Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
LE DIFFERENZE TRA PARTITI: GLI ELETTORI DI CENTRODESTRA SONO PIÙ PROPENSI AD ABBANDONARE ZELENSKY, QUELLI DI CENTROSINISTRA MENO … I TIMORI PER L’ISOLAMENTO DELL’UE IN SEGUITO A UN ACCORDO TRA PUTIN E TRUMP (53,5%) E L’ARRIVO DI UNA GUERRA COMMERCIALE (IL 59% NE È CONVINTO)
Un italiano su due è convinto che un accordo stretto tra Trump e Putin senza il coinvolgimento dell’Europa sancirebbe il vero isolamento della Ue (53.5%).
In questo dato, rilevato da Euromedia Research per la trasmissione Porta a Porta, non emergono importanti differenze politiche tra gli elettorati, perché la maggioranza dell’opinione pubblica è persuasa che non siano solo cause legate alla geopolitica, ma soprattutto ragioni strettamente connesse alla percezione del ruolo europeo nel mondo.
Sulla politica internazionale, sulla gestione della crisi ucraina e sulla proposta di riarmo della Ue la maggioranza del Paese valuta non unita e coesa sia l’alleanza di governo (56.5%), sia le opposizioni (67.0%).
Gli italiani, in generale, si trovano in una posizione ambivalente riguardo la guerra in Ucraina: da un lato, in molti comprendono la minaccia che la Russia rappresenta per i confini europei, dall’altro sono in maggioranza contrari all’invio di soldati e armi.
In sostanza prevalgono i toni moderati, il pragmatismo economico, una certa sfiducia nelle strategie occidentali e la paura di un escalation. Esiste una forte componente politica e mediatica che propone una visione più sfumata del conflitto, attribuendo responsabilità anche all’Occidente e spingendo per negoziati piuttosto che per l’invio di arm
Da qui il riconoscimento a Donald Trump da parte dei cittadini per aver velocizzato i processi di pace, o meglio di aver messo al centro la parola “tregua” – anche se non proprio rispettata- al posto di “guerra”.
Questa narrazione ha trovato terreno fertile in una parte dell’opinione pubblica, soprattutto tra coloro che diffidano delle istituzioni occidentali. Per un italiano su due (51.9%) l’aiuto militare all’Ucraina dovrebbe cessare, mentre per il 34.9% dovrebbe essere mantenuto, ed è interessante scoprire che la maggioranza dell’elettorato di centro destra vorrebbe fermare il sostegno, mentre tra le file del Partito Democratico (65.3%), Azione (86.6%) e Italia viva (80.7%) il sostegno dovrebbe rimanere.
Con lo stesso mood il 53,8% dei cittadini è contrario a portare al 2.0% dei Pil la spesa militare dell’Italia in ambito Nato. In questo caso tra i sostenitori dell’aumento della spesa si collocano Forza Italia (63.6%), Azione (66.9%) e Italia Viva (69.2%).
Da italiani abbiamo dato per scontata la pace, tuttavia la realtà è che la libertà e la sicurezza devono essere difese. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si è costruito un sistema basato su regole e compromessi internazionali che proteggono i Paesi più piccoli dai più forti.
Se si accetta che uno stato possa invadere un altro senza conseguenze, il mondo diventerebbe –tornerebbe ad essere- un far west, in cui i più potenti impongono la loro volontà senza limiti. Questo metterebbe in pericolo anche l’Italia e l’Europa.
Un mondo più instabile significa più guerre, più crisi economiche e più insicurezza anche per l’Italia. I richiami alla politica dei dazi americani in questo senso non aiutano. Non a caso nelle previsioni dei cittadini il 59.0% è convinto che nei prossimi anni il mondo sarà teatro di una guerra commerciale ed economica, l’11.8% teme dei conflitti militari e il 10.1% potremo essere ricattatati da attacchi con l’Intelligenza Artificiale. Solo il 6.7% legge nel futuro una pace duratura.
Di fronte a questo pessimismo di massa far comprendere agli italiani l’importanza di investire in tutela, che non sia solo militare, ma tecnologica e scientifica – spazio e cyber – significherebbe spiegare che la difesa dell’Ucraina non è solo una questione lontana, ma riguarda direttamente il nostro futuro e della pace globale.
Forse sarebbe necessario impostare in maniera diversa la richiesta di protezione partendo dalle esigenze reali di ogni nazione e non dalle cifre – 800 miliardi – così importanti che appaiono come “sparate” a caso e non dettagliate, altrimenti il rischio è quello di fare interpretare la mossa come una modalità per rendere sempre più forte il centralismo di Bruxelles e sempre più deboli e dipendenti gli Stati dell’Unione.
Alessandra Ghisleri
per “La Stampa”
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Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
UGO MAGRI: “IL PRESIDENTE NUTRE TIMORI CHE IL PERICOLO NON VENGA ABBASTANZA CONSIDERATO; O CHE PREVALGA L’ASPETTATIVA CHE L’ITALIA VENGA RISPARMIATA IN VIRTÙ DEI BUONI RAPPORTI DELLA PREMIER CON LA NUOVA AMMINISTRAZIONE USA. IL PERICOLO È DI GENUFLETTERCI AI NUOVI PADRONI DEL MONDO, SENZA NEMMENO OTTENERE LA LORO MISERICORDIA”
Di dazi possiamo morire, letteralmente. Perché si comincia così, con i protezionismi,
finché il conflitto dilaga, va fuori controllo e le ripicche commerciali sfociano in una guerra guerreggiata. È la storia che lo insegna, insistere su questa strada mette
l’umanità in pericolo: Sergio Mattarella va ripetendolo quotidianamente da quando Donald Trump impugna le tariffe come un randello nei confronti dei vecchi amici vicini e lontani.
Anche ieri il presidente vi è tornato su, puntuale. Ma alle ragioni nobili della pace stavolta ha aggiunto una considerazione che può suonare più prosaica, quasi terra terra. I nostri produttori agricoli sono sulle spine e ne hanno motivo, ha riconosciuto. «Legittimamente esprimono preoccupazione», sono le parole testuali.
Anche Mattarella vivrebbe i dazi allo stesso modo se si trovasse nei loro panni e fosse, ad esempio, esportatore di olio o di vino negli Stati Uniti. Non ci dormirebbe la notte. Interi business messi in piedi con fatica e decenni di intrapresa rischiano di essere spazzati via con danni economici irreparabili.
Il presidente si rivolgeva a una platea di operatori oleari e vinicoli riuniti nel quarantaquattresimo Forum di Bibenda. Tuttavia quel suo richiamo può essere esteso all’intero Made in Italy
Un orgoglio tricolore di cui sovranisti per primi dovrebbero farsi portabandiera. L’arte, la cultura, il design, la tecnologia e l’agro-alimentare appunto. Il capo dello Stato non entra, ci mancherebbe, nel merito delle trattative tra le due sponde dell’Atlantico; tantomeno discute le tattiche negoziali da adottare contro i dazi, dunque se sia più efficace una risposta ferma e unitaria in chiave europea ovvero la linea di cauto attendismo come quella che sembra avere imboccato Giorgia Meloni.
Certe scelte non competono al Quirinale. Il presidente però mette in guardia che un problema esiste, né può essere aggirato; tanti rischiano di finire sul lastrico; indirettamente, con i suoi accenti, Mattarella denuncia quanto suonano false le narrazioni che minimizzano o, addirittura, presentano i dazi non per quello che sono ma come un’occasione per promuovere la nostra domanda interna, quasi un regalo di Trump ai nostri consumatori.
Il super-miliardario nelle improbabili vesti del benefattore. Ecco: Mattarella non ci sta. «Produrre per l’autoconsumo ricondurrebbe l’Italia all’agricoltura dei primi anni del Novecento», torneremmo indietro di un secolo, avverte. Perderemmo fette di mercato mondiale forse irreparabilmente, perché certi sapori unici che all’estero hanno imparato ad amare per effetto dei dazi verrebbero rimpiazzati con prodotti locali dal cosiddetto «Italian sound», che richiamano i nostri nomi senza nemmeno avvicinarsi sul piano della qualità, semplicemente perché costano meno.
Se Mattarella lancia così forte l’allarme, un motivo dovrà pur esserci. Il presidente non parla a caso. Evidentemente nutre timori che il pericolo dei dazi non venga abbastanza considerato, che l’opinione pubblica sottovaluti il rischio dei protezionismo nell’illusoria […] la speranza che pure stavolta riusciremo a farla franca; o che infine prevalga l’aspettativa che l’Italia venga risparmiata in virtù dei buoni rapporti stabiliti dalla premier con la nuova amministrazione americana. Il
pericolo è di genufletterci ai nuovi padroni del mondo, senza nemmeno ottenere la loro misericordia.
(da agenzie)
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Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
RETE4 PARLA ADDIRITTURA DI “STRATTONAMENTO”, MA LE RICOSTRUZIONI COZZANO CON QUANTO SI VEDE NEL VIDEO, E PRODI PUÒ FACILMENTE DIFENDERSI: “COME TUTTI I PRESENTI POSSONO TESTIMONIARE HO APPOGGIATO UNA MANO SULLA SUA SPALLA PERCHÉ STAVA DICENDO COSE ASSURDE”
“Oggi durante la manifestazione ‘Libri come 2025 – Festa del libro e della lettura’ a Roma, l’inviata di Quarta Repubblica Lavinia Orefici ha posto una domanda in modo
garbato al Presidente Romano Prodi e ha ricevuto come risposta parole stizzite, irrispettose e una tirata di capelli”.
Lo si legge in un comunicato dell’emittente Mediaset R4. “La giornalista, in modo educato, aveva chiesto un commento su un passaggio del Manifesto di Ventotene, sbandierato nelle piazze. ‘Che cavolo di domanda è? Questo è un modo volgare di fare politica’, la risposta di Prodi, dal tono infastidito e sarcastico – viene ricostruito nella nota -. E poi una mano del Presidente ha afferrato una ciocca dei capelli della giornalista e l’ha strattonata. È stato il gesto di un attimo che ha lasciato scioccata e senza parole la giornalista. In decenni di lavoro, mai ci saremmo aspettati un gesto simile nei confronti di una collega da un ex Presidente del Consiglio”.
“Il Presidente Prodi – ha dichiarato Orefici -, oltre a rispondere alla mia domanda con tono aggressivo e intimidatorio, ha preso una ciocca dei miei capelli e l’ha tirata. Ho sentito la sua mano fra i miei capelli, per me è stato scioccante. Lavoro per Mediaset da 10 anni, inviata all’estero su vari fronti e non ho mai vissuto una situazione del genere. Mi sono sentita offesa come giornalista e come donna”.
Prodi, mai strattonato la cronista, tutti lo hanno visto
“Non ho strattonato o tirato i capelli alla giornalista di Quarta Repubblica, Lavinia Orefici, ma come tutti i giornalisti e le persone presenti possono testimoniare ho appoggiato una mano sulla sua spalla perché stava dicendo cose assurde”. Lo riferisce all’ANSA l’ex premier Romano Prodi.
(da agenzie)
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Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
L’ERRORE CLAMOROSO DI OBAMA E MERKEL, 11 ANNI FA, FU VARARE SANZIONI INUTILI E CONTINUARE AD ACQUISTARE GAS RUSSO. PER “MAD VLAD” FU SOLO UN INCORAGGIAMENTO… TRUMP STA FACENDO LO STESSO ERRORE, MA LA RUSSIA NON HA INTERESSE A FERMARE LA GUERRA: LA SUA ECONOMIA SI REGGE SULLO SFORZO BELLICO (SPENDE L’8% IN DIFESA)
Ci sono pochi dubbi sul fatto che nel 2014 Vladimir Putin si è sentito insultato quando
l’allora presidente americano Barack Obama descrisse la Russia semplicemente come «una potenza regionale che sta minacciando alcuni Stati contigui, a causa non della sua forza ma della sua debolezza».
Eppure, a undici anni di distanza, e a tre dalla tentata invasione a tutto campo dell’Ucraina da parte di Putin, oggi il commento di Obama è quanto mai vero. Il problema è che sia Putin sia il presidente Donald Trump stanno agendo come se la Russia fosse forte, invece che debole.
Le cifre della guerra dicono altro. Secondo nuove stime rese note dal ministero britannico della Difesa, dal febbraio 2022 l’esercito russo ha perso novecentomila uomini, 200-250 mila dei quali uccisi e il resto rimasti gravemente feriti. La Russia sta destinando alle sue forze armate il 40 per cento del suo budget federale, quantificabile nell’8 per cento dell’intero Pil del Paese.
Nondimeno, tutte queste perdite e tutto quel denaro hanno lasciato alla Russia il controllo di appena il 20 per cento del territorio ucraino, e negli ultimi tre mesi non si sono registrati progressi dentro l’Ucraina.
L’unico successo russo recente è stato quello di respingere i soldati ucraini dalla regione di Kursk nei pressi del confine, invasa dall’Ucraina lo scorso agosto, e in gran parte ciò è accaduto soltanto quando Trump ha privato l’Ucraina del supporto
dell’intelligence statunitense.
L’economia russa si è dimostrata in grado di sostenere il prolungato fallimento della guerra di Putin, ma questo non significa che il Paese sia forte. Le vendite di petrolio, gas e altri beni a Cina, India e altri clienti hanno mantenuto l’economia a galla, ma le banche russe sono state costrette a concedere prestiti sovvenzionati per la Difesa, l’edilizia e l’agricoltura.
Questa situazione, però, non fa altro che preparare il terreno per altri guai in futuro. Per tenere sotto controllo l’inflazione, la Banca centrale russa ha alzato i tassi di interesse al 21 per cento, evidenziando che senza i prestiti sovvenzionati l’intera economia arriverebbe a paralizzarsi e molti beneficiari dei prestiti andrebbero in bancarotta.
La verità è che la guerra è stata voluta da un leader autoritario che ha usato le uniche armi a sua disposizione: il potere militare e la retorica nazionalista. Adesso, nel 2025, la verità sta emergendo: malgrado il suo fallimento, Putin potrebbe non voler porre fine ai combattimenti perché, se la spesa per lo sforzo bellico si fermasse, o anche solo rallentasse, l’economia russa sarebbe in guai seri.
Undici anni fa, Obama ha avuto ragione nel suo giudizio, ma torto nella sua reazione: se insieme agli alleati europei avesse risposto con fermezza e forza all’aggressione di Putin, la Russia avrebbe potuto essere respinta. Si preferì optare, invece, per sanzioni insignificanti e clementi, si continuò ad acquistare gas russo e a investire in nuovi oleodotti, e tutto questo ha finito con l’incoraggiare Putin a proseguire la sua strada fatta di intimidazioni culminate poi nella sua catastrofica invasione.
Questo singolare equilibrio tra la forza personale di Putin e la debolezza nazionale della Russia è proprio quello che sia Trump sia i leader europei farebbero bene a tenere a mente. Finora Trump sembra ripetere gli errori di Obama e della cancelliera Angela Merkel nel 2014: nei suoi colloqui del 18 marzo faccia a faccia con Putin e negli incontri tra i suoi uomini che si occupano di politica estera e i funzionari russi in Arabia Saudita e a Mosca, Trump ha cercato di spronare Putin ad accettare un cessate-il-fuoco, invece di costringerlo a farlo.Ecco a cosa si riducono tutte le chiacchiere di Trump sugli «smisurati affari economici»: sta suggerendo – su probabile incoraggiamento dello stesso Putin – che, qualora si raggiungesse la pace, ne deriverebbero vantaggi economici di ogni tipo sia per l’America sia per la Russia.
Si ripete da capo la storia dei gasdotti Nord Stream sotto il Mar Baltico, insomma: l’illusione che l’orso russo possa essere addomesticato soltanto se gli si offre cibo in abbondanza.
Eppure, né Putin in persona né i funzionari dell’ex-Kgb a lui vicini hanno bisogno di altro cibo: sono già straricchi al di là di ogni più sfrenato desiderio. Finché la presa sul potere di Putin resterà forte, hanno ben poco di cui preoccuparsi per l’economia russa
Putin non si lascerà sedurre a fare la pace. Non ha bisogno di soccombere alla seduzione degli «affari», né ha bisogno di interessarsi ai discorsi che già si sentono ripetere tra le imprese tedesche, italiane e di altri Paesi europei circa la ripresa degli acquisti di gas russo una volta che si sarà raggiunta la pace. Il tentativo di seduzione di Trump e i discorsi degli europei sugli acquisti di gas lo convinceranno soltanto che i suoi avversari occidentali sono deboli e corrotti, come ha sempre detto.
Purtroppo, una pace sostenibile potrà essere raggiunta verosimilmente soltanto con le pressioni, invece che con la seduzione. Aspettiamo di vedere che Trump e i suoi consiglieri lo capiscano e di capire se saranno disposti a esercitare davvero pressioni su Putin riprendendo l’invio di aiuti militari all’Ucraina e dando corso alle «massicce sanzioni» alla Russia che Trump ha minacciato senza però dare segno alcuno di volerle definire con precisione e tantomeno concretizzare.
Nel frattempo, tutto questo conferma il tema di fondo della nostra epoca: l’onere vero ricade sull’Europa. Per esercitare pressioni su un Putin forte e una Russia debole, dobbiamo adattare il vecchio modo di dire e «mettere i nostri soldi e l’esercito dove diciamo», facendo quindi qualcosa di più che limitarci a parlare del problema.
Soltanto dando una dimostrazione di forza immediata si potrà addomesticare sul serio l’orso russo.
Bill Emmott
per “La Stampa”
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Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
QUANDO I SOCCORSI SONO ARRIVATI HANNO TROVATO LA RAGAZZA SOLA: IL BABY SPACCIATORE ERA SCAPPATO, MA È STATO POI RINTRACCIATO
A 14 anni assume ketamina, sostanza chimica usata come droga dello sballo, e si sente male in strada a Genova Quinto. La vicenda risale a dieci giorni fa e ora la polizia ha denunciato un ragazzino di 15 anni che gliel’avrebbe data. Il minore avrebbe acquistato lo stupefacente su un sito internet dell’Est Europa. La ragazza era svenuta ed era stata soccorsa dal 118.
Il personale medico l’aveva trasferita al pronto soccorso dell’ospedale San Martino dove era arrivata in codice giallo, quello di media gravità. La quattordicenne era stata soccorsa in via Fabrizi. Quando i soccorsi, insieme alle volanti della polizia, sono arrivati hanno trovato solo la ragazza mentre chi era con lei era andato via, a parte due amiche. La minorenne da subito non ha voluto dire da chi avesse preso la droga. Ma gli investigatori sono riusciti a risalire al ragazzino attraverso l’analisi del cellulare e delle telecamere della zona. L’indagine però va avanti per trovare eventuali complici.
(da agenzie)
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Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
AD APRIRE LE DANZE È CALENDA, CHE PARLANDO DEL PROFESSOR ORSINI (COLLABORATORE DEL “FATTO”), OSA DEFINIRLO UN “PROPAGANDISTA RUSSO”, SCATENANDO L’IRA FUNESTA DI TRAVAGLIO. CHE REPLICA: “E ALLORA TU SEI UN TROMBETTIERE DELLA NATO, UN CALUNNIATORE” … “POVERACCIO”; “MACCHIETTA”; “MACCHIETTA TUA ZIA…”
Carlo Calenda: Orsini è un propagandista russo 
Marco Travaglio: Tu sei un trombettiere della Nato, un calunniatore, un diffamatore, perché Orsini in Parlamento nel 2019, mentre tutti dicevano che bisognava togliere le sanzioni, il propagandista russo Orsini diceva lasciate le sanzioni perché quelli invadono l’Ucraina. Se continuate a insistere, quindi per favore rispetta chi la pensa diversamente da te, non fare il trombettiere.
CC: Marco, perché devi partire ..
MT: No, tu dai del propagandista agli altri perché tu sei un propagandista allora pensi che lo siano tutti. Ci sono anche degli studiosi autonomi e indipendenti che dicono quello che pensano e purtroppo a differenza di te hanno azzeccato tutto, mentre tu sono tre anni che dici che l’Ucraina batterà la Russia e abbiamo visto.
CC: Io ho sempre detto che l’Ucraina stava difendendo la propria libertà. Mentre voi avete sostenuto che è l’Occidente che per procura ha fatto guerra all’Ucraina. Questo non solo non è vero, ma non vi siete manco disturbati andarla a chiedere agli ucraini perché lo fate per conto vostro.
MT: Perché sono scappati 10 milioni all’estero, 800mila renitenti alla leva e 600 mila disertori, tanto vogliono combattere. Sono sfiniti poveracci
CC: Certo che sono sfiniti, stanno proteggendo il loro territorio. E voi li avete presi in giro e dileggiati per tre anni di fila
MT: No, chi li ha presi in giro è chi li ha illusi di battere la Russia senza i soldati
CC: Del calunniatore non me lo dai per cortesia.
MT: Tu hai dato del propagandista a un professore assente
CC: Io io tra l’altro per diffamazione, calunnia, a differenza tua non sono mai stato condannato, quindi vabbè.
MT: Non sono mai stato condannato per calunnia e per diffamazione, faccio il giornalista, e voi avete pure l’immunità parlamentare. Tu hai cominciato a parlare un assente. Io ti ho dato del calunniatore. Mi devi dimostrare quello che dici, io ti ho dimostrato che Orsini si è opposto alla revoca delle sanzioni, sei un mentitore. E io difendo un mio collaboratore che tu hai calunniato. Va bene?
CC:: Io ti cito un articolo di Foreign Affairs che dice l’opposto di quello che dice, forse perché non conosci l’inglese, non te lo sei letto in lingua originale, poi te lo mando. E soprattutto sono a casa tua cerca di comportarti con educazionePropagandista e calunniatore sono due cose diverse. Ho rinunciato a tutte le immunità, ti sbagli e non ho mai avuto un avviso di garanzia, non ho mai usato un’immunità contro una querela e non ho mai querelato nessuno.
MT: Tu sei andato duemila volte non hai capito un cazzo di quello che è successo, quindi basta andarci?
CC: Tu non hai mai parlato con un ucraino. [Ho capito qual è la tua cultura politica, è quello dei totalitarismo.
MT: Io non ho mai scritto una riga a favore di Putin mentre tu sei andato al Vertice di San Pietroburgo da Ministro a dire e cosa dobbiamo fare? Siamo in pace con i russi. Io ho sempre parlato male di Putin, mentre tu invece quando ti conveniva facevi un altro gioco. Quindi pulisciti la bocca, non ho mai scritto una riga a favore dei totalitarismi. Io contro i totalitarismi, tu a favore fino al 2022
CC: Ma come ti permetti? Ma mi c’hai invitato tu in questa trasmissione? Macchietta tua zia. Io ci sono stato in Ucraina, abbassa le penne e siccome a differenza tua so ammettere quando ho sbagliato, lo ammetto, da te non l’ho mai sentito. Non fare il fenomeno, non fare il fenomeno.
MT:: Il movimento 5 stelle è in crescita, tu sei in picchiata
CC: Sai quanti lettori c’hai rispetto ai miei elettori? Un quarantesimo. Quindi intanto devi crescere.
CC: Ma poveraccio di che? Ma questo mi dà del poveraccio, scusami, ma falla finita, ma come ti permetti
(da Dagoreport)
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Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
AUMENTA SEMPRE DI PIU’ IL NUMERO DI MIGRANTI MINORENNI NON ACCOMPAGNATI: 18.000 NEL 2024… ABBIAMO RACCOLTO LE LORO STORIE E LE VOCI DEGLI OPERATORI DI UN SISTEMA CON MOLTE FALLE
«Sono scappato da una comunità nel Sud Italia perché mi avevano detto: “Vieni a Milano, troverai lavoro” e invece mi sono ritrovato per strada e senza un posto dove andare a dormire». Mohammed (nome di fantasia) è arrivato in Italia da minorenne. Ha lasciato la mamma e i suoi quattro fratelli più piccoli in Egitto ed è partito alla volta dell’Europa per contribuire al sostentamento della famiglia dopo la morte del papà. Destinazione: Lampedusa.
Un viaggio drammatico, che lo porta prima nei campi di detenzione in Libia – «Hai subito torture?», gli chiediamo. «No», risponde, senza aggiungere altro – e poi in mezzo al mare. Con un’imbarcazione di fortuna arriva in Sicilia: il Mediterraneo oggi è per Mohammed solo un «brutto ricordo». Viene preso in carico da un Centro di accoglienza straordinario (Cas) ad Agrigento, ottiene i documenti ma non riesce a trovare un lavoro e scappa. Il suo obiettivo è Milano, dal capoluogo lombardo – racconta a Open – l’hanno contattato con la promessa di una remunerazione alta. «Sta partendo un cantiere qui, ci servono lavoratori e paghiamo bene», gli dicono. Una volta raggiunta la città i suoi contatti spariscono, e Mohammed si ritrova per strada.
I numeri (alti) e la richiesta del permesso di soggiorno
In Italia ci sono circa diciottomila minori stranieri non accompagnati (Msna). I più sono uomini, egiziani come Mohammed, spesso adolescenti o preadolescenti. Tra loro c’è chi, come lui, passa per l’inferno dei centri di detenzione in Libia e sbarca sulla coste siciliane. Chi invece raggiunge la penisola via terra, attraverso la rotta balcanica o la frontiera di Ventimiglia. Quasi tutti raccontano di aver subìto torture e violenze durante il viaggio. Stando ai stando ai dati del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, sono sempre più coinvolti nelle migrazioni. «Negli ultimi anni sono arrivati minori che hanno anche 12-14 anni e molti di loro hanno alle spalle percorsi migratori importanti ed esperienze di vita o di strada molto drammatiche», spiega a Open Giuliana Savy, consulente legale per Comunità Nuova, un’associazione che opera nel campo del disagio e della promozione delle risorse dei più giovani.
«Questi ragazzi – prosegue l’avvocata – sanno che se arrivano in Italia da minorenni possono entrare regolarmente nel Paese: è una delle pochissime strade per ottenere il permesso di soggiorno».
Ogni minore straniero che raggiunge l’Italia solo ha il diritto di rimanere nel territorio: non può essere respinto alla frontiera, l’espulsione può avvenire solo in casi eccezionali legati alla sicurezza pubblica o dello Stato e può richiedere il permesso di soggiorno per il solo fatto di essere minorenne o per motivi familiari. Documento che deve essere convertito – a determinate condizioni – una volta raggiunta la maggiore età.
L’arrivo in Italia: dentro o fuori?
La Lombardia è la seconda regione, dopo la Sicilia, con la maggiore incidenza di minori stranieri non accompagnati, e Milano rappresenta un polo d’attrazione. «È un flusso che arriva principalmente dall’Egitto – prosegue l’avvocata -, spesso tramite il passaparola».
Tanti minori sono però soltanto in transito: il capoluogo lombardo è una meta del viaggio che li condurrà in altri Stati. «Su 150 ragazzi che abbiamo monitorato a Milano negli ultimi mesi, 90 erano transitanti», ci dice Maurizio Pitozzi, volontario dell’associazione Naga, che fornisce assistenza sanitaria, sociale e legale ai cittadini stranieri. Alcuni di loro, dunque, non vogliono essere identificati, né essere accolti perché hanno progetti diversi. «Mentre altri – precisa Pitozzi – ci chiedono di poter entrare nel sistema di accoglienza istituzionale, ma qui cominciano gli ostacoli».
Le associazioni che operano in strada li intercettano specialmente di sera quando i servizi per minori del Comune, che deve farsi carico di questi ragazzi, sono chiusi. «Ed è molto difficile affidarli alle forze dell’ordine, come prevede la normativa, – ci spiegano dal Naga – perché spesso gli agenti dichiarano di non avere spazi idonei. Manca un protocollo d’intesa tra prefettura, forze dell’ordine e Comune». Il rischio è
la dispersione o l’incontro con persone malintenzionate. Esistono, inoltre, altri problemi relativi all’identificazione in un Paese diverso dall’Italia: «Se un minore fa il primo ingresso in un altro Stato e viene identificato lì, poi scappa e arriva in Italia non può essere eventualmente preso in carico dal nostro sistema di accoglienza», ci dice Piero Buretti, educatore in un centro Sai che ha sempre lavorato con i Msna. «E questo – continua – è un grosso ostacolo burocratico».
Come funziona il sistema di accoglienza dei minori non accompagnati
I minori che arrivano in Italia senza figure di riferimento dovrebbero essere inizialmente ospitatati nelle strutture di prima accoglienza e successivamente trasferiti nei centri Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), gestiti dagli enti locali, dove possono ricevere un supporto psicologico e sociale adeguato e beneficiare di programmi di integrazione educativa e professionale. Nel caso di arrivi consistenti – situazione ormai diventata la normalità – i prefetti possono attivare strutture temporanee esclusivamente dedicate ai minori (Cas minori) all’interno delle quali sono garantiti soltanto i servizi di base, inadatti a rispondere alle esigenze e ai bisogni di ragazzi per periodi più lunghi. Eppure, la presenza e permanenza di minorenni stranieri soli in questi centri pensati per una situazione di emergenza – denunciano Openpolis e ActionAid nel report Accoglienza al collasso – sembra essere la prassi in Italia. «Sebbene siano in aumento i minori nei centri Sai – si legge nel rapporto – bisogna registrare nel 2023 una crescita del 177% delle presenze in Cas per Msna rispetto all’anno precedente».
La normativa vigente, approvata dal governo Meloni, apre anche alla possibilità che i minori di età uguale o superiore ai 16 anni trovino accoglienza nelle strutture per adulti. «È una cosa impensabile – afferma la legale Savy – che reitera quel senso di non appartenenza e poca corrispondenza dei bisogni che i ragazzi esprimono. Si tratta di un contesto che non li conosce e riconosce, e che può esporli a rischi di violenze e abusi». Secondo i dati ottenuti dal progetto In limite di Asgi, risulta che a fine 2023 più di 700 minori erano ospitati in centri di accoglienza straordinaria per adulti, nonostante nelle strutture Sai risultino non utilizzati in media 127 posti nello stesso anno. «Se prima c’era una possibilità di accesso ed eventualmente servizi di accoglienza differenti, maggiormente strutturati e anche pronti ad accogliere questi minori – precisa l’educatore Buretti -, adesso c’è una grossissima fatica. Sarebbe da indagare se sono i servizi che non hanno più la capacità ricettiva per i tanti arrivi, o se sono i ragazzi che non si fanno più intercettare».
Le Regioni vanno spesso in ordine sparso
Sebbene ci sia una normativa nazionale sull’accoglienza dei minori stranieri soli, le regioni – che da tempo denunciano mancanza di risorse e spazi adeguati – vanno spesso in ordine sparso. Due giorni fa, il Friuli Venezia-Giulia ha approvato un emendamento per limitare l’apertura di nuove strutture e per negare, di fatto,
l’accoglienza a quelli provenienti da altri regioni. Una decisione che è stata definita «illegittima» dalle associazioni del territorio. Esistono, tuttavia, altri percorsi per l’accoglienza dei Msna: la legge Zampa del 2017 ha introdotto la figura del tutore volontario, un privato cittadino disponibile a esercitare la rappresentanza legale di un minorenne arrivato in Italia senza adulti di riferimento. Ma il numero dei tutori iscritti ai tribunali per minorenni è scarso rispetto alle esigenze poste da un fenomeno in crescita. La Puglia ha firmato giovedì scorso un protocollo d’intesa che riconosce, per la prima volta, un rimborso fino a 900 euro a chi decide di ricoprire questo ruolo. Mentre risulta scarsamente applicato il ricorso all’affidamento familiare, promosso dalla stessa norma come prioritario rispetto alle strutture.
I diritti (negati) al compimento del 18esimo anno d’età
Chi entra nel sistema di accoglienza istituzionale da minorenne, al compimento del 18esimo anno d’età deve cavarsela da solo. La legislazione prevede, infatti, numerose tutele che tuttavia decadono da maggiorenni. «È difficile pensare che questi minori, con il loro background migratorio e le loro vulnerabilità, possano essere autonomi al compimento della maggiore età – ci spiega la legale -. Continuare a tenere il confine tra 18 e 19 anni è ridicolo, dovrebbe essere rivisto. Bisogna lavorare su percorsi di inclusione più lunghi se si vuole veramente investire sull’integrazione», afferma ancora l’avvocata Savy. Uscire dal sistema significa essere autonomi: avere un lavoro, essere in grado di sostenersi, e avere soprattutto un’abitazione. «Escono dal sistema e sono abbandonati a loro stessi», afferma. E preda, spesso, della criminalità. Sono però previste delle eccezioni: la normativa vigente prevede lo strumento del prosieguo amministrativo, ovvero la possibilità di continuare il percorso di accoglienza fino a 21 anni (la decisione deve essere approvata dal Tribunale dei minori). «Ma le richieste – soprattutto da parte di egiziani – sono tante, e spesso non vengono approvate. Circa 2/3 dei neo maggiorenni ricevono esito negativo, e non sappiamo che fine fanno», spiega Pitozzi del Naga.
La storia di Ahmed
Anche Ahmed (nome di fantasia), diciottenne, è fuori dal sistema di accoglienza. Maltrattato in famiglia, a 16 anni decide di lasciare l’Egitto con l’intento di raggiungere l’Italia. Come Mohammed, deve passare anche lui per la Libia. E tutti sanno «cosa accade in quel Paese». Eppure, questa consapevolezza non lo ferma. Supera il confine, ma si accorge di non avere abbastanza soldi per tentare il viaggio che lo condurrà dall’altra parte del Mare. Così, comincia a lavorare. «Sono stato sfruttato», dice. «Mi hanno dato un terzo di quello che mi spettava». Prova a ribellarsi, ma finisce nei campi di detenzione. Con Adbul (altro nome di fantasia) prova a scappare, ma viene scoperto. E il suo amico, che ha cercato di fuggire da quell’inferno con lui, viene torturato sotto i suoi occhi. E, gambizzato, non riesce ad affrontare il viaggio della salvezza che avrebbe dovuto condurlo in Europa. Ahmed
invece si decide e, pochi giorni dopo, parte. L’imbarcazione con la quale riesce ad attraversare il Mediterraneo raggiunge la Sicilia. Qui, viene identificato in un hotspot e – come da prassi – entra nel Cas dal quale però scappa. Vuole andare a Milano: è convinto che troverà un lavoro. Ma non ha contatti: nel capoluogo lombardo è costretto a dormire per strada. Per sopravvivere comincia a rubare. Piccoli furti che gli consentono di mangiare, ma entra nel circuito penale. Per lui si aprono le porte del carcere Beccaria di Milano.
Chi non entra, chi abbandona
I minori che escono o non entrano nel sistema di accoglienza e quelli che sfuggono ai servizi sono i più fragili. «Spesso vivono in condizioni di marginalità, che possono sfociare nell’adesione a circuiti criminali – spiega Savy -. Può capitare che incontrino chi promette: “Raggiungi l’Italia, ti do 200 euro a settimana”. Loro ci “cascano” e vengono poi inseriti in tutto quel sistema di sfruttamento lavorativo che può condurli anche in carcere». Negli ultimi anni si è, inoltre, verificato un cambiamento tra i minori stranieri che partono. «Se un tempo venivano in Italia i figli più grandi sui quali i genitori riponevano tutte le speranze per un’eventuale emancipazione anche familiare, adesso partono quelli che vivono già ai margini nel proprio Paese d’origine – afferma Buretti -. Quindi arrivano già sradicati e fanno fatica da soli a introiettare quello che può essere uno schema di regole di vita in un contesto culturale diverso rispetto a quello da cui provengono», afferma.
Prima i ragazzi avevano come fragilità più grande quella di essere sradicati dal contesto di provenienza e dai legami familiari. «Oggi, invece, abbiamo molto spesso a che fare – continua l’educatore – con minori che presentato anche disturbi psichiatrici causati da ciò che hanno subito nei loro Paesi o dal viaggio che li ha condotti in Italia, e con problemi di dipendenze o di salute». Ma si tratta anche di giovanissimi «che provengono da contesti con una concezione economica della vita diversa dalla nostra», afferma Nicolas Bongermino, educatore dei giovani adulti del carcere di San Vittore. «Molti aspirano a diventare più ricchi e spesso anche velocemente o a tutti i costi. Poi, subentra tutto un discorso di immagine, che viene proiettata nel Paese d’origine: mi vesto in un certo modo, ostento una certa apparenza. Ad esempio – prosegue l’educatore – la foto davanti al Duomo di Milano, che poi inviano ai propri familiari, può essere vista come una sorta di riconoscimento dell’eventuale successo del loro percorso migratorio».
Un futuro diverso per i minori stranieri
La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, ratificata dall’Italia due anni dopo, riconosce come diritto fondamentale «l’ascolto delle opinioni dei minori nei processi decisionali che li riguardano». Questo deve valere anche per i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia. «A volte non ci rendiamo conto che davanti a noi ci sono dei ragazzi, che hanno bisogno di una figura
di riferimento che li accompagni verso l’età adulta e che li aiuti a vedere che esiste una prospettiva di vita diversa – dice la legale Savy -. L’unica cosa che è vera è che sono diventati più violenti, più arrabbiati. Ma anche perché sono spesso raccontati come “soggetti negativi”, e alla fine si rispecchiano in questa appartenenza, in questa categoria». E molto spesso gli “adulti” fanno fatica a mettersi in ascolto: «Il fatto di rubare una collanina, che è un reato e va punito, o gli atti di autolesionismo che vediamo in carcere sono tutti modi per comunicarci qualcosa», dice Bongermino. Quello che è certo è che la maggior parte di loro – come Ahmed e Mohammed – non ha intenzione di lasciare l’Italia. «Serve quindi una progettualità, è necessario costruire ponti per l’integrazione, anche perché questi ragazzi saranno le nostre generazioni future», precisa l’educatore. «Bisognerebbe fare investimenti sul sociale non solo nelle grandi città, dove c’è anche il privato che investe – prosegue -, ma anche nei piccoli centri». Ma oltre all’autonomia educativa, abitativa, lavorativa, elementi imprescindibili per l’integrazione dei Msna, è indispensabile lavorare anche sulla relazione. «Le figure di riferimento sono lontane e tutti loro, che affrontano un viaggio drammatico da soli e nell’età più complicata, sentono il bisogno di ritrovare un senso nelle relazioni».
(da Open)
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Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
“IL 6 APRILE SI CAMBIA REGISTRO”
La pazienza di Giorgia Meloni è al limite. Non nei confronti delle opposizioni e per uno
dei tanti guai internazionali, ma per la convivenza politica sempre più difficile con Matteo Salvini.
Non passa giorno che il leader della Lega non faccia il controcanto alla linea ufficiale del governo: sui dazi, sull’Ucraina, su Starlink, e chi più ne ha più ne metta. Nelle scorse settimane il vicepremier ha portato l’Italia sull’orlo della crisi diplomatica con la Francia coi suoi continui attacchi ad Emmanuel Macron. Ma è sul rapporto con l’America di Donald Trump che Salvini – visto da Palazzo Chigi – ha davvero passato il segno. La telefonata col vicepresidente Usa J.D. Vance svolta venerdì, e comunicata subito dopo con tutti i crismi, è parsa un vero affronto alla premier, impegnata in queste settimane a preparare la sua visita ufficiale alla Casa Bianca da Donald Trump, oltre che a tentare di tenere un delicatissimo equilibrio tra le due sponde dell’Atlantico. L’irritazione di Meloni ha passato il livello di guardia, dunque, tanto da tracimare sui quotidiani.
L’ultimatum di Meloni a Salvin
I resoconti del mattino di Stampa e Corriere della Sera concordano sull’orizzonte temporale che la premier s’è data, o meglio dà al suo incontenibile vice. Sarà tollerata sotto voce la sua “esuberanza” ancora fino al congresso della Lega, in programma il 4 e 5 aprile prossimi. Poi basta. Altrimenti saranno fuoco e fiamme, politici s’intende. «Giorgia ha giurato che, se il 6 aprile Matteo non la smette, gli svuoterà il partito in Parlamento e sui territori», fanno filtrare da FdI sulle colonne del Corriere.
È questa la linea rossa che Salvini non dovrà superare. I colonnelli di Giorgia Meloni ci sperano, anche perché, si nota sulla Stampa, il continuo controcanto del leader della Lega non pare avere grandi esiti sui sondaggi.
Al contempo dentro Fratelli d’Italia sono consapevoli che i rapporti tra i due leader sono ormai «compromessi». «Quando è uscito il libro del Fatto sulle chat che lo ridicolizzivano, Salvini l’ha giurata a Giorgia», scuote la testa un “meloniano di rango” citato da Monica Guerzoni.
(da Open)
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Marzo 23rd, 2025 Riccardo Fucile
DAVANTI ALLA CRISI I PAESI EUROPEI HANNO CAPITO CHE SULL’ARMA NUCLEARE DEVONO DIVENTARE AUTONOMI, MA SARA’ UN PERCORSO DIFFICILE E COMPLESSO
La mattina del 10 marzo 2025 alla base aerea di Aviano, vicino a Pordenone, è andata in scena un’esercitazione fuori dall’ordinario. Un gruppo scelto del 31° Security Forces Squadron, composto esclusivamente da militari americani (la base è formalmente territorio Usa), ha simulato per ore una risposta d’emergenza a un’ipotetica violazione della recinzione che circonda l’area militare, chiusa al pubblico.
Non si tratta di una base qualsiasi: Aviano, a soli 95 chilometri da Venezia, ospita circa 20-30 bombe nucleari americane B61-12, anche se il numero esatto non è mai stato confermato, dato che sia Roma sia Washington evitano perfino di ammetterne la presenza in Friuli-Venezia Giulia. Qui è dislocato il 31° Fighter Wing dell’USAF, con migliaia di uomini, e il nervosismo è palpabile, se non ancora da allarme rosso.
La simulazione di quel lunedì – denominata Fighting Wyvern 25-1 – ha visto gli ispettori del reparto introdurre un «inject», ossia un evento improvviso e inatteso per testare la capacità di risposta e adattamento delle truppe. Fighting Wyvern è un’esercitazione Nato mirata a preparare i piloti degli F-16C/D e dei Tornado PA-200 di Aviano a operare in scenari complessi e ad alta pressione, condizioni che potrebbero diventare fin troppo reali dopo le recenti dichiarazioni di Trump sulla possibilità di ritirare la protezione nucleare americana ai paesi alleati che non rispettano gli impegni finanziari.
Negli ambienti militari italiani e tra i pochissimi politici informati dei fatti, circola una domanda cruciale: cosa accadrà alla Nato, e dunque anche ad Aviano, con un presidente americano così erratico, anti-europeo e imprevedibile?
La situazione italiana
Per l’Italia, il rapporto storico di protezione e subordinazione con Washington, consolidato negli ultimi 80 anni, è riassumibile così: 120 basi e installazioni Nato sparse sul territorio nazionale.
Circa 13.000 militari americani, concentrati principalmente nelle basi di Aviano (oltre 4.000), Vicenza, Napoli, Sigonella e Camp Darby (Livorno).
Una precisa catena di comando: la Nato invia direttive strategiche al ministero della Difesa italiano, che le inoltra al Comando Operativo di Vertice Interforze (Covi), incaricato della gestione concreta delle operazioni. Tra le figure centrali ci sono il ministro della Difesa Guido Crosetto, il capo di Stato Maggiore Luciano Portolano e il generale Giovanni Maria Iannucci, comandante del Covi.
È un sistema complesso che, dall’inizio della guerra in Ucraina nel febbraio 2022, ha intensificato esercitazioni e simulazioni per adattarsi ai nuovi equilibri geopolitici. L’«inject» di Aviano ne è un esempio, studiato per verificare la prontezza operativa delle strutture anche in condizioni compromesse. Malgrado le minacce di Donald Trump sulla possibile riduzione della protezione nucleare americana all’Europa, per ora la routine difensiva prosegue senza interruzioni.
Ma l’incertezza ha innescato una profonda crisi di fiducia nei ministeri della Difesa dei paesi alleati. L’ipotesi di un «patto tra autocrati» Trump-Putin rischia di trasformare la Russia, storico avversario dell’Occidente, in partner strategico americano sulla pelle dell’Ucraina e delle migliaia di vittime sul campo.
La catena di comando
Nonostante il caos generato dalla Casa Bianca, la catena di comando Nato resta operativa. Lo scorso 6 marzo, aerei alleati provenienti da Stati Uniti, Olanda e Italia, supportati da Awacs e tanker tedeschi, hanno svolto una missione di tipo F2T2 nello spazio aereo dell’Estonia, preparandosi alla Ramstein Flag 2025. Questa enorme esercitazione Nato, prevista dal 31 marzo all’11 aprile nei Paesi Bassi, coinvolgerà oltre 90 aerei di 15 Paesi, inclusi caccia italiani F-16 e Tornado in partenza da Aviano e Ghedi. In tali esercitazioni, tradizionalmente, le forze alleate (“blu”) si contrappongono a quelle avversarie (“rosse”): non è chiaro però chi saranno i rossi stavolta. Ancora la Russia, come in passato, oppure no?
Ramstein Flag 2025, sempre che Trump non decida di cancellarla all’ultimo minuto (il ministro della Difesa Usa, Pete Hegseth, è un ex-conduttore di Fox News), mobiliterà tutte le componenti Nato – terrestri, aeree, navali, spaziali e cibernetiche – testando capacità e resilienza sotto comando unificato. Secondo l’Alleanza, queste esercitazioni rappresentano «un chiaro segnale politico e militare» della determinazione a garantire la sicurezza euro-atlantica.
Infatti, pochi giorni fa nella base militare di Ādaži, in Lettonia, la Nato ha mobilitato 3.500 uomini per l’esercitazione multinazionale Oak Resolve, che – dicono fonti dell’Alleanza – ha messo alla prova la capacità della brigata di «comandare e controllare operazioni di combattimento complesse che coinvolgono più paesi». Erano presenti forze italiane con nostri carri armati.
In questo quadro, la base italiana di Ghedi (Brescia), distante 85 km da Milano, dove opera il 6º Stormo dell’Aeronautica Militare, ha un fondamentale ruolo strategico. Perché – come Aviano dall’altra parte della Pianura Padana – ospita tra 10 e 15 bombe nucleari americane B61-12, trasportabili dai Tornado Ids, circa 20-30 velivoli
operativi pronti a decollare in pochi minuti, e circa 1.500-2.000 militari italiani.
Secondo Matt Korda e Hans Kristensen, esperti della Federation of American Scientists, Ghedi dispone di 22 rifugi protetti per i caccia, suddivisi in due gruppi da 11. Dal giugno 2022 è iniziata la graduale transizione verso i nuovi caccia F-35A statunitensi (i primi sono già arrivati), con lavori avviati per modernizzare le infrastrutture entro la fine del decennio.
L’arrivo di Trump
Prima dell’arrivo di Trump, tutto sembrava procedere come da programma. A fine 2024 gli Stati Uniti avevano completato il dispiegamento di 100 nuove testate nucleari B61-12 nuove di zecca nelle cinque basi Nato europee: Kleine Brogel (Belgio), Büchel (Germania), Volkel (Paesi Bassi), Aviano e Ghedi. Questi ordigni, il cui impiego richiede l’autorizzazione congiunta del paese ospitante e degli Usa (la cosiddetta «doppia chiave»), hanno una potenza fino a 50 kilotoni, oltre tre volte quella dell’atomica sganciata su Hiroshima.
Il costo del programma, stimato inizialmente dalla National Nuclear Security Administration (Nnsa) a 7,6 miliardi di dollari, ha superato alla fine i dieci miliardi, spesa unitaria circa 20-25 milioni per bomba. Jill Hruby, ex capo della Nnsa, aveva dichiarato all’inizio del 2025 che la produzione garantiva «il ritmo e la scala necessari per la sicurezza e la deterrenza nucleare degli Stati Uniti», ma si è dimessa all’insediamento di Trump il 20 gennaio.
In Italia, la presenza di armi nucleari Usa, regolata dal trattato segreto degli anni Cinquanta noto in codice come Stone Axe, è da sempre un argomento tabù.
Una cappa di silenzio e segreto, per ogni governo di ogni colore politico, da Alcide De Gasperi a Giorgia Meloni. Tutto ciò oggi appare in discussione: Trump ha messo apertamente in dubbio la continuità dell’ombrello nucleare sull’Europa, spiegando il suo atteggiamento: «L’Europa è nata per fregarci, e c’è riuscita». Parole destinate a lasciare il segno.
Grandeur francese e strategia polacca
Davanti a una crisi senza precedenti nel rapporto transatlantico, l’Europa – abituata da decenni a un comodo vassallaggio – si ritrova costretta a reinventare rapidamente la propria strategia di difesa. Francia e Regno Unito pensano a una «coalizione dei volenterosi», mentre nel parlamento europeo esplode una frattura trasversale alimentata dal caos strategico: pacifisti contro bellicisti, filo-Putin contro filo-Ucraina, anti Trump e pro Europa. Ursula von der Leyen cerca disperatamente di rilanciare l’autonomia strategica europea – e l’industria bellica – senza peraltro fare un solo passo più verso la difesa comune, mentre Trump accentua la crisi identitaria del Vecchio Continente.
Secondo Eric Brewer, ex dirigente Usa esperto di proliferazione nucleare, «Trump ha reso incerta la fiducia degli alleati nella Nato, avvicinandosi addirittura alla Russia».
Non a caso, la Francia di Emmanuel Macron, unico paese Ue dotato di un arsenale nucleare autonomo dagli Usa, ha proposto una «coalizione dei volenterosi», offrendo una protezione nucleare alternativa. Macron – politicamente a fine corsa, con Marine Le Pen ormai pronta a succedergli – ha rilanciato così l’idea di una difesa europea più indipendente, in un estremo sussulto di grandeur.
La proposta ha trovato sostegno da Germania, Polonia e altri Paesi, ma con cautela. Friedrich Merz, prossimo leader tedesco, ha sottolineato che l’idea francese dovrebbe affiancare, e non sostituire, l’ombrello nucleare americano. Esperimenti simili in passato fallirono proprio sul controllo operativo delle testate atomiche. Resta il dubbio: Parigi sarebbe davvero disposta a condividere con Berlino la gestione delle proprie armi nucleari?
Riguardo alla protezione nucleare degli Stati Uniti, che potrebbe venire a mancare, il governo italiano sembra aver scelto la via del silenzio, o del «non so nulla», mentre Giorgia Meloni, come un Giano bifronte, tenta di non alienarsi Trump e contemporaneamente cerca di non restare isolata in Europa. La Polonia – unico paese Nato che già investe il 5 per cento del proprio Pil nella difesa (noi siamo all’1,5 per cento) – il 13 marzo ha chiesto ufficialmente agli Stati Uniti di ospitare bombe atomiche sul suo territorio per contenere la minaccia russa.
Il presidente polacco Andrzej Duda ha avanzato la richiesta direttamente a Keith Kellogg, inviato speciale di Trump per Ucraina e Russia. «I confini della Nato si sono spostati verso est già nel 1999, quindi dopo 26 anni credo sia logico che anche l’infrastruttura Nato si sposti verso est», ha dichiarato Duda al Financial Times. «È arrivato il momento, e il nostro paese sarebbe certamente più sicuro se queste armi fossero già qui». La Polonia comunista aveva ospitato testate sovietiche durante la Guerra Fredda, ma oggi una presenza di atomiche Usa così vicine ai confini russi sarebbe percepita come una gravissima minaccia dal Cremlino.
Nei forum militari
E i militari italiani come reagiscono agli sconvolgimenti della catena di comando provocati da Trump? Non è semplice raccogliere informazioni dirette dagli ambienti della difesa, ma i forum online semi-riservati offrono qualche spunto. Un ufficiale dell’Aeronautica scrive: «L’unica vera soluzione è investire in forze armate convenzionali così forti da scoraggiare eventuali aggressioni. La guerra in Ucraina dovrebbe dimostrare proprio che l’arma atomica non è un’opzione praticabile: i russi hanno minacciato per tre anni di usare il nucleare, ma sono rimasti impantanati in una guerra logorante sul campo, senza mai farvi ricorso».
Risponde un colonnello dell’Esercito: «Trump è poco affidabile, certo, ma quale affidabilità offre la Francia? Non ricordo trattative in ambito europeo in cui Parigi abbia rinunciato ai propri interessi per il bene comune. Non possiamo agire impulsivamente. Se in Italia avessimo una classe politica seria, starebbe già
lavorando per un accordo geopolitico con la Germania, per controbilanciare la forza francese e trattare da pari».
Altri immaginano uno scenario globale di proliferazione nucleare, parlando di una possibile «atomica italiana». Un ex alto ufficiale sostiene: «L’Italia avrà il suo deterrente solo quando altri paesi lo avranno già ottenuto. Oggi nove paesi possiedono l’atomica: ne serviranno altri dieci o undici per convincerci a seguirli? Probabilmente meno. Il nucleare francese è un bluff, e l’atomica europea è pura utopia: nessuno prende decisioni.
Quindi, per ora, il nostro deterrente resta quello americano. Con Trump si dovrà pagare un prezzo politico più alto, più caro sarà il gas Gnl degli Stati Uniti e molto più alte le spese per la difesa. Ma alternative concrete non ce ne sono, e in politica estera l’idealismo non protegge nessuno».
La forza di Francia e Uk
Alla luce dell’annunciato disimpegno Usa dalla Nato, leggendo i report di centri studi specializzati nel settore difesa, emerge una domanda a cui bisogna rispondere subito: ammesso e non concesso che le 100 testate atomiche americane nelle basi europee non vengano smantellate per ordine di Trump (comprese quelle di Ghedi e Aviano, cosa che sarebbe comunque ottimale per le popolazioni locali anche perché non sarebbero più un target per Putin), la protezione nucleare franco-britannica potrebbe sostituirsi agli Usa in Europa?
La risposta è «no». Oggi le forze nucleari di Francia e Regno Unito integrano sì la deterrenza estesa degli Stati Uniti, ma non sarebbero una soluzione efficace nel caso di un ritiro improvviso degli Usa dal Vecchio Continente. Parigi e Londra non offrono garanzie di deterrenza analoghe a quelle che Washington fornisce con la Nato.
La loro presenza rende però più complessi i calcoli strategici di un potenziale avversario, che finora è stata la Russia anche se in futuro potrebbe non essere più così (mentre è certo che il vero nemico sistemico dell’America sia la Cina). Gli arsenali europei sono notevolmente più ridotti (meno di 300 testate per la Francia e meno di 250 per il Regno Unito, rispetto alle 1.700 degli Usa pronte al lancio in pochi minuti), oltre a essere concepiti e gestiti solo per proteggere i propri interessi vitali nazionali.
Inoltre, né i francesi né i britannici possiedono dottrine strategiche compatibili con l’idea di estendere la propria deterrenza schierando armi in altri paesi con il sistema della “doppia chiave”, come invece fa oggi l’America (pratica adottata solo recentemente anche dalla Russia con il suo clone bielorusso).
Deterrenza necessaria
Ma attenzione: non bisogna mai dimenticare che è sufficiente una sola di queste bombe atomiche per uccidere decine di migliaia di persone, causando distruzione, contaminazione e morte su una vasta area; di conseguenza, qualsiasi ragionamento
sul numero delle testate nucleari disponibili va considerato all’interno di uno scenario di apocalisse certa.
In definitiva, ammesso e non concesso che il nuovo «asse tra autocrati» Trump-Putin abbia davvero un futuro e possa reggere alla prova della geopolitica globale, passando per la pace e la spartizione dell’Ucraina, resta da vedere quale sarà la chimica tra un presidente americano impulsivo ed egocentrico e un presidente russo freddo e calcolatore, mentre l’Europa finora è stata delegittimata, umiliata e costretta alla ricerca di un ruolo, sempre in ritardo, per rispondere di rimessa a iniziative delle due grandi potenze geopolitiche imperiali.
Certo è che sostituire efficacemente la deterrenza americana in Europa sarebbe un’impresa titanica: richiederà investimenti enormi, sottratti inevitabilmente al welfare e alla ricerca scientifica – una scelta insensata – e porterà di certo a fratture profonde, forse insanabili, tra governi e popolazioni dei singoli stati dell’Unione europea.
(da Open)
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