Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL NUOVO LIBRO DELL’EX PREMIER DOVE TRACCIA IL RITRATTO REALE DI GIORGIA MELONI
Da oggi è in libreria il saggio di Matteo Renzi L’Influencer, Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A. Ecco un’anticipazione in esclusiva per Open:
Giorgia si è venduta come un’underdog. Ma chi, come me, ha iniziato l’esperienza
politica più o meno contemporaneamente a lei sa bene che non stiamo parlando di una outsider quanto di una raccomandata. Anzi, la più raccomandata della Seconda Repubblica. Eh già: lei viene piazzata giovanissima da Fini alla vicepresidenza della Camera esattamente come Di Maio veniva piazzato da Grillo nello stesso ruolo. Giorgia Meloni è diventata giovanissima vicepresidente della Camera, con lo stesso percorso, identico, di Luigi Di Maio. Due leader (Fini nel primo caso e Grillo nel secondo) che scelgono il giovane o la giovane più brillante che hanno. Entrambi, Giorgia e Luigi, non hanno una carriera universitaria straordinaria o meriti professionali o pubblicazioni dall’alto valore culturale: non sono laureati, non hanno brillato nel lavoro, non hanno doti culturali strabilianti. Vanno bene in tv, sanno stare nei talk-show, usano i new media. Ma sono soprattutto i più brillanti fedeli (fino a quel momento) interpreti della volontà del loro capo. Non sono underdog, sono raccomandati. Raccomandati di ferro.
Meloni è, nella storia, la più giovane ministra, arrivata in quel ruolo senza aver preso un solo voto di preferenza, ma solo grazie al sostegno poderoso di Berlusconi e di tutto il gruppo dirigente di Alleanza Nazionale. Giorgia Meloni è talmente raccomandata da non fare in tempo a lasciare l’ufficio di vicepresidente a Montecitorio che già le si aprono le stanze di Largo Chigi come ministro senza portafoglio per la Gioventù. Imperdibili quegli anni, gli anni del berlusconismo galoppante. Non si ricordano battaglie di Giorgia contro il sistema, tutt’altro. I social rilanciano, anche in queste ore, il suo volto divertito e partecipe mentre Berlusconi, sul palco di un’iniziativa pubblica organizzata da Giorgia nella sua veste di ministra della Gioventù, ammira giovani ragazze e dice loro: «Siete così brave che meritereste di essere invitate al Bunga Bunga». Ma Berlusconi è potente e allora Giorgia ride. Ride a crepapelle. Finché il leader è forte, Meloni sta acquattata. E raccomandata.
Accetta di mettersi contro Berlusconi e Fini solo quando i due litigano e iniziano la loro parabola discendente. Non li affronta con le armi del rinnovamento generazionale quando sono potenti, come abbiamo fatto noi con quelli come D’Alema. No, lei si fa cooptare dagli uomini più potenti salvo poi abbandonarli nel momento del declino. Appoggia Fini e Berlusconi fin quando conviene. Poi li molla. E la cosa divertente è che la scissione che fa – raccontata come un atto di coraggio contro Forza Italia – è in realtà pagata da Forza Italia. Bonifico, trasparente. Meloni ha detto di essersi emancipata da Berlusconi, ma omette di dire che lo ha fatto con i soldi di Berlusconi. E si è ritrovata in Parlamento anche nel 2013, pur non avendo ottenuto il quorum, grazie all’elezione in un collegio sicuro garantita da Berlusconi. Quando dice a Berlusconi che lei non è ricattabile non so a che cosa si riferisca. So che verso Berlusconi dovrebbe avere soprattutto l’umiltà della gratitudine.
La narrazione della premier è quella di una donna che ha dovuto difendersi dagli uomini che la circondavano. Il padre che l’aveva abbandonata. I leader politici che l’hanno costretta a farsi un proprio partito. I vicepremier pasticcioni che la mandano in difficoltà. Il compagno farfallone che se ne esce con i fuorionda. I parlamentari incapaci di fare il proprio dovere: «Lascerò per colpa dell’infamia di pochi» scrive un certo punto in chat.
Fateci caso: c’è sempre un maschio cattivo attorno alla giovane e coraggiosa underdog. È una costruzione falsa, in radice. Ma studiata a tavolino. Il capolavoro di un’influencer. Giorgia Meloni ha scientificamente ucciso il padre, politicamente parlando, a cominciare da Fabio Rampelli, che l’ha lanciata nella Serie A della politica. Fino a Gianfranco Fini, vero dominus della sua ascesa in Parlamento e al governo. Per terminare con Silvio Berlusconi, che l’ha scelta come ministra più giovane della storia italiana.
Questo non significa non rispettare il coraggio che porta, nel 2012, La Russa, Crosetto e la stessa Meloni a fondare un partito. E nulla toglie alla fatica che Giorgia fa nel costruire una proposta credibile. Ma non si può dimenticare che nel 2013 lei non raggiunge il quorum e viene salvata – ancora una volta – dai collegi di Berlusconi. Se Giorgia torna a Montecitorio (dove è alla quinta legislatura, più o meno quanto Cirino Pomicino) non è grazie alle sue preferenze, ma alla raccomandazione di colui al quale deve molto.
Non tutto, certo. Ma molto, moltissimo. Questa narrazione a reti unificate per cui Meloni è la donna del coraggio funziona molto. È molto bella. Regala emozione. E rende impossibile non simpatizzare per questa giovane donna, autodefinitasi fuori dal coro, che si fa strada in un mondo di uomini che la ostacolano. È davvero tutto molto bello. Peccato che sia anche tutto molto falso. Perché gli uomini potenti hanno costruito la strada per Giorgia, l’hanno protetta, raccomandata, eletta, nominata. Finché lei li ha abbandonati quando non le servivano più. Anche se nessuno pare avere la forza di dirlo ad alta voce, io metto per iscritto qui che la nostra presidente del Consiglio è molto diversa. Diversa da quello che lei stessa ci ha raccontato in anni di certosina costruzione dell’immagine.
Ma diversa anche da quello che serve al Paese. Oggi l’Italia avrebbe bisogno di una svolta e invece tira a campare. Le riforme evocate sono buone solo per i titoli. Tutto è effimero. Che per chi ama il greco è una parola tremenda, efémeros, che dura un giorno. Anche le riforme di Giorgia durano un giorno, come le storie di Instagram. È finita che chi voleva fare la storia ormai fa solo le storie, sui social network.
E il paradosso è che l’opposizione sembra imbambolata, vittima sacrificale di questo incantesimo, incapace di reagire. Al massimo le solite polemiche trite e ritrite, già invecchiate prima di cominciare. Del resto è l’opposizione che, dividendosi, ha regalato ai Fratelli d’Italia il trionfo elettorale del 2022. O meglio: alle sorelle della Garbatella. Perché alla guida di questo Paese c’è un clan più che un partito, una famiglia piuttosto che un governo. Le scelte del Paese si decidono più nelle vacanze in masseria che non nei vertici a Palazzo Chigi.
Ma sembra sotto effetto di incantesimo anche la larga parte dei giornali, dei media, degli opinionisti. Dicono: eh, ma la Meloni è meglio di chi le sta accanto. Mi fanno impazzire i resoconti di certe cene radical chic nella Milano bene in cui le sciure spiegano che «Giorgia è l’unica presentabile del governo. Non la sopporto, ma se la paragono agli altri ministri mi sembra un genio». Ma dai. E che diamine, almeno quello.
Ti metti accanto Salvini e Tajani, Delmastro Delle Vedove e Sangiuliano: per forza sei meglio di loro. Ti piace vincere facile, diceva una pubblicità di quando eravamo
piccoli. E poi, insistono i resoconti delle terrazze romane: «Almeno lei è una donna con le palle». C’è una scena cult nel film di Sorrentino La grande bellezza. È la scena in cui Toni Servillo, alias Jep Gambardella, dice: «Su “donna con le palle” crollerebbe qualsiasi gentiluomo». E inizia a elencare i difetti di Stefania, la presunta donna con le palle. Pezzo bellissimo, ambientato – non a caso – su una terrazza romana.
Bene. Quando sentiamo dire che Giorgia Meloni «è una donna con le palle» anche il gentiluomo che è in noi crolla. E diventiamo tutti Jep Gambardella. E iniziamo a parlare. Toccherà a noi, nel silenzio impaurito dei più, raccontare di come la presidente abbia addomesticato i media.
Uno dei più grandi politici fiorentini, Niccolò Machiavelli, diceva che «governare è far credere». Meloni non ha bisogno di avere una squadra: ecco perché si è circondata di una corte di persone improbabili e di collaboratori imbarazzanti. Le basta, si fa per dire, avere un’opposizione ideologizzata e divisa. E le basta governare il racconto. Governare è far credere.
(da Open)
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Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
A STARMER MELONI HA SPIEGATO CHE “PARLARE DI ARMI E SOLDATI ALLARMA L’OPINIONE PUBBLICA”. E HA DETTO NO ALL’IMPIEGO DI MILITARI ITALIANI IN UCRAINA: “NON POSSO FARLO”… EPPURE, CON UNA CONTRADDIZIONE EVIDENTE, L’ITALIA SARÀ PRESENTE ALL’INCONTRO “OPERATIVO” TRA I VERTICI MILITARI COINVOLTI NELLA COALIZIONE, CONVOCATO PER GIOVEDÌ
Alla fine, Giorgia Meloni si è seduta di nuovo al tavolo della “coalizione deivolenterosi”. La premier ha partecipato alla videochiamata organizzata ieri mattina dal primo ministro britannico Keir Starmer, che ha riunito i 25 Paesi disposti a ragionare su come garantire la sicurezza dell’Ucraina dopo le trattative tra Usa e Russia.
Lo ha fatto, però, con molte riserve: gli stessi dubbi che nei giorni scorsi l’avevano spinta a prendere le distanze da un’iniziativa che, in origine, aveva all’ordine del giorno solo l’ipotesi dell’invio di truppe.
Prima di accettare l’invito, è stata quindi necessaria una telefonata con Starmer in cui Meloni ha chiarito la sua posizione. «Parlare di armi e soldati allarma l’opinione pubblica», ha spiegato al collega britannico, ribadendo il suo no all’impiego di militari italiani in Ucraina. «Non posso farlo», ha tagliato corto.
Uno scetticismo che Meloni ha ribadito anche quando, qualche ora dopo, ha preso la parola tra i “volenterosi”, mettendo in dubbio l’efficacia di una forza esclusivamente europea. La nota ufficiale di Palazzo Chigi è netta: «Non è prevista la partecipazione nazionale a un’eventuale forza militare sul terreno».
Eppure, con una contraddizione evidente, l’Italia sarà presente al nuovo incontro «operativo» tra i vertici militari coinvolti nella coalizione, convocato per giovedì prossimo. Da «osservatore», precisano fonti governative. E non con il Capo di Stato Maggiore della Difesa Luciano Portolano. Il filo dell’equilibrio lungo cui si muove Meloni è teso oltre l’immaginazione.
Segno che il messaggio di ieri va letto in controluce. Ad esempio tra i colonnelli della premier c’è chi sostiene che se l’operazione dei “volenterosi” ottenesse l’egida dell’Onu, lo scenario cambierebbe, rendendo il piano di Starmer ed Emmanuel Macron più accettabile per Roma. Un’ipotesi, questa, che pare stia però perdendo terreno a favore di un’idea diversa: affidare l’eventuale forza di interposizione a nazioni neutrali come Turchia e India.
A prevalere, secondo il governo, è ancora l’ambiguità con cui Londra e Parigi stanno gestendo il dossier. Con le trattative tra Donald Trump e Vladimir Putin in una fase delicata, e un cessate il fuoco sul tavolo a cui va data la massima priorità, Meloni teme che una mossa avventata possa compromettere tutto. Pur aderendo alla «massima pressione su Putin» invocata dai leader, la premier predica quindi cautela. Sulle nuove sanzioni promesse a Mosca dall’Ue, ad esempio.
Con i colloqui a questo stadio – è la tesi – queste non dovrebbero essere totalizzanti ma aiutare il percorso verso la tregua. Una strada, quella della prudenza, che l’esecutivo imbocca anche sul Piano Kallas, l’iniziativa con cui l’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri sta cercando di mobilitare 40 miliardi per un nuovo sostegno militare all’Ucraina.
La priorità della premier è chiara: non allontanarsi dall’orbita Usa. «Se al tavolo non c’è anche Trump, questi sono confronti sterili» ha detto a Starmer. Un concetto che ha
ribadito durante la videocall: «Bisogna essere compatti per essere efficaci», ha detto insistendo sull’urgenza di un vertice tra «Ue, alleati e Usa». Magari anche con Mohammed Bin Salman, l’emiro saudita che ha patrocinato il summit di Gedda e che ieri la premier ha sentito al telefono.
Nonostante le posizioni non sempre sovrapponibili resta lo sforzo collettivo per tenere unito il fronte europeo. E Meloni chiede lo stesso senso di responsabilità agli alleati in Italia. Messaggio rivolto soprattutto a Matteo Salvini, che cannoneggia quotidianamente contro Bruxelles e i volenterosi.
Ieri la premier lo ha sentito per parlare della risoluzione di maggioranza che il Parlamento dovrà votare in vista del Consiglio Ue di giovedì. Il testo è in mano a Palazzo Chigi e Meloni è decisa, a differenza delle altre volte, a non lasciare molto margine a Fi e Lega per delle modifiche. Salvini assicura che non ci sono spaccature, ma la premier resta preoccupata dalle sue uscite poco prudenti.
La settimana scorsa, il vicepremier ha dato per due volte del «matto» a Macron, arrivando a un soffio dal provocare un incidente diplomatico. Solo oggi viene fatto trapelare sul quotidiano Le Figaro di un incontro richiesto dal ministero degli Esteri francese con l’ambasciatrice italiana Emanuela D’Alessandro al Quai d’Orsay, a Parigi, per chiedere un chiarimento sulle uscite di Salvini, giudicate «in contraddizione con il Trattato del Quirinale».
(da agenzie)
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Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
IL CREMLINO ALZA LA PRESSIONE, AVVERTENDO CHE L’OFFERTA PER RISPARMIARE LE VITE DEI SOLDATI UCRAINI SCHIERATI NEL KURSK STA SCADENDO
Trump cerca di proiettare ottimismo sulla possibilità di finalizzare il cessate il fuoco
in Ucraina, e riunisce un vertice dei consiglieri più stretti a Mar a Lago, per valutare i risultati della missione a Mosca dell’inviato speciale Steve Witkoff. Il Cremlino però alza la pressione, avvertendo che l’offerta del presidente Putin per risparmiare le vite dei soldati di Kiev ancora schierati nel Kursk sta scadendo
L’accelerazione è evidente, come dimostra anche il fatto che venerdì sono andati a Washington il consigliere per la sicurezza nazionale tedesco Jens Plötner, quello britannico Jonathan Powell e quello francese Emmanuel Bonne, per vedere il collega americano Mike Waltz. Sono i paesi chiave non solo per negoziare la pace di lungo termine con la Russia, ma anche alcuni dei volenterosi che si sono offerti di fornire truppe di interposizione per garantire la tenuta dell’eventuale cessate il fuoco.
Ieri mattina Trump è andato a giocare a golf nel suo resort vicino a Mar a Lago, dove poi aveva in programma una riunione con Witkoff, Waltz e altri collaboratori. Lo scopo era ricevere il messaggio che Putin ha consegnato al suo inviato speciale, ricevere informazioni sui colloqui avvenuti a Mosca e decidere le prossime mosse.
Il capo del Cremlino ha detto che in linea di principio è favorevole al cessate il fuoco, ma poi ha posto una serie di condizioni che sembrano pensate apposta per farlo fallire o ritardarlo il più possibile, in modo da poter proseguire l’offensiva militare che gli sta consentendo di riconquistare la regione russa del Kursk.
Ora si tratta di vedere se Trump accetterà le condizioni di Putin, come la rinuncia dell’Ucraina ai territori occupati e all’ingresso nella Nato, il veto alle truppe europee come forza di interposizione, le elezioni per sostituire Zelensky, imponendo anche a Kiev di accettarle per ottenere la tregua. Oppure si convincerà che Mosca vuole solo guadagnare tempo, rispondendo con l’inasprimento delle sanzioni economiche
Intanto ha ingoiato il veto russo al generale Keith Kellogg, retrocesso da inviato speciale per la guerra in Ucraina a semplice interfaccia di Zelensky, perché Putin lo considera troppo vicino a Kiev e non vuole parlare con lui.
(da La Repubblica)
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Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
ZITTITE ANCHE RADIO FREE EUROPE E RADIO FREE ASIA… LA DENUNCIA DI REPORTER SENZA FRONTIERE PER LA LIBERTA’ DI STAMPA
Sabato 15 marzo, il Direttore dell’Office of Human Resources presso la US Agency for Global Media (USAGM), Crystal G. Thomas, ha inviato una email ai dipendenti e giornalisti di Voice of America (VOA) annunciando il loro immediato congedo amministrativo.
Si tratta della più grande e antica rete mediatica internazionale finanziata dal governo americano, che iniziò a trasmettere nell 1942 per combattere la propaganda nazista e che da decenni produce contenuti trasmessi al pubblico internazionale e in ben 47 lingue. La decisione, di fatto, sospende le attività della storica emittente, riducendo le
capacità del governo americano di comunicare con il mondo intero attraverso i canali tradizionali come radio, tv e attraverso contenuti digitali. Tra le sovvenzioni cancellate dall’amministrazione ci sono anche alle emittenti Radio Free Europe/Radio Liberty e Radio Free Asia.
Al momento, il direttore congedato di VOA, Michael Abramowitz, non ha rilasciato alcuna dichiarazione su quanto accaduto. «La cancellazione dell’accordo di sovvenzione di Radio Free Europe/Radio Liberty sarebbe un enorme regalo per i nemici dell’America»”, ha dichiarato invece Steve Capus, presidente di Radio Free Europe/Radio Liberty: «Gli ayatollah iraniani, i leader comunisti cinesi e gli autocrati di Mosca e Minsk festeggerebbero la fine di RFE/RL dopo 75 anni. Dare ai nostri avversari una vittoria li renderebbe più forti e l’America più debole. Abbiamo beneficiato di un forte sostegno bipartisan nel corso della leggendaria storia di RFE/RL. Senza di noi, i quasi 50 milioni di persone in società chiuse che dipendono da noi per notizie e informazioni accurate ogni settimana non avranno accesso alla verità sull’America e sul mondo».
Alcuni dei giornalisti di VOA si trovano detenuti all’estero, sollevando dubbi sul loro futuro. Reporter Senza Frontiere (RSF), l’organizzazione non governativa nota al pubblico per la classifica annuale sulla libertà di stampa nel mondo, ha espresso le sue preoccupazioni relative alla sospensione dell’agenzia e quanto questa possa influenzare la situazione dei suoi giornalisti incarcerati senza un supporto istituzionale.
Una decisione presa dallo stesso Donald Trump che non dovrebbe sorprendere. Il 9 febbraio, Elon Musk aveva pubblicato un post su X chiedendo la chiusura di VOA e di Radio Free Europe/Radio Liberty, la cui missione era quella di garantire una copertura giornalistica in luoghi in cui la libertà di stampa è minacciata o non esiste. Un intervento, quello del proprietario di X, che potrebbe suggerirebbe una volontà politica di ridimensionare drasticamente la rete mediatica finanziata del governo federale all’estero.
«Reporter Senza Frontiere (RSF) esprime profonda preoccupazione per questa decisione dell’amministrazione Trump, una mossa che minaccia la libertà di stampa in tutto il mondo e nega 80 anni di storia americana nel sostenere un libero flusso di informazioni», dichiara il direttore generale di RFS, Thibaut Bruttin: «RSF chiede al governo degli Stati Uniti di rispettare immediatamente l’autonomia di VOA come organizzazione di notizie indipendente e di annullare questa decisione. Inoltre, RSF esorta il Congresso e gli stakeholder internazionali a mobilitarsi contro questa mossa fatale. RSF è solidale con i dipendenti di VOA ed è preoccupata per i 10 dipendenti di USAGAM attualmente detenuti all’estero per aver svolto il loro lavoro: produrre giornalismo».
(da agenzie)
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Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
LA PIU’ GRANDE MANIFESTAZIONE CONTRO LA CORRUZIONE DELLA STORIA DELLA SERBIA
Oltre 300mila persone sono scese in piazza oggi a Belgrado per manifestare contro il
presidente serbo Aleksander Vucic, da mesi nel mirino delle proteste contro la corruzione diffusa ai vertici del potere. Sui social rimbalzano le foto e i video della fiumana di gente che riempie le strade di Belgrado. Il governo stima siano scese in piazza circa 107mila persone, ma l’Archivio sui raduni pubblici, una Ong che conteggia i numeri delle proteste, alza notevolmente l’asticella: tra le 275 e le 300mila persone. Si tratta di una delle manifestazioni più partecipate della storia della Serbia, Paese abitato da appena 6,6 milioni di persone.
A dare il là alle proteste, partecipate soprattutto dagli studenti e cresciute di vigore di settimana in settimana, è stato lo scorso 1° novembre il crollo di un soffitto alla stazione di Novi Sad che ha causato la morte di 15 persone. Una tragedia che i manifestanti sostengono sia avvenuta per effetto proprio della corruzione dilagante nel Paese. La piazza piena chiede a una voce sola le dimissioni di Vucic e del governo a lui legato: «È finito!», «Basta regime», si legge su molti cartelli branditi da studenti e altri manifestanti. Leader del partito progressista serbo, Vucic ha guidato il Paese prima come primo ministro, dal 2014 al 2017, poi come presidente della Repubblica.
Il timore di violenze e la «resistenza» di Vucic
Nei giorni scorsi era cresciuta la tensione in vista della manifestazione di sabato. Il governo ha accusato gli organizzatori di pianificare violenze e provocazioni in
piazza, e il presidente del Parlamento ha annunciato la chiusura dell’edificio di Piazza Slavija per ragioni di sicurezza. In un parco nelle vicinanze si sono accampati gruppi di sostenitori di Vucic, arrivati da fuori dalla capitale anche coi trattori. Nella giornata di sabato sono stati interrotti i servizi di trasporto pubblico a Belgrado, secondo le autorità per ragioni di sicurezza, secondo i manifestanti per scoraggiare e complicare la partecipazione. Lo stesso Vucic ha dato istruzioni alla polizia di agire con la necessaria calma, ma ha anche detto che le forze di sicurezza non avrebbero avuto clemenza con eventuali agitatori e violenti. Al momento, la manifestazione – come tutte le precedenti – sembra essersi svolta in modo pacifico. Un uomo ha però tentato di investire alcune persone con la sua auto nei sobborghi di Belgrado, ferendo tre passanti. La polizia lo ha arrestato. Alla vigilia della manifestazione oceanica, Vucic aveva assicurato di non avere alcuna intenzione di dimettersi: «Dovrete uccidermi se volete sostituirmi», ha detto.
Il bilancio di Vucic dopo la manifestazione
In serata, è stato lo stesso Vucic a tirare le somme della situazione, per lo meno in termini di ordine pubblico. In incidenti e provocazioni registratisi oggi a margine della grande manifestazione di Belgrado sono rimaste ferite in totale 56 persone – nessuna in modo grave – mentre altre 22 sono state arrestate per aggressioni alla polizia e altre violenze. Vucic ha poi denunciato i numerosi attacchi e le provocazioni contro gli studenti anti-proteste e filogovernativi accampati nel parco Pionirski, presso il Parlamento, e il grave danneggiamento di un centinaio di trattori posti a loro protezione tutt’intorno al parco. Parlando in serata in diretta tv, Vucic ha riconosciuto l’alto numero di manifestanti radunatisi, e si è detto soddisfatto del comportamento delle forze dell’ordine, che si sono comportate in modo corretto e professionale.
(da agenzie)
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Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
ECCO CHI HA RIPORTATO IN PIAZZA MICHELE SERRA DOPO TANTO TEMPO
L’applausometro dice che il più gradito è stato Antonio Scurati. Lella Costa irritata per le campane della chiesa vicino che coprono la sua voce. Renzo Piano in video ma commosso. E pubblico toccato dalle performance di Mauro Pagani e Renzo Rubino.
Il numero ufficiale che hanno scelto è stato «50mila». Forse un pizzico alto, come capita in ogni manifestazione. Ma erano davvero tanti ad avere riempito piazza del Popolo sabato 15 marzo, chiamati da Michele Serra e da Repubblica, il suo quotidiano, a battere un colpo per sentirsi europei.
Erano tanti quanti a chi scrive non è capitato di vederne pur avendone seguite a decine in quella piazza romana, di centrodestra, grilline, sindacali, di centro sinistra. Tanti. E molti a sventolare la bandiera blu europea, soprattutto quelli più vicini al palco. Tanti lì per altri motivi, chi con la bandiera della pace, chi con un fantoccio di Donald Trump, chi proprio per farsi vedere in piazza dopo tanto tempo. Non importa per quale motivo.
Bonelli ad Open: «Sono tutti per la pace e sanno che non c’è bisogno di nuove armi»
«Lo so, ci sono istanze diverse fra loro», spiega ad Open uno dei leader politici in quella piazza, il verde Angelo Bonelli, «ma sono tutti qui per dire che rifiutiamo la guerra. Che non c’è bisogno di nuove armi, perché in Europa ci sono già più di 600 miliardi di armamenti mettendo insieme gli arsenali dei 27 paesi. Cinque volte quelli che ha la Russia. Non c’è bisogno di comprare nuove armi, ma di un soggetto politico che pensi alla difesa del continente e che possa essere indipendente dagli Stati Uniti di Trump come dalla Russia di Putin». Bonelli la dice così, poi a dire il vero cartelli, slogan e interventi dal palco dicono molte altre cose, non sempre in sintonia fra loro. E pure le cifre sugli armamenti cambiano a seconda di chi prende il microfono. Fatto sta che chiunque dica la sua trova un applauso convinto della piazza. E non importa se dice altro, come Francesca Vecchioni che parla di diritti Lgbtq + e qualcun altro che parla di disabilità. Temi importantissimi, ma che poco hanno a che fare con il tema dell’Europa che deve difendersi da sola. Per infiammare la piazza basta aggiungere che quei diritti li sta cancellando Trump e parte la ola.
Renzo Piano, Antonio Scurati e quei mostri che non sono sempre stati altrove
C’è davvero di tutto su quel palco in presenza o in video. Renzo Piano che commuove dicendo a tutti con voce rotta «vi voglio bene», e sostenendo da buon architetto che le città non generano mostri, che invece vengono dal deserto «e in Europa non c’è deserto».
Un tema su cui si avventura anche lo scrittore Antonio Scurati, fra i più amati da quella piazza. È stato fra i pochi a non scriversi il discorso e a non essere noioso. Con un pizzico di arte retorica ha inanellato un discorso su “noi europei” che “non siamo”. Non siamo quelli che massacrano la gente. Non siamo quelli che rapiscono i bambini. Non siamo quelli che invadono altri paesi. Non siamo quelli che bombardano e sterminano. Si è fatto trascinare dal suo incedere l’autore di “M”. Ma alla fine se ne è reso conto. «Non siamo quelli, ma lo siamo stati. E proprio perché lo siamo stati da 80 anni non lo siamo più». Già, perché è proprio l’Europa ad avere fatto vedere nel secolo scorso il volto più mostruoso che abbia mai visto l’umanità. Anche se non c’è nessuna zona deserta nel vecchio continente.
Gli attivisti, i due giovani di Parma, e la musica che riporta De Andrè e Dalla in piazza
C’è l’attivista iraniana Pegah Moshir Pour che racconta come oggi sia diventata felicemente una mamma italiana. Ci sono due senatrici a vita come Liliana Segre (in video) ed Elena Cattaneo che si tengono strettamente al tema della manifestazione pensando che l’ora è giunta e che questa Europa bisogna farla davvero.
Ci sono due ragazzi di Parma, Emma Nicolazzi Bonati e Francesco Sansone testimonial della città che sta per diventare capitale europea della gioventù e che hanno raccontato il loro progetto di “una piazza per l’Europa”.
C’è Lella Costa che recita una poesia di Elsa Morante e ci rimane male alle 18 in punto quando scattano le campane delle chiese della piazza. Ma poi ci ride su: «un complotto dei soliti».
C’è Mauro Pagani che non parla, ma canta la Creuza de ma in genovese che aveva ideato con Fabrizio De Andrè. C’è Renzo Rubino che incanta tutti cantando Henna, la canzone della pace di Lucio Dalla. Ci sono centinaia di sindaci (anche quello di Barcellona). C’è Corrado Formigli che ricorda la sua partenza per l’Erasmus dando un gran dispiacere alla fidanzata dell’epoca, Tatiana. La ragazza ci rimase male, ma, confida il conduttore tv ad Open, «alla fine la ritrovai ancora. E ancora oggi siamo amici».
C’è Ezio Mauro ex direttore di Repubblica, cercato come un divo per i selfie. C’è Albino Ruberti, il grand commis del Pd, felice come una Pasqua sul palco a dare direttive al conduttore della giornata, Claudio Bisio.
Il tappo saltato di un popolo che per due anni e mezzo non osava mettere la testa fuori
Piazza del Popolo è lo specchio di tutte quelle sensibilità diverse viste sul palco che se le metti una in fila all’altra non tantissimo in comune sembrano avere. Una cosa sì però: sentirsi tutti di sinistra, antitrumpiani, antimeloniani e finalmente in piazza. Forse non giovanissimi, (i più avevano capelli bianchi e i volti segnati dagli anni), ma per un giorno liberati. Per due anni e più, dopo la vittoria di Giorgia Meloni, hanno sentito la botta, e che botta. Poi davanti alle continue divisioni del centrosinistra, non hanno avuto l’occasione e forse nemmeno la voglia per dire «ma noi ci siamo ancora».
C’è voluto Michele Serra per togliere quel tappo e liberarli. E non hanno proprio voluto perdere l’occasione, come un fiume che ha trovato finalmente l’acqua che gli serviva per correre e riempire quel letto che sembrava vuoto.
(da Open)
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Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
IL 16 MARZO 2022 L’AVIAZIONE RUSSA BOMBARDO’ IL TEATRO DELLA CITTA’ DOV’ERANO RIFIUGIATI OLTRE 1.000 CIVILI
Quattro sedie, una recinzione, qualche costume appeso. Non serve grande scenografia
per raccontare la brutalità della guerra. Basta la forza della testimonianza. Il 16 marzo 2022, tre anni fa esatti, l’aviazione di Vladimir Putin compiva quello che passerà alla Storia come l’attacco più mortale nella guerra all’Ucraina: il bombardamento del teatro di Mariupol. Cuore pulsante della vita culturale della città, dall’inizio del mese si era trasformato in un gigantesco rifugio per centinaia di civili in cerca di riparo dalle bombe russe. Non colpiranno anche il teatro, non un luogo stracolmo di famiglie, si dicevano l’un l’altro. Per assicurarsene, qualcuno vergò a caratteri cubitali (cirillici) la parola «bambini» sul piazzale del teatro, così che chiunque anche dal cielo vedesse e capisse. I russi bombardarono. Nei giorni precedenti, d’altra parte, dopo aver tagliato gas, luce e Internet e cinto d’assedio la città, avevano già colpito di tutto: un cimitero, l’ospedale pediatrico e il reparto maternità, poi una piscina diventata anch’essa rifugio. Asserragliati nel teatro erano oltre un migliaio di civili. Si salvarono in poche centinaia. Alcuni di questi riuscirono poi a scappare dalla città stretta in assedio. Tra questi anche Olena Bila e Igor Kitrish, due attori della storica compagnia d’arte drammatica di Mariupol. Quella storia, la loro e di centinaia di altre persone – sopravvissute e non – è diventata una pièce teatrale, Mariupol Drama. Che ora arriva in Italia: sarà di scena il 23 marzo al Teatro Oscar di Milano.
Una scena dello spettacolo Mariupol Drama
La vita prima e dopo la guerra
«Dopo essere sfuggiti a quella tragedia, sentivamo il bisogno di raccontare a tutti cosa significhi trovarsi invasi, perseguitati, bombardati senz’alcuna giustificazione», raccontano Bila e Kitrish a Open qualche giorno prima della loro partenza per la tournée europea. A smuovere in loro quel sentimento è stato Olexander Gavrosh, un regista teatrale di Uzhorod, la città dell’estremo ovest ucraino dove i due attori arrivarono dopo essere fuggiti, insieme al figlio di 10 anni, da Mariupol. Non è la Storia con la S maiuscola che sta a cuore alla squadra che ha creato Mariupol Drama, ma le storie minime – la vita quotidiana delle singole persone prima e dopo l’inizio della guerra, di una guerra senza un perché. «Quando salgo in scena voglio trasmettere l’incredulità, l’incomprensione da parte di persone che sino al giorno prima avevano abitudini, gusti, passatempi, vizi e virtù come tutti», racconta Olena. «La distruzione e la voglia delle persone che tutto finisca al più presto», certo, ma
anche quel misterioso, umano meccanismo che allora scatta: «Quando entri in stato di guerra capisci che devi essere freddo, lucido, cerchi dentro di te la concentrazione e trovi forze che non pensavi di avere. Ecco, vogliamo far vedere anche che la situazione ci ha reso più forti, quanto importante sia la vita e non le cose materiali. E testimoniare cosa fare per rimanere vivi».
Il colpo di spugna di Trump e la paura degli ucraini
Tre anni sono pochi, ma abbastanza per dimenticare, per chi vive lontano. La memoria delle stragi compiute dai russi in Ucraina – le uccisioni indiscriminate a Bucha, Irpin, Izjum, i bombardamenti sui civili a Kharkiv, Kramatorsk, Chasiv Yar, e ancora – pare già sbiadita. Tutto si tiene nell’imperativo scolpito da Donald Trump di «mettere fine al conflitto» quanto prima. Poco importa chi abbia dato fuoco alle polveri, come e perché. «Vedo che vi odiate molto, io mi pongo nel mezzo», ha detto Trump a Zelensky nell’incontro/scontro alla Casa Bianca con cui ha seppellito tre anni di sostengo Usa all’Ucraina. È con Vladimir Putin, condannato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra per azioni come quella sul teatro di Mariupol, che ha fretta di scendere a patti, oggi sull’Ucraina, domani chissà. «Trump dovrebbe non ascoltare cosa gli viene detto, ma aprire gli occhi e guardare cosa succede davvero. Vorrei che venisse qui e capisse che “dittatore” è Zelensky, e perché non porta giacca e cravatta…», ironizza amaro Igor Kitrish. «Se solo ti sentisse…», lo rimbrotta la compagna di vita e di scena. Se a Riad e Gedda si negozia sulle loro teste, per gli ucraini sono giorni di sospensione, attesa e paura.
Una scena dello spettacolo Mariupol Drama
Mariupol, tre anni dopo
Ma che ne è di Mariupol, e di quello storico teatro oggi? «La verità è che non lo sappiamo, non sappiamo esattamente cosa succede ora lì», in quell’area del Donetsk annessa con la forza come molte altre dalla Russia e che se il Cremlino riuscirà a imporre il suo diktat nei negoziati all’Ucraina non tornerà più. Ci si basa sulle voci che arrivano da quella terra dimenticata, perciò. «Dicono che i russi stiano ricostruendo il teatro», riferisce Igor: e infatti i media di Stato di Mosca diffondono orgogliosi foto e video dei lavori di ristrutturazione. «Dicono che i corpi dei morti nella strage di tre anni fa vengono ricoperti di cemento. E poi arrivano altri video, di cittadini di Mariupol buttati fuori dalle loro case per insediare persone russe spuntate da chissà dove», racconta ancora l’attore. «Non sappiamo cosa succede ora», conferma Olena. «Sappiamo però cosa successe allora, a uomini donne e bambini. Per questo l’unica certezza è che bisogna fare un monumento per tutte le persone che erano lì». O per lo meno portare in scena la loro storia.
(da Open)
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Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
CONTINUIAMO A NEGARE L’EVIDENZA, PIU’ NATURA SIGNIFICA PIU’ SICUREZZA
Un brivido deve essere corso dietro la schiena di chi era presente nel novembre del 1966 quando l’acqua dell’Arno ha lambito le arcate di Ponte Vecchio, superando il primo livello di guardia a tre metri, innalzandosi oltre tre metri e mezzo e sfiorando i 1.100 metri cubi d’acqua al secondo. Gli stessi brividi provati a Sesto Fiorentino,
ricordando l’alluvione in Toscana del 2023, e gli stessi di chi a Faenza ha già visto ripetersi per due volte, nel 2023 e nel 2024, eventi che in teoria dovevano essere plurisecolari. Chissà se basteranno a capire che siamo entrati nei territori inesplorati della crisi climatica, quelli delle perturbazioni meteorologiche a carattere violento che vedono il Mediterraneo centrale come l’“hot spot” climatico più critico d’Europa. Cosa che significa più calore, ma anche più eventi estremi. Eventi meteo che non dobbiamo confondere con il clima, ma che bene si inseriscono nella tendenza al riscaldamento globale e alla estremizzazione climatica.
Rischio idrogeologico
Osservando le reazioni della popolazione, non si riesce a cogliere quale sia il grado di comprensione del rischio idrogeologico che si corre nell’Italia peri-appenninica del Terzo Millennio. Sembra sempre che le persone cadano dalle nuvole, come se abitassero nella steppa caucasica e non in un Paese geologicamente giovane e attivo, sede di ogni tipo di rischio naturale. E siamo sempre caduti dalle nuvole, fino da quando abbiamo iniziato a gonfiare oltre misura borghi e cittadine di case, costruzioni e infrastrutture che hanno rotto quell’accordo che in passato veniva sottoscritto con la natura: vivere in una zona resa più pericolosa disboscando, a patto di lavorare costantemente quel territorio, spezzandoti la schiena ogni giorno. E invece case su case, interi quartieri, infrastrutture, fiumi soffocati con il cemento, asfalto dovunque, salvo poi meravigliarsi che l’acqua tracimi ovunque, quando in poche ore si concentra la quantità che in passato cadeva in mesi. Salvo poi guardare inebetiti l’ennesima frana colare giù dalle montagne e domandarsi perché proprio a loro.
Per questa scarsa consapevolezza del territorio, per aver costantemente varcato i confini del rischio, per aver sacrificato tutto al dio denaro, siamo qui ad aver paura dei fiumi e delle montagne ogni autunno e ogni primavera. E siamo qui a negare ciò che è sotto gli occhi di tutti, che non è assolutamente normale il numero, la frequenza e soprattutto il contenuto energetico degli eventi meteorologici di questi anni, ragione per cui siamo in piena crisi climatica. E siamo qui a fare ancora riferimento all’inizio del XX secolo per stabilire il periodo di ritorno delle piene, quando quelle statistiche sono ormai carta da archivio e tutto va riportato agli ultimi venti o trent’anni, scoprendo che di plurisecolare o millenaria non c’è più alcuna ricorrenza e bisogna parlare di decenni o addirittura di anni. Non abbiamo ancora capito che il fiume si riprenderà sempre il territorio che noi avevamo colonizzato e che quando ci sono le case e l’acqua nello stesso luogo, nel posto sbagliato ci sono le case, non l’acqua.
Restituire il territorio ai corsi d’acqua
E via così, negando, minimizzando, chiedendo lo stato di emergenza, ma assolutamente senza fare alcun passo indietro, senza provare a restituire territorio e natura ai corsi d’acqua e alle montagne senza tenerli nell’attuale stato di costante aggressione predatoria. Non c’è niente da fare: nessuno in questo Paese sembra voler fare ciò che andrebbe fatto in termini di recupero della natura e di consapevolezza delle persone, nessuno che capisca che più natura significa più sicurezza e che le opere non sempre risolvono i problemi (nel caso dell’Arno sì) e che, in qualche caso, li aggravano. Ma soprattutto nessuno che voglia incorporare all’interno dei propri orizzonti culturali il limite cui tutti i viventi sono sottoposti, quello imposto dall’ambiente naturale. Non dovremmo dimenticare che le nostre società esistono solo grazie a un temporaneo consenso geologico soggetto a essere ritirato senza tanto preavviso.
Mario Tozzi
(da lastampa.it)
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Marzo 16th, 2025 Riccardo Fucile
IL 46% VEDE FAVOREVOLMENTE IL RIARMO DEL’EUROPA
L’Europa – con l’Italia – ha sostenuto l’Ucraina in questi 3 anni nel conflitto con la
Russia principalmente attraverso aiuti economici, sanzioni contro Mosca e forniture militari. Questo posizionamento ha rafforzato il legame con Kiev, ma ha anche reso l’Ue meno percepita come un mediatore neutrale agli occhi della Russia e di fronte ai Paesi del mondo.
Tuttavia, questo non significa che L’Europa non possa avere un ruolo nel dialogo per la pace, proprio per gli stessi interessi di tutte le parti in gioco nella stabilizzazione del conflitto, visto la vicinanza geografica e le conseguenze economiche. In questa direzione ci dovrebbe essere comunque un’unità di intenti tra i diversi Stati e tra i partiti politici degli stessi, ma purtroppo così non è! I cittadini italiani si sentono confusi.
La difficoltà di orientarsi tra le molteplici visioni che ogni giorno vengono presentate e il fatto che la nostra nazione si trovi al centro di un mix di incertezze politiche, timori economici, disinformazione e divergenze ideologiche interne al Paese, non fa che amplificare il disordine e il caos interpretativo.
Dall’inizio del conflitto – febbraio 2022 -, nel monitoraggio mensile realizzato da Euromedia Research in questi 3 anni, un cittadino su due (media ponderata 49.9%) è sempre stato contrario all’invio di armi all’Ucraina come misura di difesa dell’indipendenza ucraina, mentre il 38.5% (media ponderata) è sempre stato favorevole.
Oggi, la proposta di aumentare le spese militari, considerata la rovente situazione internazionale, trova il 33.5% di favorevoli tra coloro che appoggiano la possibilità di fare ulteriore debito (24.9%) e coloro che sacrificherebbero spese di altri settori come sanità, istruzione, infrastrutture.
I contrari ad aumentare gli investimenti negli armamenti si distinguono nettamente con il 54.6% dei consensi a livello nazionale, tra cui emergono gli elettori della Lega (70.2%), del Movimento 5 Stelle (68.4%) e di Alleanza Verdi e Sinistra (61.3%) come molto scettici.
Comunque, anche tra le file di Fratelli d’Italia si respira un’aria dubbiosa su questo progetto con il 48.8% dei contrari e il 39.2% dei favorevoli. La complessità del conflitto pone il giudizio degli italiani in una posizione assai complicata.
La guerra in Ucraina è un conflitto molto articolato, che coinvolge interessi geopolitici molto complessi (come quelli tra la Nato, l’Ue, la Russia, l’America, …) e il nostro Paese, non presentandosi con una posizione univoca, come emerge dal sondaggio di Euromedia Research per Porta a Porta, genera ulteriore ansia e incertezza tra gli italiani, che non riescono a comprendere quale sia la via “giusta” per una soluzione chiara all’orizzonte.
Il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha presentato un piano in 5 punti che prevedrebbe investimenti per circa 800.00 miliardi di euro per mobilitare e sostenere la difesa Ue. Il 45.9% degli italiani sarebbe favorevole, tra questi il 22.0% si dimostra grande sostenitore per indirizzare più fondi per stanziamenti legati alla difesa dei confini europei, mentre il 23.9% sarebbe bendisposto a sposare queste posizioni, ma per cifre meno importanti. Il 36.2% degli italiani invece si dimostra fermamente contrario a questo possibile finanziamento. Gli elettori di Matteo Salvini (Lega 51.0%) e di Giuseppe Conte (Movimento 5 Stelle: 46.7%) si allineano sul rifiuto del piano della Presidente della Commissione europea.
L’Italia ha una lunga tradizione pacifista, rafforzata dall’articolo 11 della Costituzione – “L’Italia ripudia la guerra” -, ma, essere pacifisti e difendere i propri territori non dovrebbe essere in contrapposizione con tali precetti. L’Ucraina, essendo stata invasa, si trova in una posizione in cui la difesa del proprio territorio è vista come una necessità di sopravvivenza. Molti Paesi che sostengono Kiev lo fanno non perché favorevoli alla guerra, ma perché ritengono che senza resistenza l’Ucraina perderebbe la propria sovranità e in un domani potrebbe capitare a qualche altro Stato.
L’Europa del Manifesto di Ventotene sembra oggi più fragile e distante rispetto all’idea originaria di un’Unione basata su pace, solidarietà e integrazione politica. Il progetto europeo immaginato nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, puntava a superare i nazionalismi e costruire un’Europa federale capace di prevenire nuovi conflitti. Ad oggi il progetto europeo è sempre in bilico tra integrazione e frammentazione. La Ue è più che mai messa alla prova da tensioni geopolitiche, dall’ascesa dei nazionalismi e da un crescente scetticismo tra i cittadini.
Ai leader europei rimane la responsabilità di riformare l’Europa per renderla più efficiente, più vicina alle esigenze della popolazione e meno ostaggio delle logiche di veto che spesso bloccano le decisioni. Non si comprende se il progetto Europa stia davvero evolvendo nella giusta direzione. Di sicuro se riuscirà a rafforzarsi con una maggiore coesione e unione politica, potrebbe riuscire ad imporsi. Tuttavia, se continuerà a essere terreno di scontri tra interessi nazionali contrapposti, rischia di perdere ulteriore rilevanza e consenso.
Alessandra Ghisleri
(da Lastampa.it)
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