Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
“NON SIAMO UNA COLONIA DA SPOLPARE”… LA MOSSA DELLA PRESIDENTE NETUMBO NANDI-NDAITWAH È DETTATA ANCHE DA VECCHIE RUGGINI VERSO ELON MUSK, CRESCIUTO IN SUDAFRICA, NEGLI ANNI DELL’APARTHEID
Tu butti fuori i nostri immigrati sprovvisti di permesso? E allora noi facciamo lo stesso con i tuoi. Solo che i secondi non arrivano con il barcone ma viaggiano sulla business class di un Boeing. La «guerra» degli Stati Uniti contro tutti coinvolge anche l’Africa.
L’esito pare scontato. Però succede che a volte Davide riesca ad abbattere persino Golia. O quanto meno a rendergli la vita più difficile. La neo presidente della Namibia, Netumbo Nandi-Ndaitwah, ha deciso di imporre il visto di ingresso a chi si reca nel suo Paese. Per una questione di reciprocità.
Tra i Paesi coinvolti ci sono anche l’Italia e il Regno Unito. Ma con gli Stati Uniti la motivazione è più politica. In seguito a questo annuncio, più di 500 cittadini statunitensi, che avevano estratto diamanti, oro, uranio, rame e altri minerali in Namibia senza visto, hanno fatto richiesta per continuare l’attività mineraria, ma le loro domande sono state tutte respinte.
La presidente namibiana non si è fermata alle parole: ha revocato tutte le agevolazioni fiscali alle aziende americane in Namibia. Il messaggio è forte e chiaro: non siamo una colonia da spolpare, trattateci da pari a pari.
Ci sono anche ruggini che vengono da lontano e riguardano l’uomo di fiducia del presidente americano: Elon Musk. Lui è cresciuto proprio in Sudafrica, negli anni bui dell’apartheid.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
DA LÌ, IN GERMANIA È INIZIATA UNA SCIA DI EPISODI TERRORISTICI, CHE HA TIRATO LA VOLATA ALLE SVASTICHELLE AFD… LA POLIZIA INDAGA SU “POSSIBILI INDIZI DI UN’INFLUENZA MIRATA DALL’ESTERO”…I CONTATTI TRA IL MONDO ISLAMISTA E L’INTELLIGENCE DI MOSCA
Per la prima volta, l’ipotesi che dietro gli attentati pre-elettorali ci sia stata una mano
russa viene fatta esplicitamente in Germania. La tv pubblica ZDF, domenica sera, ha mandato in onda un servizio in cui si dice che quattro giorni prima dell’attentato a Mannheim, il 31 maggio 2024 – contro l’esponente dell’estrema destra Michael Stürzenberger, alla vigilia delle elezioni europee – sono state fatte ricerche da diversi account localizzati in Russia.
Alcune di queste avevano per oggetto proprio «Michael Stürzenberger», un radicale tribuno anti-Islam bavarese, che avrebbe dovuto tenere un comizio il 31 maggio. Le ricerche contenevano parole chiave come «Attacco con il coltello a Mannheim».
L’attentato, compiuto dal 26enne afghano Sulaiman Ataee, avvenne realmente ed ebbe larga eco: fu ucciso un poliziotto che intervenne a difesa di Stürzenberger e quattro persone furono ferite.
Da lì, in Germania è iniziata una lunga scia di attacchi terroristici, alcuni alla vigilia di importanti appuntamenti politici. Ieri, un portavoce della polizia ha confermato all’AFP che il governo sta indagando su «possibili indizi di un’influenza mirata dall’estero» e che la questione «viene presa seriamente». E il presidente della commissione di sorveglianza dei servizi al Bundestag, il verde Konstantin von Notz, ha sollecitato un’inchiesta.
Come hanno fatto persone dietro ad account in Russia a sapere, con quattro giorni d’anticipo, che l’attentato sarebbe avvenuto e, tra tutte le città tedesche, proprio a Mannheim? Non è l’unico elemento anomalo. A parte l’indicazione di quello che poi sarebbe stato il bersaglio, Stürzenberger, dagli stessi indirizzi IP è stato controllato anche dove fossero piazzate le telecamere pubbliche nella piazza dell’aggressione. [..
Un articolo di marzo su Foreign Affairs, a firma di Andrei Soldatov e Irina Borogan, cita un alto ufficiale dell’intelligence tedesca che, in forma anonima, afferma come nella sua agenzia si ritiene che «agenti dei servizi di sicurezza russi potessero aver istigato questi attacchi allo scopo di aumentare il sostegno all’estrema destra, che si oppone all’aiuto tedesco all’Ucraina».
Non è l’unica traccia. Sia il timing che l’esecuzione degli attentati avevano sollevato, tra gli osservatori, delle speculazioni. Quello di Monaco, compiuto da un bodybuilder afghano a poche ore dall’apertura della Conferenza della Sicurezza (in cui poi parlò JD Vance), ha colpito una manifestazione sindacale in una città sotto massima sicurezza: il corteo era protetto e chiuso da una gazzella di polizia, e la manovra è stata elaborata, ben studiata
L’attentato di Berlino, a 36 ore dalle elezioni politiche del 23 febbraio, ha colpito un turista spagnolo al memoriale dell’Olocausto, il luogo più simbolico della capitale:
l’attentatore, un siriano, è poi tornato sul luogo del delitto. Entrambi hanno massimizzato l’impatto politico della paura, dell’insicurezza e dell’odio anti-islamico.
L’islamismo e i russi
Tutti gli attentati sono originati nella nebulosa del jihadismo e dell’Isis. Di recente, però, proprio i legami dei jihadisti con i russi sono finiti sotto la lente d’ingrandimento. A gennaio, due afghani residenti in Germania sono stati accusati di far parte di una rete che aveva compiuto attacchi, nel loro paese d’origine, su richiesta dei servizi segreti russi.
Un terzo afghano, membro della stessa rete, è stato respinto alla frontiera polacca già ad aprile 2024. Quanto all’Isis, è utile ricordare come le regioni in Siria sulle quali ha regnato il Califfato siano state riconquistate nel 2017 da Assad grazie al sostegno di Mosca: che ha mantenuto sul terreno una ben documentata struttura militare e d’intelligence.
Ma ci sono dettagli anche più recenti, o curiosi, che indicano una certa familiarità dei russi con elementi dell’Isis. Al processo inglese contro la rete di spie bulgare, quella che faceva capo al grande fuggitivo Jan Marsalek – l’ex capo di Wirecard e reclutatore per conto di Putin in Austria e Germania – è emerso un singolare dialogo. Dice Marsalek, mentre discute con il bulgaro Roussev su come «neutralizzare» (eliminare, ndr) il giornalista Christo Grozev: «Assumiamo un attentatore suicida dell’ISIS per farlo saltare in aria per strada!». Parole agli atti di un processo.
Quanto agli attentati, un ex ufficiale del servizio esterno BND, Gerhard Conrad — oggi commentatore e analista in tv — avverte che questi sono sempre stati i classici metodi del KGB. «Con queste prove direi che certamente abbiamo qui almeno un sospetto iniziale in termini di intelligence — non in termini di procedimenti penali, ma un sospetto iniziale in termini di intelligence — che dobbiamo seguire». E conclude: «Questo tipo di crimine come provocazione violenta si adatterebbe perfettamente alla cassetta degli attrezzi di quella che chiamiamo guerra ibrida al giorno d’oggi».
Nessuno in Germania esce allo scoperto, tantomeno lancia accuse. Quel che si può dire con certezza oggi è che la Germania non esclude più nulla. E che, tra fughe di notizie e sospetti, si è aperto un nuovo capitolo della guerra delle spie.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
NAVARRO AVEVA DEFINITO MUSK “UN ASSEMBLATORE DI AUTO”. E OGGI L’UOMO PIÙ RICCO DEL MONDO HA RESO LA PARIGLIA: “È PIÙ STUPIDO DI UN SACCO DI MATTONI”
Elon Musk attacca Peter Navarro, il consigliere al commercio di Donald Trump e lo definisce un “cretino”.
L’affondo del miliardario segue le parole di Navarro su Musk. Nel corso di un’intervista a Cnbc, il consigliere al commercio aveva detto: “Alla Casa Bianca lo capiamo tutti, e lo capiscono anche gli americani, che Elon è un produttore di auto. Anzi è un assemblatore di auto”, considerato che “buona parte” delle batterie delle auto Tesla arriva dal Giappone e dalla Cina.
“E’ più stupido di un sacco di mattoni”, ha aggiunto Musk criticando Navarro. Il miliardario ha inoltre ricordato che Tesla è la casa automobilistica con più vetture Made in America.
(da agenzie)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
“SI SONO SBAGLIATI, DI GROSSO: SECONDO LE NOSTRE STIME I DAZI DOVREBBERO ESSERE MOLTO PIÙ BASSI, FORSE UN QUARTO”
Un economista le cui ricerche sono state utilizzate dall’amministrazione Trump per
giustificare i nuovi dazi globali ultra-elevati ha dichiarato che il presidente “merita una F in matematica”.
Brett Neiman, professore di economia all’Università di Chicago ed ex funzionario del Tesoro durante l’amministrazione Biden, è uno degli autori dello studio accademico su cui Trump ha basato i suoi calcoli. In un editoriale pubblicato lunedì sul New York Times, Neiman ha raccontato il suo iniziale sgomento alla notizia dell’annuncio dei dazi, quando ancora non sapeva di essere direttamente coinvolto.
«La mia prima domanda, quando la Casa Bianca ha svelato il suo regime tariffario, è stata: ma come diamine hanno fatto a calcolare tassi così elevati?»
La risposta, ha raccontato, è arrivata il giorno dopo — e in modo del tutto inaspettato.
«L’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti ha pubblicato la sua metodologia e ha citato uno studio accademico firmato da quattro economisti, incluso il sottoscritto, apparentemente a sostegno dei loro numeri. Ma si sono sbagliati. Di grosso.»
Neiman ha sottolineato che i calcoli della Casa Bianca sono “semplicemente sbagliati”: «Le nostre stime indicano che le tariffe calcolate dovrebbero essere molto più basse — forse un quarto di quelle indicate.»
Secondo Neiman, sono diversi gli errori alla base del metodo Trump. Il principale è il tentativo, definito “l’errore più grave”, di calcolare dazi “reciproci” per eliminare i disavanzi commerciali degli Stati Uniti con i partner esteri.
«È un obiettivo ragionevole? No, non lo è», ha scritto l’economista.
I disavanzi commerciali, ha spiegato, sono fenomeni normali e naturali. «Gli americani spendono più per i vestiti prodotti in Sri Lanka di quanto gli abitanti dello Sri Lanka spendano per i nostri farmaci o turbine a gas. E allora?». Non tutti i Paesi hanno le stesse risorse naturali o lo stesso livello di sviluppo, ha aggiunto. «I dati sui deficit non indicano — e tantomeno dimostrano — l’esistenza di concorrenza sleale.»
Per rafforzare la sua tesi, Neiman ha citato anche il premio Nobel Robert Solow, che una volta disse: «Ho un disavanzo cronico con il mio barbiere, che non compra nulla da me.»
In altri termini, non solo i numeri sono sbagliati, ma anche fuorvianti.
Anche se Trump riuscisse a eliminare i disavanzi commerciali — cosa che Neiman definisce «distruttiva» — i dazi reciproci fallirebbero comunque, ha affermato.
E anche ammettendo «per assurdo» che l’obiettivo sia valido e ignorando «le falle nella formula», ha aggiunto l’economista, «le tariffe risultanti sembrano corrette? Indovinate un po’: no, non lo sono.»
Neiman ha anche evidenziato che, pur citando il suo studio, l’amministrazione ha travisato i risultati.
«La Casa Bianca inserisce arbitrariamente un valore del 25% nella sua formula. Da dove arriva quel 25%? È legato al nostro lavoro? Non lo so», ha scritto.
L’economista ha poi lanciato un avvertimento sulle conseguenze di questi errori di calcolo: «I dazi reciproci avranno impatti enormi su lavoratori, imprese, consumatori e mercati azionari globali. Ma il documento metodologico offre un numero sorprendentemente scarso di dettagli.»
Neiman non è il primo esperto a criticare la strategia commerciale di Trump. Anche figure dell’area MAGA, come Ben Shapiro, lo hanno attaccato: ha definito i dazi «probabilmente incostituzionali» e «piuttosto folli». Shapiro ha inoltre concordato sul fatto che i calcoli di Trump siano errati e la sua visione «sbagliata».
Sabato, il presidente ha scritto su Truth Social: «QUESTA È UNA RIVOLUZIONE ECONOMICA, E VINCEREMO. RESISTETE, non sarà facile, ma il risultato finale sarà storico.»
Neiman, però, non è affatto convinto.
«I dazi reciproci annunciati mercoledì porteranno i tassi medi sui dazi al livello più alto da oltre un secolo», ha scritto. «E anche se vengono presentati come una politica commerciale del “fare agli altri ciò che fanno a noi”, non sono certo calcolati secondo la regola aurea della Bibbia.»
Neiman ha concluso dicendo che, nella sua visione, la politica tariffaria e la metodologia di Trump andrebbero completamente abbandonate. Ma, in mancanza di questo, «l’amministrazione dovrebbe almeno dividere i suoi risultati per quattro».
(da agenzie)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
PICCOLO DETTAGLIO: NAVARRO NEI SUOI TESTI CITAVA SPESSO IL FANTOMATICO ECONOMISTA RON VARA, PER ACCREDITARE LE SUE TEORIE AZZARDATE. PECCATO CHE QUEL PERSONAGGIO NON SIA MAI ESISTITO: ERA L’ANAGRAMMA DEL SUO COGNOME
Durante la prima campagna presidenziale di Donald Trump, non c’era una vera e propria struttura organizzativa, né tanto meno esperti economici di rilievo al seguito del candidato repubblicano. Trump allora incaricò il genero Jared Kushner di trovare qualcuno che potesse ricoprire il ruolo di consigliere economico.
Kushner, racconta un articolo di ‘Vanity Fair’ del 2017 appena rilanciato da Rachel Maddow su Msnbc, seguì una procedura decisamente insolita: si mise a cercare un esperto sfogliando titoli di libri su Amazon.com.
Senza neanche ordinarli e magari leggerli, rimase impressionato da un titolo molto suggestivo: ‘Death by China’. Il libro del 2011 aveva una copertina aggressiva e un messaggio chiaro, esattamente nello stile gradito a Trump: mostrarsi duri, decisi, e avversari della Cina.
L’autore era un economista poco noto al grande pubblico ma già convinto sostenitore di politiche aggressive sul commercio: Peter Navarro. Kushner decise quindi di contattare Navarro, chiedendogli se fosse disposto a unirsi al team di Trump come consulente economico. Navarro accettò immediatamente, diventando così – almeno all’inizio – l’unico consigliere economico ufficiale della campagna di Trump.
Rachel Maddow racconta un ulteriore dettaglio surreale nella storia di Navarro. L’economista aveva una particolare abitudine per sostenere le proprie tesi aggressive sui dazi e il protezionismo: in almeno sei dei suoi libri, citava spesso un esperto di economia di nome Ron Vara, presentandolo come autorevole fonte e sostenitore delle sue idee.
Ecco una delle citazioni che appariva in ‘Death by China’: “Solo i cinesi riescono a trasformare un divano in pelle in un bagno d’acido, una culla per bambini in un’arma letale e la batteria di un cellulare in una scheggia che perfora il cuore”.
Ma Ron Vara non era affatto un economista reale. Non esisteva e non era mai esistito. Era un personaggio inventato dall’autore. Il nome “Ron Vara”, infatti, era semplicemente l’anagramma di “Navarro”. Che aveva creato questo economista immaginario per attribuire credibilità alle sue posizioni, citandolo ripetutamente come se fosse un’autorità indipendente e riconosciuta.
Dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, l’immaginario Ron Vara riapparve brevemente in un memo fatto circolare a Washington, che sosteneva proprio le aggressive politiche tariffarie del presidente. Ancora una volta, Navarro usava questa figura inesistente per giustificare le sue convinzioni. Il ‘New York Times’ scoprì rapidamente che anche in questo caso si trattava di una finzione, di un’email falsa associata al fantomatico Ron Vara.
Peter Navarro commentò la vicenda dicendo che il suo alter ego era una “trovata scherzosa” e che “in nessun momento il personaggio è stato utilizzato in maniera impropria come fonte di fatti reali”, ma nel frattempo altri economisti avevano citato Vara nei loro scritti.
La sua casa editrice Prentice Hall (gruppo Pearson) da quel momento ha introdotto una nota nelle ristampe dei libri per segnalare che si tratta di uno pseudonimo dell’autore.
Tutta questa storia non ha avuto effetti sulla fiducia di Trump per Navarro.
D’altronde, il tycoon negli anni ’80 inventò un portavoce immaginario di nome John Barron (Barron fu poi il nome che diede al quinto figlio, avuto con Melania). Oggi l’economista è consigliere per il commercio della Casa Bianca e ha pubblicato ieri ‘Financial Times’ una specie di manifesto per la guerra commerciale del Trump-2: inutile parlare di percentuali tariffarie “ufficiali”, secondo Navarro gli altri Paesi usano altri tipi di barriere, come manipolazione valutaria, dumping, sussidi, furto di proprietà intellettuale e ostacoli regolamentari, per bloccare le esportazioni americane. La strategia che vediamo in queste ore è una risposta necessaria a una “emergenza nazionale” causata da un sistema commerciale ingiusto. (Di Giorgio Rutelli)
(da Adnkronos)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
“CI GUADAGNA QUANDO LA NOSTRA ECONOMIA IMPLODE. È UNA PESSIMA IDEA SCEGLIERE UN SEGRETARIO AL COMMERCIO LA CUI SOCIETÀ SCOMMETTE SUL RIALZO DEL REDDITO FISSO. È UN CONFLITTO DI INTERESSI IRRECONCILIABILE”… I BIG DELLA FINANZA AMERICANA SFANCULANO WALL STREET E GUARDANO CON SEMPRE INTERESSE ALLA VECCHIA EUROPA
I leader dell’alta finanza americana scendono in campo contro Donald Trump e la sua
amministrazione.
Bill Ackman, il fondatore del colosso dei fondi hedge Pershing Square con 15 miliardi di dollari di attività in gestione, ha scagliato strali contro il falco del protezionismo Howard Lutnick: il Segretario al Commercio, ha detto, ha gravi
conflitti di interessi che lo vedono profittare di una crisi che minaccia di trasformarsi in un «inverno nucleare economico auto-indotto»
La società di Lutnick, Cantor Fitzgerald, ha una vasta esposizione ai titoli obbligazionari, oggi protagonisti di rally in qualità di bene rifugio. Il j’accuse di Ackman è stato esplicito: «Ho capito perché Lutnick è indifferente al crash del mercato azionario e dell’economia.
Lui e Cantor sono lunghi sui bond. Ci guadagna quando la nostra economia implode. È una pessima idea scegliere un Segretario al Commercio la cui società scommette sul rialzo del reddito fisso. È un conflitto di interessi irreconciliabile».
Ackman ha anche chiesto alla Casa Bianca di correre ai ripari: ha invocato una immediata pausa di 90 giorni sulle tariffe, per dare tempo alla ricerca di soluzioni. E, in messaggi sulla piattaforma X di Elon Musk, stretto collaboratore di Trump, ha continuato: «Stiamo distruggendo la fiducia nel nostro Paese come partner nell’interscambio, come luogo dove condurre business e come mercato dove investire capitali». Ancora, dopo aver sostenuto la campagna e l’elezione di Trump ora ha dichiarato: «Non è questo ciò per cui abbiamo votato».
Ackman è forse il più duro ma non il solo ad essere uscito allo scoperto per smarcarsi dall’amministrazione .
Critiche sono piovute da Jamie Dimon, Ceo e chairman di JP Morgan e considerato lo statista di Wall Street, e da Stanley Druckenmiller, repubblicano di vecchia data e “padrino” dell’attuale Segretario al Tesoro Scott Bessent.
Dimon nella sua lettera annuale agli investitori ha messo in guardia dall’impatto negativo dei dazi su crescita e inflazione e sul più generale danno che causano ad alleanze economiche alla radice della «straordinaria posizione dell’America nel mondo».
Dimon ha aggiunto che «se le tariffe causeranno una recessione rimane una questione aperta, ma freneranno la crescita». E che «prima la questione sarà risolta meglio è, perché alcuni effetti negativi sono cumulativi nel tempo e difficili da annullare».
I suoi economisti hanno ormai previsto al 60% una recessione globale. Dimon ha poi ammonito che le valutazioni azionarie appaiono tuttora eccessive e vulnerabili, superiori alle medie storiche. «I mercati sembrano ancora assumere un relativo atterraggio morbido dell’economia. Non ne sono così sicuro».
Druckenmiller ha da parte sua sconfessato la spirale tariffaria, mettendo nero su bianco sui social media di essere contrario a «dazi superiori al 10%». Vale a dire il minimo globale deciso da Trump da sabato scorso, senza le tariffe reciproche fino al 50% contro i maggiori partner da domani.
(da agenzie)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
FDI 28,1%, PD 22,4%, M5S 12%, FORZA ITALIA 9,2%, LEGA 7,7%, AVS 5,7%, AZIONE 3,7%, ITALIA VIVA 2,3%, +EUROPA 2,2%
Nel centrodestra cresce solo Forza Italia (e di poco), Fratelli d’Italia ha un lieve calo e la Lega perde quasi un punto. Nell’opposizione ci sono alti e bassi: il Pd scende di oltre mezzo punto mentre Azione lo guadagna, il Movimento 5 stelle e Italia viva crescono e invece Verdi-Sinistra calano. Ecco quali sono i risultati del nuovo sondaggio politico curato da Youtrend per SkyTg24.
Fratelli d’Italia è al 28,1%, e si può dire che il partito resta sostanzialmente stabile: perde un decimo in un mese, confermandosi la forza politica più votata nel Paese al momento. FdI resta comunque distante dal 30%, in questa rilevazione, e nell’ultimo mese non fa passi avanti nei consensi.
Chi cresce, nel centrodestra, è Forza Italia: 9,2% di elettori, con un +0,2% in un mese. Anche in questo caso si parla di percentuali piuttosto ridotte, ma comunque in un trend positivo per i forzisti, che restano la seconda forza della coalizione.
Tanto più perché la Lega crolla: 7,7%, una perdita di otto decimi (quasi un punto intero). Insomma, non sembrerebbe aver aiutato il congresso leghista della scorsa settimana. O, almeno, potrebbe non essere bastato a compensare le divisioni che la Lega ha portato nel governo nell’ultimo mese, soprattutto sul riarmo italiano e
europeo.
La Lega di Matteo Salvini – rieletto senza rivali al congresso – si è distinta dal resto della maggioranza per una posizione nettamente anti-europea, contro le spese militari, e vicina all’amministrazione di Donald Trump.
Se l’impostazione trumpiana è condivisa anche da Giorgia Meloni (con toni più ‘istituzionali’), sul riarmo FI si è detta nettamente favorevole e FdI si è astenuta, ma in sostanza ha appoggiato il piano promosso dalla Commissione europea.
Un altro partito che si è schierato sul fronte del ‘no’ al riarmo europeo, creando divisioni nell’opposizione, è il Movimento 5 stelle, che sale al 12%. A differenza del Carroccio, per i M5s di Giuseppe Conte l’impegno anti-bellicista sembra aver pagato in termini di consenso, forse anche grazie al successo della manifestazione organizzata a Roma. Qui hanno partecipato Pd e Avs, ma non gli schieramenti liberali di centro che siedono all’opposizione.
Il M5s cresce, ma lo stesso non si può dire delle altre due forze politiche che hanno partecipato alla piazza contro il riarmo. Il Partito democratico scende al 22,4% perdendo ben lo 0,7%, poco meno della Lega (forse complici le spaccature interne proprio sul tema delle armi, o semplicemente l’aumento di consenso verso altre forze dell’opposizione). Alleanza Verdi-Sinistra scende al 5,7, con un calo di tre decimi che fa scendere il partito sotto la soglia del 6%.
7È stato un mese decisamente positivo, invece, per Azione di Carlo Calenda: 3,7% dei voti, in crescita di ben sette decimi. Il leader di Azione si è schierato a favore del riarmo in modo aggressivo, attaccando anche duramente il Movimento 5 stelle. Italia viva di Matteo Renzi sale al 2,3% con un +0,4%, invece +Europa resta stabile al 2,2%. Infine c’è Noi Moderati, quarto partito della coalizione di centrodestra: raccoglie lo 0,8%, un decimo in meno rispetto a un mese fa.
(da Fanpage)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
LA PREMIER E’ OBBLIGATA A RENDICONTARE QUANTO SPENDE PER I VIAGGI ISTITUZIONALI, MA NON FA SAPERE NULLA DA AGOATO 2024: FINO A QUEL MOMENTO 114 VIAGGI E 570.000 EURO SPESI PER VITTO E ALLOGGIO
La presidente del Consiglio Meloni ha fatto 114 viaggi istituzionali da quando è in
carica. O meglio, dall’inizio del suo mandato (novembre 2022) fino ad agosto dell’anno scorso.
Da allora, sul sito ufficiale del governo non c’è più traccia dei resoconti dei suoi viaggi, che pure vanno pubblicati per legge. Va un po’ meglio il vicepremier Matteo Salvini: sono note le sue trasferte fino a dicembre 2024, anche se mancano i primi due mesi di mandato.
Peggio di tutti l’altro vice di Meloni, Antonio Tajani: la sua pagina riporta zero viaggi effettuati da vicepremier, e il ministero degli Esteri non fornisce altre informazioni
Si parla delle spese per i viaggi di servizio e le missioni dei vertici del governo,
pagate con soldi pubblici. Dai biglietti di treni e aerei, fino agli alberghi per dormire e ai ristoranti in cui mangiare per pranzi o cene. Non solo per Meloni (o Salvini, o Tajani) ma anche per i funzionari e collaboratori che li accompagnano nelle varie trasferte.
Quanto ha speso Meloni nei suoi viaggi finora
Nei suoi 114 viaggi istituzionali, Giorgia Meloni ha speso 568.864 euro per vitto e alloggio. Si tratta di circa 25mila euro in più del primo governo Conte, e oltre 120mila euro in più di Mario Draghi.
Contando anche le spese di indennità e per i trasporti, si arriva a un totale di 767.367 euro spesi: circa 6.700 euro per ogni trasferta, in media.
Mario Draghi era arrivato a 762mila euro, ma Giuseppe Conte nel suo primo esecutivo aveva superato il milione di euro. Con gli altri governi precedenti il confronto è poco sensato, o perché erano gli anni della pandemia (nel caso del Conte bis) o perché l’inflazione nel frattempo ha aumentato parecchio tutti i costi.
Una particolarità della gestione di Meloni è il numero di persone che fanno parte della sua delegazione nelle trasferte.
Durante il governo Draghi, in media c’erano circa sette persone insieme al premier in ogni viaggio. Meloni se ne porta più del doppio: oltre 14 collaboratori attorno a sé, in media, di cui la maggior parte sono staff ‘interno’, e solo una piccola minoranza sono delegazioni esterne, come altre autorità politiche.
Il confronto con Draghi e Conte
In realtà, la spesa di Meloni si può spiegare anche con altri dati. Ad esempio, Mario Draghi nei suoi 21 mesi di governo (febbraio 2021 – ottobre 2022) aveva fatto solo 92 viaggi. Soprattutto perché nei primi tre mesi di mandato, ancora nel pieno della pandemia, ne aveva potuto effettuare uno solo.
Come detto, Meloni nei 22 mesi di cui sappiamo ne ha fatti 114. Quindi si potrebbe dire che il confronto sulla spesa assoluta non è del tutto onesto. In media, l’ex banchiere aveva speso poco meno di 8.300 euro a viaggio: circa 1.500 euro in più di Meloni.
Il primo governo Conte è durato quindici mesi, da giugno 2018 a agosto 2019. I dati forniti da Palazzo Chigi in questo caso vanno presi con le pinze, perché mancano alcuni mesi (febbraio e giugno 2019). Risultano comunque 86 viaggi con una spesa complessiva da oltre un milione di euro: 12.400 euro a viaggio.
In particolare, per Conte, ha pesato probabilmente la conferenza per la Libia di Palermo di novembre 2018. Per quel mese risultano a nota spese del governo anche quattro delegazioni libiche. Non a caso, la spesa fu altissima: 111mila euro di viaggi complessivi e 109mila euro di vitto e alloggio solo per i quattro viaggi in Italia (tra
cui quello a Palermo), mentre normalmente è raro che si superino i 50mila euro per mangiare e dormire in tutte le trasferte del mese.
Quindi è vero che Giorgia Meloni ha speso più di tutti per vitto e alloggio, ma la differenza è in gran parte dovuta al numero di viaggi effettuati: 114, ovvero 5,2 al mese, contro i 4,3 al mese di Draghi. Erano 6,6 al mese per Conte (di nuovo, senza tenere conto dei due mesi per i quali i dati non sono disponibili), mentre ad esempio Paolo Gentiloni dal dicembre 2016 al maggio 2018 ne fece oltre sette al mese.
In media, la premier paga poco meno di 5mila euro a viaggio per alberghi e ristoranti: un dato sostanzialmente uguale a quello di Draghi e poco più basso di Conte.
Il mistero sui viaggi degli ultimi sei mesi
Resta il mistero sul perché non si sappia più nulla dei viaggi della presidente del Consiglio da agosto 2024 in poi. È da quasi otto mesi che Chigi non aggiorna i suoi resoconti. Così è impossibile sapere quanto la spesa sia lievitata. Dallo scorso autunno non sono mancati i viaggi per summit internazionali e trasferte istituzionali. Se Meloni ha mantenuto precisamente la sua media, ormai ha superato il milione di euro di spese complessive, e quasi i 750mila euro di vitto e alloggio. Ma, al momento, nessuno lo sa.
In questo la premier è peggio dei predecessori. Normalmente, durante il governo Draghi, le spese erano aggiornate entro due o tre mesi al massimo. E non è nemmeno la prima volta che succede: a settembre 2023, dopo meno di un anno di mandato, Pagella politica segnalava un ritardo di quasi cinque mesi nell’aggiornamento delle spese. Oggi siamo a sette, e tra poche settimane diventeranno otto.
Eppure l’obbligo di far sapere come si spendono i soldi pubblici c’è. Dal 2013, il governo Monti ha introdotto il principio di amministrazione trasparente: chi ha un incarico politico deve comunicare al pubblico una serie di informazioni, tramite i siti web ufficiali, e tra queste anche le spese per i viaggi istituzionali e le missioni. Certo, non esistono multe per chi non lo fa, ma non aggiornare i dati va contro l’idea che i cittadini debbano essere informati su come si usano i loro soldi.
Quanto ha speso Matteo Salvini per i suoi viaggi
Un capitolo a parte meritano i due vicepresidenti del Consiglio, Matteo Salvini e Antonio Tajani. Nel caso del primo, ci sono i dati sulle sue trasferte fino a dicembre 2024. Salvini, come vicepremier, ha fatto ben meno viaggi ufficiali di Meloni: ‘solo’ 25 trasferte, spendendo in tutto poco più di 14mila euro. Anche se mancano i numeri su novembre e dicembre 2022, i primi due mesi di attività.
Per quanto riguarda i viaggi da ministro dei Trasporti, ci sono delle indicazioni in più sul sito del ministero. Non si riporta il numero di trasferte, ma solo la spesa complessiva di ciascun mese. Da febbraio 2023 a dicembre 2024, si arriva esattamente a 5.800 euro.
Nessuna informazione su Antonio Tajani
Storia diversa per il leader di Forza Italia. Antonio Tajani, sempre come vicepremier, risulta non aver fatto alcun viaggio o missione, né in Italia né all’estero, in due anni di mandato. Le informazioni ufficiali su di lui sono pubblicate, vanno da dicembre 2022 a dicembre 2024, ma ogni singola tabella riporta “zero”.
Sapere quanto ha viaggiato Tajani in veste di ministro degli Esteri è anche più difficile. Il sito del ministero riporta solamente che “il ministro ha rinunciato a percepire le diarie di legge” per le missioni, ma non sembra avere altre informazioni sulla spesa pubblica per i viaggi. Si potrebbero spulciare i bilanci del ministero, ma quelli consuntivi (quindi sulla spesa effettivamente registrata) vanno solo fino al 2022. Sul segretario di FI non sappiamo quanto viaggi e, soprattutto, quanto spenda.
(da Fanpage)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
DEL RESTO, IL GRANDE MENTORE DEL TYCOON, ROY COHN, ERA CONSIGLIERE DEL BOSS “FAT TONY” SALERNO… DAGLI OPERAI POLACCHI PAGATI 4 EURO L’ORA PER COSTRUIRE LA TRUMP TOWER AL CALCESTRUZZO PER TRUMP PLAZA E IL LOTTO PER IL PARCHEGGIO DEL CASINÒ AD ATLANTIC CITY
L’altra sera, un caro amico storico giornalista del Sole 24 Ore mi ha chiamato e, dopo aver osservato che la formula usata da Donald Trump per imporre dazi al mondo intero non ha alcun senso, mi ha detto di aver concluso che “c’è un pazzo alla Casa Bianca”. Ma non è così
Alla Casa Bianca c’è un uomo che ha avuto come mentore il consigliore legale
del boss di Cosa Nostra americana.
La ridicola formula usata da Trump per calcolare i dazi è dovuta all’ignoranza economica […]. Ma non è la formula che spiega quello che sta succedendo. È il metodo. E il metodo è quello del boss mafioso che decide di prendere il controllo di un territorio chiedendo il pizzo a tutti e su qualsiasi attività commerciale.
Non a caso, il figlio del boss, Eric, ha scritto questo post: “Non vorrei essere l’ultimo Paese che cercherà di negoziare un accordo commerciale con mio padre. Il primo a negoziare ne uscirà bene, l’ultimo finirà male. Conosco questo film da una vita”.
Il giornalista David Rothkopf è stato più diretto: “Questi non sono dazi. Sono una testa di cavallo messa nel letto di tutti i leader politici ed economici stranieri”.
In pratica, Trump ha adesso applicato al resto del mondo lo stesso metodo “minaccia+estorsione” con il quale ha messo in riga l’intero partito Repubblicano ed estorto concessioni ai maggiori studi legali e alle grandi università americane.
Stiamo parlando letteralmente del metodo dei vecchi boss di Cosa Nostra che gli hanno aperto la strada nel mondo dell’edilizia.
Nel 1968, dopo essersi laureato all’Università della Pennsylvania, giovane e ricco figlio di un costruttore di Queens, Trump decise di cercare fortuna a Manhattan.
Nel giro di pochi anni strinse amicizia con l’avvocato Roy Cohn, ex braccio destro del senatore Joseph McCarthy (sì, quello del maccartismo!) divenuto consigliere dei boss di Cosa Nostra “Fat Tony” Salerno, capo della famiglia Genovese, e Paul Castellano, capo della più numerosa famiglia dei Gambino.
Il legame di Cohn con i due padrini si rivelò utile quando Trump iniziò a lavorare su quella che sarebbe diventata la Trump Tower, il grattacielo di 58 piani che è tuttora la sua base a Manhattan.
Trump si rivolse infatti alla S&A Concrete, un’azienda che Salerno e Castellano possedevano attraverso prestanome, accettando di pagare i prezzi gonfiati del calcestruzzo.
Per la demolizione dei grandi magazzini che dovevano far posto alla Trump Tower, Trump assunse ben 200 uomini non iscritti al sindacato per affiancare circa 15 membri della Union Local 95.
I lavoratori non iscritti al sindacato erano per lo più clandestini polacchi, pagati da 4 a 6 dollari l’ora
Conosciuti come la “brigata polacca”, molti non indossavano elmetti e dormivano nel cantiere.
Normalmente l’impiego di lavoratori non sindacalizzati avrebbe portato al picchettamento del cantiere, ma non in questo caso. Il motivo era semplice: Cos
Nostra controllava quel sindacato (è stato dimostrato da testimonianze, documenti e condanne in vari processi, nonché da un successivo rapporto della task force sul crimine organizzato dello Stato di New York).
Poi c’è la vicenda di John Cody, un funzionario del sindacato dei camionisti descritto dalle forze dell’ordine come stretto collaboratore della famiglia Gambino. Il sospetto degli agenti dell’FBI era che Cody […] potesse aver ottenuto un appartamento gratuito nella Trump Tower.
Trump negò sempre, ma un’amica intima di Cody comprò tre appartamenti della Trump Tower, dove Cody soggiornò occasionalmente e vi investì 500.000 dollari.
Secondo quanto riferito dal giornalista Wayne Barrett, autore di un libro sugli affari immobiliari di Trump, “the Donald” aiutò la donna a ottenere un mutuo di 3 milioni di dollari nonostante non avesse alcun reddito fisso né avesse offerto alcuna garanzia.
Dopo che Cody fu condannato per “racketeering” e perse il controllo del sindacato, Trump citò a giudizio la donna. Lei lo controdenunciò spiegando che vi erano “le basi per un’indagine del procuratore generale”. Trump patteggiò rapidamente, pagando alla donna mezzo milione di dollari.
Nel 1988 il boss di Cosa Nostra “Fat Tony” Salerno fu definitivamente condannato per una serie di attività mafiose che includevano l’appalto da quasi 8 milioni di dollari per il calcestruzzo del Trump Plaza, un grattacielo dell’East Side. […]
Per avere il quadro completo, occorre sapere che, ad Atlantic City, in New Jersey, Trump costruì il suo casinò pagando 1,1 milioni di dollari per un lotto di circa 5.000 metri quadri da usare come parcheggio per i clienti che appena cinque anni prima era stato comprato per soli 195.000 dollari da Salvatore Testa e Frank Narducci Jr.
I due erano noti negli ambienti malavitosi di Atlantic City come “i Giovani Giustizieri” ed erano i sicari del boss di Atlantic City Nicky Scarfo.
(da La Repubblica)
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