Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
A SINISTRA C’E’ BEPPE SALA CHE VUOLE IL TERZO MANDATO, MA SI RAFFORZA L’IPOTESI DI CANDIDARE MARIO CALABRESI
Lo ha detto chiaramente alle gazzette Beppe Sala: sul terzo mandato è d’accordo con Zaia e De Luca: “Il limite non deve valere nemmeno per i sindaci”.
Una dichiarazione più che interessata, visto che il suo secondo mandato scade nel 2026. Le elezioni amministrative, con ogni probabilità, non si terranno alla scadenza naturale del mandato (ottobre 2026), ma nella primavera del 2027, probabilmente ad aprile.
Il motivo è legato a una risposta del Ministero dell’Interno ad alcuni sindaci, come ha spiegato lo stesso Sala qualche mese fa: “Chi è andato a elezioni nel secondo semestre dell’anno va alle votazioni nel primo semestre dell’anno successivo e più specificatamente tra il 15 aprile e il 15 giugno”.
Per il primo cittadino milanese, potersi ricandidare sarebbe un’occasione d’oro: avrebbe il tempo di recuperare il consenso perduto nella città per la questione sicurezza con l’organizzazione delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina, che si inaugureranno il 6 febbraio 2026.
Un successo favorito anche dalla inettitudine del centrodestra a Milano che nel 2021, candidò il pediatra ”pistolero” Luca Bernardo. Un nome tirato fuori in fretta e furia e mandato allo sbaraglio contro l’ex commissario Expo.
Stavolta, per evitare lo stesso errore, Ignazio La Russa, dominus di Fratelli d’Italia sotto la Madunina, ha chiesto di arrivare preparati al voto, scegliendo per tempo il nome da contrapporre al centrosinistra.
L’indiziato numero uno, come Dago-dixit, è il direttore del “Giornale”, Alessandro Sallusti. Un identikit che molto piace a Fratelli d’Italia e a Giorgia Meloni, per niente a Forza Italia, visto che Marina e Pier Silvio Berlusconi lo considerano un ”traditore”.
L’ex compagno di Daniela Santanchè, dopo aver per anni suonato la grancassa del Cav, si è convertito seduta stante al melonismo senza limitismo, scrivendo biografie e peana quotidiani in lode della Ducetta della Garbatella.
Se il nome di Beppe Sala non fosse spendibile per un terzo mandato, e molto probabilmente non lo sarà (non basta una nuova pista ciclabile a una città che vede minacciata la propria sicurezza sociale), scalda i microfoni Mario Calabresi.
L’ex direttore di “Repubblica”, pur avendo già smentito il suo interessamento a Palazzo Marino, per non bruciarsi, è in realtà più che interessato all’incarico.
Negli ultimi tempi il figlio del commissario Luigi Calabresi è stato molto presente sui media per la vicenda di Cecilia Sala: la giornalista-influencer, arrestata in Iran, si trovava nel Paese degli ayatollah per realizzare “Stories”, il suo podcast quotidiano per “Chora”, la piattaforma diretta da Calabresi.
(da Dagoreport)
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Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
RENZI: “CHE SQUALLORE IL SILENZIO DELLE DONNE DI DESTRA CHE INVECE DI INTERVENIRE TACCIONO”… IL PROBLEMA E’ CHE NON SONO DONNE DI DESTRA MA MANOVALANZA SOVRANISTA
Maria Elena Boschi denuncia in un video pubblicato su Instagram di aver ricevuto offese sessiste e insulti verso di lei arrivate dai social di Fratelli d’Italia. “Ecco, questo è quello che piace fare a Fratelli d’Italia: sottoporre una donna alla gogna dei più beceri commenti. E tutto questo perché ho detto una cosa molto semplice, peraltro citando Madeleine Allbright, che rivendico: ‘All’inferno c’è un posto speciale per le donne che non aiutano le donne’”.
Tra gli insulti ‘bocca rubata al porno’, ‘prostituta intellettuale’, ‘vai a lavorare che nemmeno l’uovo al tegamino sai fare’.
“Fratelli d’Italia – spiega Boschi – prende, tagliuzza un video, per suscitare proprio gli istinti più maschilisti. E giù che piovono commenti sessisti, volgari, offensivi, senza che nessuno li cancelli, senza che nessuno moderi questi commenti. Io spero che la presidente del Consiglio, che le donne di Fratelli d’Italia, prendano le distanze quantomeno rispetto a tutto quest’odio gratuito, rispetto a questa indecenza”.
L’esponente di Iv aggiunge: “Io comunque sono qui, continuo a fare il mio lavoro di opposizione, punto su punto, senza sconti al governo, perché di sicuro questi commenti non ci fanno paura”.
Solidarietà per Boschi da parte di Renzi: “Tutta la mia solidarietà a Maria Elena. Che squallore il silenzio delle donne di destra che oggi dovrebbero intervenire e invece tacciono”.
(da agenzie)
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Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
I TITOLARI DEI LOCALI DELLA CAPITALE TEMONO “UN’ALTRA CRISI COME QUELLA DEL COVID” … ALCUNI BAR HANNO PERSO IL 30% DEGLI INCASSI, NEI RISTORANTI VIENE APERTO UN TERZO DELLE BOTTIGLIE CHE SI STAPPAVANO PRIMA DEL PROVVEDIMENTO
“Non beve più nessuno. Alla politica e anche all’informazione dico: che dovemo fa’, n’altro Covid?”. Carlo Muzi è uno dei decani dei ristoratori romani. La sua pizzeria La Montecarlo è un angolo popolare di veracità (e “voracità”) nel centro storico di Roma, a pochi metri da piazza Navona. E lui, il fondatore e titolare, non si tira mai indietro quando c’è da fare polemica con la politica: le chiusure durante la pandemia, l’obbligo di pagare con il bancomat, la stretta del Comune di Roma sui “tavolini selvaggi”.
Oggi il suo spauracchio e quello dei commercianti del settore food – almeno di quelli romani – è il nuovo Codice della strada firmato Matteo Salvini: più controlli e multe più salate per i trasgressori.
“Le persone sono state terrorizzate”, racconta Muzi, con rigorosa parlata romanesca, dalla sua postazione alla cassa mentre i camerieri accompagnano le tradizionali sottilissime pizze margherita quasi solo con acqua minerale e Coca cola. “Hanno detto alle persone – continua – che se magnano un Mon Chéri je ritirano la patente. Ormai non vendo più neanche le birre piccole: non c’è la stessa spensieratezza di prima”.
Che non vi sia una comunicazione corretta attorno alla riforma del Codice della strada lo sostiene anche Roberta Pepi, titolare del ristorante Da Robertino nel Rione Monti e tra le voci principali dell’associazione di ristoratori “Roma Più Bella”. “L’unica stretta che c’è stata è quella delle sanzioni – spiega – Ma la percezione delle persone ora è diversa”. Pepi per ora non ha avuto grossi contraccolpi sugli incassi, perché il quadrante è stato più frequentato dai turisti e comunque “è presto per tirare le somme”.
Però il rischio per il settore, a suo dire, è alto: “La politica ha eletto l’enogastronomia a nemico della sicurezza quando il problema vero è l’utilizzo del telefonino”. Poi racconta un particolare di non poco conto: “Dal 14 dicembre (giorno dell’entrata in vigore del nuovo Codice della strada, ndr) sono stata subissata di visite di rappresentanti di vini dealcolizzati. Ma già questa definizione è impropria: quello non è un ‘vino’, non si può definire tale. È semmai una bevanda analcolica. Un altro prodotto. Il rischio è di distruggere un settore”.
Chi spezza una (piccola) lancia nei confronti della riforma è Simone Trabalza, uno dei nipoti di Elena Fabrizi, meglio nota come Sora Lella, appellativo che ancora oggi contraddistingue lo storico ristorante nell’Isola Tiberina. Trabalza ci riceve durante la pausa pomeridiana tra il turno del pranzo e quello dell’aperitivo: “Una contrazione c’è stata – ammette – C’è chi non beve anche se non è cambiato nulla. Si lavora molto di più con la mescita (dunque al bicchiere, ndr). Però va anche detto che ci sono troppi incidenti mortali, bisogna dare delle regole. Purtroppo per colpa di qualcuno paghiamo tutti”.
Ma dove pesa di più l’“effetto Salvini”? Probabilmente sui locali “da bere”. Dove si va principalmente per degustare bevande alcoliche, pur trovandosi di fronte menu ricchi di piatti. Su viale Trastevere visitiamo il Treefolk’s Pub, uno dei più importanti pub all’inglese della Capitale, dove la clientela è più “adulta” della media delle birrerie. Qui incontriamo Luca, il capo bar che ci confida come da un mese a questa parte gli affari siano in picchiata.
“Abbiamo perso circa il 30% di incasso settimanale – afferma – Nei primi tre giorni non si è visto quasi nessuno. Abbiamo notato che i clienti non li abbiamo persi, ma si concentrano tutti in alcuni giorni della settimana Le persone hanno paura anche delle birre di bassa gradazione”.
Secondo Luca le criticità ci sono anche per chi lavora. “Io vivo in periferia, alcuni miei colleghi anche fuori Roma. Per lavoro dobbiamo assaggiare spesso. Ma è chiaro che non possiamo permetterci di farci ritirare la patente”.
Anche al Tulait, ristorante ed enoteca, molto frequentato (a pranzo) da avvocati, giudici e magistrati per la sua vicinanza al tribunale di piazzale Clodio, gli effetti del nuovo Codice della strada si fanno sentire.
“L’ultimo venerdì sera – ci spiega il titolare Roberto – abbiamo aperto solo sei bottiglie di vino, un terzo del solito, visto che nel weekend ne apriamo anche 18-20 a sera. Bisogna capire se è un effetto temporaneo, se dipende anche dal post festività. Purtroppo c’è stata una percezione distorta delle nuove regole, i limiti sono sempre gli stessi”.
nche Vicino Enoteca nel quartiere San Giovanni ha riscontrato una contrazione. “La diminuzione rispetto al dicembre 2023 c’è stata – afferma il titolare – anche se non siamo ancora in grado di dire se dipende dalla nuova legge. Tra i clienti c’è preoccupazione, certo. Per fortuna i nostri sono più legati alla zona, molti vengono a piedi o comunque si organizzano per tragitti brevi”.
Al Fatto, ad esempio, la Polizia di Roma Capitale spiega che già nel corso del 2024 sono aumentati del 30% i controlli sul rispetto del Codice della strada rispetto al 2023. I caschi bianchi capitolini, per il momento, sono stati in grado di effettuare solo un primo monitoraggio sulle due settimane successive all’entrata in vigore del Codice della strada, ma non hanno osservato una netta differenza rispetto al 2023, se non un leggero decremento delle infrazioni sulla guida in stato di ebbrezza e sul superamento dei limiti di velocità
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
QUESTA E’ LA GIUSTIZIA CHE I SOVRANISTI AMICI DI PUTIN PORTERANNO IN ITALIA… REPRIMERE IL DISSENSO E COLPIRE PERSINO CHI DIFENDE LE VITTIME
Vadim Kobzev, Alexei Liptser e Igor Sergunin sono stati condannati a pene dai cinque anni e mezzo ai tre e mezzo di reclusione perché riconosciuti colpevoli di aver fatto parte di un’organizzazione “estremista”. Erano stati arrestati nell’ottobre 2023
Vadim Kobzev, Alexei Liptser e Igor Sergunin, tre ex avvocati dell’oppositore russo Alexei Navalny, morto lo scorso anno in una colonia penale artica, sono stati condannati oggi a pene dai cinque anni e mezzo ai tre anni e mezzo di reclusione perché riconosciuti colpevoli di aver fatto parte di un’organizzazione “estremista”. Lo riferisce l’ong Ovd-Info, specializzata nell’assistenza legale agli oppositori
Le accus
Kobzev è stato condannato a cinque anni e mezzo di reclusione, Liptser a cinque e Sergunin a tre e mezzo. I tre legali, arrestati nell’ottobre del 2023, erano accusati di avere fatto uscire dal carcere in cui era rinchiuso Navalny e avere fatto pubblicare i messaggi in cui l’oppositore continuava ad attaccare il presidente Vladimir Putin e l’intervento armato russo in Ucraina.
Lo stesso Navalny, morto il 16 febbraio 2024 mentre scontava una condanna a 19 anni di reclusione per “estremismo”, aveva stigmatizzato l’arresto dei tre avvocati giudicandolo “scandaloso” e definendolo un ulteriore tentativo di tenerlo isolato in prigione.
La sentenza odierna è stata emessa dalla Corte di Petushki, nella regione di Vladimir, 115 chilometri ad est di Mosca, dove Navalny era stato rinchiuso per un periodo prima di essere trasferito nella colonia penale artica dove è deceduto.
(da agenzie)
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Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
L’ATTEGGIAMENTO SBRUFFONE DEI MELONIANI VERSO IL CARROCCIO: “È SEMPRE LA SOLITA SOLFA, POI SI CALMANO”. MA SE IN BALLO C’È IL POTERE NELLA RICCHISSIMA REGIONE FORTINO, POTREBBE ESSERE DIVERSO
Di terzo mandato non intende neanche sentire parlare: è una questione chiusa, che Giorgia Meloni non è disponibile a riaprire. Semmai proverà per davvero a governare il Veneto, piantando la bandiera di Fratelli d’Italia sulla regione più leghista d’Italia.
Per adesso, però, la presidente del Consiglio cerca di evitare il conflitto diretto con il Carroccio. Schiva il contenzioso pubblico con Matteo Salvini. Ed evita di affondare il colpo contro Luca Zaia. Non è un caso: pensa che alla fine la matassa sarà sbrogliata trattando direttamente con il governatore uscente. Escludendo invece dalla mediazione Matteo Salvini.
La premessa di ogni ragionamento è questa, a Palazzo Chigi: siamo il primo partito d’Italia e non possiamo essere esclusi dal governo delle grandi regioni del Nord. Ci sarebbe la Lombardia, ma nella regione più grande d’Italia si tornerà alle urne nel 2028: comunque un’eternità, per di più dopo le prossime politiche. L’unica possibilità è dunque prendere il Veneto. Un destino ineluttabile, per la presidente del Consiglio, visto che il suo partito si attesta nei sondaggi attorno al 30%.
Pragmaticamente, la premier è consapevole che la regione di Zaia sarà uno dei pezzi pregiati di una mediazione che coinvolgerà anche altri centri chiamati alle urne nei prossimi mesi: Campania, Puglia, Marche, Toscana e Valle d’Aosta. Ma sa anche che proprio il Veneto è il tassello politicamente più rilevante: mai, da quando esistono, i meloniani hanno conquistato una regione di peso del Nord.
Parlerà dunque con Zaia, questo è il progetto. Al momento opportuno e scavalcando di fatto Salvini. Con il governatore veneto, d’altra parte, continua a mantenere un filo diretto. Con lui, nei momenti di massima debolezza di Salvini prima delle Europee, aveva discusso informalmente anche di una possibile transizione morbida in caso di dimissioni del segretario dalla guida del partito.
Ha molto da offrirgli, anche in termini di caselle di governo. È evidente che una mossa del genere smuoverebbe gli equilibri nel Carroccio e aprirebbe una crepa nei rapporti tra la premier e il ministro delle Infrastrutture. Ma non è detto che questo scenario dispiaccia poi troppo a Palazzo Chigi.
Ultimamente, quando sentono nominare la Lega, i tanti dirigenti e ministri di Fratelli d’Italia si irrigidiscono, alzano gli occhi al cielo, sbuffano. «No comment, tanto è sempre la solita solfa, poi si calmano», rispondevano anche ieri . Era una risposta standard, che gli si chiedesse delle divisioni sul ddl Sicurezza o delle incertezze sull’Autonomia o, ancora, del rischio di spaccare la coalizione in Veneto. È una stanchezza, quasi un’esasperazione, che devono aver percepito anche dalle parti di Palazzo Chigi, tanto da muovere Giovanbattista Fazzolari, fedelissimo della premier, a imporre il silenzio alle truppe: «Nessuno reagisca alle dichiarazioni dei leghisti sul Veneto e Zaia», questo il senso del messaggio.
La premier, già da tempo, ha chiarito ai suoi di non voler alzare pubblicamente i toni su una polemica solo divisiva, memore dei veleni che poco meno di un anno fa affondarono il centrodestra in Sardegna. E poi prevede che la battaglia di Matteo Salvini, alla fine, non sia davvero legata al terzo mandato
(da agenzie)
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Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
UN DECRETO INUTILE, I RAVE CI SONO STATI ANCHE L’ANNO SCORSO E SENZA PARTICOLARI DANNI
“Abbiamo introdotto [il reato di] rave party. Ci è stato detto: a che è servito? Beh, è servito al fatto che non si sono fatti più rave party, non sono state più incarcerate persone perché non sono stati più commessi reati. Che significa che una volta tanto ha avuto un effetto deterrente”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, rispondendo in Senato a una domanda di Matteo Renzi sulla linea del governo – che ha aggiunto numerosi reati dall’inizio del suo mandato, nonostante proprio Nordio in passato sostenesse la necessità di ridurli. Le affermazioni del ministro, però, hanno poco senso.
Cosa prevede il “reato di rave party”
Il reato di rave party, più formalmente, si chiama “invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”. Lo introdusse un decreto approvato dal governo Meloni il 31 ottobre 2022, uno dei primi atti dell’esecutivo di destra. Un decreto arrivato chiaramente in risposta a un rave organizzato a Modena, che aveva attirato l’attenzione dei giornali e dei partiti.
L’articolo 633-bis del Codice penale, oggi, punisce con fino a sei anni di carcere chi “organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento”, purché da questo raduno derivi un possibile “concreto pericolo per la salute pubblica”. Ad esempio, se circolano sostanze stupefacenti.
Davvero con il nuovo reato non ci sono più stati rave?
Dire che “non si sono fatti più rave party”, però, è sbagliato. Basta scorrere le pagine dei quotidiani locali, nell’ultimo anno, per trovare notizia di diverse feste. L’ultima a Capodanno, a Bologna, ha coinvolto oltre 700 persone ed è durata circa due giorni. A fine novembre erano stati identificati 125 giovani a Giovi, una frazione di Salerno.
A ottobre, ancora centinaia di persone nella Val Canzoni, vicino a Belluno. A settembre una festa illegale si era svolta in un parco vicino a Fabriano (Ancona). Ad agosto, almeno in 400 si erano riuniti a Galatina, in provincia di Lecce, e pochi giorni prima un altro rave si era svolto a Cinisello Balsamo, nel milanese.
L’elenco, anche solo limitandosi alla seconda metà del 2024, potrebbe continuare. Insomma, la tesi del ministro della Giustizia – cioè che il “reato di rave party” sia servito a bloccare i festeggiamenti in aree occupate in modo illegittimo – non regge.
Nordio conferma che non ci sono state condanne per i rave
È vero ciò che Nordio ha sostenuto, e cioè che “non sono state più incarcerate persone”. Ad aprile dello scorso anno, proprio il ministro aveva spiegato (sempre rispondendo a un’interrogazione, questa volta scritta) che nel 2023 c’erano stati 21 provvedimenti giudiziari legati al “invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, quindi appunto di rave party. Ventuno indagini di cui tre erano ancora in corso, mentre le altre avevano portato a quindici archiviazioni e solo sei rinvii a giudizio, per un totale di otto imputati. In tutto il Paese. In un anno.
Non è noto come siano poi andate a finire le altre tre indagini, né quanti fascicoli siano stati aperti nel 2024. I tempi della giustizia sono lunghi, e mancano anche le informazioni sufficienti su eventuali condanne e assoluzioni: ma, come lo stesso Nordio ha confermato, non risulta che siano state “incarcerate persone” per i rave party. Non perché le feste siano sparite e quindi “non sono stati più commessi reati” per effetto deterrente, ma perché il reato si è rivelato sostanzialmente inutile.
I rave party non erano un problema prima del decreto e non lo sono oggi
Un altro aspetto va sottolineato è che i rave party nel 2024 ci sono stati, sì, ma sono stati pochi. Sparsi nel territorio del Paese, spesso in scludendo il periodo delle restrizioni legate al Covid – le notizie erano le stesse. Diverse centinaia o anche alcune migliaia di persone, riunite in un luogo per festeggiare, che in molti casi venivano poi sgomberate dalle forze di polizia e per questo finivano sui giornali. Era successo nel Capodanno tra 2021 e 2022 ad Arezzo, ad aprile a Bologna.
Certo, c’erano anche stati episodi con conseguenze più pesanti: a Ferragosto 2021 a Valentano, nel viterbese, circa 8mila persone si erano riunite per quattro giorni e un 24enne era morto, annegato in un lago vicino. Ma si parla di un singolo caso, oltre tre anni fa.
A fine ottobre 2022, però, un rave party nella zona di Modena aveva attirato l’attenzione nazionale. Alcune migliaia di persone si erano riunite, senza autorizzazione ma anche senza causare particolari danni o problemi sanitari. Non solo i media, ma anche la politica – specialmente i partiti di centrodestra – avevano seguito il montare della festa e il successivo sgombero. Pochi giorni dopo era arrivato il decreto del governo. Vale la pena di ricordare che in teoria i decreti legge si dovrebbero usare solo in “casi straordinari di necessità e urgenza”.
Guardando alla situazione prima e dopo l’introduzione del nuovo “reato di rave party” insomma, è piuttosto facile vedere perché le parole del ministro Nordio siano sbagliate. Non solo la legge non ha avuto un “effetto deterrente” perché diversi rave ci sono comunque stati. Ma in assoluto, il numero di feste illegali è stato ridotto come sempre: non c’era nessuna ‘emergenza’ all’epoca e non c’è oggi. Il decreto ha avuto solo l’effetto di permettere al governo di rivendicare una “linea dura” contro un pericolo, di fatto, inesistente.
(da agenzie)
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Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
SEI RELATORI SPECIALI DELL’ONU HANNO INVIATO UNA LETTERA AL GOVERNO ITALIANO
Il dibattito sul ddl Sicurezza, attualmente in discussione al Senato italiano, si fa sempre più acceso, richiamando l’attenzione delle principali istituzioni internazionali. Dopo le critiche dell’OSCE e del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, è ora l’ONU a esprimere forti preoccupazioni. Sei Relatori speciali delle Nazioni Unite hanno scritto al governo italiano, sottolineando come alcune disposizioni del provvedimento siano potenzialmente in contrasto con gli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani, così come sanciti dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici.
Cosa dice la lettera Onu inviata al governo
Nella lettera, inviata a dicembre scorso, i relatori hanno posto l’accento su una serie di articoli fondamentali della Convenzione che rischiano di essere violati, tra cui il diritto alla libertà e alla sicurezza (articolo 9), il diritto alla libertà di movimento (articolo 12), il diritto a un processo equo (articolo 14), il diritto alla privacy (articolo 17), la libertà di espressione e opinione (articolo 19), la libertà di riunione (articolo 21) e quella di associazione (articolo 22).
Tra i passaggi più significativi, i Relatori ribadiscono che divieti generalizzati di protesta o mirati contro specifici individui per periodi prolungati rappresentano una violazione gravissima dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici. La lettera sottolinea poi come anche in presenza di proteste “disturbanti” sia necessario adottare un approccio proporzionato e rispettoso della libertà di riunione pacifica: l’introduzione di pene detentive per i manifestanti pacifici, sono considerate insomma una misura eccessiva e sproporzionata.
“Le pene detentive inflitte ai manifestanti pacifici non sono una risposta proporzionata alla loro partecipazione a proteste, indipendentemente dal livello di disturbo che queste causano”, si legge. Nella lettera viene riconosciuto il diritto del governo a proteggere le forze dell’ordine da eventuali danni fisici, ma viene evidenziato che questo obiettivo deve essere bilanciato con il diritto dei cittadini di manifestare.
I Relatori richiedono quindi che il provvedimento venga modificato per garantire il rispetto dei diritti alla libertà di espressione, di riunione pacifica e di associazione, la protezione degli attivisti ambientali e di coloro che partecipano a forme di disobbedienza civile e l’aderenza ai principi di legalità, necessità, proporzionalità e non discriminazione.
Nella lettera viene poi chiesto in che modo le pene, come l’aumento dei termini di detenzione, rispettino il principio di proporzionalità, quali siano i tempi e i prossimi passaggi previsti per l’approvazione della legge, e in che misura il governo intende coinvolgere la società civile in un dialogo inclusivo.
La questione, dunque, sembra ora andare oltre i confini nazionali, portando l’Italia a un bivio: rivedere il disegno di legge per tutelare i diritti umani e rispettare gli impegni internazionali, oppure rischiare di isolarsi dal consesso delle democrazie liberali, compromettendo il suo ruolo e la sua immagine a livello globale
Per Antigone “la democrazia è protezione delle minoranze non repressione
Secondo il gruppo, misure come la criminalizzazione eccessiva della disobbedienza passiva, con pene sproporzionate fino a otto anni di carcere, rappresentano un pericoloso danno giuridico e democratico. Anche Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, ha commentato duramente il ddl, dichiarando che Governo e Parlamento dovrebbero riflettere sui danni che un simile provvedimento infliggerebbe al nostro sistema democratico. L’Italia, per Gonnella, rischia di perdere credibilità e prestigio internazionale, ponendosi ai margini delle democrazie liberali. “La democrazia è, prima di tutto, protezione delle minoranze, non repressione”, ha dichiarato.
(da Fanpage)
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Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
ROMANO PRODI ROMPE LA GRANCASSA DI PROPAGANDA SULLA LIBERAZIONE DELLA 29ENNE DETENUTA A TEHERAN: “IL MINISTRO DEGLI ESTERI ALLORA È STATO MOLTO ATTIVO, ADESSO NON LO SO”
“Quando io ho liberato Mastrogiacomo mica ho avuto il soccorso degli Stati Uniti. Tutto il Paese ha agito. Meloni si è fatta un obiettivo personale. Il ministro degli Esteri allora è stato molto attivo, adesso non lo so. E’ stata una gran bella cosa, ma per favore mettiamola in un contesto”. Così Romano Prodi intervenendo a Omnibus su La7, tornando sulla liberazione della giornalista italiana Cecilia Sala.
“E’ stata cosi’ cattiva con me, non ho capito perche’… perche’ ho detto che era obbediente? Ma obbediente era poco… ora e’ obbediente due volte, a Trump e a Musk, quindi due volte obbediente”.
“Avete mai sentito la presidente del Consiglio dire a Francia e Germania mettiamoci assieme a fare un sistema comune di difesa? L’euro non l’abbiamo mica fatto con l’unanimita’, ma Meloni non ha quest’idea…”, osserva Prodi, secondo il quale le strade, ad esempio su Starlink, sono due: “O vado con Starlink o l’Europa trova una sua Starlink, io mi aspettavo uno scatto d’orgoglio europeo”. Poi, certo “farei l’accordo con Musk se tutta l’Europa fosse cogestore… Musk ci presenta il futuro ma noi affidiamo il nostro futuro agli altri o ce lo costruiamo noi? Abbiamo il dovere politico di costruire il nostro futuro…”, conclude Prodi.
(da agenzie)
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Gennaio 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL PARERE DEL COSTITUZIONALISTA AINIS
Tre grandi riforme illuminavano i cieli della legislatura. Una soltanto splende ancora all’orizzonte. La prima — quella più grande, maiuscola, possente — vorrebbe ribaltare la nostra forma di governo, consegnando il bastone del comando al premier, senza contrappesi né contropoteri. Ma se n’è persa traccia, nessuno sa più dove sia finita. Per quale ragione? Ipotesi: perché dopo il voto degli eletti voteranno con un referendum gli elettori, e una bocciatura popolare manderebbe il governo gambe all’aria (Renzi docet). Dunque meglio traccheggiare, rinviando il valzer all’ultima curva della legislatura, per abbinare il referendum alle prossime elezioni.
Quanto alla seconda — l’autonomia differenziata — ha subito la mannaia della Consulta, che ne ha amputato le norme principali. Sicché la legge Calderoli è ormai uno zombie, né morta né viva; magari potrà resuscitare, ma occorre il miracolo di Lazzaro.
E allora resta in piedi solamente la terza riforma: una giustizia tutta nuova. Nuovi giudici, nuovo Csm, nuovi reati, nuovi pacchetti sicurezza. Su questo fronte, infatti, l’esecutivo sfodera l’energia d’un boxeur. Coniugando il giustizialismo di Meloni con il garantismo di Tajani, insieme agli impulsi manettari di Salvini.
Togli un reato per chi indossa una cravatta (l’abuso d’ufficio), ne aggiungi una dozzina per chi calza i jeans (vietando i rave o i blocchi stradali di Ultima generazione), t’incattivisci contro gli immigrati (niente cellulare a chi non ha un permesso di soggiorno), punisci due volte i detenuti (lasciando in carcere la mamma e il suo neonato, o aggiungendo anni di galera per chi s’azzardi a protestare dentro un penitenziario).
Infine punti il dito sulle regole del gioco, cambiando la Costituzione. E tiri dritto, nonostante l’aspro parere di dissenso votato dal Consiglio superiore della magistratura a larga maggioranza (24 consiglieri), nonostante le proteste dell’Associazione nazionale magistrati, che minaccia già lo sciopero. Il disegno di legge costituzionale firmato dal ministro Nordio è approdato l’8 gennaio nell’aula della Camera; in pochi giorni è giunto già a destinazione. Procedendo spedito come un treno, l’unico treno puntuale delle ferrovie italiane.
Ma che merce viaggia su quel treno? La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, in primo luogo: una norma bandiera, dato che oggi soltanto l’1 per cento dei magistrati trasmigra da una funzione all’altra. Effetto d’una legge del 2022, che consente questo passaggio una sola volta nel corso della carriera, e con l’obbligo di cambiare sede.
Il rischio, tuttavia, è che la riforma favorisca il controllo dei pm da parte dell’esecutivo: le garanzie formali circa la loro indipendenza restano in piedi, quelle sostanziali sono tutte da verificare.
E c’è poi il Csm — l’organo di autogoverno della magistratura — che dopo la riforma si fa in due: uno per i pubblici ministeri, l’altro per i giudici. Anzi in tre, dato che vi s’affianca un’Alta Corte competente per le sanzioni disciplinari. E tutti i loro componenti vengono estratti a sorte, tirando in aria i dadi. Una cura da cavallo contro la deriva correntizia, che ha minato l’autorità e il prestigio della magistratura. Nonché un metodo — il sorteggio — già sperimentato nell’Atene del V secolo, quando la democrazia emise i suoi primi vagiti, e tutt’oggi applicato con profitto in varie circostanze.
Ma perché espropriare interamente i magistrati del diritto di voto? Perché infliggere un’umiliazione al potere giudiziario? Se lo scopo è di tagliare le unghie alle correnti, meglio una soluzione equilibrata: sui 20 membri togati del Csm, 10 eletti, 10 sorteggiati.
È qui infatti il male oscuro di questa riforma, al pari delle altre brevettate dal governo: la loro radicalità, le soluzioni estreme che prospettano.
Il presidenzialismo non è il diavolo, ma lo diventa se i superpoteri del presidente eletto non vengono bilanciati da una rete di contropoteri. L’autonomia differenziata talvolta si giustifica, ma l’unità nazionale va in mille pezzi se ciascuna Regione può pretendere tutte le 23 materie in ballo. E la riforma della giustizia può rivelarsi profondamente ingiusta, quando è sorretta da scopi punitivi sul terzo potere dello Stato.
(da agenzie)
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