Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
“ALLA DE-FASCISTIZZAZIONE, SI PREFERÌ LA RIMOZIONE. E IL CAPO DEL TRIBUNALE DELLA RAZZA PASSÒ, NEL DOPOGUERRA, ALLA PRESIDENZA CORTE COSTITUZIONALE” … “LA RESISTENZA, OPERA DI UNA MINORANZA, COME ALIBI PER ASSOLVERSI DALLE RESPONSABILITÀ” – CHURCHILL: ”BIZZARRO POPOLO GLI ITALIANI. UN GIORNO 45 MILIONI DI FASCISTI. IL GIORNO DOPO 45 MILIONI DI ANTIFASCISTI. EPPURE 90 MILIONI DI ITALIANI NON RISULTANO DAI CENSIMENTI”
«Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia…». È il 10 giugno del 1940 e sotto il balcone di Palazzo Venezia, a Roma, la folla oceanica ascolta estasiata la voce dell’ex maestro elementare Benito Mussolini, assurto a capo del governo e duce con smanie di impero.
«Un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano», continua il duce con logica tutta sua, e indica l’alleato: «Quando si ha un amico si marcia con lui sino in fondo. Questo faremo con la Germania, con le sue meravigliose Forze armate».
L’arringa termina con la promessa («vinceremo») e la chiamata alle armi, cui la folla risponde con un compatto unisonante «sì!». Com’è andata a finire lo sappiamo tutti. O forse no, se – come dimostra lo storico Gianni Oliva, esperto del ‘900 e della Resistenza – «nessun manuale scolastico di storia scrive mai che l’Italia quella guerra l’ha persa.
Fin dal 1945, all’indomani della fine del conflitto mondiale, abbiamo subito cercato di metterci tra i vincitori, saltando tutti insieme sul carro dei buoni, gli antifascisti», come se il Ventennio fosse stato una parentesi subìta, da cui finalmente il 25 luglio 1943 con la caduta del duce ci aveva liberati.
Da qui il titolo, caustico ma realistico, dell’ultimo saggio di Oliva, “45 milioni di antifascisti”, sottotitolo “Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio” (ed. Mondadori), spinosissimo tema….
Nel suo saggio lei cita l’umorismo britannico di Winston Churchill: “In Italia fino al 25 luglio (1943) c’erano 45 milioni di fascisti, dal giorno dopo 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”.
È una fotografia reale. Dopo il 25 luglio cadono le teste della classe dirigente, Mussolini, Ciano, Pavolini e pochi altri, ma tutti i magistrati, i prefetti, i questori, gli intellettuali, i professori universitari, i giornalisti, i funzionari dell’apparato burocratico, i medici, i poteri finanziari restano dov’erano, transitano semplicemente dal prima al dopo senza pagare pegno
Improvvisamente tutto ciò che era successo prima del 25 luglio era colpa di pochi individui, ma il popolo italiano ne usciva indenne, semplicemente se ne tirava fuori. Dopo la Liberazione del 25 aprile 1945 la rimozione delle responsabilità è collettiva, le colpe sono tutte e solo di Mussolini, di dieci gerarchi eliminati a Dongo, del re poi esiliato.
Basti dire che la magistratura, rimasta anch’essa quella di prima, non poté obiettivamente fare processi ai fascisti: che sentenze potrebbero emettere giudici che a loro volta hanno rappresentato la giustizia nel regime? Meglio tacere, insabbiare e attendere che il tempo confonda le carte.
In un film del 1960, “La lunga notte del ‘43”, tratto da un racconto di Bassani, un imperdibile Gino Cervi impersona il voltafaccia del fascista che nel dopoguerra si spaccia per partigiano
Alla fine del 1943 i partigiani erano circa 18mila, mentre i volontari fascisti che partirono per Salò erano oltre 200mila, fatto comprensibile, era più ovvio per un giovane educato nella retorica del Ventennio scegliere la continuità del fascismo piuttosto che la frattura coraggiosa della Resistenza. Se poi guardiamo quanti hanno ricevuto la qualifica di partigiano finita la guerra, erano 235mila. Ma a fare domanda sono stati oltre 600mila…
È evidente che c’è stato un passaggio da una posizione all’altra, molti che erano stati fascisti sono poi entrati nelle formazioni partigiane, alcuni per sincera conversione, ma moltissimi altri per puro opportunismo.
Lo stesso Ferruccio Parri, capo partigiano e primo presidente del Consiglio nell’Italia repubblicana, dichiarò con amarezza che i 200mila effettivi partigiani dopo la Liberazione erano diventati mezzo milione… Se è comprensibile che l’intera classe dirigente del Paese non venisse epurata, è abbastanza indecente che un intero popolo si sia autoassolto in poche ore.
Come poté la classe dirigente transitare dal regime alla repubblica senza pagare il fio?
L’Italia del ’45 era un Paese da ricostruire e aveva bisogno delle sue istituzioni. Le faccio un esempio lampante: i professori universitari erano 1.848, nel 1931 Mussolini chiese loro di giurare fedeltà al regime e 13 ebbero il coraggio di opporsi: significa che 1.835 si accodarono immediatamente.
Se avessimo dovuto epurare gli aderenti al fascismo avremmo chiuso gli atenei. Idem per i magistrati, i funzionari eccetera. Marcello Guida, questore di Milano negli anni ‘70, era stato il direttore del carcere di Ventotene quando il giovane Pertini vi era recluso da Mussolini, motivo per cui dopo la strage di piazza Fontana nel 1969 il presidente della Camera Pertini si rifiutò di stringergli la mano.
Gaetano Azzariti
C’è un altro esempio impressionante: la figura di Gaetano Azzariti
Azzariti è un magistrato che nell’Italia liberale, anno 1919, viene assegnato all’ufficio legislativo del ministero di Grazia e Giustizia, ovvero al settore che scrive le leggi. Con l’avvento di Mussolini viene riconfermato al suo posto e per tutto il Ventennio scrive le leggi del regime, comprese quelle razziali.
Diventa addirittura presidente del Tribunale della Razza, davanti al quale gli ebrei per salvarsi devono cercare di dimostrare di non essere ebrei. Il 25 luglio 1943 cade Mussolini e ad Azzariti che succede?
Il giorno successivo il re lo fa nominare ministro di Grazia e Giustizia: dovrà smontare tutto ciò che nel ventennio precedente lui stesso ha costruito. Dopo la fine del conflitto, Azzariti torna a capo dell’ufficio legislativo quando il ministro di Grazia e Giustizia è Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista, che lo promuove a suo consigliere: l’ex capo del Tribunale della Razza!
A chi si mostra stupefatto, Togliatti spiega che non ha bisogno di politici ma di tecnici fedeli ed efficienti. Non è finita qui: nel 1957 diventa presidente della Corte costituzionale. Tutto questo senza che nessuno gli abbia mai chiesto di ritrattare le sue leggi razziali, né il monarchico Badoglio, né il comunista Togliatti, né il democristiano Gronchi.
Se imposta il navigatore, vede che alcune vie gli sono ancora dedicate. Credo che i residenti non sappiano chi è…
La questione della toponomastica e delle medaglie mal riposte la trovo comunque inutile. Ormai è chiaro che Tito ha commesso crimini efferati contro gli italiani e contro gli anticomunisti, ma è così importante togliergli l’Ordine al merito conferitogli dalla Repubblica Italiana in un passato lontano?
Così come abrogare la cittadinanza onoraria che molti Comuni diedero al duce un secolo fa? Abbattere i fasci o coprire di vernice le scritte come “Credere, obbedire, combattere” ha senso nei momenti rivoluzionari che pongono fine a una stagione storica, ma non 80 anni dopo: lasciamo quelle scritte spiegando perché furono fatte, usiamole per educare le giovani generazioni a capire gli errori da non commettere di nuovo.
La rimozione collettiva delle responsabilità e il salto degli italiani sul carro dei vincitori sono la causa della attuale difficoltà a superare il passato e le sue contrapposizioni anacronistiche?
Certamente sì. Il passato non smette di esistere perché lo hai rimosso, anzi riemergerà più forte. Anche i tedeschi dopo la guerra hanno riciclato funzionari e politici, ma prima hanno fatto un esame di coscienza collettivo di un’intera popolazione che era stata complice, qui da noi non è successo.
Abbiamo fatto finta che il fascismo lo avessimo subìto e che quindi il 25 aprile avessimo vinto la guerra. Eliminati a piazzale Loreto anche i corpi di chi era stato osannato, e mandato in esilio il re, l’Italia può riacquistare la sua integrità e dignità morale vestendo i panni della Resistenza, lei sì dignitosa e integra, ma opera di una minoranza.
C’è un modo infallibile per capire se si è vinto o perso: se dopo la guerra sulla carta geografica un Paese risulta più grande di prima ha vinto, se risulta più piccolo ha perso.
L’Italia dopo il 10 febbraio 1947 con il Trattato di pace di Parigi ha perso tutte le regioni adriatiche nord-orientali. Siamo stati sconfitti, ma ammetterlo avrebbe voluto dire non solo fare conti sterminati con milioni di persone andando ben oltre i dieci fucilati di Dongo, ma azzerare tutta la classe dirigente di ogni ambito e far emergere complicità infinite, oltre a dover punire gli alti gerarchi che si erano macchiati delle peggiori efferatezze in Grecia, Albania, Etiopia e soprattutto nei Balcani.
L’amnistia Togliatti nel 1946 permise di rimuovere la resa dei conti della primavera 1945, ma anche la questione delle foibe e dell’esodo, e le complicità e le contraddizioni del Partito comunista. Meglio, insomma, non parlare più della storia precedente l’8 settembre, la data che ci ha messo dalla parte giusta.
Così a pagare le colpe di tutti gli italiani furono i poveri istriani, fiumani e dalmati.
Esattamente. I 300mila profughi giuliano dalmati sono coloro che hanno pagato il prezzo della nostra sconfitta nazionale, eppure non erano persone di destra o di sinistra, o lo erano esattamente come i torinesi o i romani o i palermitani.
Racconto sempre il parallelo tra mia mamma e Norma Cossetto, la figura iconica del martirio delle foibe. Entrambe nacquero nel 1920, mia madre in Piemonte, Norma in Istria. Entrambe in una famiglia piccolo borghese così illuminata da far studiare le figlie. Tutte e due si diplomarono in un collegio di suore, poi affittarono una stanza per frequentare l’università, mia mamma a Torino, Norma a Padova.
Mia mamma nel ‘43 si laureò, poi insegnò tutta la vita e si fece la sua bella famiglia, Norma tre mesi prima della laurea fu rapita, violentata dai titini, gettata in una foiba. Qual era la sola differenza tra loro? Che una era nata nel nord-ovest, l’altra nel nord-est d’Italia.
Invece di studiare la storia recente, di cui i nostri giovani non sanno assolutamente nulla, continuiamo a parlare di “antifascismo”, ma è ridicolo ridurre oggi l’antifascismo a un titolo, a una dichiarazione astratta di principio.
Dall’antifascismo è nata la Costituzione democratica (la democrazia è sempre antifascista, mentre non sempre l’antifascismo è democratico): questo significa che essere antifascisti oggi significa battersi perché i principi costituzionali siano pienamente applicati. La politica deve essere la risposta ai problemi reali sulla base dei principi scritti e condivisi nel 1948, non la richiesta di dichiarazioni ad uso mediatico.
(da Dagoreport)
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Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
FDI NON HA ANCORA ESPULSO O PRESO PROVVEDIMENTI CONTRO CHI SI E’ RESO PROTAGONISTA DI FRASI RAZZISTI… EPPURE IL REGOLAMENTO DEI PROBIVIRI IMPONE UN IMITE DI TEMPO, AMPIAMENTE SUPERATO
Sono passati 180 giorni dalla pubblicazione delle due puntate di Gioventù Meloniana, l’inchiesta sotto copertura realizzata da Backstair, l’unità investigativa di Fanpage.it, che ha raccontato il vero volto dei giovani militanti di Fratelli d’Italia, fra antisemitismo, saluti romani, apologia del terrorismo nero e “Sieg Heil”. Eppure, nonostante l’indignazione dell’opinione pubblica, la dura condanna finanche della presidente della commissione europea Ursula von der Leyen e l’annuncio di provvedimenti da parte della presidente del consiglio Giorgia Meloni, niente sembra cambiato davvero.
Fin dal primo momento la posizione del partito, con le parole di Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione, era stata molto chiara: le modalità dell’inchiesta erano state ritenute “incredibilmente inaccettabili,” ma “chi sbaglia viene cacciato da Fratelli d’Italia. Noi siamo un partito serio, se diciamo che qualcuno lo cacciamo lo cacciamo”. E così, pochi giorni dopo, il 1 luglio, era stato annunciato l’iter disciplinare interno a Fratelli d’Italia per decidere sull’espulsione di due responsabili del movimento giovanile, Flaminia Pace, presidente del circolo Casa Italia, sede di Gioventù Nazionale Pinciano a Roma, e Ilaria Partipilo, responsabile del movimento giovanile nella provincia di Bari.
Flaminia Pace, oltre a ricoprire un ruolo nella giovanile, aveva anche un incarico istituzionale, quello da membro della Commissione Affari europei e Cooperazione del Consiglio Nazionale dei Giovani, organismo consultivo del ministero delle politiche giovanili che ha un ruolo importante nella concessione del servizio civile di cui la stessa aveva raccontato nel corso della nostra inchiesta. D
opo aver mostrato di Pace i continui richiami al “Duce”, le frasi sui “negri” e la nostalgia per i Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, la stessa aveva deciso di dimettersi da questo importante ruolo già il 21 giugno, restando però in attesa di una decisione del consiglio di disciplina riguardo alla sua posizione nel partito. Pace, che su Instagram si definisce ancora membro di Gioventù nazionale, ha ritenuto da quel momento di mettersi in silenzio stampa sui social, dove prima era molto attiva, e nello stesso periodo è stato chiuso al pubblico l’account Instagram di Casa Italia, la pagina del circolo da lei guidato.
Anche Ilaria Partipilo ha scelto di oscurarsi dai social. E il partito ha fatto lo stesso con la sua posizione dentro Gioventù nazionale. Infatti, sul sito ufficiale del movimento, tra il 26 giugno e il 17 luglio nella pagina “Organigramma”, lì dove una volta erano indicati i nomi di tutti i responsabili nazionali, regionali e provinciali, l’elenco è stato modificato in modo da far scomparire qualunque riferimento ai dirigenti locali. Il motivo potrebbe essere che, in attesa dell’esito del procedimento disciplinare, non avendo ancora rimosso Partipilo dal suo incarico, sarebbe stato forse inopportuno dimostrare che la giovane politica pugliese, che nelle chat di partito si riferiva ai suoi come “camerati”, e parlava di “negri” ed “ebrei infami”, fosse ancora al suo posto.
Sugli altri esponenti di Gn comparsi nell’inchiesta, come Andrea Piepoli, dirigente nazionale e organizzatore e animatore del campo comunitario in cui i militanti fanno sfoggio di canti fascisti e braccia tese, oppure Elisa Segnini Bocchia, l’ex caposegreteria della deputata Ylenja Lucaselli che si definiva “fascista e razzista” invece, il partito aveva ritenuto che non ci fossero neppure gli estremi per prendere in analisi le loro posizioni.
Fabio Roscani, presidente di Gioventù nazionale e deputato di Fdi, lo scorso 4 dicembre, in occasione dell’inaugurazione di Atreju, la festa del partito, aveva ribadito che a seguito dell’inchiesta, c’è stato “un momento di dialogo interno, a ribadire, come sempre abbiamo fatto, che nessun sentimento antisemita e razzista appartiene alla storia della destra italiana, men che meno di quella giovanile”.
Gli aveva fatto subito eco Giovanni Donzelli: “Noi abbiamo preso immediatamente provvedimenti per frasi dette in privato e sbagliate. La commissione di disciplina sta valutando nei tempi e nei miei modi che la democrazia interna ai partiti prevede a tutela di tutti”.
Ma questi tempi, a ben guardare i regolamenti interni di Fratelli d’Italia, si allargano sempre di più, al punto che verrebbe da chiedersi se di questi provvedimenti disciplinari si conoscerà mai un esito.
La commissione nazionale di Disciplina e Garanzia di Fratelli d’Italia e anche di Gioventù nazionale è composta da Roberto De Chiara, Giuseppe Corona, e Matteo Petrella, ed è chiamata a giudicare il rispetto del codice etico da parte degli iscritti al partito. Gli articoli 13, 14 e 15 del regolamento interno al consiglio di disciplina indicano un tempo massimo di durata di un procedimento, tra prima istanza e appello, di 140 giorni. Una durata ragionevole, di circa quattro mesi e mezzo, che dà la possibilità a chiunque venga chiamato a rispondere di potersi difendere e opporre le proprie ragioni. Ma questo limite temporale, essendo passati ormai sei mesi, sarebbe stato ampiamente violato. Al punto che se anche l’iter fosse iniziato formalmente in ritardo di un mese rispetto all’annuncio alla stampa, sarebbe dovuto essere già concluso e il risultato noto. E invece su Pace e Partipilo, il partito, per voce di Donzelli, è ancora in attesa di una decisione.
Il caso più recente di un procedimento di espulsione all’interno di Fdi riguarda il deputato Andrea De Bertoldi, cacciato dal partito su provvedimento del consiglio disciplinare dopo un iter di soli due mesi per un caso di conflitto di interessi. Dopo la pubblicazione di un articolo del Fatto Quotidiano nel marzo 2023, il parlamentare, contemporaneamente relatore in commissione Finanze sul disegno di legge per convertire il decreto sul Superbonus e co-fondatore di una società di consulenza fiscale che offriva servizi legati ai crediti d’imposta, è stato sottoposto a un’azione disciplinare promossa proprio da Donzelli e conclusasi nel mese di agosto con la sua fuoriuscita forzata. De Bertoldi, però, parla di “dissenso politico“ perché era stato tra i pochi, nei giorni successivi all’inchiesta di Fanpage.it, a parlare ad Avvenire della necessità di “prese di posizione nette, senza ambiguità verso ridicoli e patetici emuli di un passato regime, da cui FdI deve continuare a dichiararsi lontana”, arrivando a chiedere l’eliminazione dal simbolo del partito dell’identitaria fiamma tricolore.
Intanto Casa Italia, la sede del circolo di Gioventù Nazionale Pinciano, in cui i militanti hanno assistito a concerti di rock identitario con il braccio alzato al grido di “Duce”, e pianificato l’affissione di adesivi neofascisti e murales nostalgici, da due mesi è tornata ad essere una sede attiva di Fratelli d’Italia. Il 23 ottobre uno dei delegati del partito ne ha dato l’annuncio sui social, invitando nuovi militanti ad iscriversi. D’altronde anche la premier Giorgia Meloni, dal palco di Atreju, continua a dire a gran voce: “Grazie ai ragazzi di Gioventù Nazionale: voglio dirvi ancora una volta che sono fiera di voi, e voglio dirvi che nessuna gogna costruita sull’errore del singolo spiando la gente dal buco della serratura, nessuna gogna costruita contro di voi per colpire me, vi toglie chi siete. E siete la parte migliore della vostra generazione, siate fieri di voi”.
(da Fanpage)
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Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
MORTA PER IPOTERMIA IN UNA TENDOPOLI DOVE LE TEMPERATURE SCENDONO NOVE GRADI SOTTO LO ZERO
C’è una fiaba dell’orrore, che arriva dalla striscia di Gaza ed è raccontata dalla Associated Press. L’agenzia racconta della morte di Sila al-Faseeh, neonata di tre settimane, morta di freddo la notte di Natale, in un campo profughi del centro della Striscia. Prima di lei, nelle ultime 48 ore, la stessa sorte era toccata ad altri due neonati palestinesi, di età compresa tra i quattro e i 21 giorni di vita. Sila è morta ad al-Mawasi, villaggio sulla costa vicino alla città di Khan Younis, dove le temperature sono scese sotto i 9 gradi.
«Era come legno»
«Faceva molto freddo durante la notte e noi adulti non riuscivamo nemmeno a resistere. Non riuscivamo a scaldarci», ha raccontato Mahmoud al-Faseeh, padre della neonata, ad Ap. Sila si è svegliata piangendo tre volte durante la notte e al mattino l’hanno trovata priva di vita, con il corpo rigido. «Era come legno», ha detto l’uomo. La piccola è stata portata d’urgenza a un ospedale da campo, dove i medici hanno tentato di rianimarla, invano. I suoi polmoni erano già deteriorati. Le immagini di Sila scattate dall’AP mostrano la piccola con le labbra viola e la pelle pallida e a chiazze. Ahmed al-Farra, direttore del reparto pediatrico dell’Ospedale Nasser di Khan Younis, ha confermato il decesso della piccola per ipotermia. Ha detto che altri due neonati, uno di 3 giorni e l’altro di un mese, sono stati portati nel centro nelle ultime 48 ore: anche loro deceduti per ipotermia.
(da agenzie)
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Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
LA RIVELAZIONE IN ESCLUSIVA A EURONEWS
Il tragico disastro aereo che ha coinvolto un volo dell’Azerbaijan Airlines, precipitato in Kazakistan, «è stato abbattuto da un missile di sistema di difesa aerea russo». È quanto riferisce Reuters citando quatto fonti in Azerbaigian a conoscenza delle indagini. Lo confermano anche fonti governative a Euronews. Una teoria che trova supporto nei segni evidenti di fori di vario diametro sul retro della fusoliera, un’area che, pur danneggiata, è rimasta intatta rispetto al resto del velivolo. L’Embraer 190, partito da Baku e diretto a Grozny, in Cecenia, ha avuto un destino drammatico: 38 delle 67 persone a bordo sono morte, mentre 29 sono miracolosamente sopravvissute, tra cui tre bambini.
Nelle scorse ore, però, il governo kazako ha invitato alla prudenza, dichiarando premature le speculazioni. Stessa linea anche da Dimitri Peskov, portavoce del Cremlino, che ha respinto l’idea di avanzare ipotesi prima che le indagini siano concluse, sottolineando che sarebbe errato trarre conclusioni senza un esame accurato dei fatti. Nel frattempo, la speculazione sul possibile coinvolgimento della difesa aerea russa aveva già alimentato il dibattito tra i commentatori militari. La possibilità che il volo sia stato colpito dalla contraerea russa, mentre sorvolava la Cecenia, si è fatta strada soprattutto a causa della localizzazione dell’incidente e dei dettagli emersi dalle immagini della fusoliera danneggiata. Alcuni esperti ritengono che le evidenti tracce lasciate dai missili siano indicazioni chiare di un attacco.
(da agenzie)
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Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
IL CAPTAGON È UN’ANFETAMINA MOLTO DIFFUSA IN MEDIO ORIENTE, È ANCHE DEFINITA “DROGA DEI KAMIKAZE” PERCHE’ OLTRE AL SENSO DI INVINCIBILITÀ DA’ ALTRI EFFETTI “UTILI” AI TERRORISTI: RILASCIANDO NORADRENALINA E DOPAMINA, AUMENTA LA VIGILANZA E LA RESISTENZA ALLA FATICA
Le nuove autorità siriane hanno bruciato una grande scorta di droga hanno detto due funzionari della sicurezza all’AFP, tra cui un milione di pillole di captagon, la cui produzione su scala industriale è prosperata sotto il presidente deposto Bashar al-Assad.
Il captagon è uno stimolante simile all’anfetamina, che è vietato e che è diventato la più grande esportazione della Siria durante la guerra civile durata più di 13 anni, trasformandolo di fatto in uno stato narcotrafficante sotto Assad.
“Abbiamo trovato una grande quantità di captagon, circa un milione di pillole”, ha detto un membro delle forze di sicurezza che indossava un passamontagna, che ha chiesto di essere identificato solo con il suo nome di battesimo, Osama, e la cui uniforme color cachi portava una toppa di “sicurezza pubblica”.
Un giornalista dell’AFP ha visto le forze versare carburante e incendiare una scorta di cannabis, l’antidolorifico tramadolo e circa 50 buste di pillole rosa e gialle di captagon in un complesso di sicurezza precedentemente appartenuto alle forze di Assad nel distretto di Kafr Sousa della capitale.
Il captagon ha inondato il mercato nero in tutta la regione negli ultimi anni, con l’Arabia Saudita ricca di petrolio come destinazione principale. “Le forze di sicurezza del nuovo governo hanno scoperto un deposito di droga mentre ispezionavano il quartiere di sicurezza”, ha detto un altro membro delle forze di sicurezza, che si è identificato come Hamza. Le autorità hanno distrutto le scorte di alcol, cannabis, captagon e hashish per “proteggere la società siriana” e “tagliare le rotte di contrabbando utilizzate dalle aziende della famiglia Assad”, ha aggiunto.
Le nuove autorità siriane hanno bruciato un milione di pillole di captagon, la cui produzione su scala industriale è prosperata sotto il presidente deposto Bashar al-Assad. Di cosa si tratta?
Il Captagon è un’anfetamina molto diffusa in Medio Oriente, è anche definita ‘droga dei kamikaze’. Per fare un esempio, è quella che avrebbero usato gli attentatori di Parigi del 2015 e che, secondo i media israeliani, avrebbero preso i terroristi di Hamas prima degli attacchi del 7 ottobre.
“Le anfetamine mettono la persona in una situazione psicologica simile a quella dei pazienti maniacali, con un senso di onnipotenza – spiega Fabrizio Schifano, professore di farmacologia clinica e primario psichiatra dell’universita’ dell’Hertfordshire -. Questo ha senso perché per una persona è molto difficile riuscire a compiere un gesto del genere in situazione normale. Da sempre i soldati utilizzano delle sostanze, si narra ad esempio che i kamikaze giapponesi nella seconda guerra mondiale prendessero anfetamine, che si dice circolassero anche nelle trincee del primo conflitto mondiale”.
Il Captagon non è molto diffuso in occidente, mentre è una sostanza che si trova relativamente in abbondanza in Medio Oriente. A confermare il dato anche l’Atlante dell’uso di sostanze nel Mediterraneo Orientale pubblicato dall’Oms, che vede ad esempio per l’Arabia Saudita una prevalenza d’uso delle anfetamine dello 0,4%, superiore a quella delle droghe leggere ferme allo 0,3%. “Mentre qui da noi abbiamo i cannabinoidi e le droghe sintetiche come sostanze prevalenti – afferma Schifano – in Medio Oriente sono ‘rimasti’ alle anfetamine. Il Captagon in particolare non si è visto di recente in Europa”.
La sostanza, che spesso viene mescolata alla caffeina, era nel sangue degli attentatori di Parigi del 2015 e di Seifeddine Rezgui, uno degli autori dell’attentato sulla spiaggia in Tunisia del 26 giugno 2015 dove morirono 39 persone. Secondo alcuni report i curdi ne hanno trovato gradi quantità nelle postazioni dell’Isis.
“Oltre al senso di invincibilità ci sono altri effetti ‘utili’ ai terroristi – sottolinea l’esperto -. Le anfetamine o simili lavorano rilasciando noradrenalina e dopamina, aumentano la vigilanza e la resistenza alla fatica. Inoltre l’aumento della dopamina fa diventare paranoico, ma se sei braccato dalla polizia essere paranoico non e’ un male, si diventa anche molto sospettosi. se a questo si aggiunge la caffeina aumenta il livello di allerta e in più ‘ sale anche l’ansia, che quando non è eccessiva è anche questa una reazione che puo’ aiutare in determinati contesti. In piu’ si ha un aumento della combattività e dell’aggressività”.
(da agenzie)
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Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
DAL DECRETO CAPITALI AD AUTOSTRADE, DALLA RETE UNICA ALLE BANCHE, E’ IN ATTO UN BRACCIO DI FERRO CON NOTEVOLI TENSIONI TRA I “POTERI FORTI” DELLA FINANZA MONDIALE E QUEL GRUPPO DI SCAPPATI DI CASA CHE FA IL BELLO E IL CATTIVO TEMPO A PALAZZO CHIGI
Avvisate il governo Meloni: i grandi fondi internazionali sono sulla soglia per uscire dai loro investimenti miliardari in Italia. Blackrock, Kkr, Macquarie, Blackrock, che all’inizio avevano aperto il portafogli investendo in aziende di Stato, banche, assicurazioni eccetera, ritenendo il governo destra-centro stabile e affidabile, oggi sono dell’avviso di aver buscato una solenne fregatura.
La prima dose di veleno partita da Palazzo Chigi che ha fatto incazzare i cosiddetti “poteri forti” internazionali – da Blackstone a BlackRock son ben presenti nel capitale delle maggiori banche italiane – è stata la tassa sugli extra profitti bancari, subito rientrata dopo due fuorionda al cetriolo sulle smanie di Giambruno di “Striscia la notizia”.
Quando i grandi fondi hanno sbarrato la strada di Caltagirone e Milleri-Del Vecchio per la conquista di Generali Assicurazione, assicurando all’Ad Donnet la maggioranza nel Cda del Leone di Trieste, da Roma è sbucato il famigerato Decreto Capitali, che ha ha innescato almeno cinque articoli apertamente ostili dal “Financial Times”, bibbia e house-organ del mercato finanziario internazionale.
Non ha reso più gradevole il clima il recentissimo annuncio di Matteo Salvini di alcuni impegni per l’anno nuovo: la presentazione di due provvedimenti, uno che ‘’garantisca il conto corrente a tutti’’ e un altro che ‘’limiti i margini multimiliardari delle compagnie’’ sulle transazioni delle carte di credito.
Ma al di là delle sparate salviniane, il rapporto dei colossi finanziari, specializzati nei settori di private equity, investimenti immobiliari, hedge funds e strategie di investimento con il governo italiano è già giunto a un livello di alta tensione.
Come si può desumere dall’articolo di “Repubblica” a seguire che squaderna in ogni particolare lo scontro in atto tra Palazzo Chigi e il più importante fondo americano, Blackstone, guidato dal fondatore Stephen A. Schwarzman (a Milano il managing director è Andrea Valeri), che ha investito in Italia 15 miliardi e Macquarie, la più grande banca d’investimenti australiana, guidata in Italia da Roberto Purcaro che ha investito oltre 5 miliardi di euro nel 49% di Open Fiber e in Aspi.
Eccoli duellare uniti contro le decisioni prese da Palazzo Chigi su Autostrade per l’Italia (Aspi): i due fondi vogliono non solo la testa dell’Ad Tommasi, in scadenza ad aprile 2025, ma soprattutto chiedono più dividendi. Altrimenti, tolgono il disturbo.
Ma una eventuale liquidazione ai fondi istituzionali delle quote Aspi dei due fondi infrastrutturali (Blackstone e Macquarie 24,5% a testa, mentre il Mef via Cdp ha il 51%), operazione che farebbe felice il neo-statalismo fazzo-meloniano, non è di facile soluzione.
Se Aspi piange, la Rete Unica non ride. Il fondo americano Kkr, che gestisce oggi circa 500 miliardi di patrimonio in 17 paesi, dopo aver sborsato un pacco di miliardi (18,8) acquisendo l’infrastruttura più nevralgica del paese, ora è imbufalito. E non solo per i tanti dindi necessari per acquisire anche quel casino alla fibra di Open Fiber, dove Kkr punta invece a farla fallire prendendola a costo zero.
Dagli Stati Uniti i capoccioni di Kkr sarebbero talmente incazzati che avrebbero di fatto depotenziato il presidente Sarmi e l’Ad Ferraris dal vertice della Rete trasferendo i poteri alla loro sede di Londra, a causa della relazione pericolosa della Ducetta con il Doge alla ketamina Elon Musk (il suo agente in Italia Andrea Stroppa è ben presente a Palazzo Chigi).
La “Tesla di minchia” mira a un bel contratto con il governo della sua amica Giorgia per far connettere sul territorio italico i suoi satelliti a bassa quota di Starlink fregando abbonamenti alle varie telecom italiche; un’operazione che, a cascata, ricadrebbe in negativo sui bilanci di Kkr, fornitore della Rete.
Secondo indiscrezioni di fonti autorevoli, Kkr smania talmente per uscire da Stivale & Manganello che starebbe trattando con il Mef-Cdp la riduzione a 3 anni della clausola che blocca la vendita delle loro quote per 5 anni. Nelle pieghe del contratto stipulato a suo tempo Tim-Kkr, nel malaugurato caso di andare in perdita, ci sarebbe anche la clausola che permetterebbe a Kkr di poter licenziare – sono 12 mila i dipendenti che si sono accollati per salvare il baraccone Tim.
Altro conflitto con i fondi arriva con l’operazione Unicredit su Bpm, che il governo vede come il fumo agli occhi, avendo puntato sul duplex Bpm-Mps. Salvini e Giorgetti, col fiasco sul tavolo, davanti al pericolo di “perdere” Bpm, hanno liquidato Unicredit come una “banca straniera”, minacciando persino il Golden Power.
Qualcuno ricordi a Lor Signori che il più potente alleato di Andrea Orcel si chiama Blackrock, il fondo americano di Larry Fink, guidato in Italia da Giovanni Sandri, è il primo azionista di Unicredit (7%) e il terzo di Commerzbank (7,3%), dove si gioca l’altra partita di Unicredit. Inoltre BlackRock detiene il 5% di Intesa Sanpaolo e controlla oltre il 4% di Mediobanca.
Andrea Orcel e Larry Fink si conoscono bene sin da quando il banchiere italiano lavorava, dal 1992 al 2012, nel dipartimento M&A di Merrill Lynch a Londra e ricopriva anche il ruolo di advisor della Banca Santander della famiglia Botin.
Quanto sopra sarà pure noioso da seguire però fa ben presente contro chi si sono messi a far la guerra quel gruppo di scappati di casa che fanno il bello e il cattivo tempo – temporaneamente si spera – a Palazzo Chigi.
(da La Repubblica)
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Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
TRA DOMANI E IL FINE SETTIMANA SI CHIUDERÀ L’ESAME LAMPO DELLA MANOVRA AL SENATO: I TEMPI SONO RISTRETTI E GLI OLTRE 800 EMENDAMENTI DELL’OPPOSIZIONE NON SARANNO DISCUSSI, PER EVITARE L’ESERCIZIO PROVVISORIO … LA DISCUSSIONE È ORMAI MONOCAMERALE E SI CHIUDE SEMPRE CON LA FIDUCIA. ALLORA A CHE SERVE IL PARLAMENTO?
La manovra di bilancio da 30 miliardi, la terza del governo Meloni, è arrivata in Senato per una seconda lettura, dopo l’approvazione della Camera. Ma sarà un passaggio puramente formale. Non ci sarà nessuna discussione e la votazione finale sarà su un testo blindato, pena l’esercizio provvisorio. Avviene così dal 2018, la discussione è ormai monocamerale e si chiude sempre con la fiducia.
La commissione Bilancio del Senato non riprenderà i lavori fino alle 11 di domani. Le sedute previste per il pomeriggio del 23 dicembre e quelle della Vigilia di Natale sono state sconvocate. Secondo fonti parlamentari, il numero complessivo degli emendamenti delle opposizioni è di 800, suddivisi in circa 270 del Pd, altrettanti di Italia Viva, una novantina di Avs e tra i 150 e i 200 del Movimento 5 stelle. Non saranno discussi.
La commissione non entrerà nel merito. Il testo dovrebbe approdare nell’aula di Palazzo Madama per le 14 di domani. È quindi probabile, spiegano sempre le fonti, che visti i tempi ristretti la commissione concluderà la seduta senza dare mandato al relatore e che verrà posta la fiducia, con il voto finale che dovrebbe arrivare intorno alle 14 di sabato 28 dicembre.
“La sensazione è che siamo qui per una manovra arrivata morta, arrivata inerme”, dice il capogruppo dem Francesco Boccia che continua a chiedere, come fa da sei mesi, “un ddl di modifica delle modalità della legge di contabilità”. “Anche quest’anno, uno dei due rami del Parlamento viene mortificato e privato delle proprie competenze”, aggiunge il capogruppo del M5s Stefano Patuanelli
Le due misure più importanti della manovra sono anche una conferma: il taglio del cuneo e dell’Irpef vengono resi strutturali e il primo trasformato in taglio fiscale da taglio contributivo. Queste due proroghe insieme valgono quasi il 60% della legge di bilancio: 17 miliardi su 30.
Il pacchetto fiscale prevede anche un taglio delle detrazioni Irpef, parametrate al numero di figli, per i redditi sopra 75 mila euro. La web tax varrà solo per le grandi aziende con ricavi sopra i 750 milioni. La tassa sulle criptovalute resta al 26%. Aumentano le tasse su giochi e scommesse.
Migliorano i requisiti e gli importi per accedere ai due sussidi per i poveri (Adi e Sfl). Rinnovata per un altro anno la social card, “Dedicata a te”. Ripristinato il bonus bebè da 1.000 euro. Si allargano da due a tre mesi i congedi parentali all’80% dello stipendio. Le pensioni minime si alzano solo di 1,8 euro. Si potranno cumulare pensione pubblica e privata per i post-1996. Il bonus ristrutturazioni e l’ecobonus restano al 50% per le prime case, scendono al 36% per le seconde. Il fondo sanitario viene incrementato di 1,3 miliardi. Aumenta il canone Rai da 70 a 90 euro. Taglio di quattro punti all’Ires per le aziende che investono e assumono. Stretta contro l’abuso della Naspi.
(da La Repubblica)
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Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
AUMENTANO LE MATRICOLE, IL 57% SONO DONNE
Mentre le scuole risentono del calo demografico, le università sembrano mantenere un buon passo, con un aumento delle immatricolazioni per l’anno accademico 2024/25. Secondo le prime rilevazioni del Ministero dell’Università e della Ricerca (Mur), i nuovi iscritti sono aumentati dello 0,9% rispetto al 2023/24 e del 4,1% rispetto a due anni fa. Le statistiche, pur provvisorie, delineano una tendenza positiva per l’istruzione superiore. Un dato significativo per il nostro Paese, dove la quota di laureati tra i 25 e i 64 anni è ancora troppo bassa: appena il 20,3%, contro una media europea del 34,3% e il 41% di Francia e Spagna. Eppure, come riportano i dati del Sole 24 Ore, un titolo di studio universitario in Italia garantisce un tasso di occupazione più alto dell’11% rispetto a chi possiede solo il diploma delle scuole superiori. Se i dati a breve termine sembrano essere incoraggianti, a spaventare resta sempre il crollo previsto in prospettiva. Le statistiche, infatti, parlano di un crollo del numero degli studenti, stimabile a circa 415mila iscrizioni in meno (-21,2%) entro il 2041, dovuto principalmente al calo demografico.
Immatricolazioni in crescita
A dicembre 2024, le matricole universitarie sono salite a 307.924, superando i 304.920 dell’anno precedente e i 295.660 di due anni fa. E sono le donne a trainare questa crescita, che rappresentano il 57,3% del totale con 176.277 iscrizioni, quasi 45mila in più rispetto agli uomini. Le immatricolazioni femminili segnano un aumento del 2,1% rispetto al 2023/24 e del 5,8% rispetto al 2022/23. Tra i maschi, invece, si registra un lieve calo (-0,6%) rispetto all’anno scorso, ma un miglioramento (+1,9%) sul dato di due anni fa.
Le preferenze disciplinari: Stem ancora al rallentatore
Le scelte degli studenti continuano a favorire i percorsi economici, giuridici e sociali, che raccolgono 103.684 matricole (+2,6% sul 2023/24). Seguono i settori sanitario e agro-veterinario, con 55.477 iscritti (+0,5% rispetto al 2023/24 e +20,8% rispetto al 2022/23, grazie all’aumento dei posti in Medicina), e quello artistico-letterario, che registra un lieve calo (-0,6%) ma rimane fortemente femminile, con oltre il 77% delle immatricolazioni. Diversa la situazione delle lauree Stem (materie scientifiche-tecnologiche-ingegneristiche): nonostante una crescita timida delle immatricolazioni (da 91.625 nel 2022/23 a 92.191 nel 2024/25), le donne continuano a rappresentare meno del 40% del totale. Una criticità che stride con i vantaggi occupazionali di questi titoli: il tasso di occupazione per i laureati Stem è dell’86%, secondo solo al comparto medico-sanitario (88%).
Gli atenei più grandi perdono iscritti
La fotografia del Mur consente anche di osservare l’andamento dei singoli atenei. La Sapienza di Roma resta l’università con più matricole, ma registra una leggera flessione: 17.158 iscritti, in calo dell’1,2% rispetto al 2023/24 e del 4,5% rispetto al 2022/23. L’Università di Bologna, seconda in classifica, vede un lieve calo rispetto all’anno scorso (da 13.855 a 13.820), ma un incremento del 2,2% rispetto a due anni fa. Ma c’è chi respira: Torino, al terzo posto, segna un trend positivo con 13.729 immatricolazioni, in aumento dell’8% sul 2023/24 e del 5% rispetto al 2022/23.
(da Open)
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Dicembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
UN TEST IMPORTANTE SARA’ IL CONCORSO DOCENTI DI DICEMBRE
All’asilo e alle elementari, gli insegnanti maschi mancano all’appello. E mentre l’Italia si prepara alla seconda tranche del concorso docenti per le scuole di ogni ordine e grado, i numeri parlano chiaro: gli uomini in queste aule sono pochissimi, tanto che, in caso di parità di punteggio tra candidati, saranno proprio quelli di genere maschile ad avere la precedenza nell’assunzione. Lo prevede, infatti, una norma introdotta a giugno 2023 e concepita per riequilibrare le disparità di genere nei settori dove gli squilibri storici sono ancora evidenti. Questa misura si inserisce in un contesto che paga il peso di vecchie visioni educative e sociali, secondo cui alcuni mestieri sarebbero «da uomini» e altri «da donne». Se la mancanza di donne nei vertici di molte professioni è un tema tristemente noto, in questo caso si rivela l’altra faccia della medaglia: in ambiti educativi fondamentali, come quello della scuola primaria, gli uomini sono praticamente assenti. Una scelta che pesa non solo sui numeri, ma sull’immaginario collettivo dell’educazione, che resta ancorato all’idea che la cura dei più piccoli sia una prerogativa quasi esclusivamente femminile.
Cosa dicono i dati
Il concorso lanciato a dicembre diventa così una leva fondamentale per affrontare una storica disparità di genere nel mondo dell’istruzione. I dati più recenti del ministero (2023) rivelano quanto sia ancora lontana la fine di questa tendenza. In Italia, solo il 2,78% degli insegnanti della scuola dell’infanzia e delle elementari sono uomini, una percentuale che varia di poco da una regione all’altra, ma che in alcune aree raggiunge cifre drammatiche. In Abruzzo, per esempio, le insegnanti della scuola dell’infanzia rappresentano il 99,51% del totale, con gli uomini che registrano un esiguo 0,49%. Non va molto meglio in Basilicata, dove il rapporto è del 98,97% contro l’1,03%, o in Calabria, con il 98,99% di donne e solo l’1,01% di uomini. Al Nord, le cifre non sono meno sbilanciate: in Lombardia, il 99% delle cattedre dell’infanzia è occupato da donne, mentre i maestri maschi non superano lo 0,53%. In Umbria si registra la totale assenza di maestri maschi nei posti di sostegno della scuola dell’infanzia, mentre nella scuola primaria la percentuale di donne arriva al 96,59%, lasciando solo il 3,41% agli uomini. Anche in Molise, la scuola dell’infanzia è dominata dalle insegnanti femmine, con un dato del 99,62%, contro lo scarsissimo 0,38% di uomini.
Questi numeri porteranno inevitabilmente a una maggiore priorità per gli uomini nei concorsi, ma va precisato che la norma introdotta nel 2023 non stravolge i meccanismi di selezione. La priorità al genere meno rappresentato scatta solo in caso di parità di punteggio, affiancandosi agli altri criteri già previsti, come la valutazione dei titoli e degli anni di servizio. Sebbene questa norma fosse stata concepita per favorire l’accesso delle donne a molti settori lavorativi, non è la prima volta che il mondo della scuola si confronta con una situazione simile. A ottobre 2023, infatti, una nota del ministero aveva suscitato polemiche annunciando che agli uomini sarebbe stata data priorità nei concorsi per dirigenti scolastici in tutte le regioni. La decisione aveva acceso il dibattito, con alcuni che parlavano di «quote blu», definizione che il ministero dell’Istruzione e del Merito ha poi rigettato, definendola «fuorviante».
(da Open)
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