Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
IN SICILIA IL CASO MESSINA E LA DECISIONE DI COMMISSARIARE IL PARTITO DIVISO IN TRE FAZIONI.. IN VENETO L’EUROPARLAMENTARE ELENA DONAZZAN È INVISA A SPERANZON E DE CARLO (TUTTI E TRE IN CORSA PER LA CANDIDATURA A GOVERNATORE)… IN LOMBARDIA LA FAZIONE LA RUSSA & SANTANCHÈ SI SCONTRA CON QUELLA DI FIDANZA
Azzerate tutte le cariche regionali. Un vice capogruppo alla Camera dimissionario che parla
ai giornali locali, di “liti e beghe interne”. E un commissario, espressione del presidente del Senato, inviato nottetempo da Roma con l’obiettivo di mettere fine alle faide. Non è il racconto di un piccolo partito o del Pd, spesso abituato a queste dinamiche. È il quadro di Fratelli d’Italia in Sicilia, prima forza politica che ha sempre rivendicato la sua natura di monolite granitico senza correnti e scontri interni.ù
Ma spaccature e faide in FdI – spesso comunicate con veline ai giornali – non riguardano solo la Sicilia. In molte altre Regioni d’Italia, il partito è spaccato tra fazioni e correnti. Divisioni che stanno preoccupando Giorgia Meloni, che da quando è a Palazzo Chigi non riesce più a occuparsi del partito, affidando tutto alla sorella Arianna Meloni (responsabile segreteria e adesioni) e a Giovanni Donzelli (responsabile organizzazione).
Il caso della Sicilia è il più esplosivo. Giovedì via della Scrofa ha deciso di azzerare i due coordinatori regionali Salvo Pogliese e Gianpiero Cannella, oltre a portare alle dimissioni da vice capogruppo alla Camera di Manlio Messina. Sul repulisti ordinato da Roma pesa il caso che ha riguardato il vice capogruppo all’Ars Carlo Auteri (considerato vicino a Messina): le inchieste di Domani e Piazzapulita hanno raccontato i contributi pubblici per 125 mila euro assegnati dall’Ars a due associazioni legate, anche se indirettamente, al deputato siciliano. Auteri, che aveva minacciato il consigliere regionale La Vardera, si è autosospeso dal partito e già a novembre Messina aveva dato le dimissioni per poi ripensarci.
L’altro caso che ha fatto esplodere la “questione Sicilia” ha riguardato il deputato siracusano Luca Cannata, vice capogruppo in commissione Bilancio a Montecitorio: tre ex assessori di Avola hanno accusato l’ex sindaco di avergli dato contributi in contanti non rendicontati. La procura di Siracusa ha aperto un fascicolo, senza indagati.
Lo scontro in Sicilia è politico.
Perché sull’isola il partito è diviso in tre fazioni: da un lato c’è la “corrente turistica” di Auteri e Messina (già assessore al Turismo) che fa riferimento al ministro Francesco Lollobrigida, dall’altro c’è quella del presidente del Senato Ignazio La Russa che ha affidato la gestione al suo fedelissimo presidente dell’Ars Gaetano Galvagno e nel mezzo Donzelli, accusato dai suoi nemici di voler fare una corrente con i fedelissimi Carolina Varchi e Cannata. Per questo si è deciso di inviare un commissario da Roma: il deputato Luca Sbardella, figura di collegamento tra La Russa (era già nella sua corrente di AN) e Donzelli.
La Sicilia però non è l’unico caso. Due dirigenti di FdI raccontano che casi simili siano presenti in molte altre Regioni, ma la differenza è che qui “le cose non escono sui giornali”. Per esempio in Lombardia dove da mesi si scontra la fazione di La Russa e Daniela Santanchè con quella del capo delegazione al parlamento Europeo, Carlo Fidanza. In Veneto, invece, dove si vota nel 2025, l’europarlamentare Elena Donazzan è invisa al resto del partito, dal vice capogruppo al Senato Raffaele Speranzon al presidente della commissione Agricoltura Luca De Carlo. I tre si giocano la candidatura da governatore per il dopo-Zaia.
Stesse dinamiche in Puglia dove la sfida tra Raffaele Fitto e Marcello Gemmato porterà FdI a scegliere un civico, probabilmente perdente, contro l’ex sindaco di Bari Antonio Decaro.
Per non parlare del Lazio dove si affrontano i “gabbiani” di Fabio Rampelli e i meloniani di ferro: in questo caso la corrente del vicepresidente della Camera ha abbassato i toni perché Rampelli spera di diventare il candidato sindaco di Roma nel 20
(da “il Fatto quotidiano”)
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Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
“IL PROBLEMA DI TRUMP È DI COOPTARE CON L’INTIMIDAZIONE DEI DAZI GLI ALTRI PAESI PER FINANZIARE A COSTI ACCETTABILI IL TESORO USA. LA SUPERPOTENZA È VULNERABILE”… “L’EUROPA NON HA ALTRA STRADA SE NON QUELLA DI COSTRUIRE LA PROPRIA SOVRANITÀ”
Proprio qui è il paradosso americano. La superpotenza che colleziona trionfi tecnologici, ma umiliazioni nel mondo, sarebbe tentata di ritrarsi. Ma non può. Il grafico in pagina mostra il fabbisogno di nuovi prestiti supplementari del Tesoro americano, anno per anno dal 1999 al 2024, in proporzione alla crescita nominale mondiale.
Per esempio, l’economia mondiale nel 1999 ha generato poco più di mille miliardi di crescita (inflazione inclusa) e il Tesoro americano ha avuto bisogno di 121 miliardi di prestiti in più: appena l’11% della crescita mondiale — America inclusa — bastava a finanziare il governo degli Stati Uniti a rendimenti bassi e sostenibili.
DETENTORI ESTERI DEL DEBITO USA
Ma negli ultimi anni questa proporzione è cresciuta sopra ben al 50%. L’America ha bisogno di aspirare sempre più soldi dal resto del mondo per tamponare i propri squilibri. Il problema di Trump, cui l’amministrazione guarda con ansia, è di cooptare con l’intimidazione dei dazi gli altri Paesi per finanziare a costi accettabili il Tesoro Usa. La superpotenza è vulnerabile. E lo sa.
Perciò l’America prima o poi si sarebbe ritirata comunque dai suoi impegni in Europa, anche se Trump lo fa in modo traumatico. E perciò l’Europa comunque non ha altra strada se non quella di costruire la propria sovranità politica e di difesa. Parte dell’opposizione in Italia si illude raccontandosi che la spesa militare in fondo non serve.
E Giorgia Meloni si illude di continuare con i diritti di veto in politica estera comune e restare sospesa fra Washington e Bruxelles. Ma ora vanno ricostruite le fondamenta dell’Europa e per l’Italia è il tempo di scegliere: se non ci saremo, o ci saremo ambiguamente, non saremo più con la stessa credibilità fra i Paesi fondatori.
Federico Fubini
per il “Corriere della Sera”
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Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
IL RISULTATO È UN ESERCITO DI LAVORATORI, ITALIANI E IMMIGRATI, COSTRETTI AD ACCETTARE STIPENDI DA FAME PER SOPRAVVIVERE SENZA AVER ALCUN DIRITTO… L’ESTERNALIZZAZIONE DEI SERVIZI È UNA PRATICA CHE FAVORISCE L’ELUSIONE DELLE IMPOSTE
Chi accetterebbe di consegnare pacchi con la propria auto per 12 ore al giorno in cambio di
700 euro al mese? Chi andrebbe a confezionare borse per l’industria del lusso lavorando in nero, di notte, all’interno di un capannone con i pit bull tenuti alla catena? Nessuno. E invece, succede. E non a Rosarno o a Castel Volturno, e neanche in quei campi dove un esercito di disperati raccoglie sotto un sole assassino i pomodori che troviamo al mercato a 0,99 al chilo. No, succede nelle principali città italiane, Milano, Roma, Firenze, Torino, Padova. Il fenomeno è alimentato da migliaia di piccole cooperative che forniscono la forza lavoro che muove l’economia, i cosiddetti “serbatoi di manodopera”.
E ha finito per travolgere chi se ne serve, ovvero le più grandi aziende della logistica, della grande distribuzione, della sicurezza, della moda. Da quando qualche anno fa la procura di Milano ha cominciato a incrociare le informazioni delle banche dati di fisco e previdenza, nessuno dorme più sonni tranquilli. Il pm che se ne occupa si chiama Paolo Storari, ed è in forza alla dda. L’ultima multinazionale finita nei guai è la Dhl Express Italy srl
Alla fine di febbraio, al termine di un’inchiesta sulle cooperative che somministrano personale a Dhl, Storari e la sua collega Valentina Mondovì hanno scoperto una gigantesca frode fiscale sull’Iva, con fatture inesistenti sugli appalti per la fornitura di manodopera, e sfruttamento dei lavoratori. Nei confronti di Dhl è stato disposto il sequestro preventivo d’urgenza di una somma di 46,8 milioni di euro.
Qualche giorno dopo il gip, Luca Milani, ha convalidato il sequestro della somma milionaria, riconoscendo due dati di fatto. Primo: le cooperative che lavoravano in appalto per la società facevano dei loro uomini ciò che volevano, letteralmente. Secondo: i committenti ne erano a conoscenza, e devono essere considerati «i veri datori di lavoro». Ci sono stati controlli sulle condizioni di lavoro di 918 autisti e 538 mezzi. La polizia giudiziaria ha bussato ai magazzini e agli hub Dhl disseminati in 30 province italiane. E ha interrogato 676 lavoratori: contratti, incarichi, orari, riposi, retribuzioni.
Bilancio? Su 51 società appaltatrici, quasi una su tre (15 aziende) è risultata del tutto irregolare: le violazioni non riguardano solo salari da fame e condizioni di lavoro umilianti, contributi non versati e ritorsioni, ma investono anche la formazione, la sicurezza, l’omessa sorveglianza sanitaria. Undici titolari e legali rappresentanti delle ditte ispezionate sono stati denunciati. In un hub in provincia di Milano sono stati scovati sette lavoratori in una condizione tale di sfruttamento che ha spinto la procura a formulare anche l’accusa di caporalato
Un caso isolato? Macché. La fotografia del mondo del lavoro in queste città d’Italia è sconfortante
I fascicoli che si accumulano al sesto piano del palazzo di giustizia di Milano raccontano queste modalità meglio di qualunque saggio.
Sul frontespizio ci sono i nomi delle aziende che negli anni si sono trovate a fare i conti con le leggi dello Stato e non con quelle del mercato selvaggio di uomini e merci. Eccone alcune: Gls, Geodis, consorzio Metra, Brt, Esselunga, Uber eats, fratelli Beretta, Carrefour, Schenker, SicurItalia, Mondialpol, Cegalin-Hotelvolver, Chiapparolo, Gxo, Fema, All System, Battistolli, Lidl, Italtrans, Amazon, Fed Ex, Armani, Dior, Alviero Martini.
Tutte sono state accusate di schiacciare i costi facendo ricorso al fragile schermo dell’esternalizzazione dei servizi, pratica che favorisce l’elusione delle imposte e lo sfruttamento dei lavoratori. Tutte si sono viste recapitare provvedimenti di sequestro per milioni di euro. Alcune sono state poste in amministrazione giudiziaria, e sono ripartite solo dopo avere ripulito le loro filiere. Ma nessuna, fino a oggi, ha fatto ricorso. Nessun procedimento è arrivato a processo.
Basta aprire una pagina di questi faldoni, una sola, a caso, per capire come funzionano le cose. […] per un imprenditore che si vanta del suo tesoretto criminale, ci sono le deposizioni di migliaia di lavoratori dei più svariati ambiti professionali raccolte dalla Procura.
Come quella di E.F, professione rider. Racconta: «Mi hanno offerto una collaborazione pagata 3 euro a consegna. Ma alla fine di ogni settimana, quando ricevo i soldi, mi contestano in modo arbitrario comportamenti non corretti o prestazioni non in linea con i loro standard. E lo stipendio cala anche del 30 per cento».
O come Maria Cristina M., assunta da una ditta che fornisce personale per la sorveglianza non armata di farmacie e supermercati. Interrogata dalla polizia giudiziaria della Procura, ha fatto mettere a verbale: «L’azienda, pur avendo piena conoscenza del mio stato di malata oncologica, con patologia riconosciuta mediante attribuzione di invalidità civile, non mi ha concesso di fruire dei permessi che la legge concede…». Domanda dell’agente: «Perché ha accettato quel lavoro?». Risposta: «Anche se lo stipendio era molto basso, mi serviva. Come faccio a mantenere la mia famiglia?».
Visto dalla Procura, attraverso la lente degli accertamenti e delle intercettazioni, il sistema che si regge sullo sfruttamento di lavoratori italiani e immigrati – tantissimi immigrati: regolari, irregolari, richiedenti asilo – va bene a tutti: il committente risparmia sui costi, l’intermediario guadagna sull’appalto e sull’evasione fiscale e contributiva, il cliente finale non si fa troppe domande.
Certo, c’è anche chi ci perde, ma a chi importa? A chi interessano quegli enormi serbatoi di manodopera a prezzi stracciati che alimentano un’economia malata? Con le sue inchieste, il pm Storari, qualche risultato lo ha raggiunto: nel corso degli anni, 33 mila persone sono state stabilizzate e la riscrittura di alcuni contratti collettivi di lavoro (fiduciari, portieri) che pure erano stati sottoscritti dai datori di lavoro e da tutti (tutti!) i sindacati ha portato ad aumenti in busta paga fino al 40 per cento. A perderci, ovviamente, è anche lo Stato.
Milioni su milioni di tasse evase. Ma l’erario qualcosa sta recuperando: ha già incassato 600 milioni degli 800 sequestrati, perché davanti alle contestazioni della Procura le aziende preferiscono pagare piuttosto che affrontare un processo.
(da la Stampa)
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Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
LA GUERRA COMMERCIALE INNESCATA DAL TYCOON HA FATTO TRACOLLARE LE BORSE, AL PUNTO CHE LO STESSO PRESIDENTE NON ESCLUDE PIÙ LA RECESSIONE… IL “NEW YORK TIMES”: “L’ECONOMIA EREDITATA DA TRUMP ERA SOLIDA, CON UN BASSO TASSO DI DISOCCUPAZIONE, UNA CRESCITA MODERATA E UN TASSO D’INFLAZIONE DIMINUITO IN MODO SOSTANZIALE. L’INCERTEZZA DELLE SUE POLITICHE È UN CONTRASTO STRIDENTE CON IL QUADRO DIPINTO DA TRUMP IN CAMPAGNA ELETTORALE”
Come candidato alla presidenza, Donald J. Trump ha promesso un “boom economico senza precedenti”. Ma a otto settimane dall’inizio della sua presidenza, Trump si rifiuta di escludere una recessione – un sorprendente cambiamento di tono e di messaggio per un uomo che ha cavalcato la diffusa insoddisfazione economica per arrivare alla Casa Bianca promettendo di “rendere l’America di nuovo accessibile”.
I suoi commenti arrivano mentre il mercato azionario crolla e i leader aziendali sono spaventati dall’incertezza sulle sue tariffe. Anche alcuni repubblicani, che temono di essere puniti se si mettono contro Trump, hanno iniziato a sollevare dubbi sui dazi.
Il momento coglie una sfida fondamentale per il signor Trump, un uomo di spettacolo che fa promesse assolute e grandiose che inevitabilmente si scontrano con la realtà
L’economia ereditata da Trump era per molti versi solida, con un basso tasso di disoccupazione, una crescita moderata e un tasso d’inflazione che, pur essendo ancora superiore a quello auspicato dalla Federal Reserve, era diminuito in modo sostanziale. Ma l’incertezza che le sue politiche hanno iniettato nelle prospettive è un contrasto stridente con il quadro dipinto da Trump in campagna elettorale.
“Inizieremo una nuova era di redditi in crescita”, ha detto Trump in un comizio di ottobre. “Ricchezza alle stelle. Milioni e milioni di nuovi posti di lavoro e una classe media in piena espansione. Faremo un boom come non abbiamo mai fatto prima”.
La promessa di creare un boom economico è entrata in conflitto, almeno per ora, con lo strumento economico preferito dal Presidente: le tariffe. Le aveva promesse anche durante la campagna elettorale e, come hanno avvertito gli economisti, sono il motore principale delle nebulose prospettive economiche del Paese. Secondo le previsioni di JP Morgan e Goldman Sachs, una recessione nel prossimo anno è diventata più probabile a causa delle tariffe di Trump.
“Odio fare previsioni di questo tipo”, ha detto. “C’è un periodo di transizione, perché quello che stiamo facendo è molto grande. Stiamo riportando la ricchezza in America. È una cosa grande. E ci sono sempre periodi in cui ci vuole un po’ di tempo. Ci vuole un po’ di tempo, ma credo che per noi sarà fantastico”.
Nel suo discorso della scorsa settimana a una sessione congiunta del Congresso, Trump ha riconosciuto che le tariffe avrebbero causato “un po’ di disturbo”. Ma ha detto: “A noi va bene così. Non sarà molto”.
Trump, che a dicembre ha suonato la campana di apertura della Borsa di New York, monitora attentamente il mercato azionario. Durante il suo primo mandato, ha regolarmente indicato un mercato azionario prospero come prova del suo successo.
Molti dirigenti d’azienda si sono schierati a favore della campagna elettorale di Trump perché convinti che avrebbe dato priorità ai loro interessi economici, ma ora alcuni dirigenti e piccoli imprenditori si lamentano del dolore economico che le tariffe porteranno. Il Presidente potrebbe ascoltare queste preoccupazioni direttamente dai principali dirigenti quando martedì incontrerà i membri della Business Roundtable.
Negli ultimi giorni, i principali consiglieri di Trump hanno cercato di rassicurare i mercati e gli imprenditori. Howard Lutnick, il volubile segretario al commercio, ha dichiarato domenica che non c’è “alcuna possibilità” di recessione. Scott Bessent, segretario al Tesoro, non è stato altrettanto categorico, affermando venerdì che ci sarà un “aggiustamento naturale” mentre l’economia attraverserà un “periodo di disintossicazione” facendo affidamento sulla spesa pubblica.
“La pressione a tutto campo esercitata dal Presidente e dai suoi sostenitori questo fine settimana indica che sono sottoposti a una forte pressione da parte di coloro che ascoltano: il mercato azionario, i legislatori repubblicani e i leader aziendali”, ha dichiarato Kate Kalutkiewicz, amministratore delegato senior di McLarty Associates, una società di consulenza
Kalutkiewicz, che ha lavorato al Consiglio Economico Nazionale durante il primo mandato di Trump, ha detto che i commenti del Presidente e dei suoi collaboratori suggeriscono che non hanno intenzione di cambiare rotta in risposta al crescente coro di preoccupazioni.
Stephen Moore, economista della Heritage Foundation ed ex consigliere economico di Trump, ha affermato che il problema per il Presidente è la tempistica. Secondo Moore, Trump avrebbe dovuto aspettare che il Congresso approvasse i tagli alle tasse per istituire le tariffe.
“Prima facciamo ripartire l’economia e poi parliamo di tariffe”, ha detto. “Penso che ci sia bisogno di un po’ di spostamento delle priorità”. Il senatore Ron Wyden, democratico dell’Oregon e membro della Commissione Finanze del Senato, ha affermato che l’approccio dell’amministrazione Trump alle tariffe è “velenoso” per l’economia statunitense
“Il caos che creano ogni giorno è fondamentalmente un’ancora legata all’economia americana, e trascinerà sempre più lavoratori sotto l’acqua più a lungo andrà avanti”, ha dichiarato in un’intervista. “Stiamo cercando di fermarli.
La domanda che incombe su Washington è quanto a lungo Trump possa sopportare un mercato azionario in calo – e la conseguente copertura mediatica negativa che lo accompagna.
“Non lo so”, ha detto Moore. “È una bella domanda. Sono sicuro che il Presidente è preoccupato per le perdite del mercato azionario degli ultimi 10 giorni. Lo siamo tutti”.
(da agenzie)
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Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
IL MOTIVO? SAPERE CHI ENTRA PER PARLARE DEL CASO REGENI… IL CASO DEL PROFESSOR EGIZIANO ZAKARIA CHE È STATO RAPITO DAGLI 007 EGIZIANI DOPO ESSERE STATO NELL’AMBASCIATA ITALIANA PER PARLARE DELLA MORTE DEL RICERCATORE – CHE FINE ABBIA FATTO L’UOMO È UN MISTERO… GLI INVESTIGATORI E I CRONISTI ITALIANI SPIATI IN EGITTO
Un testimone che sparisce nel nulla. Il sospetto, o forse la certezza, che la nostra ambasciata
al Cairo sia spiata dagli egiziani nella speranza di tenere sotto controllo le mosse della magistratura. Nell’inchiesta sui quattro presunti assassini e torturatori di Giulio Regeni è emersa, da qualche settimana, una storia che preoccupa gli investigatori.
La vicenda è quella del professor Zakaria, egiziano di mezza età, che a dicembre si presenta nella nostra ambasciata al Cairo raccontando di avere dei particolari interessanti sulla morte di Giulio Regeni. E, in particolare, sui giorni del suo sequestro.
Le sue dichiarazioni non vengono subito verbalizzate. Viene ascoltato sommariamente e gli viene dato un appuntamento nei giorni successivi. L’uomo torna a casa e, nel corso della notte, viene prelevato da alcune persone in borghese: secondo il racconto che fa la mamma nei giorni successivi alla nostra ambasciata le sembrano uomini dei servizi
Sono in abiti civili, non si presentano. Gli sequestrano il telefono e lo portano via. Della vicenda viene subito informata la procura di Roma che comincia una ricerca.
Al momento senza fortuna: il testimone sembra essere sparito nel nulla. Il fatto è cruciale, secondo i nostri inquirenti, per almeno due ragioni: la prima è capire che informazioni possa avere davvero l’uomo.
Esiste però un secondo punto. Per come sono state ricostruite le cose, è chiaro ai nostri investigatori che gli egiziani hanno saputo in tempo reale che Zakaria era entrato in ambasciata. E uscito per rientrare a casa. Tanto da andarlo a prendere poche ore dopo
C’è quindi qualcuno che tiene sotto controllo i nostri uffici in Egitto, evidentemente per controllare le mosse della magistratura che per anni ha cercato invano di notificare gli atti agli imputati.
Le spiate vanno avanti da tempo. È ormai acclarato che i servizi egiziani avessero preso in affitto un appartamento che si affaccia sul villino liberty che ospita la nostra ambasciata per controllare ingressi, e forse anche comunicazioni, durante la parte calda dell’inchiesta. È un fatto che siano stati spiati i nostri investigatori, durante le missioni al Cairo. E anche i cronisti. Tanto che per precauzione era stato vietato di utilizzare mail, messaggi, wifi nonché WhatsApp. Solo Signal.
(da agenzie)
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Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
SUL “SECOLO D’ITALIA”, DI CUI ERA DIRETTORE, L’EX GOVERNATORE DEL LAZIO STORACE PUBBLICÒ UN FOTOMONTAGGIO CHE RIPRODUCEVA IL VOLTO DELL’INVIATO DI “REPUBBLICA” IMBAVAGLIATO E, SULLO SFONDO, LA BANDIERA DELLE BRIGATE ROSSE. UNA MACABRA REPLICA DELL’IMMAGINE DI ALDO MORO
Per dare il benvenuto, si fa per dire, alla rubrica Pietre di Paolo Berizzi aveva pubblicato sul Secolo d’Italia — di cui era direttore — un fotomontaggio che riproduceva il volto dell’inviato di Repubblica — sotto scorta da anni per minacce neofasciste e neonaziste — imbavagliato e, sullo sfondo, la bandiera delle Brigate Rosse: macabra replica dell’immagine di Aldo Moro sequestrato e poi ucciso.
L’indegna grafica accompagnava un articolo intitolato “Repubblica ricomincia con l’odio e una rubrica per la caccia all’uomo nero”. Era il 2019.
Per quell’attacco a Berizzi e a Repubblica , l’autore, Francesco Storace, andrà a processo: la pm della procura di Roma, Luigia Spinelli, lo ha rinviato a giudizio per diffamazione aggravata dall’uso del mezzo stampa. Prima udienza: il primo ottobre 2025 presso il tribunale di Roma (giudice Francesco Salerno)
Volto storico e parlamentare della destra (post)missina, ex presidente della Regione Lazio, già ministro della Salute e presidente della Commissione vigilanza Rai, l’imputato — oggi giornalista a Libero e vicino alla Lega — dovrà rispondere dell’accusa di avere “offeso la reputazione di Berizzi, facendolo apparire come giornalista dalla infima professionalità e dedito a perseguire idee politiche”.
L’aggressione a Berizzi aveva provocato sdegno e condanna da parte della Federazione nazionale stampa italiana, Ordine dei Giornalisti, Anpi, centrosinistra.
(da Repubblica)
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Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
“SONO PASSATI 70 ANNI, MA LA NOSTRA GENERAZIONE SI TROVA DI FRONTE LO STESSO COMPITO PERCHÉ LA PACE NELL’UE NON PUÒ PIÙ ESSERE DATA PER SCONTATA. LE ILLUSIONI SONO FINITE, È IL MOMENTO DI RAGGIUNGERE LA PACE ATTRAVERSO LA FORZA E LAVORARE AD UNA DIFESA COMUNE”
Stralci del documento di Ursula Von Der Leyen
“70 anni fa, Alcide de Gasperi disse:”Non abbiamo bisogno soltanto di pace tra di noi, ma dobbiamo costruire anche una difesa comune. Non per minacciare o conquistare, ma per fungere da deterrente ad ogni attacco esterno guidato dall’odio contro l’Europa Unita. Questo è il compito della nostra generazione”.
Da qui segue il passaggio cruciale: “Sono passati 70 anni, ma la nostra generazione si trova di fronte lo stesso compito perché la pace nell’Unione Europea non può più essere data per scontata. Siamo di fronte ad una crisi della sicurezza europea, ma sappiamo che è nelle crisi che l’Europa è stata costruita. Quindi è il momento per raggiungere la pace attraverso la forza. È il momento per lavorare ad una difesa comune e su questo ho visto un consenso al Consiglio Europeo senza precedenti e inimmaginabile solo poche settimane fa”.
Von der Leyen,di Putin non ci si può fidare, vicino ostile
“Putin ha dimostrato di essere un vicino ostile, non ci si può fidare di lui, si può solo dissuaderlo. Sappiamo che il complesso militare russo sta superando il nostro. La produzione Europa è ancora su un ordine di grandezza inferiore. E al di là delle capacità tradizionali, la gamma di minacce che dobbiamo affrontare si allarga di giorno in giorno”. Lo ha detto Ursula von der Leyen in un passaggio del suo intervento alla Plenaria
Von der Leyen, ‘la sicurezza Ue in crisi, è ora del coraggio’
“La pace nella nostra Unione non può più essere data per scontata. Siamo di fronte una crisi della sicurezza europea. Ma sappiamo che è nelle crisi che l’Europa è sempre stata costruita. Quindi, questo è è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa comune. “Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è finito”. Lo ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, intervenendo in Plenaria al Pe sul RearmEu.
“Al Consiglio europeo ho visto un livello di consenso sulla difesa europea che non solo non ha precedenti, era del tutto impensabile solo poche settimane fa. C’è una nuova consapevolezza che dobbiamo pensare in modo diverso e agire di conseguenza”, ha osservato von der Leyen, aggiungendo: “L’ordine di sicurezza europeo è stato scosso e molte delle nostre illusioni vanno in frantumi.
Dopo la fine della Guerra Fredda, alcuni credevano che la Russia potesse essere integrata nell’architettura economica e di sicurezza dell’Europa. Altri speravano di poter contare a tempo indeterminato sulla piena protezione dell’America. E così, abbiamo abbassato la guardia. Abbiamo ridotto la spesa per la difesa da una media di oltre il 3% a meno della metà”. Von der Leyen ha poi citato Alcide de Gasperi sottolineando la necessità di una difesa comune “come deterrente” per chi minaccia l’Europa unita.
Von der Leyen, ‘investimenti dei Paesi cruciali per il RearmEu’
“Vogliamo tirare fuori ogni singola leva finanziaria che abbiamo, per rafforzare e accelerare la nostra produzione di difesa. Con il piano Rearm Europe possiamo mobilitare fino a 800 miliardi di euro”. Lo ha ribadito la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che si è poi soffermata su alcuni punti del RearmEU. “In primo luogo, la clausola di salvaguardia nazionale.
Vorrei iniziare con il motivo per cui è fondamentale mobilitare i bilanci nazionali. Oggi spendiamo poco meno del 2% del nostro Pil per la difesa. Tutte le analisi concordano sul fatto che dobbiamo muovere più del 3%. L’intero bilancio europeo raggiunge solo l’1% del nostro Pil. È quindi ovvio che la maggior parte di nuovi investimenti può provenire solo dagli Stati membri. Ecco perché stiamo attivando la clausola di salvaguardia nazionale.
Si tratta di un nuovo strumento creato solo l’anno scorso. E noi proponiamo di attivarlo in modo controllato, limitato nel tempo e coordinato, per tutti gli Stati membri. Questo può trasformare i nostri bilanci della difesa in modo rapido ed efficace. Gli Stati membri potrebbero mobilitare fino a 650 miliardi di euro nei prossimi quattro anni, aggiungendo l’1,5% del PIL ai loro bilanci della difesa in quattro anni”, ha sottolineato.
“In secondo luogo, il Consiglio europeo ha approvato la nostra proposta di un nuovo strumento finanziario. Lo abbiamo chiamato Safe. Security Action for Europe. Offriamo agli Stati membri fino a 150 miliardi di euro in prestiti – per investire seguendo alcuni principi di base. Potrebbero concentrarsi su alcuni domini di capacità strategica selezionati, dalla dalla difesa aerea ai droni, dagli strumenti strategici al cyber, per citarne alcuni, in modo da massimizzare l’impatto dei nostri investimenti. Questi prestiti dovrebbero finanziare gli acquisti presso i produttori europei, per contribuire al rilancio della nostra industria della difesa”, ha quindi aggiunto.
Von der Leyen, ‘fondi coesione per riarmo è scelta volontaria’
L’utilizzo dei fondi di di coesione per il RearmEu “è una possibilità che stiamo offrendo agli Stati membri. Gli Stati membri avranno la possibilità di reindirizzare alcuni dei loro fondi non impegnati verso progetti legati alla difesa. Potrebbe trattarsi di infrastrutture o di ricerca e sviluppo. Si tratta di una scelta volontaria. Spetterà al Parlamento e al Consiglio decidere su questa opzione aggiuntiva.” lo ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, parlando alla Plenaria del Pe.
“Per lo stesso motivo, Rearm Europe prevede anche misure per mobilitare gli investimenti privati, con la Banca europea per gli investimenti e l’imminente Unione del risparmio e degli investimenti. Permettetemi di aggiungere che he tutto ciò avrà ricadute positive anche per la nostra economia e la nostra competitività”, ha sottolineato von der Leyen. “Tutti vorremmo vivere in tempi più tranquilli. Ma sono fiducioso che, se liberiamo la nostra potenza industriale, possiamo ripristinare la deterrenza contro coloro che cercano di danneggiarci. È tempo di costruire un’Unione Europea di Difesa che garantisca la pace nel nostro continente attraverso l’unità e la forza”, ha concluso.
Von der Leyen, ‘ricorso ad art.122 per riarmo per scelte rapide’
“Abbiamo bisogno di velocità e di scala. È per questo che abbiamo scelto la procedura d’emergenza di cui all’articolo 122, che è pensata proprio per i momenti in cui sorgono gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti”. In altre parole, “l’articolo 122 ci permette di raccogliere denaro, di prestarlo agli Stati membri perché lo investano nella difesa.
Questo è l’unico modo possibile per possibile per l’assistenza finanziaria di emergenza ed è ciò di cui abbiamo bisogno ora. Terremo il Parlamento costantemente aggiornato”. Lo ha detto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen in un passaggio del suo intervento in Plenaria
(da agenzie)
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Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
LE INTERCETTAZIONI DELLA GUARDIA DI FINANZA SU DAVIDE MARSELLI, IL TITOLARE DELLO STABILIMENTO BALNEARE DI AMELIA, ASSUNTO DALLA REGIONE COME COLLABORATORE DELLA SEGRETERIA POLITICA DELL’ASSESSORE… LA PROCURA: “MARSELLI NON HA MAI SVOLTO ALCUNA ATTIVITA’ IN REGIONE, HA PERCEPITO 80.000 EURO PER COMPENSARE LA FREQUENTAZIONE DEI DUE POLITICI AL SUO STABILIMENTO E AL SUO RISTORANTE”
L’assessore regionale alla protezione civile Giacomo Giampedrone e l’ex governatore Giovanni Toti sono indagati per truffa ai danni dello Stato. La vicenda, secondo quanto riportato dal Secolo XIX on line, riguarderebbe un contratto, prima da co.co.co e poi da dipendente, fatto con soldi pubblici a Davide Marselli gestore dello stabilimento balneare San Marco di Ameglia, che Giampedrone e Toti frequentano, secondo l’accusa, gratuitamente.
Il fascicolo era stato aperto a Spezia in concomitanza con l’inchiesta che un anno fa aveva portato ai domiciliari l’allora presidente della Regione per corruzione.
Secondo la procura spezzina Marselli non ha mai svolto i compiti per i quali era stato assunto.
Nelle scorse settimane il faldone è stato trasmesso a Genova ed è finito sulla scrivania del pm Andrea Ranalli. Il pm Elisa Loris aveva acquisito diversa documentazione e disposto l’audizione di dirigenti e funzionari regionali.
Secondo la tesi della Procura, Marselli avrebbe guadagnato oltre 80 mila euro lordi. Secondo la guardia di finanza, è una cifra che compensa quanto Giampedrone e Toti hanno “risparmiato” per frequentare lo stabilimento e il ristorante.
(da agenzie)
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Marzo 11th, 2025 Riccardo Fucile
INDAGA LA PROCURA DI VENEZIA… “SORVEGLIATI PERCHE’ L’ATTIVITA’ UMANITARIA E’ CONSIDERATA TERRORISMO”
Insieme a Palermo, Napoli, Roma e Bologna, anche la procura di Venezia ha iniziato a
lavorare sul caso Paragon.
A impegnarla con una dettagliata querela di quattordici pagine è Beppe Caccia, cofondatore di Mediterranea Saving Humans e capomissione della Mare Jonio, come Luca Casarini, David Yambio, Husam al Gomati e Francesco Cancellato per mesi, se non più, spiato con Graphite dell’azienda israeliana. Un software sofisticato che, si ricorda nella denuncia, viene venduto solo a governi “occidentali di regimi democratici e costituzionali e con l’espresso divieto contrattuale di impiegarlo in danno di giornalisti, attivisti della società civile e oppositori politici”.
I reati ipotizzati
La querela è stata depositata oggi in procura a Venezia insieme al cellulare che Caccia usava quando da Meta è arrivato l’alert sull’attività di spionaggio in corso, insieme al consiglio di cambiare immediatamente dispositivo, del quale è già stata fatta una copia forense. E mentre il governo continua a tacere, gli approfondimenti tecnico-giudiziari, stando a quanto filtra, potrebbero partire subito, con l’obiettivo di sciogliere il nodo, ormai estremamente chiaro, attorno a cui ruota la vicenda Paragon. Chi ha ordinato quelle intercettazioni? E perché? I reati che si ipotizza siano stati commessi sono pesanti: accesso abusivo a sistema informatico aggravato dalla qualifica di Pubblico Ufficiale con abuso di poteri, detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparati informatico e illecita interferenza nella vita privata.
Le due principali ipotesi
Le ipotesi possono essere solo due e nella sua denuncia-querela gli avvocati di Caccia, Giuseppe Romano e Agnese Sbraccia, le indicano chiaramente. La prima: quelle intercettazioni sono totalmente illegali e per questo Paragon, come anticipato dai media e confermato dopo dal governo, ha sospeso in contratto con l’Italia. La seconda: quelle sono intercettazioni preventive, effettuate legittimamente da uno dei due servizi di intelligence e come tali autorizzate dal procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Giuseppe Amato. I casi in cui si può disporre un’attività di questo tipo sono pochi e chiaramente definiti: mafia, terrorismo, pericolo per la sicurezza nazionale e in generale “a protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali dell’Italia”.
Il nodo dei tempi
La legge è estremamente chiara anche sui tempi: non possono durare all’infinito. Entro 30 giorni l’attività va chiusa, il procuratore generale prima e il Copasir poi informati e verbali, supporti e note distrutti. Ma stando a quanto scoperto dai ricercatori di Citizen Lab, pronti a collaborare con le autorità italiane, quanto meno sul telefono di Casarini e di don Mattia Ferrari, sui cui dispositivi l’operazione di inoculazione dello spyware non è andata a buon fine, l’operazione di spionaggio è iniziata più di un anno fa. Questioni che potrebbe chiarire il procuratore Amato, la cui audizione è prevista per oggi al Copasir.
“Attività a puro scopo intimidatorio”
Il sospetto non solo di Caccia, ma anche degli altri attivisti di Mediterranea vittime dell’operazione di spionaggio è che sia stata l’ong a essere presa di mira. E se è vero che tutte le forze di polizia hanno informalmente o formalmente – è il caso della penitenziaria, “scagionata” ufficialmente dal ministro Carlo Nordio – negato di avere in uso il software, allora “si delinea un possibile intervento dei servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica”. Auditi al Copasir i vertici di Aisi e Aise hanno ammesso di avere a disposizione il software Paragon, ma di averlo sempre usato legittimamente, cioè secondo i paletti imposti dalla legge sulle “misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale”.
“Adesso dicano se l’attività umanitaria è terrorismo”
Se fosse questa l’ipotesi, per Mediterranea sarebbe in tutto e per tutto un abuso. “Ogni possibile utilizzo nei miei/nostri confronti appare del tutto disancorato dalla realtà e di applicazione deviata al solo scopo di intimidazione dell’impegno sociale e politico di natura solidaristica e umanitaria proprio dell’organizzazione non governativa da me fondata”, si legge nella querela presentata da Caccia.
Vanno all’attacco i legali: “qualcuno pensa che l’attività umanitaria e solidale condotta dalle persone colpite dallo spionaggio possa essere assimilata a ‘terrorismo’? Che il soccorso civile in mare e il sostegno a donne, uomini e bambini vittime di gravissime violazioni dei diritti umani possa costituire un pericolo per la sicurezza nazionale? E che dire di META che li ha avvertiti? Sarebbe responsabile di favoreggiamento?”
“Spiati per l’attività di solidarietà?”
Il motivo, emerge fra le righe, sarebbe tutto politico. Alla base di “un’attività spionistica di tale portata” potrebbero esserci “proprio e unicamente” le attività di Mediterranea e dei suoi attivisti: “la testimonianza/documentazione delle molteplici violazioni dei diritti umani fondamentali che si verificano in Tunisia e Libia, come nel Mediterraneo, con il coinvolgimento di responsabilità governative italiane, presenti e passate, e le numerose iniziative di solidarietà intraprese dal sottoscritto e da Mediterranea a sostegno di persone vittime di detenzioni arbitrarie, abusi e violenze di ogni genere in Libia e Tunisia, e di non assistenza e omissioni di soccorso in mare”.
Un’attività che parte da lontano?
Nero su bianco è la formalizzazione dei sospetti di cui già in passato sia Luca Casarini, sia don Mattia Ferrari avevano parlato. Il giovane sacerdote si era detto preoccupato per il “tentativo di criminalizzazione della solidarietà”, mentre Casarini aveva denunciato che “l’unica ragione di questa attività potrebbe essere costruire dei dossier contro di noi”. E un precedente, non troppo lontano nel tempo – hanno ricordato sia lui, sia Caccia nelle rispettive querele – c’è già. Risale al dicembre 2023 quando atti coperti da segreto investigativo, non ancora depositati a Ragusa dove da tempo si trascina un procedimento contro l’equipaggio di Mediterranea e in nulla ricollegati all’indagine, sono finiti per settimane sulla stampa. Ne sono venuti fuori tre procedimenti – a Milano, Ragusa e Modena – ancora in fase di indagine, mentre fra gli attivisti si fa strada l’ipotesi che quello non fosse altro che il primo atto di un’attività pensata per distruggere l’ong e il suo lavoro nel Mediterraneo. “Confidiamo – concludono gli avvocati Sbraccia e Romano – in un intervento rapido e approfondito degli inquirenti, che anche in altre quattro procure (Napoli, Palermo, Roma e Bologna) stanno già svolgendo indagini simili”.
(da agenzie)
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