Oltre all’omicidio colposo plurimo la Procura potrebbe contestare un secondo reato, sul quale al momento mantiene il massimo riserbo. Che potrebbe essere propedeutico alle prime iscrizioni nel registro degli indagati.
Non è stato un errore. Ma un «disastro». Una «chiara inosservanza delle rigide procedure previste », «una condotta scellerata» che ha portato alla morte di cinque operai e alla corsa in ospedale per 29 persone, due delle quali si trovano in gravissime condizioni.
Ma cosa è accaduto? «Ero in fila ad aspettare il mio turno» ha raccontato un camionista a un tecnico della prevenzione della Asl, forse il primo ad arrivare sul posto dopo l’esplosione. «E ho visto uscire roba da alcuni tubi, pensavo fosse acqua, poi però ho sentito la puzza e sono andato indietro». Il testimone aggiunge un altro particolare, cruciale. «Ho visto degli operai che stavano lavorando a dei tubi»
Effettivamente da quanto emerge dai primi accertamenti gli operai della Sergen stavano lavorando proprio tra la pensilina numero 5 e quella numero 6. «La ditta — scrivono i pm — stava eseguendo dei lavori di manutenzione nei pressi dell’area destinata al carico del carburante: in particolare avrebbero dovuto rimuovere alcune valvole e tronchetti per mettere in sicurezza una linea benzina dismessa da anni». Tutti elementi che fanno arrivare la procura, fermo restando il fatto che siamo di fronte soltanto ai «primissimi elementi investigativi», a ipotizzare uno scenario di questo tipo.
«Sarebbe avvenuta — scrivono — una fuoriuscita di carburante nella parte anteriore della pensilina di carico e che questa sia stata in qualche modo dovuta alla chiara inosservanza delle rigide procedure previste».
«Le conseguenze di tale scellerata condotta — continuano — non potevano non essere note o valutate dal personale che operava in loco», non fosse altro che l’incidente ha poi provocato «un disastro, diversi morti e infortuni». Colpa quindi della manutenzione? «La circostanza che fosse in atto un’attività di manutenzione di una linea di benzina corrobora l’ipotesi che vi siano state condotte connesse al disastro».
Il fascicolo al momento è contro ignoti. Si procede per omicidio colposo, disastro e «rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro». A breve, non fosse altro per un atto dovuto, avverranno le prime iscrizioni: dovranno prima essere verificate le singole posizioni di responsabilità rispetto alla linea di comando di tutti gli attori. I carabinieri verificheranno poi le condizioni di lavoro dei singoli autotrasportatori con le loro ditte: dai primi atti emerge uno spaccato inquietante di un settore che, in una girandola di aziende e società, costringe i lavoratori a orari sfiancanti, spesso in condizioni di sicurezza molto precarie. Perché a Calenzano non è stato un errore.
(da “Corriere della Sera”)
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Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
“HO CANCELLATO IL VIDEO DELLO SCONTRO PERCHÉ SONO STATO OBBLIGATO. I GENITORI MERITANO LA VERITÀ”… UN CARABINIERE È INDAGATO PER OMICIDIO STRADALE, DUE PER FAVOREGGIAMENTO, FRODE E DEPISTAGGIO
“Se sono sicuro di aver visto Ramy schiacciato tra la Gazzella e il palo? Purtroppo, mi dispiace dirlo, ma sì, sì”. Queste le parole di un testimone della morte di Ramy ai microfoni di ‘4 di Sera’, il programma condotto da Paolo Del Debbio su Retequattro. “Ho cancellato il video (dell’incidente, ndr) perché sono stato obbligato, altrimenti l’avrei tenuto e il giorno dopo, visto che sono state raccontate solo bugie, avrei fatto io il passo per dire ‘Guardate, questa non è per niente la verità’. Mi sarei messo in gioco io, soprattutto perché i genitori meritano la verità, un padre e una madre non si meritano quello che è successo”.
Nel momento dell’incidente, ha spiegato il testimone, “ero proprio a fianco al semaforo e, se io non mi fossi spostato, glielo giuro, la Gazzella e lo scooter mi sarebbero venuti addosso”.
“Ricordo dalla A alla Z” ha aggiunto. “Magari non mi ricordo i minimi dettagli perché è stata una cosa di un battito di ciglia, però io rivivo tutto, ogni giorno penso a quei momenti, a quei ragazzi. C’è il video della ‘telecamera 1’ che riprende tutto, cioè non posso dire nient’altro, non fatemi dire cose che poi magari vanno contro di me, capisce? Io la verità l’ho detta in caserma”.
Pochi minuti dopo le 4 del 24 novembre, l’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta, alla periferia sud di Milano, è illuminato a intermittenza dai lampeggianti blu di tre pattuglie dei carabinieri. A terra c’è il corpo senza vita di un 19enne del Corvetto, Ramy Elgaml. Vicino a lui, ferito, c’è anche Fares Bouzidi, il 22enne che guidava il Tmax da cui Ramy è caduto al termine di un inseguimento con i militari per le vie della città.
Dei sei componenti di quei tre equipaggi che hanno rincorso per otto chilometri il duo in fuga, uno è indagato dal 29 novembre per omicidio stradale (stesso reato ipotizzato per il 22enne alla guida dello scooterone). È il vicebrigadiere che era al volante dell’autoradio che tallonava e che probabilmente ha urtato il Tmax.
Altri due, da lunedì, sono iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento personale e frode in processo penale e depistaggio. L’ipotesi di questa seconda tranche dell’inchiesta del procuratore Marcello Viola e dei pm Marco Cirigliano e Giancarla Serafini è che i due avrebbero favorito il collega che guidava la Giulietta coinvolta e avrebbero fatto cancellare dalla memoria del cellulare i video girati con il telefonino da un testimone oculare presente in quei momenti all’incrocio
Ma anche la posizione degli altri tre militari è al vaglio. Nei confronti di tutti e sei sono state eseguite lunedì perquisizioni, con il sequestro dei cellulari e di altri dispositivi elettronici. Domani, nel frattempo, dopo il rinvio per le precarie condizioni di salute, sarà ascoltato dal gip Marta Pollicino il 22enne Fares, ai domiciliari per resistenza dopo essere uscito dall’ospedale.
Sempre domani sarà poi dato l’incarico all’ingegnere Domenico Romaniello per una consulenza cinematica e dinamica che dovrà ricostruire la dinamica dell’incidente. L’esperto dovrà accertare se c’è stato l’urto tra la pattuglia e lo scooter in fuga dopo non essersi fermato all’alt, e se è stato questo a causare la caduta fatale dei due in motorino.
Un’altra consulenza sarà poi affidata a un esperto informatico per l’analisi di tutti gli smartphone sequestrati.
(da Il Corriere della Sera)
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Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
IL PAESE DOVE IL FIGLIO DELL’IMPRENDITORE VA IN CLASSE CON IL FIGLIO DELL’OPERAIO E GLI INSEGNANTI SONO PAGATO COME I DIRIGENTI DI AZIENDA
La ricerca Ocse secondo cui un laureato italiano sarebbe più ignorante di un diplomato finlandese mi ha lasciato di stucco. I ragazzi delle nostre scuole superiori hanno verifiche praticamente quotidiane e il record mondiale di compiti a casa.
E non mi pare che da noi le lauree si regalino, infatti sono sempre di meno. Allora perché a Helsinki uno sbarbatello del liceo ne sa più di un nostro «dottore»? Sarà l’aria frizzante o la zuppa di salmone che stimola le sinapsi? Sono andato a curiosare e ho scoperto che in Finlandia esiste solo la scuola pubblica: il figlio dell’imprenditore va in classe con quello dell’operaio, anzi non ci va proprio perché le classi non esistono e ci si sposta da un gruppo all’altro in base alle necessità di apprendimento.
Poi ci sono gli insegnanti, che per diventare tali devono superare selezioni durissime, ma vengono pagati come dirigenti d’azienda, e anche per questo trattati con rispetto da genitori e ragazzi.
Nelle interrogazioni, spesso sono gli allievi che fanno le domande e dalla qualità dei loro quesiti i professori capiscono se hanno davvero studiato.
Quanto ai voti, si assegnano in base alle potenzialità di ciascuno (valutate insindacabilmente dall’insegnante): il 2 preso da chi partiva da 0 vale come il 10 di uno che partiva da 8.
Certo, la Finlandia è un posto piccolo, però con idee grandi. Noi siamo un posto grande con idee piccole. E ci siamo anche dimenticati che proprio a scuola avevamo imparato a copiare da quelli più bravi.
(da corriere.it)
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Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
IL PATTO DI “NON BELLIGERANZA” TRA SOCIALISTI E GOLLISTI. UN SOLO PUNTO IN COMUNE: EVITARE DI RESTARE OSTAGGIO DELLA BENEVOLA ASTENSIONE DEL “RASSEMBLEMENT NATIONAL” DI MARINE LE PEN, COME ACCADUTO ALLO SFORTUNATO BARNIER
Troppo difficile per le forze politiche francesi trovare un accordo di governo: sarà su un patto di non belligeranza che potrebbe reggersi la Francia, un buon vecchio patto di «non sfiducia», familiare agli italiani, inedito per i francesi.
Negli auspici di Emmanuel Macron, questo futuro governo «non di coalizione» ma almeno di tregua, dovrebbe durare fino al 2027, perché ieri il presidente ha espresso l’intenzione di «non voler più sciogliere il parlamento fino alla fine del suo mandato, nel 2027». Più a breve termine, la Francia deve ancora trovare un governo e un premier.
Ieri tutte le forze politiche che potrebbero partecipare all’avventura – un arco che va dai neogollisti dei Républicains fino alla sinistra socialista, ecologista e comunista – si sono incontrate all’Eliseo. Una “première” nella Quinta Repubblica, sistema in cui i partiti e il parlamento vengono storicamente al terzo posto, parecchio dietro al Presidente e al premier. Il tappeto rosso è stato steso fuori e non dentro il palazzo presidenziale.
«Si cambia metodo» ha detto il presidente. Prima il patto, poi il premier. Prima un accordo tra i partiti e dentro l’Assemblée Nationale, e poi il governo. Macron si è impegnato a nominare un (o una) premier entro 48 ore. Quindi al massimo domani, dovrebbe arrivare il nome del successore di Michel Barnier, sfiduciato dopo appena tre mesi di governo da una mozione sottoscritta dall’estrema destra e dalla sinistra.
Per scongiurare la tenaglia delle estreme che rischia di tenere in scacco la Francia, ancora senza bilancio per il 2025, Macron e il suo blocco centrale hanno lavorato per strappare dagli artigli dell’estrema sinistra di Mélénchon la gauche più governativa di socialisti, verdi e comunisti
Con accenti diversi, conservatori e progressisti francesi hanno commentato con parole simili l’incontro di ieri all’Eliseo. Tutti sembrano aperti all’idea di sottoscrivere almeno un patto di non sfiducia: i partiti che partecipano o sostengono il governo o comunque, pur restando all’opposizione, non lo vogliono far cadere a tutti i costi, si impegnano a non sfiduciare, ma soltanto se il premier si impegna da parte sua a non far passare nessuna misura usando l’articolo 49.3 della Costituzione, che consente all’esecutivo di adottare una legge senza voto del parlamento. L’accordo limiterebbe i poteri del premier, impossibilitato a qualsiasi colpo di forza, e sancirebbe la centralità del parlamento.
Ma i giochi non sono fatti, e diversi partecipanti alla riunione di ieri sono usciti convinti che le divisioni restano. Un solo punto in comune: evitare di restare ostaggio della benevola astensione del Rassemblement National di Marine Le Pen, come accaduto allo sfortunato Barnier. «Abbiamo chiesto al presidente un metodo nuovo che lasci spazio e diritto al parlamento» ha detto il segretario socialista Olivier Faure, all’uscita dalla riunione all’Eliseo, una riunione definita «interessante» ma «non risolutiva»
Faure ha comunque confermato che la gauche ha chiesto «uno scambio di buone pratiche il futuro governo rinuncia al 49.3 e le opposizioni rinuncerebbero alla mozione di sfiducia. Su questa idea abbiamo l’impressione che siano stati fatti passi avanti». Più dura la leder dei Verdi Marine Tondelier , secondo la quale il blocco presidenziale «non ha fatto nessuna concessione, non si è mosso di un centimetro». Anche lei ha aperto però alla possibilità di una non belligeranza sulla base di un patto di non sfiducia. Refrattario a qualsiasi idea di coalizione o contratto di governo con gli avversari anche il leader dei Républicains Laurent Wauquiez, il quale si è detto disponibile a ragionare su «un accordo almeno per non far cadere un governo»
Il nome più quotato del totopremier resta sempre quello del leader centrista François Bayrou, che ieri ha di nuovo incontrato il presidente, prima di partecipare alla riunione tra forze politiche.
(da il Messaggero)
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Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
LICIA RONZULLI, VICEPRESIDENTE DI PALAZZO MADAMA, VA GIÙ DURISSIMA: “SIGNIFICA FAR FINTA DI DIMENTICARE COS’HA RAPPRESENTATO IL COVID PER L’ITALIA. LA VIOLAZIONE DELLE NORME SANITARIE DA PARTE DEI NO VAX È STATA UNO SCHIAFFO ALLE LEGGI DELLO STATO E, ANCOR PEGGIO, UN PERICOLO PER LA POPOLAZIONE”… IL CARROCCIO GIUDICA L’ADDIO ALLE SANZIONI UN SEGNALE DI “PACIFICAZIONE”
Monta la polemica sullo stop alle multe per chi non si è sottoposto al vaccino anti-Covid, inserito ieri dal governo nel decreto Milleproroghe. Se medici e virologi sollevano perplessità, a darsi battaglia stavolta non sono solo maggioranza e opposizione: anche all’interno del centrodestra si registrano toni diversi. Con un pezzo di Forza Italia che si scaglia contro la scelta dell’esecutivo (giudicata un’apertura ai no vax) e la Lega, che invece giudica l’addio alle sanzioni un segnale di «pacificazione».
A dar voce al malumore che serpeggia tra gli azzurri ci pensa Licia Ronzulli, vicepresidente di Palazzo Madama. Va giù dura, l’esponente forzista: «Se era sbagliato prorogare il congelamento delle multe, cancellarle è inaccettabile e significa far finta di dimenticare cos’ha rappresentato il Covid per l’Italia». Ronzulli si augura che «la maggioranza torni sui suoi passi» perché «quella dei no vax era tutt’altro che una battaglia di libertà».
Dunque, avverte la senatrice, tornare indietro è sbagliato. «Di fronte alla pandemia che ci ha travolti tutti e ha ucciso quasi 200mila persone argomenta la violazione delle norme sanitarie da parte dei no vax è stata uno schiaffo alle leggi dello Stato e, ancor peggio, un pericolo per la popolazione, esposta al rischio di contagio da chi, per motivi ideologici e antiscientifici, ha rifiutato il vaccino».
Non la pensa così la Lega. Con il vicepremier Matteo Salvini che rivendica l’addio alle sanzioni. «Ritengo giusto superare la pagina drammatica del Covid che fortunatamente è alle spalle», osserva il segretario leghista. «Chiudere una volta per tutte il contenzioso col passato e annullare multe e sanzioni penso che sia un segno di pacificazione nazionale», osserva. Non è l’unico, Salvini, a difendere quella scelta che non va giù a un pezzo di Forza Italia. Anzi: nel Carroccio c’è chi rilancia sul tema dei rimborsi. Inizialmente previsti per chi aveva già pagato la multa, poi depennati per la contrarietà del Mef.
Insiste Claudio Borghi, senatore leghista da molti considerato vicino alla galassia no vax: il rimborso delle somme versate «deve essere valutato. Se il numero di coloro che hanno pagato è piccolo, e c’è il rischio di cause, si può tranquillamente valutare la restituzione». Anche il presidente della Camera, il leghista Lorenzo Fontana, sottolinea di non aver mai apprezzato l’idea «che ci fosse una multa per una questione di vaccinazione». Ma poi chiarisce, durante lo scambio di auguri natalizi con la stampa parlamentare: «Non mi piacque il fatto che fu messa allora, ma toglierla… Penso che se qualcuno quella multa l’ha pagata, adesso fa la figura del fesso. È una situazione che ha pro e contro».
(da agenzie)
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Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
PER QUALCHE VOTO IN PIU’ IL GOVERNO UMILIA I CITTADINI PERBENE E LA MEMORIA DI CHI NON C’E’ PIU’
Medici sul piede di guerra dopo il condono delle multe ai No Vax che non hanno rispettato l’obbligo vaccinale. Lo ha deciso il governo, con il decreto Milleproroghe, approvato ieri in Consiglio dei ministri.
La norma prevede “l’abrogazione, in modo da non dover procedere con una ulteriore proroga”, delle norme che prevedevano una multa di 100 euro nei confronti degli over 50, degli appartenenti alle forze dell’ordine, del personale sanitario e di tutte le altre categorie professionali che per legge avrebbero dovuto vaccinarsi contro il Covid, e non lo hanno fatto. E in concreto significa che le multe non ancora pagate – per un valore stimato che va dai 150 ai 170 milioni di euro – non lo saranno mai perché vengono annullate.
“A me non è mai piaciuto che ci fosse una multa per una questione di vaccinazione – commenta il presidente della Camera Lorenzo Fontana – ma se qualcuno quella multa l’ha pagata per una questione di onestà adesso fa la figura di essere stato un fesso e questo non è bello”.
“L’Italia è il paese dei condoni, delle regole – giuste o sbagliate che siano – non seguite e degli evasori legalizzati dallo Stato. Un bel messaggio natalizio con emergenze che bussano alla porta, una epidemia in Congo, l’aviaria che bussa e l’ influenza che sta per esplodere”, attacca Matteo Bassetti, direttore Malattie infettive dell’ospedale policlinico San Martino di Genova.
Per il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, si tratta di “un condono raccattavoti diseducativo e irrispettoso”. È preoccupato, Massimo Andreoni, direttore scientifico della Simit, della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali. “Essere per principio contrari alla vaccinazione obbligatoria è sempre un pò pericoloso perché quello che può accadere in futuri eventi pandemici non è prevedibile”. E di certo non si può escludere che non se verifichino altri in futuro. “Eviterei di dire mai più vaccinazioni e isolamenti. Saranno i fatti a dettare le misure in campo e non i pregiudizi”.
Protesta l’opposizione. Usa X Maria Elena Boschi di Italia Viva per tuonare contro il governo che “per qualche voto in più umilia i cittadini perbene e la memoria di chi non c’è più”. Quel condono, scrive, è una “grave offesa agli operatori sanitari e a tutte le vittime del Covid”. Insorge anche il Pd: “Agli alluvionati non danno i rimborsi promessi, ma ai no vax tolgono le multe, ecco la destra italiana”, scrive sui social Stefano Bonaccini. Il presidente dei senatori dem Francesco Boccia commenta: “Per questo governo fare i furbi, non rispettare le regole, non pagare le tasse è una virtù”. Mentre la capogruppo Pd alla Camera, Chiara Braga, su X ricorda che, mentre si congelano le multe ai No Vax, “quelli che mettevano in pericolo la propria vita e quella degli altri, anziani, malati, persone fragili”, “non c’è un Euro in più per la sanità. Un governo di cinici e irresponsabili”. Per Riccardo Magi di +Europa è un provvedimento pericoloso, un “modo per strizzare l’occhio a complottisti no vax e negazionisti” e offende vittime e medici. “È così – sottolinea – che si mina il rapporto di fiducia fra istituzioni e cittadini”.
(da agenzie)
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Dicembre 11th, 2024 Riccardo Fucile
“LA STAMPA”: “RUFFINI PUÒ CONTARE SULLA STIMA PRIVATA DI SERGIO MATTARELLA E ROMANO PRODI, LE DUE PIÙ IMPORTANTI PERSONALITÀ POLITICHE DELLA CULTURA CATTOLICO-DEMOCRATICA. SARA’ CAPOFILA DI UN’AREA LAICO-CATTOLICA DEL CAMPOLARGO RIMASTA SENZA LEADER?”
Si fa presto ad invocare il “nuovo Prodi”. Da 16 anni, da quando il Professore ha lasciato la politica, la retorica mediatica ha tenuto in vita una suggestione che sinora nessuno ha saputo interpretare e dunque c’è da scommettere che nei prossimi giorni proprio quella etichetta sarà riproposta per un personaggio che, certo la respingerà, ma che potrebbe presto diventare un nuovo protagonista del centro-sinistra italiano: Ernesto Maria Ruffini, da cinque anni direttore dell’Agenzia delle Entrate. Delicato incarico nel quale è stato confermato da governi distantissimi tra loro: Gentiloni, Conte 2, Draghi, Meloni.
Proprio oggi Ruffini farà il primo passo per un suo probabile ingresso in politica: parteciperà assieme al padre gesuita Francesco Occhetta, una delle più forti voci “bergogliane” in Italia e a Giuseppe Fioroni, ministro della Pubblica istruzione dell’ultimo governo Prodi, ad un convegno sull’impegno dei cristiani nella società italiana.
Da tempo Ruffini ha confidato ad alcuni amici – influenti e non – il suo desiderio di trasformare la sua passione politica in impegno in prima persona. Certo, per ora non c’è nulla di deciso e fino a quando Ruffini manterrà il suo incarico, non svolgerà contemporaneamente alcuna attività politica. Ma l’intenzione e c’è anche il retroterra politico e culturale.
La sua passione civile, negli ultimi dieci anni, si è espressa negli incarichi in campo fiscale, ma anche in alcuni libri, segnati da un approccio cattolico-progressista. Dalle prefazioni di alcuni di questi libri arriva una prima indicazione sul personaggio: Ruffini può contare sulla stima privata delle due più importanti personalità politiche della cultura cattolico-democratica dopo la caduta del Muro di Berlino: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Romano Prodi.
Il più recente libro di Ruffini, Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1948 ad oggi, edito da Feltrinelli, è preceduto da una prefazione del Capo dello Stato, che tra l’altro scrive: «Questo libro racconta la nostra storia, le nostre radici e ci invita a fidarci del futuro».
Nel 2013 Ruffini aveva scritto L’evasione spiegata a un evasore e in questo caso la prefazione era firmata da Romano Prodi. Naturalmente Mattarella e Prodi sono e resteranno niente più che due amici e in particolare il Capo dello Stato è sempre stato rigorosissimo nella sua equidistanza da tutti gli attori politici.
Cinquantacinque anni, palermitano di nascita, figlio di Attilio, partigiano cattolico e più volte ministro democristiano, Ernesto Ruffini è fratello di Paolo, già direttore della RaiTre di maggior successo dopo la stagione-Guglielmi e da sei anni prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede. Se Ruffini romperà gli indugi, si giocherà una partita dagli obiettivi ancora indefiniti: capofila di un’area laico-cattolica del campolargo rimasta senza leader? O possibile candidato premier?
Da anni Ruffini può contare sulla stima discreta di ministri, manager, associazioni di base, su tante simpatie in Vaticano e su quella di vecchi amici come Dario Franceschini, Bruno Tabacci, Lucio D’Ubaldo, ma se scenderà in campo – come in privato fa capire – l’attuale capo dell’Agenzia delle entrate partirà da un background personale che è fatto essenzialmente di due risorse.
Anzitutto, una cultura di governo acquisita alla guida di Equitalia e dell’Agenzia delle entrate: proprio qui, muovendosi tra ministri, evasori fiscali e grandi burocrati dello Stato, ha contribuito ad accrescere ogni anno la quota di evasione fiscale recuperata, raggiungendo nell 2023 il record di oltre 31 miliardi di euro.
Ma se entrerà in politica, Ruffini intende far valere soprattutto altro: l’effetto-novità (una dei segreti dell’ascesa repentina di Elly Schlein), ma anche un profilo agli antipodi con l’agonismo che domina in questa stagione.
Alcune settimane fa, intervenendo alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Ruffini si è congedato con una chiusa irrituale: «Ognuno di voi ha le sue competenze e letto libri diversi dagli altri, ma se guardate i vostri curricula, c’è una parte importante, uguale per tutti: gli spazi bianchi tra una riga e l’altra. Spazi che rappresentano i nostri errori e fanno parte di quel che siamo. Non archiviate i vostri errori, concentrandovi solo sui successi!».
(da La Stampa)
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