Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA AL CORRIERE DELLA SERA”
Il procuratore Nicola Gratteri, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha
commentato la recente sentenza sul caso Diciotti, lanciando un implicito attacco al governo guidato da Giorgia Meloni. A tal proposito, ha richiamato le parole della presidente della Corte di Cassazione: “Ha già risposto la presidente della Corte di Cassazione (“Le decisioni sono criticabili, gli insulti inaccettabili” ndr). Condivido pienamente le sue parole”.
Gratteri ha poi affrontato la questione delle tensioni tra magistratura ed esecutivo, sottolineando come il governo sia rimasto fermo sulle proprie posizioni: “L’intendimento del governo era ed è abbastanza risoluto. Per cui era difficile ipotizzare un cambiamento di rotta o un’apertura al dialogo che, purtroppo, fino ad oggi non c’è stata. Non so se fosse inevitabile. Posso dire però che sono contento di avere aderito allo sciopero. Lo rifarei perché ne condivido le ragioni”.
Il dibattito sulla riforma della giustizia resta acceso, e Gratteri difende il ruolo della magistratura nella discussione pubblica: “La magistratura non fa alcun ostracismo. Di fronte a una riforma che rischia seriamente di minare l’autonomia e l’indipendenza, la magistratura ha prima di tutto il dovere, oltre che il diritto, di esprimere la propria opinione e di far comprendere alla collettività cosa si rischia”.
Entrando nel merito della riforma proposta dal governo, il magistrato ha evidenziato alcuni punti critici e avanzato delle proposte: “In primo luogo una seria revisione della geografia giudiziaria, redistribuendo le risorse secondo le reali esigenze dei territori e chiudendo i piccoli tribunali, che sono inefficienti. Invece, si vuole fare il contrario. Poi farei una revisione dei codici, snellendo le procedure e riducendo al massimo i rimedi impugnatori, che ingolfano corti di appello e Cassazione. E sospenderei, lo dico con dolore, almeno in parte la famigerata app”.
Infine, Gratteri ha escluso la possibilità di un confronto sulla separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti, ribadendo la sua posizione netta sull’argomento: “Penso che la separazione delle carriere non sia un argomento oggetto di migliorie. Non va bene e basta”.
(da agenzie)
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Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
IL SINDACO MANFREDI: “ADDIO GOMORRA”
Sono ufficialmente iniziati questa mattina i lavori di demolizione della Vela Gialla di Scampia, uno degli edifici simbolo del quartiere, spesso associato alla criminalità organizzata e teatro della serie Gomorra. L’evento segna un ulteriore passo avanti nel progetto di riqualificazione della zona, il cui obiettivo è rendere il quartiere popolare di Napoli più vivibile e sicuro. Dalle ceneri delle Vele ispirate alle linee di Le Corbusier, uno dei padri dell’architettura moderna, nasceranno 12 palazzi. In ciascuno vivranno 35 delle famiglie che già oggi sono residenti a Scampia, per un totale di 433 alloggi. Numero vicino ai 475 interessati dal piano. Completata la demolizione della Gialla, rimarrà solo un’altra Vela da demolire.
La nuova Scampia
Il progetto già approvato e finanziato prevede la nascita, oltre che degli alloggi, di una nuova scuola, di un centro civico e spazi verdi in cui rientreranno orti comuni e una fattoria didattica. Ci sarà anche un mercato. Delle Vele, rimarrà in piedi solo quella Celeste, a ricordare un complesso edilizio nato con le migliori intenzioni di integrazione e comunità, ma diventato nel tempo simbolo di degrado e criminalità, isolato dal resto della città e lontano dalla presenza delle istituzioni. «Non è più la Scampia di Gomorra, ma una nuova Scampia», ha esultato il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi.
«Un momento storico”
Manfredi si recato ad assistere le operazioni di demolizione, assieme al vicesindaco e assessore alle Politiche urbane, Laura Lieto, il presidente della Municipalità, Nicola Nardella, e i rappresentanti del Comitato Vele, che da anni si battono per la rigenerazione del territorio. «Oggi è veramente una bella giornata, una giornata importante per Napoli e per Scampia», ha aggiunto il primo cittadino partenopeo. «È un momento simbolico in cui inizia la demolizione della Vela Gialla. Siamo riusciti a rispettare i tempi ed è anche un momento emozionante. Oggi il nostro pensiero va anche alle vittime della Vela Celeste», ha aggiunto, ricordando il tragico crollo avvenuto a luglio scorso, che causò tre morti e undici feriti.
(da Fanpage)
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Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
INTERVISTA A JESUS RAMIREZ, GIORNALISTA E POLITICO MESSICANO
Jesús Ramírez è un giornalista e politico messicano del partito Morena, attualmente
Coordinatore dei consiglieri della presidente della Repubblica, Claudia Sheinbaum. Parliamo con lui dell’accordo realizzato con gli Stati Uniti per rinviare l’applicazione di dazi sull’importazione di prodotti messicani, delle relazioni commerciali del Messico con i partner americani e con quelli asiatici e dei primi cinque mesi di governo della presidente messicana.
Alla fine Trump è tornato indietro sull’imposizione dei dazi: ci spiega com’è andata?
Trump si è dovuto confrontare con l’industria automobilistica che produce in Messico per gli Stati Uniti. Questa interdipendenza fa sì che imporre i dazi significhi aumentare il prezzo dei prodotti, molti dei quali sono emblematici della vita e dell’economia statunitense, specialmente le automobili. L’industria automobilistica è insediata principalmente in Messico – si tratta di automobili fabbricate in Messico con pezzi statunitensi importati – e l’imposizione di dazi al settore avrebbe avuto una ripercussione economica molto forte. L’industria automobilistica è stata quindi la prima a protestare. Non so se Trump avesse già preso la decisione prima della telefonata con Sheinbaum e abbia approfittato di questa per posporre l’applicazione dei dazi al Messico e al Canada. Penso che non l’avesse già presa, perché prima della telefonata Trump continuava a insistere sull’applicazione dei dazi. Nella telefonata con la presidente del Messico, entrambi hanno scambiato i loro punti di vista e verificato gli avanzamenti in materia di immigrazione, sicurezza e delle relazioni commerciali, che sono stati possibili anche grazie alla cooperazione tra i due paesi. E perciò la misura unilaterale dei dazi avrebbe rotto il clima di fiducia e di cooperazione: i risultati che Trump può vantare a questo proposito, come quello della riduzione dell’immigrazione o della riduzione del traffico di Fentanyl, sono possibili proprio perché frutto della cooperazione col Messico. Perciò, per entrambi i motivi, dev’essere sembrato più conveniente per l’amministrazione Trump mantenere le attuali relazioni col Messico.
La politica commerciale di Trump è erratica e sta creando molta confusione sui mercati. Si dice sempre che Trump usi i dazi come strumento di ricatto. Ma non sarà anche che la realtà economica è difficile da piegare?
Ci sono varie questioni. La prima è che la realtà s’impone sul desiderio. Trump prova a mantenere una politica da campagna elettorale con una retorica da campagna elettorale. Ma una cosa è il discorso, anche nella forma poco diplomatica che utilizza, altra è dovere assumere delle misure che siano realiste. Trump ha tradotto le strategie commerciali, imprenditoriali in politiche tra governi: non è lo stesso negoziare per gli affari che negoziare in termini diplomatici, perché nel primo caso pesano altri fattori. E questa credo sia la ragione principale del comportamento di Trump. Inoltre, ci sono anche altre industrie meno visibili ma con un peso importante, come quella aerospaziale o quella militare, che hanno una parte della produzione in Messico. In più, la consapevolezza che il trattato di libero commercio ha rafforzato la regione e che perciò attaccarlo significherebbe indebolire l’economia degli Stati Uniti e il ruolo dell’area nel commercio mondiale, contraddicendo quindi il piano di rafforzamento dell’economia statunitense.
La lotta al narcotraffico in Messico e al traffico illegale di armi negli Stati Uniti è uno dei terreni su cui state lavorando con i vostri vicini: ci spiega?
C’è un tavolo di lavoro comune dove si analizza la diagnosi della situazione, per cui ci sono oltre 200.000 armi che arrivano in Messico dagli Stati Uniti ogni anno e l’80% delle armi sequestrate dalle forze di sicurezza messicana proviene dagli Stati Uniti, incluse armi di guerra che non si trovano nei negozi dove si vendono armi per la caccia, ma che provengono direttamente dall’industria militare. Stiamo investigando questa situazione, nella quale le armi sono il principale strumento di dominio nel mercato illegale del narcotraffico, rafforzando quelli che oggi gli Stati Uniti considerano gruppi terroristici. Quindi, la discussione non è solo diminuire o terminare con il traffico di armi come una via per combattere il traffico di droghe illegali, specie del Fentanyl. Ma anche quella di ricercare le responsabilità dei governi di Messico e Stati Uniti in questo traffico illegale e della stessa industria. Perché uno dei punti di forza che hanno questi gruppi di criminali è la capacità di fuoco di cui dispongono. C’è un processo in corso in Messico contro varie imprese statunitensi per la loro responsabilità nel traffico illegale di queste armi, che si risolverà nelle prossime settimane.
In conferenza stampa Sheinbaum ha presentato i risultati della lotta al traffico di Fentanyl, con la consegna agli Stati Uniti di diversi capi del narcotraffico.
Sono stati consegnati 29 capi per cui c’era la domanda di estradizione attraverso la legge di Sicurezza Nazionale, alcuni di loro erano in causa di estradizione da quarant’anni.
Perché non era stata possibile prima la loro estradizione?
La trasformazione del potere giudiziario messicano negli ultimi anni, secondo gli standard più prossimi a quelli statunitensi, non ha però funzionato per mettere fine alla corruzione a all’impunità. La sottomissione del potere giudiziario ai poteri forti ha permesso casi come quello della liberazione di 72 delinquenti reo confessi di avere fatto sparire 43 studenti in Ayotzinapa, per violazione del giusto processo. La ragione principale della mancata estradizione dei capi del narcotraffico è che questi sono stati continuamente protetti e addirittura liberati da giudici corrotti.
E come ci siete riusciti ora?
Perché non si è trattato di estradizioni. Abbiamo applicato piuttosto la legge di Sicurezza Nazionale per muovere dei prigionieri la cui condotta criminale era comprovata, così da essere processati negli Stati Uniti, che ne avevano fatto richiesta. Una decisione di Stato che ha assunto il Consiglio di Sicurezza Nazionale, per mandare un segnale agli Stati Uniti, ma anche per dimostrare la volontà di combattere l’impunità dei capi del narcotraffico.
Attualmente c’è un’area di libero commercio tra Stati Uniti, Messico e Canada: cosa ha significato questo per lo sviluppo del suo paese?
Nel 1994 il Messico ha firmato il trattato di libero commercio, il che ha comportato l’apertura della propria economia al mondo ma specialmente agli Stati Uniti. E il risultato è che l’80% delle esportazioni del Messico va agli Stati Uniti, siamo passati dall’essere il quarto o quinto esportatore degli Stati Uniti a esserne il primo socio commerciale, sopravanzando il Canada e soprattutto la Cina. La Cina era il principale esportatore di manufatti agli Stati Uniti, oggi sta al terzo posto. L’economia messicana si è vista beneficiata dalla capacità di produrre nella regione la gran parte dei prodotti che si necessitano, dalla diminuzione della dipendenza da altri mercati come l’Asia e dal miglioramento delle condizioni di vita di entrambe le popolazioni. Si è trattato di un benefico reciproco. Forse la critica che si può fare ha a che vedere col modello di integrazione economica, in cui si richiede ancora di migliorare le condizioni salariali, di lavoro, di democrazia sindacale. Noi abbiamo realizzato prima con Obrador e adesso con Sheinbaum un miglioramento nei redditi da lavoro. Adesso il salario messicano è duplicato, ma la differenza con quello statunitense è ancora molto grande: nel settore minerario gli statunitensi guadagnano nove volte più di quelli messicani e questo è il settore in cui i lavoratori sono meglio pagati in Messico e negli Stati Uniti.
Avete rapporti commerciali molto sviluppati con la Cina, Sheinbaum ha detto però di volere ridurre la dipendenza di alcuni prodotti riportando le produzioni in Messico.
La scommessa del Messico è di rafforzare il trattato di libero commercio per l’integrazione tra i paesi e il potenziamento della regione, per renderla più competitiva rispetto ad altre regioni e soprattutto all’Asia. Il Messico ha una politica di diversificazione delle relazioni commerciali con tutto il mondo, ma il messaggio che si è scelto di dare con le due ultime amministrazioni è di voler rafforzare la regione, anche potenziando il vincolo economico di tutto il continente, come un vantaggio di fronte alle altre aree del mondo. C’è una scommessa di Sheinbaum per rafforzare anche il mercato interno. Per esempio, vanno ricercate la sovranità energetica e quella alimentare, perché sono due settori molto importanti su cui si fonda la libertà dei paesi. Lavoriamo perché l’industria elettrica e del petrolio aumenti la produzione e rafforziamo la produzione di alimenti consumati in Messico. Ma sappiamo anche che la capacità di esportazione di alimenti messicani agli Stati Uniti è molto grande: il 63% degli alimenti dell’agricoltura e della pesca che consumano gli Stati Uniti sono prodotti dal Messico. E gli Stati Uniti non hanno la capacità di produrre gli alimenti di cui hanno bisogno, come propone Trump.
Domenica festeggerete l’accordo nel Zócalo, la piazza storica di Città del Messico. Che succede se il 2 aprile Trump impone definitivamente i dazi promessi alle importazioni messicane?
Quello di domenica è un atto di unità del popolo messicano per affrontare la situazione che si vive nel mondo, in relazione a quanto oggi sta facendo Trump cambiando le relazioni, i vincoli, la mappa geopolitica mondiale. Perciò, si richiede l’unità del paese e il rafforzamento della leadership di Claudia Sheinbaum. E’ un atto di unità del popolo, dei partiti e dei settori economici attorno alla presidente messicana. Ed è il migliore atteggiamento per affrontare le relazioni con i vicini del Nord. Il nostro messaggio è che vogliamo cooperare e migliorare le relazioni economiche a beneficio dei tre paesi, ma nel rispetto della sovranità e dell’autonomia di ciascuna nazione e ricercando l’interesse reciproco. Non accettiamo relazioni di subordinazione, né minacce esterne. La questione relativa al 2 di aprile ha a che vedere con il cambio di strategia di Trump. Dal mese di febbraio Trump va annunciando che avrebbe imposto dazi a Messico e Canada in modo unilaterale. Ma rinviando l’applicazione di dazi al 2 aprile la situazione cambia, perché in quel giorno il piano di Trump è di applicare dazi reciproci. Perciò si tratta di inquadrare il tema dei dazi nel trattato di libero commercio, per cui gli Stati Uniti non pagano dazi al Messico e il Messico non paga quasi dazi alle sue esportazioni agli Stati Uniti, con un vantaggio reciproco. Dal momento che si tratta di relazioni economiche asimmetriche, stiamo provando come attraverso il dialogo, con questo trattato di libero commercio, si possa arrivare a un trattamento rispettoso.
Perché è riuscito alla presidente del Messico quello che non era riuscito il giorno prima al presidente del Canada?
Contano le personalità di ciascuno, l’intesa tra le persone, nel caso di Trudeau e Trump si vede che non c’è alcuna chimica e questo si esprime nelle relazioni politiche e personali. Nel caso di Sheinbaum, intanto si tratta di un governo in continuità col progetto di cambio guidato da Andrés Manuel López Obrador, che è stato un presidente molto popolare, con una grande forza politica e sostegno sociale. Sheinbaum, però, non solamente eredita questa forza ma la moltiplica: la leadership di Claudia Sheinbaum oggi in Messico non ha precedenti, ha l’85% del consenso popolare. Trump è presidente da un mese e ha già perso quattro punti di consenso, nel caso di Sheinbaum il consenso popolare in cinque mesi da quando è presidente è aumentato in oltre dieci punti. Il Messico è perciò un paese unito, con un’economia minore di quello statunitense, ma con un governo e un popolo uniti e una leadership in crescita. E il riconoscimento di Sheinbaum tra i migranti messicani negli Stati Uniti è molto grande. L’opposizione in Messico sta cercando di minimizzare il fatto che sia stata una telefonata a far cambiare i piani a Trump. Ma il Messico ha preso misure che hanno beneficiato anche gli Stati Uniti in materia di immigrazione e di narcotraffico: i dazi avrebbero alterato e messo in crisi la relazione, obbligandoci a mettere da parte la cooperazione, perché non si può cooperare con qualcuno che ti picchia. E quindi il messaggio di Sheinbaum è stato molto chiaro: “Come possiamo cooperare se il mio popolo viene colpito da decisioni unilaterali? Devo proteggere e difendere gli interessi del mio popolo e perciò non posso accettare la vostra decisione di imporre i dazi”. E poi, evidentemente, c’è anche una componente personale, c’è una certa chimica tra la presidente e Trump che ha aiutato il fluire del dialogo.
La presidente Sheinbaum parla sempre di rispetto reciproco nel rapporto tra gli Stati. Che cos’è il rispetto in un’epoca in cui c’è un presidente americano che ha una concezione delle relazioni internazionali più del secolo XIX che del secolo XXI?
Quello che ci ricorda Trump è che il colonialismo, l’idea del dominio delle metropoli (nazioni imperiali, ndr) continua a essere parte della cultura delle relazioni internazionali e che quel comportamento che è contrario al senso comune, al diritto internazionale e al rispetto tra i popoli, continua a essere la politica dominante delle metropoli. Il rispetto va inteso come il campo nel quale si permette ai popoli di essere e di esercitare i propri diritti senza che vengano calpestati nella realtà. Ragionando in termini di comunicazione politica odierna, poiché si stanno rompendo le forme, il linguaggio corretto viene spesso messo da parte. Quindi bisogna distinguere tra la retorica politica e i fatti reali che possono costituire o meno il rispetto e non cadere nella trappola della retorica, delle forme. Perché quello che Trump comunica al suo interno non è lo stesso dei fatti concreti che magari vanno in altra direzione.
(da Fanpage)
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Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
“SE RAGIONA COSÌ, È IMPOSSIBILE AFFIDARGLI LA SICUREZZA NAZIONALE” (SENZA CONTARE CHE IL MINISTRO URSO È STATO ATTACCATO DURAMENTE DA ANDREA STROPPA, IL REFERENTE DI ELON IN ITALIA)
Salvini lo salva e rilancia: con la creatura di mister Starlink bisognerebbe fare accordi subito, «anche da domani». Meloni arretra, sa che potrebbe scottarsi. Mentre le opposizioni usano il fianco scoperto della premier, picchiando sui rischi cui è già esposto il ddl spazio approvato quattro giorni fa alla Camera.
Non basta, al capo del Carroccio, l’ultima sfida del padrone dello spazio Elon Musk, oltre che proprietario di X, di Tesla, e neo-vertice del Doge, il dipartimento per l’efficienza governativa dell’amministrazione Trump. «Il governo avrebbe interesse anche domani mattina a firmare un contratto con Starlink che ha 7mila satelliti – dice Salvini – non perché mi stia simpatico Musk o perché appoggi Trump, ma ne andrebbe del miglioramento della sicurezza nazionale».
E certo «di mettermi nelle mani dei francesi non ho voglia », aggiunge il vicepremier leghista che poi torna ad attaccare Macron, dicendosi però «dispiaciuto se si è offeso» per le sue critiche asprissime dei giorni scorsi e affermando che «la Lega al governo dice quello che altri pensano ma non sempre possono dire». Quanto a Musk, Salvini concede un distinguo solo sul disimpegno americano nella Nato, minacciato sempre ieri da mister Tesla: «Musk da libero cittadino fa bene a suggerire quello che crede, ma io ritengo che l’alleanza atlantica sia fondamentale per garantire la pace. Secondo me da questo punto di vista sbaglia. Come sbagliano quelli che a sinistra dicono di no a Musk a prescindere».
Per il resto, continua a sperare nella comunione degli affari tra Starlink e l’amministrazione italiana.
Perché no, anche in Lombardia: «Io non so del bando (valore 6 milioni e mezzo di euro, Starlink compare tra i 30 partecipanti, ndr ). Se è così mi fa piacere perché è un’azienda che lavora. Il governo italiano vada fino in fondo».
Posizioni considerate sbilanciate, dal resto dell’esecutivo. Da settimane si valutano altre opzioni. Eva Berneke, manager al vertice di Eutelsat, impresa franco-britannica rivale di Starlink, ha confermato interlocuzioni con Roma. E dentro FdI molti ormai prendono le distanze, riservatamente, dall’idea di un accordo con Musk, inclusi quelli che all’inizio comprendevano le ragioni di un’intesa, valutando l’avanguardia tecnologica del colosso statunitense rispetto alle alternative, almeno nel breve periodo, offerte da realtà europee. I Fratelli, su questo, non sono stati un monolite dall’inizio, a dirla tutta.
Adolfo Urso, ministro delle imprese, è stato attaccato duramente da Andrea Stroppa, l’uomo di Musk in Italia. Ma anche tra i colleghi di governo più inclini all’inizio a trattare col gigante Usa, arriva una sostanziale frenata. Condita da questa analisi: se Musk ragiona così, «è impossibile» affidargli la sicurezza nazionale. Siglare un contratto assomiglia sempre più a un’opzione complicata, anche se ci fossero garanzie del governo americano. Il problema semmai è l’alternativa: l’Ue non è pronta.
Da sinistra, durissime critiche. «Il governo cambi subito rotta e sul ddl Spazio non si faccia dettare la linea da Musk», attacca Schlein. Dai dem interviene anche il presidente dei senatori, Boccia: «Meloni venga a dire in Parlamento se è d’accordo con Musk». Emma Pavanelli, M5s, accusa: «La premier svende la patria».
(da agenzie)
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Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
RISPETTO ALLA DIRETTIVA DEL 2008, STAVOLTA LE REGOLE SARANNO VINCOLANTI PER TUTTI, SENZA BISOGNO CHE SIANO RECEPITE NEL DIRITTO NAZIONALE – GIORGIA MELONI, ALLE PRESE CON IL FLOP DEL “MODELLO ALBANIA”, ATTENDE UN CHIARIMENTO DELLA DEFINIZIONE DI “CENTRI DI RIMPATRI” IN PAESI TERZI
In coincidenza con i cento giorni del secondo mandato di Ursula von der Leyen alla guida
della Commissione europea, domani la presidente con il commissario Ue agli Affari interni Magnus Brunner presenterà a Strasburgo una proposta legale sui rimpatri.
Un provvedimento che gli Stati membri attendono con grande interesse perché il sistema in uso per i rimpatri dei migranti irregolari, a cui è stata respinta la domanda di asilo in uno dei Paesi Ue, non funziona adeguatamente.
Si tratterà di una proposta «ambiziosa», ha anticipato ieri in conferenza stampa la presidente von der Leyen: «I rimpatri sono un elemento chiave del Patto sulle migrazioni e l’asilo — ha spiegato —. Proporremo norme comuni per i rimpatri, con un nuovo ordine di rimpatrio europeo e il riconoscimento reciproco delle decisioni di rimpatrio da parte degli Stati membri».
L’obiettivo è creare «un sistema veramente europeo per i rimpatri» attraverso un «regolamento con norme più semplici e chiare, che impedisca la fuga e faciliti i rimpatri di cittadini di Paesi Terzi senza diritto di soggiorno».
A differenza della precedente direttiva sui rimpatri che risale al 2008, stavolta la Commissione proporrà un regolamento, quindi le misure contenute saranno vincolanti in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in tutti gli Stati membri dell’Unione dalla data di entrata in vigore del testo, senza bisogno che siano recepite nel diritto nazionale. Il nuovo testo sostituirà una proposta di direttiva che era rimasta bloccata nei negoziati in Consiglio nella scorsa legislatura.
Il commissario Brunner mercoledì scorso al termine del Consiglio Affari interni ha anticipato che il nuovo regolamento un rafforzamento del riconoscimento reciproco tra i Paesi Ue delle decisioni prese in uno Stato membro riguardo a un migrante irregolare, per evitare che le richieste di asilo respinte siano ripresentate altrove nell’Ue.
Il nuovo regolamento dovrebbe anche chiarire la definizione e il concetto di «centri di rimpatri» in Paesi Terzi, in cui poter inviare i migranti irregolari a cui è stata respinta la domanda di protezione internazionale, che sono oggetto di decisioni di espulsione. Attualmente solo uno su cinque migranti irregolari che dovrebbero essere rimpatriati — ha spiegato Brunner — lo è poi effettivamente.
La revisione dei criteri per la definizione dei Paesi Terzi considerati sicuri e la lista europea dei Paesi di origine sicuri non dovrebbe essere parte della proposta di domani, il tema sarà però affrontato presto, comunque «prima di giugno», ha detto Brunner mercoledì scorso.
(da il “Corriere della Sera”)
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Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
LE INGERENZE DI MOSCA NON SONO UN’INVENZIONE: LA MANIPOLAZIONE ELETTORALE E LE AZIONI IBRIDE DA PARTE DI MOSCA SONO PROVATE… LA CAMPAGNA “ALTAMENTE ORGANIZZATA” SUI SOCIAL E L’INTERESSE DI “MAD VLAD”: LA ROMANIA HA UN CONFINE DI 650 KM CON L’UCRAINA, ED È UN PAESE STRATEGICO PER LA NATO
Un altro colpo di scena ha scosso la già complicata situazione politica della Romania, strattonata da inferenze russe, loschi manipolatori, presunte spie, e, in ultimo, anche dalle pressioni di Elon Musk. Ieri la commissione elettorale centrale di Budapest ha respinto la candidatura di Calin Georgescu, leader filorusso dell’estrema destra, alla corsa per le presidenziali del 4 maggio.
Un “no” al quale, come già in passato, si sono opposti i suoi sostenitori, che subito dopo la decisione sono scesi in piazza affrontando i gas lacrimogeni della polizia al grido di “Libertà, Libertà”. Perfino Elon Musk si è schierato sui social, definendo l’esclusione di Georgescu dalle presidenziali «una follia».
Georgescu aveva presentato la sua candidatura, nonostante dubbi sulla sua idoneità, dopo che la Corte suprema romena aveva annullato le elezioni due giorni prima del secondo turno di dicembre, a causa di un’accusa di ingerenza russa a suo favore.
E se ancora non è chiaro quali siano i motivi per i quali la candidatura è stata respinta è certo che il candidato presidente è sotto inchiesta penale per sei capi d’imputazione, tra cui false informazioni sul finanziamento della campagna elettorale, che sarebbe stata pagata dalla Russia.
Georgescu era arrivato sulla scena politica dal nulla e aveva vinto il primo turno delle presidenziali del 24 novembre scorso, annullate dalla Corte costituzione due giorni prima del ballottaggio dell’8 dicembre per una serie di irregolarità nel finanziamento della sua campagna elettorale, con accuse di ingerenze russe a suo favore che hanno portato anche all’allontanamento quale “persona non grata” di alcuni diplomatici.
A fine febbraio Georgescu era stato fermato dalla polizia e interrogato dai giudici che lo avevano messo sotto inchiesta con pesanti accuse, tra l’altro attentato all’ordine costituzionale, false dichiarazioni sul finanziamento della sua campagna elettorale, costituzione di una organizzazione di carattere fascista, razzista e xenofoba. Ciononostante, aveva deciso di ripresentare la sua candidatura.
La vicenda è un caso esemplare in cui si intersecano azioni di guerra ibrida, manipolazione, propaganda, corruzione e un fiume di denaro che ha inondato il Paese per deciderne il futuro. Ma è allo stesso tempo il tentativo di impedire che uno Stato straniero, in questo caso la Russia, si intrometta nelle questioni interne romene.
La decisione dell’annullamento delle elezioni era arrivata dopo la declassificazione di informazioni di intelligence secondo cui la Russia aveva condotto una vasta campagna per promuovere il candidato filo-Putin, anti Ue e anti-Nato, Calin Georgescu.
Nel rapporto dell’intelligence si parla di uno sforzo di manipolazione elettorale «coordinato e sponsorizzato da uno Stato», con la Romania obiettivo delle «azioni ibride» della Russia.
L’improvviso e sorprendente aumento di popolarità di Georgescu sarebbe dovuto quindi a una campagna «altamente organizzata» sui social media, attraverso la condivisione di messaggi identici e l’uso di influencer.
L’interesse russo per la Romania non sorprende, dal momento che condivide un confine di 650 chilometri con l’Ucraina, ed è considerato dagli alleati occidentali Paese strategico, con tre basi militari Nato e circa 5.000 truppe a supporto delle operazioni di difesa congiunta. La Romania, inoltre, fornisce una via di transito vitale per milioni di tonnellate di grano ucraino e ospita 170.000 profughi di guerra.
Dall’invasione su larga scala del 24 febbraio 2022, Bucarest è diventata uno dei principali partner per la sicurezza di Kyiv, con un accordo bilaterale decennale che prevede tra l’altro, un protocollo per la sicurezza del Mar Nero, lo sminamento, l’intelligence e il controspionaggio, sicurezza informatica. Inoltre, finora la Romania ha fornito all’Ucraina veicoli corazzati per il trasporto di personale, lanciarazzi multipli, obici, proiettili di artiglieria, lanciagranate, mitragliatrici e molto altro.
Un candidato come Georgescu, esplicitamente contrario alla Nato e, soprattutto all’invio di aiuti militari all’Ucraina, deve essere parso al Cremlino il cavallo perfetto su cui puntare.
Georgescu ha sempre affermato di aver speso «zero» per la promozione elettorale. Ma i documenti di intelligence identificano un account TikTok che avrebbe effettuato pagamenti per 381.000 dollari in un solo mese dal 24 ottobre, a utenti che promuovevano Georgescu.
Le agenzie di intelligence hanno inoltre segnalato 85.000 tentativi di hacking
Il rapporto afferma che i criminali informatici hanno utilizzato metodi avanzati per rimanere anonimi, lavorando su larga scala e con metodi che ricordano molto da vicino quelli della Russia.
(da agenzie)
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Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA DIFESA COMUNE DOVEVA ESSERE UN PILASTRO DELL’UE, TANTI STATERELLI NON POSSONO FARLA
Narra una versione tragica del grande mito che gli dèi fecero combattere tra di loro Greci e
Troiani per svuotare la terra dalla moltitudine prepotente dei mortali. Questo è il rischio estremo che corrono i conflitti nell’epoca delle armi atomiche. Sembra che la propensione verso di esso cresca col crescere delle capacità dell’Homo technicus. La saggezza dell’Occidente sa fin dalle sue origini quanto insaziabile sia la nostra specie, quanto smisurata possa esserne la audacia. Anche senza massacrarsi in guerre, essa è in grado di architettare straordinarie vie per la propria distruzione, o almeno per la propria infelicità. Il suo rapporto con l’ambiente, con la propria “casa” è sempre stato difficile – oggi la stessa potenza delle armi, in ogni senso, di cui disponiamo potrebbe trasformarlo in un conflitto mortale.
Ma il rischio politico più ravvicinato sulla strada che sciaguratamente sembra abbiamo deciso di percorrere è quello che l’ennesima versione dell’interminabile bellum civile europeo porti per la terza volta l’umanità intera alla catastrofe. L’Europa, da quella cristiana medievale a quella della rivoluzione scientifica e industriale, fino a quella contemporanea della “morte di Dio”, si è sempre riconosciuta come una “famiglia”. Ed è appunto nelle “famiglie”, dal loro seno, che si formano i dissidi più implacabili, che esplodono le vere guerre, quelle in cui so chi è il mio nemico e perché lo combatto.
L’Unione europea, malgrado l’improba fatica di molti suoi rappresentanti del Dopoguerra, almeno fino agli anni Novanta, per costruire un’Europa che fosse protagonista di una politica di pace su scala globale, non è riuscita a eliminare le ragioni della guerra civile al suo interno. Ci siamo forse illusi bastassero interessi economici, aspettative di sviluppo derivanti da mercati e monete comuni, per bonificare le fonti che avevano portato a tante immani tragedie. Neppure sono bastate le guerre civili nella ex-Jugoslavia a farci vigili, pronti a disinnescare con ogni mezzo le nuove minacce. E quando alcuni Stati europei, ma senza coordinamento strategico autentico con l’insieme dell’Unione, hanno pure cercato di intervenire per giungere a un accordo nel conflitto tra Ucraina e Russia, la guerra civile era già esplosa nelle regioni del Donbass. Questa è ora a un passo dal trasformarsi in una Grande Guerra. Civile sempre, poiché l’idea che la Russia delle guerre napoleoniche, la Russia alleata a Francia e Gran Bretagna nella prima Grande Guerra, la Russia di Stalingrado, costituisca uno spazio culturale e politico estraneo all’Europa è solo indice o di ignoranza storica o di indecente malafede.
Escludiamo pure che il rischio sommo, di un confronto armato diretto tra un esercito o eserciti europei occidentali e la Russia, venga corso fino al precipizio. Quello di una definitiva rottura di relazioni non solo politiche, ma economiche e commerciali, col protrarsi della guerra in Ucraina non sarebbe tale, ma una certezza. E così altrettanto certe le sue conseguenze: un ulteriore indebolimento delle economie europee, l’aumento massiccio delle spese militari, l’impossibilità di sostenere spese sociali e i redditi più bassi. Politiche neo-liberiste, politiche neo-conservatrici mescolate ad altre di destra-destra, hanno minato le fondamenta dello Stato sociale uscito dalla tragedia della Seconda Guerra anche “a prescindere” dalle guerre civili nell’Europa dell’Est, questo è vero – ma è altrettanto vero che la guerra, per propria natura, tenderà a rafforzarle fino a renderle irresistibili. Se ne rendono conto gli oppositori alle varie Meloni?
Le nostre democrazie, quelle che abbiamo cercato di difendere e sviluppare in Europa nel corso del secondo dopoguerra, non potranno sopravvivere se la situazione continua a svolgersi nel segno della guerra. Di questa lapalissiana verità cerchiamo almeno di renderci e render conto. Abbiamo deciso che una grande iniziativa politico-diplomatica per il cessate il fuoco è impossibile? Che la Russia pensa di invadere il continente? Che il riarmo è indispensabile di fronte a una tale minaccia? Bene, smettiamola di cianciare non solo di servizi, di investimenti in scuola e sanità, di lotta alle disuguaglianze, ma anche di diritti. Una società in guerra è necessariamente una società chiusa, ultra-controllata, a caccia di idoli identitari, dominata dalla paura. E, per favore, non stupiamoci se poi l’Alleanza che vince è quella fuer Deutschland.
Potrebbe apparire confortante che in tale disastro l’Europa, ovvero la miriade di Stati e staterelli che la compongono, sembri volersi finalmente muovere verso una difesa comune (chiamarla riarmo non è espressione felice, ma fingiamo che i nomi contino poco). Quello della difesa comune avrebbe dovuto rappresentare, in tempi anni luce lontani, addirittura il primo passo dell’Unione. Rimane però misterioso come un simile piano possa reggersi senza comune politica internazionale, senza un vero Governo di una vera Federazione di Stati d’Europa. E senza un Esercito europeo. Buttare il cuore oltre l’ostacolo a volte può anche riuscire, ma a patto che almeno alcune condizioni elementari per il successo dell’audace impresa vengano rispettate. Se neppure le spese per il cosiddetto riarmo verranno decise e gestite unitariamente, se ognuno continuerà a sviluppare i propri personali sistemi, i propri carri armati, caccia, incrociatori e baionette, quale Arlecchino di esercito e di difesa comune ne uscirà? Basta per una politica autentica di difesa la decisione di aumentare la spesa per armi? È soltanto una questione di percentuali sul Pil e non di organizzazione e di strategia? La priorità è oggi finanziare la guerra e non sostenere salari e servizi? Armarsi è necessario? Evitiamo almeno, per favore, il rischio di bruciare risorse in ordine sparso a esclusivo vantaggio di chi le armi le produce e le vende.
Massimo Cacciari
(da lastampa.it)
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Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
PER I GIUDICI IL PARLAMENTO HA VIOLATO LA CONVENZIONE DI MERIDA ANCHE PERCHE’ NON HA COMPENSATO L’ELIMINAZIONE DELLA NORMA PENALE CON ALTRI MECCANISMI REPRESSIVI
La cancellazione del reato di abuso d’ufficio crea una sacca di impunità e indebolisce, di conseguenza, la lotta alla corruzione, violando norme internazionali a cui l’Italia è vincolata. Ne è convinta la Cassazione, che ha presentato ricorso alla Corte costituzionale.
L’abrogazione del reato, voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, d’intesa con l’intero governo, ha lasciato, secondo la Cassazione, un vuoto che non è stato colmato da alcun provvedimento per tutelare i cittadini dagli abusi di potere di pubblici ufficiali, in violazione degli articolo 11 e 117 della Costituzione, con riferimento al mancato rispetto della convenzione Onu anti-corruzione, di Merida, dell’agosto 2003, firmata dall’Italia a dicembre di quell’anno. Per queste ragioni la Suprema Corte si è rivolta alla Consulta prima di decidere su un ricorso di un condannato, un ex segretario comunale, che, per il principio del favor rei, ha chiesto l’annullamento della pena per abuso d’ufficio, anche se il reato fu commesso quando ancora era in vigore. Sulla scia di questo principio la procura generale aveva chiesto l’annullamento della condanna “perché il fatto non è più previsto dalla legge”, ma secondo i giudici l’abrogazione dell’abuso d’ufficio è incostituzionale e, dunque, prima di entrare nel merito del ricorso, chiedono la pronuncia della Consulta. Secondo la Cassazione c’è un contrasto dell’articolo 1 della legge Nordio con l’articolo 19 della Convenzione di Merida “rubricato in ‘abuso d’ufficio’”. Prevede l’adozione da parte degli Stati firmatari di “misure legislative necessarie” affinché sia punito “il pubblico ufficiale quando ha commesso intenzionalmente un atto abusando delle proprie funzioni” o è accusato “di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi, al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità”.
Questa “disposizione” della Convenzione di Merida, spiega la Cassazione, “delinea una nozione di abuso d’ufficio omologa” al reato di abuso d’ufficio previsto dal codice penale italiano (articolo 323) e abrogato dalla riforma Nordio. La stessa Cassazione ricorda che secondo la Convenzione “l’obbligo di considerare l’introduzione del reato di abuso d’ufficio costituisce il livello minimale vincolante per ogni Stato contraente”. E anche se l’obbligo è riferito solo alla valutazione dell’introduzione dell’abuso d’ufficio, c’è, però, secondo la Cassazione, un obbligo dettato dalla Convenzione di “compensare” l’abrogazione di una norma come l’abuso d’ufficio con altri “meccanismi” a tutela dei cittadini vittime di pubblici ufficiali infedeli. Scrive la Cassazione: “Utilizzando il verbo ‘mantain’” , la Convenzione, “obbliga gli Stati contraenti… dall’astenersi dall’adottare misure legislative o amministrative che comportino il regresso rispetto al livello di attuazione raggiunto dagli scopi” di Merida. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio “ha violato questo specifico obbligo in quanto non è stata ‘compensata’ dall’adozione di meccanismi preventivi e repressivi, penali o amministrativi” contro gli abusi “degli agenti pubblici ai danni dei cittadini”. Per i giudici non può essere considerata una “compensazione” il sistema disciplinare interno alla pubblica amministrazione. Il reato di abuso d’ufficio, invece, “aveva una portata generale estremamente efficace anche sul piano preventivo” della lotta alla corruzione, “in ragione della previsione della minaccia della sanzione penale”.
La Cassazione ha potuto ricorrere alla Corte costituzionale perché, sostiene, non mette in discussione la scelta del legislatore di cancellare un reato, dato che spetta al potere politico stabilire la sfera penale, ma perché nel caso della cancellazione dell’abuso di ufficio si violano, a suo avviso, norme internazionali che l’Italia ha l’obbligo di rispettare. Prima della Cassazione, 13 tribunali avevano presentato ricorso alla Corte costituzionale contro l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Il primo è stato quello di Firenze. L’udienza è fissata per il 7 maggio, ma è possibile che ci sia una riunificazione dei vari ricorsi.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Marzo 10th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX PREMIER DURO CONTRO IL CINISMO DI TRUMP NEI CONFRONTI DI ZELENSKY
Il riarmo europeo è “un primo passo necessario” ma poi “subito un unico comando con
un’unica strategia per un unico esercito” europeo. Lo ha detto Romano Prodi intervenendo a “Che Tempo che fa”.
Il riarmo, ha spiegato, “è una tappa per arrivare alla difesa comune, questo mi auguro, vedo e spero. Sono anni che predico la difesa comune, è necessario andare in questa direzione. Quando la Russia attaccò l’Ucraina mi dissi ‘se avessimo avuto un esercito comune non lo avrebbe fatto’. Poi l’America ha unito gli europei dietro di sè. Ora si deve cominciare con quello che si può fare oggi, poi subito dopo un comando unico. Dentro o fuori della Nato lo diranno le circostanze”.
“Se si fa l’esercito europeo siamo talmente più forti e avanti della Russia che certamente si ferma. Altrimenti è probabile che abbia ragione Macron”.
L’esercito comune sarebbe il migliore strumento per “garantire la nostra sicurezza con spese limitate e nella tutela dei diritti maturati e delle conquiste democratiche”.
“Certamente”, ha aggiunto, se fossi stato io presidente della Commissione europea “sarei partito dalle difesa comune” e non dal riarmo, ma “siamo onesti: questo è un passo che può spingere alla difesa comune”. Quella in cui “c’è un comando comune a cui tutti partecipano. Capisco che ci voglia tempo, ma nei prossimi giorni mi aspetto più politica e meno armi”.
Si proceda, ha aggiunto Prodi, con chi ci sta, perché “l’unanimità è antidemocratica” e lo stallo deve essere superato con le “maggioranza qualificate” come è stato fatto con l’euro. “Orban non vuole l’esercito europeo? Stia fuori”, ha detto ancora. Certo, non si potrà fare un esercito “in cui uno comanda e l’altro paga”, come la Francia che ha le testate atomiche e il diritto di veto all’Onu e la Germania che non ha nè le une nè l’altro, ma un budget di spese per la difesa doppio rispetto a quello francese.
Prodi ha anche avuto parole dure per il “cinismo” di Trump nei confronti di Zelensky. “Lui e il suo vicepresidente come Gianni e Pinotto”, ha sottolineato.
(da agenzie)
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