Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
OCCORRE UN NUOVO PASSAGGIO IN CONSIGLIO DEI MINISTRI E POI BISOGNA INFORMARE L’EUROPEA SULLE COMPENSAZIONI AMBIENTALI, AL MOMENTO NON SUFFICIENTI… IL LEADER LEGHISTA AVEVA PROMESSO DI APRIRE I CANTIERI ENTRO IL 2024
Il progetto del Ponte non ha ancora l’Autorizzazione ambientale e al momento non può
quindi andare al Cipess, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, per il via libera definitivo. I piani, e gli annunci, del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini subiscono un altro stop. “Cantieri entro il 2024”, aveva detto salvo dover rivedere i programmi.
Si scopre infatti che il ministro Gilberto Pichetto Fratin non ha firmato il decreto conclusivo della Via-Vas, la Valutazione d’impatto ambientale/ambientale strategica, nonostante il parere favorevole (con 62 prescrizioni) dato lo scorso 14 novembre. Proprio nelle prescrizioni una parte riguardava le mitigazioni ambientali, che a quanto pare non erano sufficienti, nonostante il parere positivo.
In particolare le compensazioni destinate a mitigare gli impatti sulle aree di interesse comunitario per l’ambiente, la flora e la fauna: le cosiddette aree Sic regolate da norme europee. Cosi la società committente del Ponte, la Stretto di Messina spa, ha consegnato nuovi documenti alla commissione Via-Vas. Per una ulteriore valutazione.
Manca al momento un elemento fondamentale che giustifichi la procedura di deroga a una serie di vincoli ambientali: “Il documento che dimostri i motivi per cui l’opera è irrinunciabile”, dicono dalla commissione Via-Vas. Questo documento, importante, deve essere frutto dell’intesa tra vari ministeri: Interno, Salute, Infrastrutture e Protezione civile.
Una volta firmato questo documento occorre un passaggio al Consiglio dei ministri. Da qui il vertice convocato la scorsa settimana da Salvini, sorpreso che il progetto, come gli era stato assicurato, non possa andare subito al Cipess.
Solo fatti questi passaggi il ministro dell’Ambiente può firmare il decreto che comunque va comunicato a Bruxelles, per la parte che riguarda le compensazioni sulle aree Sic. Si tratta di una informativa, sottolineano dal governo, e non di una richiesta di parere. Ma comunque la Commissione europea potrebbe sollevare obiezioni e richiedere di modificare le compensazioni se dovesse valutarle non idonee.
(da Repubblica)
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Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
ESPRESSE IL SUO “DISGUSTO” NEI CONFRONTI DI MATTARELLA E RILANCIO’ SUI SOCIAL LA NOTIZIA SECONDO CUI HILLARY CLINTON AVREBBE PARTECIPATO, CON L’ARTISTA MARINA ABRAMOVICH, A UN RITO SATANICO REALIZZANDO “UNA VERNICE COMPOSTA DA SANGUE DI MAIALE, SPERMA, URINA E LATTE DI DONNA”… QUELLA VOLTA CHE RISCHIO’ DI FAR PAGARE ALLA RAI UN MILIONE DI EURO
È il principe del “non ce la raccontano giusta”, il sacerdote delle verità alternative, come quella della setta satanica di cui sarebbe stata adepta Hillary Clinton. E dunque Marcello Foa, nominato in quota Lega nel Cda della Scala, ora potrà finalmente sbizzarrirsi visto che metà delle opere liriche ruota davvero intorno a un complotto, dal Don Carlos al Macbeth.
Ma il vero mistero cospirazionista è come questo giornalista italo- svizzero, che ama definirsi discepolo di Montanelli, sia riuscito a scalare il potere nell’era del populismo, fino a diventare prima presidente della Rai e ora conduttore di uno dei programmi radiofonici nella rete ammiraglia.
Se sui social iniziava a girare una cavolata sesquipedale, si poteva star certi che Foa la facesse sua e la rilanciasse. Dalla sua rubrica del Giornale, sul blog di Beppe Grillo fino al russo Sputnik, quella di Foa era una ecolalia, un diluvio di stupidate prese dai peggiori siti e rilanciate a mitraglia.
Come quella volta che su Twitter condivise un articolo secondo cui Hillary Clinton e il manager della sua campagna presidenziale, John Podesta, avrebbero partecipato a un rituale satanico con l’artista Marina Abramovich realizzando «una vernice composta da sangue di maiale, sperma, urina e latte di donna».
La fonte principale delle “notizie” del neo consigliere della Scala era il sito di bufale Infowars , fondato da Alex Jones. Un divulgatore di estrema destra che alla fine fu fermato non da una crisi di coscienza, ma dall’aver pubblicato la bugia che la terribile strage di Sandy Hook (27 morti, la maggior parte bambini piccoli) fosse in realtà una messa in scena del governo federale. I genitori di quei poveri bambini, definiti degli «attori prezzolati», non la presero bene e lo fecero condannare a 50 milioni di dollari per danni morali.
La storia di Infowars finì lì. Non però la carriera di Foa. Filorusso e antiamericano quando alla Casa Bianca c’erano Clinton e Obama e oggi, naturalmente, trumpiano – Foa pestò una fianda digitale rilanciando la “notizia” che l’abbattimento del volo Malaysia Airlines 17 sui cieli del Donbass fosse una false flag «provocata ad arte per mettere in difficoltà Putin».
Un team di investigatori internazionali accertò poi che il missile proveniva dalla 53esima brigata russa di Kursk.
Ma Foa, imperterrito, è sempre passato elegantemente oltre, senza mai scusarsi per gli errori. Non ha chiesto scusa per aver detto che i deputati del Pd prendevano ordini da Soros, per aver rilanciato la bufala sulla povera migrante soccorsa «con le unghie laccate», per aver detto che i vaccini provocano shock gravi sui bambini, per aver espresso il suo «disgusto » nei confronti di Sergio Mattarella (per questo Foa è stato l’unico presidente della Rai a non essere mai ricevuto al Quirinale).
Questa faciloneria o, se vogliamo essere indulgenti, questa credulità Foa la mise in mostra anche da presidente di viale Mazzini, rischiando di far pagare alla Rai un milione di euro. Si trattava di una truffa on line, Foa fu contattato via mail da un falso ministro Tria ed era pronto a far trasferire i soldi dell’azienda su un conto di Hong Kong: solo il pronto intervento dell’ad Fabrizio Salini impedì il raggiro.
L’uomo è così, anche se, a dire il vero, negli ultimi tempi si è un po’ moderato. La sua trasmissione, ad esempio, pur veicolando il mainstream di destra – anche se ama definirsi «controcorrente» – è diventata una versione pettinata della Zanzara di Cruciani.
(da Repubblica)
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Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
SUGLI ALTRI DOSSIER, MELONI, SALVINI E TAJANI CONTINUANO A SCAZZARE: SULLA ROTTAMAZIONE DELLE CARTELLE NON CI SONO I SOLDI. LA RIFORMA DEI MEDICI DI FAMIGLIA È OSTEGGIATA DA FORZA ITALIA. E IL TERZO MANDATO È KRYPTONITE PER LA DUCETTA, CHE VUOLE “RIEQUILIBRARE” LE FORZE A LIVELLO LOCALE E SOGNA DI PAPPARSI VENETO E MILANO
Il vertice di maggioranza ha partorito il solito topolino. Delle molte questioni sul tavolo a
cui sedevano Giorgia Meloni e i suoi vicepremier, Matteo Salvini e Antonio Tajani, alla fine ne è stata risolta una soltanto: la Consulta.
Sui giudici della Corte Costituzionale, a dire il vero, è stata l’opposizione a trovare la quadra e risolvere l’imbarazzante stallo che durava da oltre un anno: alla fine a mettere il cappello sul nome del “tecnico” è Giuseppe Conte, che ha sbloccato la trattativa chiamando Giorgia Meloni e pescando dal cilindro il nome di Maria Alessandra Sandulli, giurista e professoressa a Roma Tre, figlia d’arte (suo padre, Aldo, è stato presidente della Corte) Sandulli ha battuto last minute la cognata, Gabriella Palmieri Sandulli, che fu nominata proprio da Peppiniello appulo all’Avvocatura generale dello Stato, nel 2019.
Tutto qui. Gli altri tre argomenti in discussione all’ordine del giorno del vertice sono rimasti tali.
Salvini vuole racimolare qualche punto percentuale coccolando gli elettori evasori fiscali, Giorgia Meloni è stata chiarissima: “Non ci sono i soldi”
Il pressing del segretario della Lega serviva anche a “rimettere a posto” Maurizio Leo, il viceministro che la Ducetta ha piazzato al Tesoro per controllare Giancarlo Giorgetti.
Il ministro leghista, per una volta, è curiosamente a favore di un intervento che va contro i rigidi vincoli di bilancio imposti dall’Unione europea, al punto da arrivare a dire che si tratta di una “proposta sostenibile”. Sarà, ma dove li trovano 5 miliardi, se per la Manovra hanno raschiato il fondo del barile per rifinanziare il taglio al cuneo fiscale?
La premier ha paura – a ragione – che il provvedimento possa essere bocciato dalla Ragioneria dello Stato: la cassa piange, e non ci possiamo evitare strappi. Discorso chiuso (per ora).
Altro punto all’ordine del giorno era la riforma dei medici di famiglia, che dovrebbe trasformare i dottori da liberi professionisti a dipendenti del Servizio sanitario nazionale. Una proposta supportata dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, su cui però è Tajani che si mette di traverso. È sempre una questione di soldi, come ha spiegato il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Paolo Barelli: “Noi non la votiamo e non si fanno i blitz. Questa operazione costerebbe 5 miliardi. Dove si prendono i soldi?”
Infine, il tema del terzo mandato, a cui Matteo Salvini si continua ad aggrappare per riuscire a tenersi la guida della Regione Veneto. A Giorgia Meloni va il sangue al cervello ogni volta che si sente sottoporre il dossier: la Ducetta è infatti convinta che il suo partito sia sottorappresentato nel governo locale.
“Abbiamo il 30% e guidiamo soltanto tre regioni“ (Marche con Acquaroli, Abruzzo con Marsilio e Lazio con Rocca), è il ragionamento della fiamma magica, che il prossimo anno sogna di papparsi il ricco Veneto
E non solo: la Meloni ha già prenotato anche la candidatura della coalizione per il sindaco di Milano, visto che la Lega ha già la cassaforte della Regione (di fatto, però, commissariata dal duo La Russa-Santanchè). Il nome? La sora Giorgia non vuole bruciare altri candidati: è un “jolly” segreto che vuole tenere nascosto fino all’ultimo…
(da Dagoreport)
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Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
QUEL DON ABBONDIO DI GIORGETTI ABBOZZA PARLANDO DI “PROPOSTA SOSTENIBILE, ATTENTA ALLE ESIGENZE DEGLI ITALIANI”. MA SERVONO 5 MILIARDI, DI CUI TRE SOLO NEL 2026. DOVE LI TROVERÀ IL GOVERNO, CHE FATICA A RACIMOLARE RISORSE PER LA MANOVRA?
Stavolta Giancarlo Giorgetti non poteva dire di no a Matteo Salvini. Al Consiglio federale, che si è svolto ieri pomeriggio negli uffici leghisti di Montecitorio, arriva il via libera del ministro dell’Economia alla rottamazione decennale chiesta a gran voce dal vicepremier.
Il titolare del Tesoro, che ancora non si era pronunciato pubblicamente sulla nuova sanatoria che il segretario del Carroccio definisce «emergenza nazionale», è intervenuto nel corso della riunione parlando di «una proposta sostenibile a cui il Mef sta lavorando», che sia attenta alle esigenze degli italiani e dei conti pubblici.
Come la «cautela» di Giorgetti si sposi con le coperture della rottamazione quinquies non è ancora chiaro, visto che servono circa 5 miliardi, tre solo nel 2026. La soluzione sottoposta alla Ragioneria è di una sanatoria selettiva, non per tutti, che guardi ai contribuenti che non hanno pagato perché colpiti da problemi economici (e chi dirà ce non lo è…)
Un’idea che si legge tra le righe di una dichiarazione del responsabile economico del partito, Alberto Bagnai: «Pensiamo a una proposta che permetta di raggiungere la pace fiscale per tutti quegli italiani che, in buona fede, si trovano oggi a doversi misurare con un contenzioso con l’erario».
Da via XX settembre spiegano comunque che arrivare a dei parametri in questo senso non è semplice, e quindi alla fine la rottamazione potrebbe pure essere estesa a tutti, come le precedenti. Il problema sono i costi. Fratelli d’Italia e Forza Italia si aspettano di avere da Giorgetti qualche dettaglio in più sulle risorse che andranno a finanziare la sanatoria. Il vice ministro meloniano Maurizio Leo lo ribadisce: «Non siamo contrari, ma prima vanno trovate le risorse».
L’altra novità di giornata è il veicolo normativo: non più un progetto di legge che il Carroccio ha già depositato in Parlamento, ma un decreto da varare in primavera
Il vicepremier trumpizzato vede sul fisco una possibile vittoria politica all’orizzonte: «Grande soddisfazione, all’unanimità è stato ribadito l’obiettivo di una rottamazione definitiva ed equa. Troveremo l’intesa con gli alleati, come sempre».
Intanto, Salvini continua ad avvitare i bulloni del partito e a far slittare in avanti la data del Congresso, che si dovrebbe tenere nel primo fine settimana di aprile. Prima di questo appuntamento, arriveranno «tre grandi assemblee programmatiche»
Un modo per provare a dare senso al progetto di Lega nazionale, ora che sotto il Po non ha più neanche un governatore e pochi, pochissimi sindaci. Sono tre regioni, poi, che andranno al voto nel prossimo autunno (Salvini chiede di spostare le Regionali al 2026, ma i suoi alleati non ne vogliono sapere).
Per questo, durante il Federale, viene deciso che non potrà avere la tessera della Lega chi è anche iscritto all’associazione “Patto per il Nord”, creata dalla fronda di ex leghisti ribelli. Massimiliano Romeo, segretario del partito in Lombardia e capogruppo al Senato si dice contrario, avverte i presenti del rischio di allontanare i vecchi militanti della Lega. Tra gli iscritti al Patto per il Nord ci sarebbe anche il capo, Umberto Bossi. non una cosa da poco.
Da via Bellerio si affrettano a precisare: «L’incompatibilità riguarderà tutti fuorché Bossi, che era e resterà nella grande comunità della Lega».
(da agenzie)
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Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
“IT’S A GREIT ONOR FOR ME TO WELCAAM TO BASILICATA. MATERA, UIT ITS ENZIENT SASSI IS EN ESTREORDINARI ECSEMPL OF RESILENS”… GLI INCIAMPI CON LA LINGUA DI SHAKESPEARE SONO UN GRANDE CLASSICO DELLA POLITICA LUCANA
«It’s a greit onor for me to welcaam to Basilicata. Matera, iut its enzient Sassi is en
estreordinari ecsempl of resilens». Esame di inglese non superato per il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi.
Infatti, sul web, è diventato virale l’intervento del governatore lucano nel corso della riunione annuale della Commissione affari economici dell’iniziativa centro europea (InCE), avvenuto il 07 febbraio scorso.
L’incontro si è focalizzato sulla ricostruzione post-bellica in Ucraina e ha visto la partecipazione di delegazioni provenienti dai sedici Paesi membri dell’InCE, sottolineando l’importanza della cooperazione internazionale in questo momento cruciale.
Nella città dei Sassi, il 73enne presidente della Giunta regionale lucana ha accolto gli ospiti, introducendo il dibattito con un messaggio di benvenuto.
È emerso un discorso con un inglese arrugginito, impreciso e esilarante, nonostante la presenza del certificato di conoscenza dell’inglese di secondo livello certificato dalla Scuola di lingue estere dell’Esercito.
Così, sui social, sono stati numerosi i messaggi sarcastici degli utenti, che hanno ricordato anche la “performance” degna di nota dell’ex vicepresidente del Parlamento Europeo, Gianni Pittella. «Da Pittella a Bardi, che bella figura… internazionale!».
(da Il Corrriere della Sera)
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Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
COME DOVREBBE FUNZIONARE E COME INVECE NON FUNZIONA
Calano i roghi di rifiuti illegali! A prima vista sembra una bella notizia: secondo la Commissione bilaterale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti (rapporto 17 dicembre 2024) si è passati dai 2220 del 2019 ai 1.044 del 2022. Sul 2023 e 2024 i dati non ci sono, ma basta leggere le notizie di stampa per avere un’idea di cosa stiamo parlando. Ne riportiamo solo alcune:
9 aprile 2023, incendio doloso in un centro raccolta di rifiuti nel trevigiano;
4 settembre 2023, in fiamme discarica abusiva ad Afragola;
28 luglio 2024, vasto incendio a Ponte Mammolo (Roma);
17 settembre 2024, incendio in contrada Monaco (Palermo) utilizzata per lo smaltimento abusivo di rifiuti;
24 novembre 2024, in fiamme un deposito di rifiuti nella zona industriale di Brindisi;
25 novembre 2024, incendio al capannone nella zona industriale La Rustica (Roma), bruciano tonnellate di rifiuti sversati illegalmente;
9 dicembre 2024, a San Fruttuoso (Monza) deposito con rifiuti illeciti dato alle fiamme.
Ma fermiamoci a ciò che scrive la Commissione in relazione a fatti che si fermano a 2 anni fa: «Un miglioramento che non impedisce di registrare una sua estensione sia verso altre Regioni italiane, come la Puglia che verso l’estero». Nelle audizioni è emerso che «esiste un traffico di rifiuti verso la Tunisia e la Puglia, per prendere poi la direzione dell’Albania, della Macedonia del Nord, del Montenegro, della Bulgaria e della Slovacchia». Centro di smistamento del traffico il porto di Bari.
La Commissione scrive anche che va migliorato il sistema di tracciabilità dei rifiuti. È utile però ricordare che per migliorare un sistema, bisogna prima averlo «un sistema». Ebbene, ne stiamo parlando da 19 anni, ma di operativo ancora non c’è nulla.
Berlusconi e il segreto di Stato
Nel 2006 il governo Prodi vara il Sistri: il sistema di controllo informatico della tracciabilità dei rifiuti. Si tratta di un trasponder da montare sui mezzi adibiti al trasporto rifiuti per registrane i movimenti. Rimane per due anni sulla carta. Nel 2008 arriva Berlusconi e mette il segreto di Stato sul progetto perché si tratta di tecnologia militare e pertanto deve essere inaccessibile agli operatori illegali. Nel 2009 la progettazione e gestione del Sistri viene affidata a una società del gruppo Finmeccanica per circa 100 milioni di euro l’anno. La data per la partenza è maggio 2011, ma poi si proroga fino al 2013. II Sistri parte, ma fra sospensione delle sanzioni per gli inadempienti, cambi di affidamento gara, malfunzionamenti e inefficienze, a dicembre 2018 si decide di dismetterlo. Peraltro senza che sia mai entrato realmente in funzione. Si va avanti altri 5 anni con i documenti cartacei, quelli che con facilità si modificano durante il tragitto. Ad aprile 2023 arriva il Rentri (Registro Elettronico Nazionale per la Tracciabilità dei Rifiuti): un sistema gestito direttamente dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica che dovrebbe consentire un costante monitoraggio dei flussi attraverso la verifica dei documenti digitali di identificazione del trasporto e di carico e scarico dei rifiuti. A settembre 2023 esce il decreto direttoriale 97 del ministero dell’Ambiente che comunica le scadenze: la data per i grandi operatori di trattamento rifiuti speciali e pericolosi scade oggi, 13 febbraio 2025. Tutti gli altri a seguire, fino a febbraio 2026. Speriamo che sia la volta buona. Nel frattempo la criminalità ringrazia.
Come dovrebbe funzionare e come invece funziona
Con un sistema a gestione digitale, l’emissione dei formulari di identificazione del trasporto (le bolle che dicono cosa c’è nei rimorchi dei camion) e la tenuta dei registri cronologici di carico e scarico degli impianti, saranno tutti elettronici e in tempo reale. Questo permette la condivisione istantanea delle informazioni contenute nei documenti, un costante monitoraggio dei flussi dei rifiuti e di ciascun punto di generazione del rifiuto. La realtà di oggi è molto lontana: i libri di carico e scarico degli impianti, così come le bolle che accompagnano i rifiuti sono in maggioranza cartacee. E così è impossibile sapere cosa effettivamente entra o esce dagli impianti o cosa viene trasportato dai camion, se non fermandoli e perquisendoli.
I reati avvengono in ogni fase del ciclo, dalla produzione, al trasporto, fino allo smaltimento e al finto recupero. Reati che passano dalle false dichiarazioni sulla quantità o la tipologia di rifiuti da smaltire. Le attività di traffici e smaltimento illeciti riguardano soprattutto gli pneumatici fuori uso, i gas refrigeranti, i rifiuti generati da apparecchiature elettriche ed elettroniche, gli scarti industriali, i materiali tossici. Traffici difficili stimare: le uniche cifre sono quelle che emergono dagli accertamenti delle forze dell’ordine. Nel 2022 i reati accertati sono stati 9.309, i sequestri 2.900, gli arresti 247 e le persone denunciate 10.708. Dal 2009 è stato l’anno più drammatico insieme al 2019. Anche in questo caso siamo fermi a due anni fa.
Gli interessi non solo della mafia
Dal 2015 il nostro codice penale prevede cinque reati ambientali: inquinamento, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale radioattivo, impedimento del controllo e omessa bonifica. Ma come si fa a perseguirli se si viaggia ancora con la carta e i controlli sono solo a campione? Diciamo che non è stata una priorità politica combattere questo tipo di criminalità. Anche perché lo smaltimento illegale è un’attività molto redditizia, e non solo per mafia, ‘ndrangheta e camorra. Scrive la Commissione d’inchiesta «è anche interesse di vari gruppi imprenditoriali, che acquisiscono ingenti quantitativi di rifiuti e, ignorando scientemente le previsioni normative, omettono di sottoporli ai necessari trattamenti e li spediscono allo smaltimento e/o al riciclo assegnando codici CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti) fasulli, con la nota tecnica del girobolla». Ma per evitare i controlli e non pagare gli oneri di smaltimento quei rifiuti finiscono scaricati di notte da qualche parte o in un capannone e poi bruciati.
Rifiuti urbani: siamo in ritardo
Anche il ciclo legale dei rifiuti non funziona come dovrebbe. Nel 2022, ultimo dato disponibile, abbiamo prodotto 493,6 kg di rifiuti urbani a testa: l’1,9% meno del 2021. È la cifra più bassa da 13 anni a questa parte. Il 18% è andato nei termovalorizzatori, il 17% discarica e il 65,2% nella raccolta differenziata. Una percentuale alta, ma che si ferma a metà strada perché se non ci sono abbastanza impianti per riciclare la differenziata, sei punto a capo. E le direttive europee del 2018 sull’economia circolare stabiliscono che entro il 2035 il riciclo deve raggiungere il 65%, mentre la quota conferita in discarica dovrà scendere al 10%, e in futuro portare a zero la percentuale dei rifiuti smaltita nei termovalorizzatori. Come è messa l’Italia? Nel 2022 abbiamo riciclato il 49,2%. In realtà il nord con il 57,5% dei rifiuti riciclati e il 14,6% in discarica non è lontano dagli obiettivi europei; la Sardegna ricicla il 60,7%, ma manda ancora il 30% in discarica; il centro e il sud sono molto lontani con poco più del 40% riciclato e, rispettivamente, il 35,4% e il 39,5% ancora in discarica. La maglia nera va alla Sicilia che ricicla poco più del 40% e spedisce tutto il resto (quasi il 60%) in discarica, tanto che nel giro di un anno esaurirà tutti i siti presenti in Regione.
Impianti distribuiti male
Come si spiegano percentuali così differenti? Il primo motivo è la collocazione degli impianti. Quelli per i rifiuti organici 225 sono al nord, conto i 46 del centro e gli 87 del sud. Dei 47 termovalorizzatori: 32 al nord, 6 al centro e 9 al sud. Delle 117 discariche: 50 al nord, 25 al centro, 42 al sud. E così i rifiuti viaggiano su e giù per la Penisola. Nel 2022 il Centro ha dovuto smaltire il 16% dei suoi rifiuti, e il sud il 23%, nelle regioni del Nord. Utilitalia ha calcolato 140 mila viaggi di camion per 76 milioni di chilometri percorsi. Viaggi che hanno un impatto ambientale di oltre 50.000 tonnellate di CO2 e il cui costo finisce nelle bollette Tari dei cittadini soprattutto del centro-sud: 75 milioni di euro solo nel 2022. Il secondo motivo è l’organizzazione della raccolta nei comuni. Le differenziate di plastica, vetro e carta sono partite in tutta Italia, ma al centro-sud il 5% dei Comuni non ha una raccolta dell’organico. Per quel che riguarda i rifiuti tessili, finiscono nell’indifferenziata il 30% di quelli prodotti al Sud e il 20% di quelli prodotti al centro nord, nonostante dal 1 gennaio 2022 ci sia l’obbligo per legge di differenziare gli abiti usati e gli altri rifiuti tessili. La raccolta differenziata del legno invece funziona solo al 42% dei Comuni al sud e al 71% dei Comuni al centro. Il terzo motivo sono i nostri comportamenti anche lì dove il riciclo è possibile. I dati ci dicono che abbiamo mandato in discarica il 20% dell’acciaio, il 22% dell’alluminio, il 35% del legno e il 20% del vetro.
Rischiamo sanzioni europee
Se tutto funzionasse al meglio gli impianti presenti oggi in Italia non sarebbero comunque sufficienti a centrare gli obiettivi europei. Secondo Utilitalia servono 4 nuovi termovalorizzatori (1 al sud, 1 in Sicilia e 2 al centro, compreso quello di Roma pronto nel 2026). Per l’organico, invece, al Centro mancano 5 impianti, al Sud 9, in Sicilia 3, ma il problema dovrebbe risolversi entro la fine del prossimo anno, con i soldi del Pnrr. Rimane il tema dell’indifferenziata e dei termovalorizzatori e, se non si provvede, l’Italia rischia di pagare le pesanti sanzioni europee. Nel mentre i gravi problemi ambientali continueranno ad essere scaricati sulla salute dei nostri cittadini e dei nostri territori.
Domenico Affinito e Milena Gabanelli
(da corriere.it)
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Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
POCO PIÙ DI UN ANNO FACE DISCUTERE LA NOMINA DI GERONIMO LA RUSSA, FIGLIO DI IGNAZIO, NEL CDA DEL “PICCOLO”
Dopo Barbara Berlusconi, voluta ovviamente da Forza Italia, nel Consiglio di
amministrazione della Scala la destra piazza Marcello Foa in quota Lega e Melania Rizzoli per Fratelli d’Italia. Se per la terzogenita del Cavaliere la nomina era stata quella in quota alla Regione Lombardia, nell’ultimo caso la designazione porta la firma del ministro della Cultura Alessandro Giuli.
Si completa perciò la squadra di una delle principali istituzioni culturali del Paese: entrerà in carica ufficialmente lunedì 17 febbraio, con il nuovo sovrintendente Fortunato Ortombina. Nel board dei prossimi cinque anni della fondazione, presieduta dal sindaco di Milano Giuseppe Sala, ci sono poi Claudio Descalzi di Eni, Giacomo Campora di Allianz, Giovanni Bazoli di Fondazione Cariplo — le cui società versano ogni anno tre milioni di euro per il teatro — e infine Diana Bracco della Camera di commercio.
Foa fu nominato presidente della Rai ai tempi del governo Lega-5 Stelle. Giornalista molto amato dal pubblico sovranista, tornata la destra al governo gli è stato affidato il programma “Giù la maschera” su Radio Rai 1. È papà di Leonardo, da anni uno dei principali collaboratori dell’attuale vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini.
De Nichilo, vedova di Angelo Rizzoli, è invece considerata la regina dei salotti milanesi tendenti a destra, ed è stata deputata del Popolo delle Libertà, poi recentemente assessora regionale e vicepresidente della Regione sempre con Attilio Fontana.
Vanta un solido rapporto con Vittorio Feltri, che oggi è consigliere regionale di FdI al Pirellone. Gli equilibri politici interni al centrodestra, con un nome di riferimento per ogni partito della coalizione, sono stati insomma rispettati.
«La destra scambia le istituzioni culturali che hanno reso nota Milano nel mondo come l’isola dei famosi. Ci vorrebbe qualche nome noto in meno e un po’ di competenza in più», commenta invece Pierfrancesco Majorino, esponente di punta del Pd milanese. Poco più di un anno fa, a questo proposito, aveva fatto molto discutere la nomina di Geronimo La Russa, figlio di Ignazio, nel cda di un altro tempio della cultura meneghina come il Piccolo. Allora Sala storse pubblicamente la bocca, stavolta il sindaco sceglie la via del silenzio.
(da agenzie)
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Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
LA COOPERATIVA MEDIHOSPES, CHE LO SCORSO MAGGIO HA VINTO L’APPALTO DA 133 MILIONI DI EURO, HA DATO IL BENSERVITO A UN CENTINAIO DI DIPENDENTI ASSUNTI PER LA GESTIONE DELLE STRUTTURE IN ALBANIA
La cooperativa Medihospes ha interrotto il rapporto di lavoro con quasi tutti i dipendenti assunti per la gestione dei centri in Albania, realizzati in base al protocollo firmato dalla premier Giorgia Meloni e dall’omologo albanese Edi Rama. In pratica non c’è più bisogno di lavoratori nei Cpr: il documento ottenuto da Domani conferma in via definitiva il fallimento del piano albanese del governo.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha assicurato durante il question time alla Camera che il progetto Albania sarebbe andato avanti – «per sviluppare le notevoli potenzialità di utilizzo delle strutture» – nel tentativo di evitare di alzare bandiera bianca sul progetto che l’esecutivo considera un modello per tutta Europa.
Mentre spiegava questo al Parlamento, un centinaio di lavoratori dell’ente gestore hanno ricevuto una lettera – che Domani ha potuto vedere – dal loro datore di lavoro: «La informiamo che a causa di una serie di pronunce giudiziarie contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Corte di Cassazione italiana, nonché dell’impossibilità momentanea di accogliere nuovi flussi di migranti, siamo costretti a sospendere temporaneamente il nostro servizio», si legge.
La prefettura di Roma aveva aggiudicato a maggio 2024 l’affidamento alla cooperativa, un colosso già noto nel settore, mesi prima dell’effettiva apertura delle strutture di Shengjin e Gjader, i centri di identificazione e trattenimento destinate a persone salvate dalle autorità italiane in acque internazionali e provenienti da paesi considerati sicuri.
E quindi sottoponibili alle procedure accelerate di frontiera. Centri che in quattro mesi sono stati operativi per un totale di circa due settimane.
Medihospes era stata scelta all’esito di una procedura negoziata, senza gara, del valore di 151,5 milioni di euro per quattro anni con un ribasso del 4,94 per cento. Questo accadeva a maggio 2024. Otto mesi dopo, a fine gennaio 2025, però, la prefettura e la cooperativa non avevano ancora firmato alcun contratto.
La succursale
Ora, però, dalla lettera di licenziamento emerge un ulteriore novità: l’intestazione della comunicazione ai lavoratori è della succursale della cooperativa, aperta in Albania con sede a Tirana, creata dopo l’aggiudicazione dell’appalto. Il presidente è lo stesso della cooperativa italiana: Camillo Aceto, ex amministratore delegato della Cascina, la cooperativa commissariata – il commissariamento è poi stato revocato – nell’inchiesta della procura di Roma su “mafia capitale”.
Nonostante la stazione appaltante e l’ente gestore fossero italiani – senza contare che i centri sono considerati in base all’accordo territorio italiano – sono state applicate le norme albanesi, attraverso quello che viene definito il distacco comunitario del lavoratore.
La comunicazione, firmata quindi dall’amministratore di Medihospes Albania, ha informato i dipendenti che «il contratto di lavoro» tra la cooperativa e il lavoratore «sarà considerato risolto a partire dal 15 febbraio 2025 fino a nuova comunicazione». E, «in attesa di una soluzione giuridica stabile e definitiva», conclude la lettera, «la ringraziamo per la sua comprensione».
Non è chiaro se la decisione della cooperativa sia arrivata su impulso della prefettura di Roma, la stazione appaltante. Di certo, le prime righe della lettera, che richiamano le pronunce giudiziarie «contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Cassazione», sembrano essere state scritte dai rappresentanti del governo, che dal primo trasferimento a oggi hanno accusato i giudici, prima delle sezioni specializzate e poi delle Corti d’appello, di essere politicizzati e di remare contro i progetti dell’esecutivo.
Secondo una fonte sentita da Domani, a conoscenza del caso, nei centri sarebbero quindi rimasti solo alcuni medici e alcuni addetti delle pulizie, oltre agli agenti delle forze dell’ordine.
Dalla riunione tecnica di lunedì a palazzo Chigi, per trovare una nuova soluzione normativa senza attendere la decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea, la soluzione più plausibile sembra essere quella di trasformare le strutture in Centri di permanenza per il rimpatrio.
Il governo mira a non modificare l’accordo firmato con il primo ministro albanese. Anche perché per Rama, contestato internamente dalle opposizioni per l’intesa con l’Italia, è iniziata la campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo 11 maggio e potrebbe non essere politicamente conveniente concedere modifiche all’Italia.
L’accordo è passato dai parlamenti di entrambi i paesi e modificarlo significherebbe ricominciare l’iter parlamentare. In caso contrario, se si riuscisse a trovare un escamotage per non cambiare l’intesa, la soluzione più accreditata dei Cpr comporterebbe comunque molte incognite: come portare le persone già sul territorio italiano senza un permesso di soggiorno nei centri albanesi? Come rimpatriarli?
(da Domani)
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Febbraio 13th, 2025 Riccardo Fucile
“IL PAESE RISCHIA DI TORNARE AI BRUTTI TEMPI IN CUI ERA LEGATO A UNA COMPLESSA RETE DI PARTECIPAZIONI RECIPROCHE. QUESTO SCORAGGEREBBE GLI INVESTIMENTI STRANIERI E BLOCCHEREBBE LO SVILUPPO DELLE BANCHE DEL PAESE. L’ITALIA SI RIPIEGHEREBBE SU SÉ STESSA”
Il settore bancario italiano è in piena fase di stallo. Le armi prescelte sono le
partecipazioni incrociate e le offerte pubbliche di acquisto. Se chiedete a uno qualsiasi degli antagonisti cosa vuole, vi risponderà con il linguaggio della logica industriale e dei ritorni finanziari. Ma è impossibile non vedere dietro le quinte la vecchia politica e l’interesse nazionale.
Questo è un problema. Gli intermediari del potere e le fazioni finanziarie italiane rischiano di trascinarsi l’un l’altra in un groviglio ineluttabile, distraendo i dirigenti e impedendo alle banche di trasformarsi in attori in grado di competere in Europa e oltre.
È inoltre miope che i politici si preoccupino di garantire il controllo italiano della finanza italiana in un momento in cui le politiche aggressive del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump rendono urgente la necessità di una cooperazione europea.
L’offerta di Banca Monte dei Paschi di Siena per Mediobanca è l’emblema della sovrapposizione di obiettivi e motivazioni che caratterizza l’attuale fase di tentativo di consolidamento. Gli investitori di entrambe le parti hanno reagito male al sentore di intrallazzi politici e il valore dell’offerta del Monte Paschi è sceso a un forte sconto del 13% rispetto al prezzo delle azioni di Mediobanca.
A dire il vero, il mercato sembra scettico sul successo di una qualsiasi delle operazioni in corso. L’offerta di UniCredit per il Banco BPM, che è intrappolata nello stesso nodo di interessi, vale quasi il 9% in meno delle azioni dell’obiettivo. E anche l’offerta meno ingarbugliata, quella di BPER per la Banca Popolare di Sondrio, è inferiore di circa il 3% rispetto al prezzo delle azioni. Poiché queste banche hanno comunicato gli utili negli ultimi giorni, i premi negativi tendono a peggiorare.
L’amministratore delegato del Monte Paschi, Luigi Lovaglio, ribadisce che i suoi obiettivi sono puramente aziendali. Il suo discorso agli investitori ha aiutato alcuni a vedere una logica industriale più forte di quella che avevano ipotizzato in un primo momento, ma molti continuano a vedere questa operazione come pesantemente influenzata dalla politica – e non solo perché il governo detiene ancora una quota del 12% nella sua banca.
Gran parte della posta in palio in questa acquisizione è il potenziale coordinamento tra le banche e i loro investitori per una partecipazione del 30% nelle Assicurazioni Generali […] tra i maggiori acquirenti di debito pubblico.
Prima di affrontare questa complicazione, gli investitori hanno avuto problemi con l’operazione stessa. Mediobanca è più grande del suo pretendente e contribuirebbe al 60% del valore di mercato del gruppo allargato se l’acquisizione venisse completata; inoltre, le attività sono quasi completamente diverse, quindi i potenziali risparmi sui costi sono minimi.
Tuttavia, la questione delle dimensioni non è quella che sembra. Il valore della quota del 13% di Mediobanca in Generali equivale a una quota importante della capitalizzazione di mercato della banca – una media del 44% negli ultimi sei mesi.
La risposta di Lovaglio al secondo problema è quella di far valere la natura complementare delle banche, proponendo una visione antiquata di banca universale che fa tutto: banca commerciale, d’affari e d’investimento, consumatori e patrimoni. Oggi poche banche americane, a parte le più grandi, tentano questa strategia; le società finanziarie di successo tendono a scegliere alcune specialità e ad eseguirle nel modo più efficiente possibile.
Il Monte Paschi ha anche minimizzato l’importanza della banca d’investimento di Mediobanca, l’attività per cui è più conosciuta. Nel suo intervento alla conferenza stampa della scorsa settimana, Lovaglio ha dichiarato che il 38% dei profitti di Mediobanca proveniva dai dividendi sulla partecipazione in Generali, il 28% dall’attività di finanziamento al consumo e solo il 18% dalla banca d’affari e d’investimento.
Questo è un po’ falso, perché Mediobanca paga poche tasse sui dividendi di Generali. Su base ante imposte, la banca d’affari ha contribuito per oltre un quarto all’utile del primo semestre. Ignorando Generali, il corporate e investment banking è responsabile di circa il 30% dei ricavi operativi di Mediobanca.
Per essere onesti con Lovaglio, l’unione della forte attività di finanziamento al consumo e del ramo di gestione patrimoniale di Mediobanca con il Monte Paschi potrebbe essere più vantaggiosa di quanto gli investitori abbiano ipotizzato, ma la banca d’affari è ancora significativa e potrebbe facilmente perdere sia i produttori che i clienti in un’acquisizione.
Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, ne ha parlato martedì in occasione della presentazione dei risultati. Ha ragione nel dire che le operazioni ostili per combinare banche commerciali e retail come il Monte Paschi con banche d’investimento come Mediobanca hanno una storia di costosi fallimenti.
Ma questa è ancora solo una metà della storia. Il Monte Paschi è arrivato a questo accordo dopo che le sue opzioni preferite sono state perse, più recentemente quando UniCredit ha lanciato la sua offerta per il Banco BPM. Lovaglio potrebbe aver preso in considerazione un accordo con Mediobanca per un paio d’anni, ma non era in cima alla sua lista.
Anche il governo italiano c’entra. È deciso a creare una terza entità per competere meglio con Intesa Sanpaolo, di gran lunga il più grande istituto di credito del Paese, e UniCredit. È un obiettivo ragionevole: gli istituti di credito più grandi possono essere più efficienti, redditizi e stabili delle banche più piccole (anche se causano problemi maggiori in caso di fallimento).
Ma la chiave di volta politica è la partecipazione in Generali. Due dei maggiori azionisti di Mediobanca – le famiglie miliardarie italiane Del Vecchio e Caltagirone, che hanno assunto partecipazioni anche nel Monte Paschi – sono entrambi grandi investitori nell’assicuratore. Insieme, Mediobanca e le famiglie controllerebbero il 30% di Generali se Monte Paschi completasse la sua acquisizione.
Le famiglie controllerebbero anche circa il 20% della banca allargata. Potrebbero non essere sempre d’accordo tra loro o con il management di Mediobanca – in passato hanno avuto divergenze sulla strategia sia per l’assicuratore che per la banca – ma questa sarebbe comunque una concentrazione di potere potenzialmente utile.
L’importanza di Generali in questa intricata rete della finanza italiana è stata evidenziata dall’acquisizione da parte di UniCredit, questo mese, di una partecipazione nella compagnia assicurativa, che ora ammonta a più del 5%
Il Paese rischia di tornare ai brutti tempi in cui l’Italia era legata a una complessa rete di partecipazioni reciproche nota come salotto buono, in cui uomini influenti decidevano le cose. Questo scoraggerebbe gli investimenti stranieri e bloccherebbe lo sviluppo delle banche del Paese.
L’Italia si ripiegherebbe su se stessa in un momento in cui l’Europa ha bisogno di cooperare e persino di integrarsi di più per evitare di essere divisa e governata dalle politiche cinesi e americane. In Italia c’è potenzialmente un buon consolidamento da raggiungere, ma l’attuale situazione di stallo finanziario deve attenuarsi perché possa emergere.
(da Bloomberg Opinion)
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