Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
UN MESE FA IL GOVERNATORE LEGHISTA, MASSIMILIANO FEDRIGA AVEVA PARLATO DI UN “ALTO RICONOSCIMENTO”, MA AVEVA TACIUTO SULL’ESBORSO DI DENARO DELLA REGIONE … ALLA NOMINA SONO SEGUITE UNA CENA DI GALA A WASHINGTON, INCONTRI ISTITUZIONALI E PHOTO OPPORTUNITY CON BIDEN
«Un anno da ricordare! Il Friuli Venezia Giulia è stato protagonista sulla scena internazionale grazie al riconoscimento come regione d’onore», si felicitava un mese fa il presidente della Regione, il leghista Massimiliano Fedriga. «L’incontro con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e l’ufficializzazione della nostra quale regione d’onore 2024 da parte della National Italian American Foundation (Niaf) ci riempiono di orgoglio», diceva sempre Fedriga un anno fa
E quindi, cene di gala negli Usa, incontri istituzionali e photo opportunity con il presidente democratico oggi uscente: tutto collegato alla nomina. Il non detto è che l’“ambito riconoscimento” della Niaf è costato alle casse pubbliche 150 mila euro. Insomma, più che un grande successo, un servizio reso dietro compenso. «Una collaborazione», specificano dalla Regione Friuli Venezia Giulia.
Ma andando con ordine. La delibera 1780 della giunta della regione autonoma, datata 16 novembre 2023, si intitolava “Iniziative regionali per lo svolgimento di attività promozionali all’estero. Aggiudicazione del titolo di regione d’onore 2024 — Niaf. Approvazione accordo di collaborazione”.
Nel documento, anticipato online dalla testata regionale Corsaro della sera, si spiegava che “il Niaf, fondazione che raggruppa i più autorevoli esponenti della comunità italo-americana degli Usa, ogni anno seleziona una regione italiana da celebrare e promuovere per i 12 mesi successivi, conferendole l’ambito riconoscimento”. Tutto esaltante, non fosse che alla fine poi “paga Pantalone”: «Le attività connesse al titolo di regione d’onore per il 2024 si prevede possano comportare le spese per un ammontare complessivo pari a 150 mila euro».
L’offerta della Niaf, va detto, era abbastanza ampia: una loro delegazione che visita la regione prescelta «per discutere di argomenti chiave di influenza culturale, economica tra gli Usa, Italia e la regione d’onore»; pacchetti di viaggio mirati alla promozione turistica del Friulia Venezia Giulia rivolti alla comunità italoamericana; la cena di gala a Washington — e due “tavoli platinum” riservati — con Biden, e annessa premiazione pubblica della regione. Poi, articoli dedicati sulla rivista del Niaf e incontri istituzionali riservati per i rappresentanti della regione all’ambasciata americata
Ovviamente il tutto è stato ampiamente veicolato anche da Fedriga e dalla Regione sulla stampa locale, sui social e sul sito istituzionale. L’informazione mancante a questo quadro idilliaco fatto di riconoscimenti e successo era l’esborso di denaro pubblico per la “quota di partecipazione”. Negli anni scorsi avevano fatto lo stesso Toscana ed Emilia-Romagna, il prossimo anno sarà il turno del Lazio. Regioni d’onore, basta pagare.
(da agenzie)
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Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
LA DECISIONE NELL’UDIENZA PRELIMINARE A FIRENZE
Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti e gli altri otto imputati nell’inchiesta
sulla Fondazione Open per finanziamento illecito ai partiti sono stati tutti prosciolti. Lo ha deciso la giudice dell’udienza preliminare di Firenze Sara Farini, respingendo la tesi dei pm.
Per l’accusa, la Fondazione – Open nata per sostenere le iniziative politiche dell’ex premier nel periodo in cui era segretario del Partito democratico – era stata utilizzata come uno strumento del partito, in particolare della corrente legata a Renzi.
Il presidente era l’avvocato Alberto Bianchi e nel cda sedevano gli ex ministri Maria Elena Boschi e Luca Lotti, insieme all’imprenditore Marco Carrai.
I pm ipotizzavano i reati di traffico di influenze, corruzione, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Dal 2014 al 2018, sostenevano i magistrati, la Fondazione avrebbe ricevuto circa 3,5 milioni di euro in violazione delle norme sul finanziamento ai partiti.
La gup ha deciso per il proscioglimento degli imputati e il non luogo a procedere al termine di una lunga battaglia legale, che il senatore toscano ha ingaggiato anche contro i pm. L’udienza preliminare si era aperta oltre 2 anni fa, il 3 aprile 2022, con anche un ricorso alla Consulta sul conflitto di poteri. In aula oggi il procuratore aggiunto Luca Turco, titolare dell’inchiesta con il pm Aldo Nastasi , che il 24 dicembre andrà in pensione.
Fondazione Open, la reazione di Renzi dopo il proscioglimento
Ho quasi cinquant’anni, ha scritto Matteo Renzi, su X, «gli ultimi cinque li ho vissuti da “appestato” per l’incredibile inchiesta Open. Uno scandalo assoluto per tutti quelli che avevano letto le carte, ma nonostante questo sono stato politicamente massacrato da tanti, a cominciare da Fratelli d’Italia e dai Cinque Stelle. Dopo anni di sofferenza oggi arriva la notizia: prosciolto. Prosciolto io, prosciolti tutti i miei amici sia politici come Maria Elena e Luca sia professionisti come Marco, Riccardo, Alberto e tutti gli altri. Oggi in tanti dovrebbero scusarsi, Meloni e Travaglio in primis. Non lo faranno. Pace».
Prosegue poi il suo messaggio il leader di Italia Viva: «Grazie ad Agnese per essere stata una roccia e non era facile. Grazie a Francesco, Emanuele e Ester per non aver mai dubitato del loro babbo. Grazie a tutti gli avvocati della difesa, a cominciare da Gian Domenico Caiazza, Federico Bagattini e Lorenzo Pellegrini, ai miei amici, ai miei colleghi, ai miei collaboratori per tutto. Volevano farmi fuori con una indagine farlocca. Non ce l’hanno fatta. Ripartiamo insieme. Ma non dimentichiamo che ci sono tanti cittadini innocenti che non possono difendersi. Continueremo a fare politica anche per loro. Con il sorriso e senza vendette. Ma con la certezza che oggi ha perso il giustizialismo e ha vinto la giustizia. E chi mi aggredisce con indagini, norme, campagne ad personam non mi fa paura. Anzi, mi rende più forte».
(da agenzie)
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Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
IN REALTA’ I RITARDI SONO DA IMPUTARE ALLA MAGGIORANZA NON AGLI UFFICI… LA PRIMA USCITA DA CAPOGRUPPO DI BIGNAMI E’ TRAGICOMICA, RIESCE A ESSERE SMENTITO ANCHE DAI SUOI ALLEATI
«Gli abbiamo dato 32 ore per essere pronti e ora parliamo di ritorno in commissione?». Alza la voce, Galeazzo Bignami. Nella biblioteca del presidente della Camera, la conferenza dei capigruppo è riunita per definire il calendario della manovra. Il presidente dei deputati di Fratelli d’Italia se la prende con i funzionari di Montecitorio che stanno confezionando il testo della legge di bilancio per l’esame in aula. Un lavoro complesso e delicato perché i 144 articoli approvati dal Consiglio dei ministri vanno aggiornati alla luce delle modifiche validate dalla commissione Bilancio.
Bignami teme che le opposizioni possano rallentare la manovra approfittando del ritorno in commissione, un’opzione che la capigruppo mette in conto alla luce delle verifiche in corso alla Ragioneria. Poche o tante che siano, correzioni o stralci, il passaggio è dato per scontato. Non dal rappresentante di FdI, che si ritrova però isolato. I capigruppo di Forza Italia e Lega, Paolo Barelli e Riccardo Molinari, restano in silenzio. Basiti per i toni dell’alleato.
Il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, decide di non intervenire per evitare di esasperare la situazione. Ma il capogruppo di Azione, Matteo Richetti, rompe l’imbarazzo per replicare a Bignami. I ritardi — è il ragionamento — sono da imputare alla maggioranza, non agli uffici del Parlamento. Anche Pd e Avs vanno all’attacco: la colpa è delle richieste last minute di FdI, Lega e FI che hanno ingolfato i lavori della quinta commissione di Montecitori
Bignami affida alle opposizioni un altro sfogo: la colpa, dice, è anche del ministero dell’Economia e in particolare della Ragioneria. Lamenta ritardi nella messa a punto dei testi. Le accuse sono accolte con freddezza dentro FdI, dove l’atteggiamento di Bignami viene ritenuto fuori luogo. Anche Fontana chiede conto. I due si incontrano nella stanza del presidente per evitare che la discussione in capigruppo diventi un caso. Ma le voci corrono veloci a Montecitorio.
E i tecnici del Mef ritornano nel mirino della maggioranza all’indomani del pressing di Forza Italia per modificare la norma della manovra sui revisori del Mef nelle società che ricevono contributi pubblici. Da via XX settembre trapela un messaggio di difesa dei tecnici. Anche ieri, alla Ragioneria, si è lavorato fino a tarda sera per completare le verifiche sul testo approvato dalla commissione
Galeazzo Bignami, all’esordio come capogruppo di Fratelli d’Italia, si è arrabbiato moltissimo per l’allungamento dei tempi, prendendosela con il governo e con la presidenza della Camera, difesa anche dall’opposizione. Un intervento che ha stupito anche i colleghi di maggioranza. Pd, Avs e M5S hanno chiesto al governo di non utilizzare una eventuale riapertura del testo in Commissione per presentare ulteriori emendamenti. «Ho visto più buonsenso nell’opposizione» ha commentato uno dei presenti alla riunione.
(da il Corriere della Sera)
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Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
IL 37 ENNE GESTORE DI TRAFFICO DI EROINA HA AVUTO IL TEMPO, GRAZIE ALLA RIFORMA NORDIO, DI RENDERSI IRREPERIBILE
Il giudice lo ha avvertito, notificandogli un avviso come prevede la nuova legge:
“Vogliamo arrestarti, ma prima vieni a farti interrogare“. Lui, per tutta risposta, è fuggito dall’Italia rendendosi latitante. L’indagato miracolato dalla riforma Nordio è un 37enne di origine tunisina, considerato dalla Procura di Ascoli Piceno il gestore di un importante traffico di eroina, che secondo l’accusa trasportava in grandi quantitativi nelle Marche da Roma e Castel Volturno (Caserta) tramite auto prese a noleggio.
Nei suoi confronti il gip ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, che però la polizia giudiziaria non ha potuto eseguire: il presunto narcotrafficante, infatti, sapeva dell’intenzione di metterlo dentro e ne ha approfittato per lasciare il nostro Paese in tempo utile, rifugiandosi probabilmente in Tunisia. Un effetto del cosiddetto “avviso di arresto“, introdotto dalla riforma voluta dal ministro della Giustizia ed entrata in vigore ad agosto: per sottoporre a misura cautelare un indagato per reati non violenti, è diventato obbligatorio convocarlo per un interrogatorio preventivo davanti al giudice, in modo da consentirgli di difendersi. Chi ha scritto la legge, però, non ha pensato a un rimedio per evitare che gli indagati scelgano di darsi alla macchia una volta avvertiti del rischio di finire in manette, come era stato pronosticato dagli addetti ai lavori e si è puntualmente verificato.
L’indagine – Nel caso di Ascoli il gip aveva disposto sei misure cautelari, tutte per detenzione e cessione di stupefacenti: tre custodie in carcere, una ai domiciliari e due obblighi di firma. “Come previsto dalla nuova normativa, il giudice, prima di emettere l’ordinanza di misura cautelare, ha dovuto avvertire tutti gli indagati che vi era a loro carico una richiesta di misura cautelare avanzata dalla Procura, invitandoli a prendere visione di tutti gli atti messi a loro disposizione e a farsi interrogare per presentare elementi a propria difesa, dando un termine di almeno cinque giorni tra il momento della notifica dell’invito e l’interrogatorio”, informa un comunicato firmato dal procuratore capo di Ascoli, Umberto Monti. Il tunisino fuggito, che era il principale indagato (gli vengono contestati sette episodi di detenzione e cessione di stupefacente), “riceveva la notifica il 25 novembre scorso per un interrogatorio fissato per l’11 dicembre”: pochi giorni dopo aver ricevuto l’atto, però, “si allontanava dall’Italia recandosi presumibilmente in Tunisia, e il giorno fissato per l’interrogatorio non si presentava”. A rendersi irreperibile anche un’altra cittadina tunisina, per cui era stato chiesto l’obbligo di firma. Altre due misure di custodia in carcere, a carico di un cittadino italiano e di un tunisino, si sono potute invece eseguire forse perché, pur essendo stati avvisati, i due indagati non hanno potuto fuggire in quanto “si trovavano già ristretti, rispettivamente in carcere e in un centro di permanenza per il rimpatrio”.
La legge col buco – In base alla riforma, l’interrogatorio preventivo si applica solo quando la misura è disposta, come in questo caso, esclusivamente per il rischio di reiterazione del reato, mentre non è necessario se sussiste una delle altre esigenze cautelari previste dal codice, cioè il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove. La norma esclude poi tout court l’”avviso di arresto” nelle indagini per un elenco di reati di particolare allarme sociale (mafia, terrorismo, violenze sessuali, stalking), in cui però non rientra il traffico di droga: l’articolo 73 del Testo unico stupefacenti, che punisce chi “cede, distribuisce, commercia, trasporta o procura” sostanze, è infatti citato solo “limitatamente” ai casi di spaccio di “ingente quantità“. Insomma, se la quantità non è “ingente” (e per esserlo, secondo la Cassazione, deve consistere in vari quintali di sostanza) l’eccezione non vale: per arrestare il presunto spacciatore o trafficante bisogna avvertirlo convocandolo per interrogarlo, con gli effetti che si sono visti ad Ascoli. Il Fatto aveva denunciato questo “buco” già la scorsa estate, prima che la legge entrasse in vigore: una norma pensata su misura per i colletti bianchi che delinquono – a cui si vuole evitare la spiacevolezza di trovarsi la Polizia in casa all’alba – si è trasformata in un favore imprevisto agli spacciatori, categoria ben poco apprezzata dal governo (è rimasto nell’immaginario comune il “lei spaccia?” di Matteo Salvini). Chissà se il caso di Ascoli spingerà a una marcia indietro.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
CRISANTI (PD): “DA TIRARLE UNA SCARPA”… L’AULA DEL PARLAMENTO COME IL PROCESSO DI BISCARDI
“Bisognerebbe tirarle una scarpa, a volte provoca così tanto da farsi quasi opposizione da sola”, dice il senatore eletto con il Pd Andrea Crisanti. Barbara Floridia ride e aggiunge: “La verità è che nella comunicazione è il top”. Sia il microbiologo prestato alla politica sia l’esponente del M5s a capo della Vigilanza Rai stanno parlando di Giorgia Meloni durante un caffè alla buvette. La premier ha chiuso la pratica delle comunicazioni in vista del Consiglio europeo ed è già sull’aereo, direzione Bruxelles.
A differenza dell’altro giorno alla Camera, qui a Palazzo Madama lo spettacolo, se così si può chiamare, ha raggiunto picchi niente male. L’acme è stato toccato con gli ululati (o versi) di Meloni in risposta a quelli dell’opposizione, poi sovrastati da quelli della maggioranza. E ancora, nel dettaglio, schermaglie e battibecchi sulle tre M di questo tempo: Meloni, Milei, Musk.
A dire il vero ci sarebbe anche un’altra M, quella di Monti, loden d’acciaio, che con una sua intemerata sul patron di X e di Tesla, e di tante altre cose, fa inalberare la presidente del Consiglio. La quale sostiene un ragionamento che suona così: se vengo attaccata perché non posso difendermi? Il senatore a vita le dà un consiglio di stile e uno non richiesto. Monti non capisce perché la premier senta il bisogno di “schiaffeggiare” alcuni di coloro che le hanno dato appoggio “con critiche retrospettive e sinceramente false”. Segue il consiglio: “Nuoce a se stessa con queste reazioni anche nel momento del trionfo perché una componente essenziale del successo della politica di un paese nell’Unione europea consiste nel portare quel Paese unito nell’Europa e nelle sue articolazioni”.
Da due giorni la premier sostiene che mai l’Italia aveva avuto un ruolo così importante a Bruxelles da quando ora c’è Raffaele Fitto vicepresidente della commissione Ue e poi attacca il Pd accusandolo di anti italianità.
Ma se alla fine dice che la ricetta Milei è insostenibile e inapplicabile in Italia e che non si farà crescere le maxi basette afuera, sobbalza sulla sedia quando Monti le imputa “di erigere un signore privato come Musk a una forma di protettorato morale del nostro Paese: c’è una perdita di dignità dello stato”.
Monti coglie al balzo le parole dell’altro giorno, le ennesime, del presidente della Repubblica pronunciante durante il saluto alle alte cariche. Risposta dalla premier: “Mi consenta una battuta, non so che film abbiate visto: abbiamo visto per tanti anni leader italiani che pensavano che, quando avevano un buon rapporto o anche un’amicizia con un leader straniero, dovevano eseguire pedissequamente quello che dicevano gli altri. Io questo non lo penso”. Meloni si vanta di essere amica di Musk, ma assicura di non prendere ordini da nessuno. Il tutto si svolge in clima da corrida. Con Ignazio La Russa che si sgola. Le opposizioni attaccano con gli ululati, Meloni rifà il verso, la maggioranza la soccorre. Non sembra un’Aula di un Parlamento ma il Processo di Biscardi. Un comizio continuo. Una festa di Atreju, come un’Italia a 5 Stelle o una festa dell’Unità. Anche se è la padrona di casa a dare le carte. A scandire i tempi, a provocare reazioni. E’ la politica Instagram. Interventi di massimo un minuto da gettare sui social per fomentare le rispettive curve. Eppure la premier, entrata non proprio sorridente a Palazzo Madama ieri mattina, al momento di prendere la parola aveva detto: “Scusatemi per la voce, sarò breve perché poi devo partire per Bruxelles”. Anche se alla fine metterà a dura prova le proprie corde vocali. Colpi di tosse, bicchieri d’acqua portati con frequenza dai commessi del Senato. Il suo, ripete anche qui Meloni dopo averlo urlato dal palco di Atreju domenica scorsa, è il governo che ha “buttato fuori la mafia” dalla gestione dei migranti legali e da Caivano. “Inutile che fate ooh, i camorristi dalle case occupate li abbiamo cacciati noi”, risponde alle reazioni di disappunto delle opposizioni. Un minuto di versi animaleschi con le minoranze che al termine del suo intervento parleranno a vario titolo di “arroganza” perché è “in difficoltà”, come spiega il capogruppo dem Francesco Boccia e di una premier che fa “la bulla della Garbatella”, aggiunge la vicepresidente del M5s Alessandra Maiorino che ha partecipato ad Atreju. E poi i siparietti con Renzi. Accuse, le basette di Milei e i capotti di Obama. Non si capisce più il merito della faccenda.
C’è Matteo Salvini in Aula, e questa sarebbe una notizia dopo il forfait leghista dell’altro giorno. Anche se il vicepremier dopo un po’ scompare. La notizia più divertente della giornata la tira fuori Vittorio Amato dell’Adnkronos: i parlamentari di Fratelli d’Italia hanno regalato per Natale un letto alla premier dopo una colletta di 50 euro a testa. Un modo per dirle di rilassarsi un po’?
(da ilfoglio.it)
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Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
IL MASSIMO DELLA PENA COMMINATA SOLO A QUELL’ESSERE IMMONDO DEL MARITO, MA DI FRONTE A CERTI CRIMINI LE PENE SONO RIDICOLE
Il presidente della corte penale di Vaucluse ha dichiarato Dominique Pelicot
colpevole di tutti i reati di cui è stato accusato, dagli stupri aggravati ai danni della moglie Gisèle, al tentativo di stupro e stupro aggravato ai danni della moglie di un co-imputato. Pelicot è colpevole anche di aver ripreso immagini a sfondo sessuale riguardanti la figlia Caroline e le sue ex nuore. È stato condannato al massimo della pena, 20 anni di carcere.
«Signor Pelicot, lei è ritenuto colpevole per stupro aggravato sulla persona di Gisèle Pelicot», ha dichiarato il presidente della corte criminale di Vaucluse, Roger Arata. Dominique Pelicot, 72 anni, si è alzato in piedi, ha ascoltato il giudice con attenzione, ma senza esprimere particolari emozioni.
Alla lettura delle sentenze, Gisele ha guardato gli imputati – incluso il marito – mentre si alzavano e ascoltavano, ma senza una vera reazione da parte sua o dei suoi figli: solo qualche sussurro tra di loro. Ma quando è stata annunciata la condanna a 20 anni, la donna ha appoggiato la testa al muro, mentre Dominique Pelicot scoppiava in lacrime curvo sulla sedia.
Il processo durato oltre tre mesi e che ha sconvolto la Francia e trasformato Gisele Pelicot in un’eroina femminista ha anche portato alla dichiarazione di colpevolezza di altri cinquanta uomini, la maggior parte dei quali ha negato le accuse. La corte ha dichiarato 47 di loro colpevoli di stupro, due colpevoli di tentato stupro e due colpevoli di abusi. Uno, latitante, è stato processato in contumacia e un altro, che non aveva violentato Gisele ma aveva ripetutamente abusato della moglie con l’aiuto di Dominique Pelicot, è stato condannato a 12 anni.
Vergogna alla giustizia”: ad Avignone, un gruppo di manifestanti femministe esprimono la loro ”rabbia”. Il verdetto al cosiddetto processo di Mazan, in cui sono stati condannati oltre cinquanta uomini per gli stupri su Gisèle Pelicot, è a loro avviso al di sotto delle attese. Le femministe esprimono quindi delusione davanti al Palazzo di Giustizia di Avignone scandendo slogan del tipo ”Vergogna alla giustizia”.
I figli di Gisele Pelicot hanno espresso il loro disappunto per le condanne inflitte ai 51 imputati nel processo per stupro in Francia, tra i quali il padre Dominique Pelicot, condannato al massimo della pena. “I ragazzi sono delusi dalle condanne basse” – tra i 3 ei 20 anni di carcere – inferiori a quelle richieste dalla procura, ha commentato un familiare, che ha chiesto l’anonimato. Nessuno di loro ha voluto parlare con il padre condannato a 20 anni di prigione per aver sottoposto per un decennio la moglie alle violenze di decine di sconosciuti dopo averla sedata.
(da agenzie)
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Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
I FRATELLI D’ITALIA POTREBBERO APPROFITTARE DEL VALZER DI INCARICHI DI METÀ LEGISLATURA E SOSTITUIRLO… MOLLICONE, CHE SOGNAVA DI DIVENTARE MINISTRO AL POSTO DI GIULI, È UN CAMPIONE DI GAFFE E USCITE FUORI LUOGO: DA PEPPA PIG GENDER ALLA STRAGE DI BOLOGNA, FINO ALL’INFUOCATO BATTIBECCO DI QUALCHE SETTIMANA FA CON ANTONELLA GIULI
Un’amicizia lunga una vita. È quella tra il deputato di Fratelli d’Italia, presidente della commissione Cultura a Montecitorio, e Renata Sansone, un passato in Zetéma, la partecipata di Roma Capitale nel settore culturale, e oggi direttrice dell’associazione Civita mostre e musei, importante player nella vita culturale di Roma.
I due, ai tempi della giunta Alemanno, quando lo stesso Federico Mollicone ricopriva il ruolo di presidente della commissione Cultura in Campidoglio, lavoravano fianco a fianco, patrocinando e organizzando mostre, eventi, dibattiti.
E oggi, nonostante l’avanzamento di “carriera” per entrambi, le cose non sono cambiate. Tuttora dominano la scena culturale romana, presentando eventi e promuovendoli gomito a gomito. Negli ultimi tempi però s’è fatta strada una novità: al centro delle kermesse e delle manifestazioni che organizzano […] emerge la passione per la cultura dell’est europa, in particolare per quella rumena.
Solo il 3 dicembre Federico Mollicone e Renata Sansone hanno infatti presentato alla Camera un catalogo sull’intellettuale Camilian Demetrescu. Insieme a loro, seduta al tavolo, c’era Gabriela Dancau, ambasciatrice di Romania in Italia. Per non parlare, inoltre, dei viaggi istituzionali presso l’università di Timisoara
Ma com’è nato in entrambi l’interesse per il mondo (culturale) rumeno? La risposta potrebbe essere semplice e portare il nome di Georgiana Ionescu, la professionista originaria della Romania nonché fondatrice del progetto ArtSharing, laureata in giornalismo e proprietaria (almeno fino al 2017) di una società ormai inattiva che a via del Babuino era specializzata nella vendita di scarpe.
Come raccontato da Domani Ionescu oggi lavora sia per la presidenza della commissione cultura a Montecitorio sia per Civita. In altre parole ricopre incarichi là dove sono vertici Mollicone e Sansone. Amici più di prima
A Roma, del resto, Mollicone ha piantato i semi della sua ascesa politica, nell’ambito che gli è più caro: la cultura. Nel 2023 si stava consacrando come il nuovo deus ex machina della Festa del cinema di Roma. Non gli è parso vero di farsi vedere in abito e papillon a favore di telecamera al fianco di attori e registi di fama internazionale.
Stava conquistando i galloni di uomo-chiave del grande evento grazie al feeling instaurato con l’allora presidente della fondazione Cinema per Roma, Gian Luca Farinelli, proveniente dall’area Pd, ma che aveva concesso ampi spazi al meloniano.
Proprio mentre la stessa fondazione stipulava una convenzione con Civita, l’associazione in cui è presente Ionescu, per un «allestimento».
Con la nuova governance, che vede Salvatore Nastasi come presidente, Mollicone ha perso quota anche se lui ha coltivato in segreto l’ambizione di diventare ministro della Cultura. Quando Gennaro Sangiuliano è caduto in disgrazia per la vicenda della consulenza, promessa e poi ritirata, a Maria Rosaria Boccia, il presidente della commissione Cultura ha accarezzato il sogno di traslocare al Collegio romano.
L’arrivo di Alessandro Giuli lo ha fatto masticare amaro, ma nessuno all’ombra della fiamma può ribellarsi agli ordini delle sorelle Meloni.
Dai sogni di gloria si è passati ai timori di perdere l’unica poltrona a disposizione. Dentro Fratelli d’Italia, infatti, l’umore è nero e cresce la preoccupazione.
Nessuno esce allo scoperto su Mollicone e il possibile conflitto di interessi della sua onnipresente collaboratrice, Georgiana Ionescu, che è appunto anche consulente dell’associazione Civita mostre e musei e allo stesso tempo, si vocifera, figura decisiva nell’organizzazione dell’ attività del presidente Mollicone.
Di sicuro eventi e mostre che hanno beneficiato del patrocinio e della presenza di Mollicone, che non ha fatto mistero della sua attenzione verso la cultura rumena. Anzi.
Nel partito di Giorgia Meloni c’è silenzio nelle chat. Si preferisce non creare ulteriori polemiche ma nelle conversazioni private c’è chi non nasconde l’irritazione. Tanto che adesso si valuta la possibile sostituzione di Mollicone dalla presidenza della commissione a Montecitorio.
L’operazione potrebbe essere quasi indolore. A inizio del 2025, infatti, bisogna rinnovare gli incarichi, come avviene per prassi a ogni metà legislatura. La perdita della poltrona farebbe saltare la dotazione economica con cui Mollicone ha contrattualizzato vari collaboratori, dal suo capo della comunicazione, Carlo Prosperi, a Georgiana Ionescu, appunto. Un plafond prezioso.
Del resto non è la prima volta che il deputato attira l’attenzione mediatica. Creando grattacapi al partito. Uno dei casi più clamorosi ha avuto come teatro il Transatlantico, dove Mollicone è sempre molto attivo insieme al suo braccio destro Prosperi.
Il presidente della commissione cultura, qualche mese fa, è stato protagonista di un litigio con Antonella Giuli, sorella del ministro della Cultura Alessandro Giuli e attuale componente dell’ufficio stampa della Camera. Per i presenti è stata una scena incredibile, da rissa sfiorata. Poi tutto è rientrato e dai vertici di Fratelli d’Italia hanno chiesto di mettere una pietra sopra la vicenda.
È storia nota l’impegno sul revisionismo di alcuni dei momenti più bui della storia italiana. Ad agosto è andato dritto al punto dicendo quello che pensa in pubblico: «Le sentenze su Bologna sono un teorema politico per colpire la destra», ha affermato Mollicone in un’intervista alla Stampa.
Anche se nella memoria è scolpita la battaglia contro Peppa Pig “gender”, perché il porcellino del cartone animato aveva due madri.
(da Domani)
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Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
UN ESEMPIO? UNA GIORNATA MEDIA DI DEGENZA AL “PAPARDO” DI MESSINA COSTA 1.031 EURO CONTRO I 413 DELL’AZIENDA OSPEDALIERA “SANTA CROCE E CARLE” DI CUNEO. IL PIL PRO CAPITE IN SICILIA È DI 21MILA EURO, PIL PRO CAPITE IN PIEMONTE 35.700…IL MOTIVO? SAREBBE LEGATO AL NUMERO DI INTERVENTI REALIZZATI OGNI GIORNO
È mai possibile che una giornata di degenza ospedaliera costi immensamente di più
in un’area povera rispetto a un’altra che sta in una zona immensamente più ricca? Il dossier dell’Agenas, l’Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali diretta da Domenico Mantoan, già Presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco e per oltre dieci anni Direttore Generale dell’Area Sanità della Regione Veneto, apre interrogativi fastidiosissimi davanti ai quali la buona politica (dalla cattiva come noto non c’è niente da aspettarsi) deve dare risposte.
Basti, su tutti, il caso dell’ospedale Papardo di Messina, dove una giornata media di ricovero costa 1.031,60 euro contro i 413,20 dell’Azienda Ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo. Pil pro capite in Sicilia, secondo l’ufficio studi della Cgia di Mestre 2024, 21.000 euro, Pil pro capite in Piemonte 35.700. Fatti i conti un piemontese potrebbe permettersi a proprie spese 86,44 giorni di degenza nella struttura di casa, un siciliano 20.
Peggio ancora va, stando ai dati Agenas, per i policlinici universitari. Dove per una degenza giornaliera si arriva a dover pagare 1.399,50 all’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli nel cuore di Napoli, quanto una suite in un hotel di lusso in alta stagione in una capitale europea. Contro i 400,30 euro al Policlinico San Matteo di Pavia: quasi quattro volte di meno. In regioni come la Campania e la Lombardia dove la prima ha un Pil pro capite di 22.200 euro, la seconda di 46.000.
Risultato: un campano con il reddito di un intero anno potrebbe permettersi a sue spese 15 giorni di degenza al Vanvitelli, un lombardo 115 al San Matteo. E torniamo a chiedere: com’è possibile?
All’Agenas un’idea se la sono fatta molto chiaramente: «È soprattutto una questione di gestione.
Ci sono strutture ospedaliere dove fanno come all’Humanitas di Milano da 8 a 12 interventi chirurgici al giorno, altre dove ne fanno 400 in un anno e cioè uno e mezzo, scarso, al giorno. È ovvio che poi i costi sono spaventosi». C’è chi dirà: sono casi estremi. Vero, ma gli squilibri pubblicati numero per numero sono vistosi ovunque, e non sempre è una questione di Nord e Sud. Sicuri che i dati siano buoni? Sono forniti dagli stessi ospedali, dalle stesse cliniche. Infatti nessuno li ha contestati.
(da Corriere della Sera)
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Dicembre 19th, 2024 Riccardo Fucile
RICORSO AL TAR CONTRO IL NUOVO FINANZIAMENTO PER IL SEDICENTE “RIMPATRIO VOLONTARIO ASSISTITO” DALLA LIBIA VERSO I PAESI DI ORIGINE
Sette organizzazioni hanno presentato ricorso al Tar contro il finanziamento concesso dal Ministero degli Esteri all’Organizzazione Internazionale per le Migrazione (Oim), destinato ai programmi di “rimpatrio volontario assistito” per centinaia di persone migranti che verrebbero così spostate dalla Libia al loro paese di origine.
L’udienza cautelare al Tar del Lazio è fissata per l’8 gennaio 2025. In quella data il tribunale esaminerà il ricorso presentato da Asgi, ActionAid, A Buon Diritto, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Le Carbet e Spazi Circolari.
Cosa sono i rimpatri volontari
Vengono definiti rimpatri volontari, ma in realtà “Si tratta di espulsioni mascherate che violano il principio di non refoulement, gli obblighi di protezione dei minori e delle persone sopravvissute a tratta, tortura e violenza di genere”, scrivono le sette organizzazioni, che il 18 novembre hanno presentato ricorso al Tar del Lazio.
Nel giugno 2024, il ministero degli Affari Esteri ha approvato un finanziamento di sette milioni di euro, provenienti dal Fondo Migrazioni, per sostenere il progetto “Supporto multi settoriale per migranti vulnerabili in Libia” dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Di questa cifra, stanziata dal ministero degli Esteri per una presunta giustificazione umanitaria, quasi un milione verrà destinato a quelli che vengono definiti rimpatri volontari umanitari: 820 migranti vulnerabili verranno così rimpatriati dalla Libia verso i Paesi di origine.
Le sette realtà organizzative, impegnate nella tutela dei diritti dei migranti e nel contrasto alla violenza di genere, sostengono che dietro a questa iniziativa, mascherata da motivazioni umanitarie, si celino in realtà espulsioni in forte violazione con i principi fondamentali, come il divieto di respingimento (non refoulement), gli obblighi di protezione per i minori e per chi ha subito trattamenti di tortura, tratta o violenza di genere: “Da anni una parte dei fondi italiani destinati alla cooperazione allo sviluppo viene impiegata per finanziare politiche di esternalizzazione delle frontiere finalizzate a impedire l’arrivo in Italia di persone migranti. Risorse che dovrebbero sostenere lo sviluppo dei Paesi e tutelare le popolazioni più vulnerabili sono invece utilizzate secondo una logica di deterrenza e contenimento dei flussi migratori”, si legge.
Le violazioni dei diritti umani in Libia
Le violazioni dei diritti umani in Libia sono un tema di lunga data, che ha suscitato ampie denunce in merito a detenzioni arbitrarie, torture, maltrattamenti, violenze sessuali, sparizioni forzate ed estorsioni. Su questi crimini si sono scritti innumerevoli articoli e rapporti.
In Libia, non esiste un sistema di protezione adeguato. Manca una legge sull’asilo e la protezione dell’’UNHCR è limitata a poche nazionalità e non garantisce nessuna effettiva tutela. Per le persone bloccate in Libia l’unica opzione è aderire al programma di Ritorno Umanitario Volontario (Vhr) o lasciare il territorio illegalmente via mare.
Diversi organi delle Nazioni Unite, tra cui l’Alto Commissario per i Diritti umani (Ohchr) e il Relatore speciale per i diritti delle persone migranti, sottolineano che il rimpatrio può essere considerato volontario “solo ove sussistano determinate condizioni”: una decisione pienamente informata, assunta in una situazione priva di coercizione e supportata dalla disponibilità di alternative valide sufficienti, come permessi temporanei per lavoro, studio o motivi umanitari, o opportunità per residenza permanente o cittadinanza.
Il rapporto “Nowhere out Back” dell’Alto Commissario per i Diritti umani
Nel 2022, proprio l’Ohchr aveva apertamente messo in dubbio, con il rapporto “Nowhere but Back” , la volontarietà dei rimpatri dalla Libia e ha invitato gli Stati Europei a non finanziare questi programmi in assenza di idonee garanzie sul rispetto del diritto di non respingimento: “Molti migranti in Libia, in particolare quelli nei centri di detenzione, non sono in grado di prendere una decisione veramente volontaria di rimpatrio in conformità con il diritto e gli standard internazionali sui diritti umani, incluso il principio del consenso libero, preventivo e informato”.
Il rapporto dell’Ohchr evidenziava infatti che molti migranti, specialmente quelli detenuti in Libia, non sono in grado di prendere una decisione davvero volontaria riguardo al rimpatrio. Coloro i quali accettano il “rimpatrio assistito” lo fanno quindi solo per fuggire dalle condizioni disumane delle carceri libiche, dove subiscono torture, maltrattamenti, violenze sessuali, estorsioni e altre gravi violazioni dei diritti umani. Inoltre, viene loro negato l’accesso a forme di protezione regolari, come il diritto d’asilo.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani identifica tre fattori principali che compromettono la volontarietà di questi rimpatri: la mancanza di opzioni di migrazione sicure e legali, l’assenza di un consenso libero e informato e il ritorno in situazioni di vita insostenibili nei Paesi di origine.
Anche se i rimpatri vengono presentati quindi come volontari, di fatto si trasformano in “espulsioni mascherate” di persone che avrebbero diritto a protezione internazionale. Per le donne, le persone non binarie e quelle perseguitate per motivi di genere, il rimpatrio spesso significa tornare a condizioni di violenza e discriminazione, dalle quali avevano cercato di fuggire. Le politiche europee di esternalizzazione delle frontiere impediscono loro di lasciare la Libia e trovare una protezione adeguata. In alcuni casi, molte persone hanno cercato di attraversare il Mediterraneo prima di accettare il rimpatrio, ma si trovano comunque a dover affrontare le stesse violenze nel loro Paese di origine.
Numerosi rapporti delle Nazioni Unite documentano poi le violazioni dei diritti umani in Libia. Nel luglio 2024, Volker Turk, l’ Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ha denunciato crimini come traffico di esseri umani, tortura, lavoro forzato, sparizioni forzate e violenze sessuali, perpetrati contro migranti e rifugiati.
Molti di questi crimini sono attribuiti alle autorità libiche e a gruppi armati, in particolare nella gestione dei centri di detenzione. La Missione di inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha confermato che i migranti sono vittime di crimini contro l’umanità, tra cui torture e schiavitù sessuale. Un’inchiesta che ha inoltre riscontrato una collusione tra le autorità libiche e i trafficanti. A queste violenze si aggiungono poi anche le gravi condizioni di detenzione, con testimonianze di donne e uomini violentati in carcere.
Secondo il rapporto, molte vittime di tratta sono costrette a subire violenze sessuali in cambio di cibo o altri beni necessari. Alcuni migranti, soprattutto donne e ragazze, vengono venduti per lo sfruttamento sessuale nei bordelli o nei campi di lavoro.
Tutto ciò è stato documentate anche da diverse organizzazioni internazionali, tra cui l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), che fa parte delle Nazioni Unite e che ha rivelato anche la scoperta di fosse comuni contenenti i corpi di migranti morti durante operazioni di contrabbando.
Il rapporto Ohchr conclude che i rimpatri dalla Libia sono spesso dannosi e non rispettano i diritti umani, poiché i migranti vengono rimandati nelle stesse situazioni di violenza e difficoltà che avevano cercato di lasciare. Il ritorno, anche se accompagnato da programmi di reintegrazione, non è sostenibile e non offre una protezione adeguata. I migranti affrontano così gravi difficoltà nel reintegrarsi nelle loro comunità di origine, e molti sono costretti a considerare una nuova migrazione, pur consapevoli dei pericoli che potrebbero incontrare.
Per questo motivo, l’Ohchr raccomanda di istituire meccanismi di monitoraggio per garantire che i finanziamenti per i rimpatri assistiti rispettino i diritti umani, assicurando che il consenso sia veramente libero, preventivo e informato.
(da Fanpage)
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