Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
VIOLARE NORME ED ACCORDI INTERNAZIONALI, RENDENDO ILLEGITTIMO IL PROPRIO COMPORTAMENTO, LEGITTIMA I REGIMI AUTORITARI A FARE LO STESSO
Trump continua a beneficiare del sostegno dei suoi elettori più convinti (i cosiddetti
MAGA voters), ma si sta riducendo quello degli elettori in generale.
Secondo un sondaggio di Economist/You Gov del 5-8 aprile, quel sostegno è passato dal 49 per cento (all’inizio del febbraio scorso) al 43 per cento (due mesi dopo), con più della metà degli elettori (51 per cento) che disapprova la sua job’s performance.
Come spiegare una politica presidenziale così contraddittoria? Per alcuni osservatori, la causa va ricercata nella persona del presidente, incapace di ascoltare e ignaro della complessità (per non parlare della sua volgarità personale). Certamente la personalità di Trump conta, ma i suoi difetti sono ingigantiti da almeno due fattori.
In primo luogo, dall’organizzazione della Presidenza. Trump si è circondato di incompetenti e sicofanti, il cui merito è la loro lealtà assoluta nei suoi confronti. Persone di questo tipo non possono metterne in discussione le scelte. Chi potrebbe farlo (come il segretario al Tesoro, Scott Bessent), parla poco perché avviluppato da conflitti d’interesse.
Vi sono poi i miliardari suoi amici che, avendo avuto successo negli affari, pensano di sapere mediare nei conflitti in Medio-Oriente o in Ucraina. Come se non bastasse, attraverso Elon Musk e il suo DOGE (Department of Government Efficiency), interi apparati di competenze […] sono stati smantellati.
In una presidenza simile, quando si verificano divergenze, gli argomenti lasciano il posto agli insulti. Si pensi al conflitto tra Elon Musk (che, peraltro, non ha nessun ruolo formale) e Peter Navarro (consigliere del presidente per il commercio) relativo ai dazi. Il conflitto è finito con il secondo che ha accusato Musk «di non essere un imprenditore ma un assemblatore» e con il primo che ha accusato Navarro «di essere più stupido di un accumulo di mattoni».
In realtà, Musk non vuole i dazi in nome di mercati aperti e deregolati che favoriscono le sue imprese (una deregolazione che vuole imporre anche al mercato europeo), mentre Navarro mira a proteggere l’economia tradizionale con la sua politica iper-protezionistica (economia che verrebbe invece penalizzata per gli effetti inflazionistici di quest’ultima).
Ma di tutto ciò non si discute. Una presidenza simile non può che magnificare i difetti di Trump.
In secondo luogo, la contraddittorietà di Trump è accentuata anche dai suoi “istinti culturali”.
Le sue decisioni e dichiarazioni allontanano gli amici, ma non conquistano i nemici. Il suo (ingiustificato e imperdonabile) maltrattamento pubblico del presidente ucraino Zelens’kyj non ha convinto Putin ad accettare una tregua, ma ha convinto molti leader europei a non fidarsi più dell’America.
L’apertura di una guerra commerciale contro gli alleati asiatici di quest’ultima fa il gioco della Cina, non già di chi la vuole contenere. Violare norme ed accordi internazionali, come quelli dell’Organizzazione
mondiale dei commerci (Omc), rendendo illegittimo il proprio comportamento, legittima i regimi autoritari a fare lo stesso.
Alzare i dazi verso tutti i Paesi, attraverso relazioni bilaterali di forza, suscita reazioni nazionaliste diffuse, non solo nel commercio. Se si impone il nazionalismo di America First, allora anche altri Paesi ricorreranno al loro nazionalismo per difendersi (come ha fatto il Canada o il Messico).
Sul piano della sicurezza, il nazionalismo di un Paese grande come l’America giustifica il nazionalismo dei Paesi meno-grandi come l’Iran, per i quali tutto sarà lecito per proteggersi.
Proprio per evitare il ripetersi delle degenerazioni nazionaliste si è costruito, nel secondo dopo-guerra, su iniziativa americana, un ordine internazionale basato su regole e istituzioni multilaterali.
Gli istinti culturali di Trump, perché condivisi dalla sua Presidenza, mettono in discussione quell’ordine internazionale senza che ci sia una discussione. Insomma, Trump è un “sistema”, organizzativo e culturale, non solo un presidente. I nostri leader farebbero bene a parlargli in nome del “sistema” europeo, se non vogliono essere sbeffeggiati di essere andati a Washington D.C. per “baciargli il sedere”.
(da “il Sole 24 Ore”)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
“LA DESTRA FA UNA GRAN FATICA AD ACCETTARE IL FATTO CHE LA REPUBBLICA È NATA SULLA SCONFITTA DEI LORO PADRI POLITICI E IDEOLOGICI. DATE COME IL 25 APRILE NON POSSONO CHE ESSERE DIVISIVE”
La coincidenza fra l’imminente 25 Aprile e il Liberation day di Trump, erede dei nostri liberatori del ‘45, è inquietante, va di moda dire distopica. Eppure spiegabile, secondo Alessandro Portelli – storico, americanista, autore di «L’ordine è già stato eseguito», saggio su via Rasella e pietra miliare per le polemiche contro i Gap – perché la matrice dell’idea di libertà è diversa fra l’Europa e gli Usa.
Il giorno della Liberazione dell’Europa dal nazifascismo, anche grazie all’America, lì diventa il giorno d’inizio di una guerra commerciale con il resto del mondo. Un ribaltamento, per la storia Usa?
Non del tutto. Le destre liberali hanno rovesciato il concetto, la intendono
come libertà dell’individuo da qualunque rapporto sociale. Per noi “libertario” significa anarchico, negli Usa il Libertarian party è un partito ultraliberista di ultradestra. Dunque Liberation day per gli Usa adesso significa: finalmente ci liberiamo degli intralci e delle imposizioni che ci vengono dal resto del mondo.
Ci sono lunghe radici storiche dietro questa torsione finale: la libertà della Dichiarazione di indipendenza americana attiene fin dall’inizio all’individuo, mentre nella Rivoluzione Francese la libertà è legata ai rapporti sociali, uguaglianza e fratellanza.
L’alleato che ci ha liberato dal nazifascismo oggi simpatizza con i partiti neofascisti.
Senza disconoscerne il ruolo e i meriti, il loro scopo era sconfiggere i nazisti che avevano scatenato la Guerra mondiale. Liberarci era una conseguenza. Ma certo, quell’America veniva dagli anni di Roosevelt, quelli del Congress of Industrial Organizations, il grande sindacato, dell’idea di solidarietà e socialità degli anni Trenta, che fu il riferimento di Pavese, Vittorini e degli intellettuali antifascisti italiani. Gli Usa hanno sempre messo l’interesse nazionale al centro della propria politica, come ovvio. In quella fase, l’interesse nazionale coincise con quello delle forze di liberazione.
L’America torna piccola, anziché great again?
È una fase nuova, non il ritorno indietro, ma una sintesi fra l’egoismo dell’isolazionismo tradizionale e una nuova dimensione di superpotenza che si libera delle responsabilità che in passato gli derivavano dalla loro egemonia e imposta i rapporti con il mondo in termini di puro dominio.
L’altro alleato liberatore, quello inglese, dà ben altri messaggi: re Carlo abbraccia i partigiani, insieme al presidente Mattarella.
L’omaggio di Re Carlo alla Resistenza è più che ben venuto, e non del tutto in continuità con la Gran Bretagna di Churchill. Che non vedeva la Liberazione dell’Italia necessariamente come fine del fascismo. Gli americani invece si percepivano, giustamente, anche come portatori di un modello democratico.
La destra italiana arriva all’80esimo anniversario della Liberazione con le parole di Meloni su via Rasella. Per lei «un attentato», e le Fosse Ardeatine «una rappresaglia».
Purtroppo queste definizioni sono molto usate anche in ambiti antifascisti, segno che la narrazione che fascisti e nazisti imposero fin dall’inizio ha inciso e tuttora resta in circolo l’egemonia linguistica della destra. Di «attentato», dunque di «crimine» parlarono dalla prima ora sia i tedeschi
che la Chiesa. Peraltro un attentato è un episodio isolato, e invece a Roma in quei mesi c’era la guerra, c’erano costantemente azioni di guerriglia, incoraggiate dagli alleati. Quanto alla «rappresaglia» il Tribunale Militare italiano sentenziò che è riconosciuta dal diritto internazionale, e per questo regolata, con modalità e dimensioni proporzionali. Questo alle Fosse Ardeatine non è avvenuto, quindi il Tribunale ha stabilito che non si trattò di rappresaglia ma di omicidio continuato.
Anche quest’anno la destra chiederà di non fare del 25 Aprile una data “divisiva”?
La destra fa una gran fatica ad accettare il fatto che la Repubblica è nata sulla sconfitta dei loro padri politici e ideologici. Date come il 25 Aprile non possono che essere divisive: chi non si riconosce nei principi della Repubblica nata dalla Liberazione, è giusto che non senta la Liberazione come una sua festa.
La destra italiana non sarà mai antifascista e repubblicana?
Per il futuro non so. Gianfranco Fini aveva fatto passi interessanti, Meloni ha fatto passi indietro. Ma perché insistere sul fatto che debbono dirsi antifascisti? Non lo sono, e se lo dicessero sarebbe una furbizia. È bene che continuino ad essere riconoscibili per quello che sono. Poi Meloni non pensa certo di tornare al fascismo storico, al partito unico, all’abolizione del voto. Il suo orizzonte è la democrazia autoritaria, come l’Ungheria, l’Argentina, gli Usa di Trump, che formalmente non aboliscono le istituzioni democratiche ma le orientano in termini autoritari. Più che di quello che dicono il 25 Aprile, preoccupiamoci di atti come il decreto sicurezza, che va in concreto in direzione dell’erosione della democrazia.
L’antifascismo non mobilita, né costruisce uno schieramento. È un valore fondativo ma d’altri tempi?
Dipende da cosa si intende per antifascismo. Se continuare a combattere le battaglie di 80 anni fa – cosa utile, a cui anche io mi dedico con passione, ma che non basta – o se si individuano le forme che oggi assume l’eredità del fascismo: l’introduzione di elementi di discriminazione, di disuguaglianza, di illibertà. Se ci si impegna su questo, a partire dalla Costituzione, l’antifascismo è un principio del presente. Per me la principale sconfitta dell’antifascismo c’è stata alla fine degli anni 80 quando da una democrazia partecipata si cominciò a invocare una democrazia governabile. Per capirci, è il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario. Quando, anche a sinistra, il valore è diventato la governabilità e non la rappresentanza, si è stravolto il fondamento antifascista della Repubblica.
Perché?
Perché nella Resistenza i cittadini hanno preso in mano la responsabilità della loro storia, sono passati da sudditi a cittadini attivi. Se antifascismo significa dire che Mussolini era cattivo, a due terzi degli italiani oggi non interessa più. Oggi l’antifascismo è il recupero della dimensione partecipante. E non bastano le primarie a sostituire il disinvestimento di tutti i luoghi in cui i cittadini facevano politica quotidianamente.
Anche a sinistra piace la «democrazia decidente».
Si dice ai cittadini che devono solo essere governati, e poi ci si chiede com’è che non vanno più a votare. Mussolini era molto “decidente”. E chi c’è di più decidente di Trump, oggi? Non voglio dire che non servano strumenti per rendere efficaci le scelte, ma lo squilibrio fra cittadinanza attiva e potere decidente comporta, fra l’altro, lo svuotamento del parlamento. Il sovraccarico di poteri sull’esecutivo dovrebbe preoccupare gli antifascisti. Invece in nome della governabilità anche i governi di centrosinistra ne sono stati tentati.
Intanto Musk fa il saluto nazista nelle convention. Un messaggio o una provocazione?
Musk è un sostenitore della Afd in Germania e dei neofascisti in tutto il mondo. Propendo per la tesi del messaggio esplicito. Ma c’è di più. Trump è arrivato a dire che i nazisti trattavano gli ebrei meglio di come Hamas tratta gli ostaggi: in questa frase c’è la banalizzazione della barbarie, si sminuisce il nazismo storico per rendere meno inaccettabili le sue trasformazioni odierne.
Nell’Ue si combatte un conflitto con forze che si richiamano alle dittature. Serve un’altra Liberazione?
Rabbrividisco al pensiero che la Germania si riarma quando i neonazisti di Afd sono al 20 per cento. L’Europa sembra avere perso di vista i suoi valori fondanti, libertà, uguaglianza. Chiude sempre più le frontiere ai migranti, e così favorisce la crescita di atteggiamenti discriminatori al suo interno. Parla solo di guerra e riarmo. Leggiamo anche la parola pace, come la parola libertà, attraverso il filtro del rovesciamento che ne fanno le destre. Se parli di pace, non sei un buon cittadino, la democrazia coincide col riarmo.
I pacifisti saranno buoni, ma cantano le canzoni partigiane e poi chiedono il disarmo dell’Ucraina. Non c’è contraddizione?
Sono cose diverse. Non è pensabile mettere in discussione né il diritto né il dovere dell’Ucraina a difendersi. E facciamo bene ad aiutarli. La domanda semmai, anche lasciando da parte le responsabilità precedenti, è se il modo
in cui l’abbiamo fatto finora è il migliore o l’unico possibile. Ma non metterei in mezzo la Resistenza, che è altra cosa: intanto in Ucraina per fortuna c’è uno Stato che organizza la guerra di difesa contro l’invasione russa. La Resistenza italiana era una scelta volontaria anche contro un potere statale schierato dall’altra parte. È vero che gli alleati aiutavano i partigiani, con riluttanza in alcuni casi, ma erano essi stessi in guerra e, con tutti i suoi limiti, la Resistenza partigiana salvava anche vite di soldati americani e inglesi. Usare la Resistenza, da destra e ora anche da un po’ di sinistra, per giustificare qualsiasi forma di guerra, e qualsiasi tipo di riarmo, è scandaloso.
(da Domani)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
NON SOLO: XI JINPING HA ANCHE FERMATO L’EXPORT DI TERRE RARE, CRUCIALI PER I PRODOTTI TECNOLOGICI. E POI HA SEMPRE L’ARMA DA FINE DEL MONDO: I 760 MILIARDI DI BOND AMERICANI, CHE POTREBBE VENDERE PER FAR SALTARE IL DEBITO A STELLE E STRISCE
Pechino ha deciso di dimostrare all’amministrazione Trump che nella guerra
commerciale i dazi non sono l’unico strumento a disposizione.
Molto prima che il presidente Donald Trump lanciasse dal Giardino delle Rose della Casa Bianca la nuova offensiva tariffaria contro la Cina, Pechino lavorava già da mesi a una silenziosa strategia per bloccare le esportazioni statunitensi chiave nei settori agricolo ed energetico.
Negli ultimi quattro mesi, il governo cinese ha interrotto o fortemente limitato le importazioni dirette di prodotti agricoli e fonti energetiche americane, tra cui manzo, pollame e gas naturale liquefatto, utilizzando ostacoli burocratici e accordi di vendita indiretti tramite terze parti.
Secondo gli analisti, questi cosiddetti ostacoli non tariffari sono ancora più insidiosi dei dazi che si stanno propagando nell’economia globale. Insieme, rappresentano un’escalation delle misure restrittive che la Cina affina da anni, sin dai suoi divieti sui cibi geneticamente modificati.
E offrono a Pechino una leva potente nella guerra commerciale con Washington, perché colpiscono in modo mirato le esportazioni provenienti dagli Stati repubblicani più fedeli a Trump, come Iowa e Nebraska, con barriere difficili da aggirare.
«Un dazio si può pagare, e il prodotto diventa solo più caro», ha spiegato Ben Lilliston, direttore delle strategie rurali e del cambiamento climatico presso l’Institute for Agriculture and Trade Policy. «Ma qui si tratta di un vero e proprio divieto all’esportazione».
Le autorità cinesi sanno esattamente dove colpire gli esportatori americani. Hanno già rifiutato il rinnovo delle licenze di esportazione per centinaia di impianti di lavorazione della carne, accusato il pollame USA di contenere sostanze vietate, e bloccato le importazioni di gas naturale liquefatto (GNL). Tutti settori fortemente legati alla base elettorale trumpiana.
Queste tattiche mettono in evidenza la prontezza e la flessibilità della risposta cinese, frutto di anni di preparazione. La guerra commerciale ha
subito un’accelerazione improvvisa: martedì Trump ha portato i dazi sulle importazioni cinesi a oltre il 104%, ma meno di 12 ore dopo l’aliquota è salita al 145%. In risposta, Pechino ha alzato i propri dazi totali sulle merci USA all’84%, e poi al 125% entro venerdì.
Fin dal suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2001, la Cina ha perfezionato questo tipo di manovre. Appena entrata, bloccò le importazioni di soia statunitense invocando presunte infestazioni da insetti o presenza di OGM.
Quando nel 2018 il Canada arrestò una dirigente di Huawei, Pechino sospese gran parte delle importazioni di semi di canola canadesi, accusandoli di contenere parassiti. Il divieto fu revocato solo quando Ottawa permise alla dirigente, Meng Wanzhou, di tornare in patria.
Oggi Pechino impiega una tattica simile con le esportazioni USA, sostenendo che certi prodotti non rispettano gli standard sanitari — a volte con fondamento, spesso come strumento politico.
Secondo esperti in regolamentazione commerciale, questa è una tattica consolidata della Cina. […] Anche gli Stati Uniti non sono estranei a queste pratiche, ricorda Colin Carter, economista agrario dell’Università della California, Davis. «Uno degli esempi più eclatanti, se ci guardiamo allo specchio, è la politica dello zucchero: un divieto quasi totale all’importazione, che ha reso il prezzo interno molto più alto».
Per l’industria statunitense del gas naturale liquefatto, le nuove restrizioni cinesi sono un déjà vu: già nel primo mandato di Trump, il GNL fu usato come pedina nella guerra commerciale.
«Dal conflitto precedente, Pechino ha deliberatamente trasformato il proprio mercato del GNL in una leva geopolitica, pronta a essere usata in caso di deterioramento dei rapporti con Washington. E quel momento è arrivato», ha dichiarato Leslie Palti-Guzman, analista di energia e clima presso il CSIS.
Il blocco del GNL non è stato annunciato ufficialmente, ma secondo i dati della società di analisi Kpler, la Cina ha importato un solo carico di GNL USA quest’anno, contro i 14 dello stesso periodo nel 2024. Un funzionario industriale statunitense, rimasto anonimo, ha confermato che l’importazione di gas USA nei porti cinesi è “mal vista” politicamente.
Tuttavia, l’impatto potrebbe essere più contenuto rispetto all’agricoltura: il GNL trova acquirenti altrove, e la domanda globale resta alta.
«Sinceramente, ce lo aspettavamo sin dall’inizio della guerra commerciale», ha dichiarato via messaggio un dirigente di una società di GNL. «Ma sul gas, si possono chiudere accordi altrove».
Il colpo potenzialmente più grave riguarda però i minerali critici: Pechino ha limitato le esportazioni verso gli Stati Uniti, colpendo duramente le industrie delle energie rinnovabili e della chimica di base. I settori che producono batterie per auto elettriche o plastiche per uso quotidiano dipendono dai metalli rari cinesi, e non esistono fonti alternative affidabili nel breve termine.
Secondo Al Greenwood, vicecaporedattore di ICIS (rivista specializzata in commercio delle materie prime), il settore petrolchimico americano, tradizionalmente vicino a Trump, «oggi ha un bersaglio sulla schiena».
La guerra commerciale continuerà, anche senza dazi
Anche se le tensioni tra Washington e Pechino dovessero allentarsi, non aspettatevi che la Cina rinunci presto agli strumenti non tariffari.
«Queste misure consentono a Pechino di mantenere l’apparenza di legittimità, dicendo: “Stiamo solo applicando le regole”», ha spiegato Greta Peisch, ex consulente legale generale dell’USTR, ora partner presso lo studio Wiley Rein.
«Fa parte della narrativa cinese — e dovrebbe preoccuparci», ha concluso Peisch.
Phelim Kine, Ben Lefebvre and Marcia Brown
per www.politico.com
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
IL TEAM DEL COATTO DELLA CASA BIANCA CONSIDERA ELON UN ESTRANEO CHE RIFIUTA IL GIOCO DI SQUADRA, MA È PRESTO PER DIRE CHE SIAMO ARRIVATI AI TITOLI DI CODA DI UN RAPPORTO CHE SERVE A ENTRAMBI
Diversissimi – Elon re del digitale, Donald immerso nell’analogico – simili solo nel narcisismo, Musk e Trump sembravano inconciliabili. E, invece, i due hanno trovato nella disruption un terreno d’azione comune. Un collante che sembrava destinato a durare: al presidente l’imprenditore di Tesla e SpaceX e gli altri tecnologi trumpiani della Silicon Valley erano parsi capaci di dare concretezza con le loro capacità ingegneristiche al suo forte ma indefinito desiderio di demolire il regime esistente.
Per Musk e gli altri tycoon Trump era, invece, il bulldozer capace di rimuovere vincoli e tutele che rallentano il ritmo delle loro innovazioni. Con obiettivi ambiziosi di lungo periodo (portare nel 2028 alla Casa Bianca il loro uomo: Jdù
Vance) e vantaggi immediati (i valori della Tesla di Musk e della Palantir di Peter Thiel raddoppiati in poche settimane).
L’idillio
A chi obiettava che l’Iron Man venuto dal Sudafrica che vuole trasferire l’umanità su Marte e l’immobiliarista abituato a sfidare il prossimo sui tavoli negoziali o nelle aule dei tribunali (ha affrontato 4.000 cause civili e penali) erano specie troppo diverse per poter andare d’accordo, venivano opposti l’entusiasmo di Musk per la nuova avventura politica e l’interesse di Trump a usare l’immensa popolarità di Elon facendone un apripista
Sono bastate un paio di settimane per demolire quelle apparenti certezze. Chi parla di un’alleanza già arrivata ai titoli di coda esagera: Donald continua ad avere un debole per Elon che trova affascinante, anche se a volte dannoso, mentre Musk ha investito troppo in politica per poter mollare tutto. Ma non c’è dubbio che l’incantesimo è rotto.
In questi giorni i segnali di allontanamento tra i due sono stati soprattutto quelli di un Musk che non nasconde la sua contrarietà alla politica dei dazi del presidente. Ma i guai erano cominciati già con la sconfitta elettorale in Wisconsin: il candidato repubblicano per la Corte Suprema fortemente sostenuto da Musk con denaro e impegno personale nei comizi battuto con ben 10 punti di scarto.
Il team di Trump che considera Elon un estraneo, uno che rifiuta il gioco di squadra, lo aveva subito attaccato e il presidente, preoccupato per il voto di midterm , aveva fatto capire che il suo impegno nel Doge (riforma amministrativa) verrà ridotto.
L’imprenditore miliardario, scottato da quell’esperienza, non ascoltato dal presidente sui dazi, ha deciso di uscire allo scoperto contestando la linea Trump nel suo intervento al congresso della Lega: «Ho proposto al presidente una zona di libero scambio Europa-Usa senza dazi» al posto dei balzelli appena imposti alla Ue.
Il giorno dopo ha attaccato con violenza Peter Navarro, lo stratega della Casa Bianca, gran sostenitore di una politica di alti dazi per punire amici e avversari, soprattutto la Cina. Per Elon un personaggio mediocre, con «un ego che eccede l’intelligenza».
Poi, poco notata perché non proveniente direttamente da Elon, è arrivata la sberla di suo fratello Kimbal, molto legato a lui: è nel board di Tesla ed è stato direttore di SpaceX. Kimbal, che ha parlato prima della moratoria di 90 giorni, ha definito i dazi di Trump «una tassa permanente sui consumatori Usa» e, poi, ancora «la più alta tassa introdotta da un presidente in America da molte generazioni a questa parte».
Tesi opposta a quella di Trump secondo il quale i dazi non sono una tassa sul consumatore americano, ma una punizione nei confronti degli esportatori stranieri che invadono il mercato Usa.
Ma l’intervento più urticante, quello col significato politico più pesante, anche se non compreso da tutti, Musk l’ha fatto attraverso un meme: un vecchio filmato in bianco e nero di due minuti nel quale l’economista liberista Milton Friedman spiega, descrivendo le varie parti di una matita — grafite, legno, gomma, lacca, guarnizione di metallo — come e perché i commerci senza barriere sono essenziali per produrre in modo efficiente, riducendo i costi.
Una lezione trasmessa a Trump datata 1980: l’anno dell’elezione di Ronald Reagan, tuttora figura di grande rilievo nell’Olimpo repubblicano, che seguì l’insegnamento di Friedman. Dal quale, invece, Trump si sta distanziando sempre di più.
Per alcuni il rapporto si è logorato perché il segno più è stato sostituito da quello meno: Musk non fa più guadagnare voti, ma li fa perdere. Mentre Trump promette nuove età dell’oro ma intanto provoca disastri finanziari (in tre sedute di Borsa Elon ha perso 30 miliardi di dollari).
Soprattutto l’ira di Musk per la guerra dei dazi con la Cina, suo partner essenziale (la maggior parte delle Tesla vendute nel mondo vengono dallo stabilimento di Shanghai).
E per l’accusa di aver tentato di ottenere dal Pentagono informazioni top secret su un eventuale conflitto con Pechino. Su questo Trump non lo ha attaccato, ma nemmeno difeso. E lui ha reagito con un meme: un grosso top secret scritto su un foglio durante una riunione di governo, sotto gli occhi dei giornalisti.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
L’ORRORE DENUNCIATO DA REFUGEES IN LIBYA
“I migranti neri vengono presi di mira e uccisi in Tunisia, e i loro corpi presentano
chiari segni di espianto di organi. Non si tratta di voci, ma di un brutale e continuo traffico organizzato di organi che avviene in ospedali e centri di detenzione”.
La denuncia, affidata a un post su X, è di Refugees In Libya, organizzazione di rifugiati, richiedenti asilo e migranti nata dall’esigenza di dare voce alle gravi preoccupazioni di un vasto ed eterogeneo gruppo di persone residenti in Libia, vittime sistematiche di abusi e violenze.
Il collettivo ha ricordato che “negli ultimi mesi, diversi migranti sono scomparsi, per poi essere ritrovati morti – con tagli chirurgici, organi mancanti e nessuna spiegazione chiara da parte delle autorità. Alcuni non vengono mai ritrovati”. Alla denuncia è stato allegato anche un video, che Fanpage.it ha deciso di non mostrare. Il filmato mostra il corpo di un migrante somalo. “I medici hanno detto ai suoi amici che è morto per ‘cuore rotto’ e una frattura al setto nasale. Ma il video racconta un’altra storia: il suo torso è stato aperto dal petto fino alla vita. Una lunga e netta incisione chirurgica fa pensare all’espianto di organi interni. Questo non è un trattamento medico standard. Questo è traffico di organi”.
Secondo Refugees In Libya i trafficanti “attendono che tu non abbia più nessuno. Nessun documento. Nessuna voce. Nessuna famiglia che faccia domande. Poi ti aprono. Prendono ciò che vogliono. Ti ricuciono. E raccontano al mondo che sei morto per qualcosa di vago”.
La denuncia di Refugees In Libya conferma gli allarmi lanciato da numerose organizzazioni internazionali sui disumani trattamenti riservati ai migranti in Tunisia; secondo il rapporto State Trafficking (Tratta di Stato) – presentato due mesi fa al Parlamento Europeo da RRX, un gruppo di ricerca internazionale – forze armate tunisine, milizie libiche e gruppi criminali si sarebbero resi responsabili nel corso degli anni di innumerevoli violenze e torture ai danni di persone migranti.
L’indagine, in particolare, ha rivelato un inquietante traffico di esseri umani gestito dalla Guardia Nazionale tunisina, che coinvolge migliaia di migranti subsahariani venduti come schiavi alle milizie libiche. Il rapporto, che raccoglie
numerose testimonianze dirette, mette in luce un sistema di abusi sistematici che non solo sfrutta le persone, ma le sottopone a torture fisiche, sessuali e psicologiche.
Le vittime, spiega il dossier, vengono spesso separate in base al sesso, etnia e nazionalità, con le donne che hanno un “valore” maggiore e sono frequentemente oggetto di violenze sessuali. Una volta arrestati, i migranti vengono rinchiusi in campi di detenzione tunisini improvvisati o in strutture sotto il controllo di milizie e forze di polizia locali. Da qui, molti vengono trasferiti in Libia, dove sono detenuti in condizioni disumane e, infine, “venduti” a chi è disposto a pagare. Come raccontato da testimoni diretti, le persone vengono scambiate per denaro, droga o carburante, trasformandole in merce da commerciare tra le milizie.
“Tratta di Stato – spiega il rapporto – vuole riaprire il dibattito sulla responsabilità dell’Unione Europea e dei singoli stati nell’esposizione alla morte e alla schiavitù delle persone in viaggio, così come sullo statuto di ‘Paese sicuro’ assegnato alla Tunisia, al suo ruolo di partner e beneficiario economico nella gestione della frontiera esterna della UE”.
Secondo il governo Meloni, la Tunisia è un Paese sicuro.
(da Fanpage)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
SOLO IL 30,5% DEGLI ITALIANI CHIEDE UNA REAZIONE DURA E PESANTE DELL’EUROPA, MENTRE QUASI IL 60% DESIDEREREBBE TRATTARE CON TRUMP UNA REAZIONE EQUILIBRATA (QUELLO CHE IL TYCOON CHIAMA “BACIARE IL CULO”)
Secondo il 70,8% degli italiani, intervistati nel sondaggio di Euromedia Research pubblicato in esclusiva dalla trasmissione Porta a Porta, la programmazione dei dazi americani avrà un impatto importante sulla situazione
economica e finanziaria del nostro Paese e per il 52,7% tale effetto lo avrà anche sul portafoglio famigliare.
A differenza di precedenti presidenti, Donald Trump ha messo in discussione gli alleati storici degli Stati Uniti, come l’Unione Europea, il Canada e il Giappone, con l’introduzione di dazi anche su prodotti importati da questi Paesi. Tutto ciò sta minando seriamente le relazioni tradizionali creando importanti frizioni.
Come conseguenza, quasi il 60% dei cittadini italiani si aspetta e apprezzerebbe l’introduzione, da parte dell’Unione Europea, di una contro tariffa sui prodotti americani in risposta alle azioni del suo presidente.
Sullo stesso quesito, nel confronto con i popoli degli altri Paesi della Ue, analizzati in un sondaggio di Polling Europe, emerge forte quanto Francia (78%), Spagna (76%) e Nord Europa (67%) siano molto più caldi e pronti ad una reazione forte e punitiva, mentre noi con i nostri cugini d’oltralpe tedeschi (61%) ci dimostriamo più tiepidi.
Dall’Unione Europea un cittadino italiano su tre (30,5%) si aspetta una reazione dura e pesante, mentre quasi il 60% desidererebbe trattare con Trump per una reazione maggiormente equilibrata. Su questa posizione si schiera la maggioranza degli elettori dei partiti di governo unitamente ai sostenitori del Movimento 5 Stelle (60,3%), di Azione (78%) e Italia Viva (69,1%). Il Partito Democratico, invece, si separa tra i più interventisti (49,6%) e i più dialoganti (43,0%).
Restano dei dubbi sull’efficacia dell’operato dell’Europa per contrastare questi dazi: il 38,3% crede che l’Unione Europea reagirà e risponderà in modo adeguato, mentre il 41,8% non ripone alcuna fiducia. Su questa posizione si schiera il 45% degli elettori della Lega di Salvini e il 56,7% di quelli di Fratelli d’Italia.
In sintesi, gli italiani sentono forte la pressione della comunicazione americana, perché in maggioranza sono convinti che i dazi possano compromettere – e non poco – il benessere dei consumatori, creando disagi alle nostre imprese e innescando dei conflitti economici internazionali che contribuirebbero negativamente alla crescita economica del paese.
L’opinione pubblicasi muove a fatica tra la paura di diventare più povera e il disorientamento generato dall’isterica ricerca di un piano di azione.
Nelle famiglie italiane esiste la piena consapevolezza che, se non esiste una certa dose di prevedibilità e di lettura strategica, ogni decisione economica diventa più rischiosa e meno efficiente, perché si indebolisce la capacità di fare scelte razionali e sostenibili.
La fiducia nel futuro, purtroppo, è un bene scarso in Italia da tempo e gli italiani oggi si chiedono quanto peserà sul loro portafoglio tutto questo.
Alessandra Ghisleri
per “La Stampa”
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
“TRUMP E’ L’ESTREMA CONSEGUENZA DELLA DECADENZA: LA SUA È LA PRESUNZIONE DI UN SISTEMA TECNOLOGICO-ECONOMICO CHE VUOLE OMOLOGARE IL MONDO”
Un tempo, per età e per virtù, si sarebbe potuto definire Massimo Cacciari un «grande
vecchio». Ma l’unico filosofo italiano che sia noto anche a chi non ha mai letto un libro deve essere così «grande» da non apparirmi affatto «vecchio». Lucido. Amaro. Polemico. In gran forma, oltre la soglia degli ottanta. E disposto a parlare di morte, argomento che ha molto frequentato e studiato.
Lei ha scritto: «Proprio quando noi siamo la morte c’è, proprio perché la morte è ciò di fronte a cui noi siamo vivendo, continuamente essa “vive” con-in noi… Ritenere che la morte è nulla è non voler vivere, poiché la vita si costituisce proprio di fronte alla morte, e soltanto quando noi siamo, la morte è. È la faccia nascosta della nostra vita (Rilke), e alla vita appartiene». Crede dunque che pensare alla morte ci aiuti a vivere?
«Di più: è il solo modo autentico di vivere. Vivere ogni momento come se fosse l’ultimo, rendendo ogni momento conto a noi stessi dei nostri atti, pronti in ogni istante a giudicarci (che non significa essere giudicati). Morire è un verbo, non un fatto: caratterizza ogni momento della nostra vita. Io non riuscirei a vivere neanche un istante se non fossi costantemente disposto a giudicarmi».
Dunque alla domanda di Seneca, se la morte è fine o passaggio, Cacciari come risponderebbe?
«Passaggio, certo. Non è una fine, ma un passaggio».
Questo vuol dire aprire uno spazio alla fede?
«La fede è un’altra cosa, la fede è un dono, il mio ragionamento dà spazio alla fede solo sul piano logico. Ciò che so è che per me pensare così la morte è l’unico modo per vivere autenticamente».
Ma allora, Cacciari, perché qualche anno fa disse a Candida Morvillo, che l’intervistava proprio sul Corriere: «Della morte non me ne frega nulla»?
«Perché non me ne frega nulla della morte in quanto scomparsa. Nulla muore, tutto si trasforma. Viene meno la mia consistenza fisica, il mio corpo diventa altre cose. Perché dovrei stare attaccato spasmodicamente a questi processi? È
normale, la natura si trasforma continuamente, ma niente si distrugge. La mia realtà non si annichilisce».
In questa serie ho intervistato un giornalista francese, Stéphane Allix, il quale sostiene che la nostra coscienza sopravvive alla morte del corpo, così come le conoscenze e le informazioni restano nel cloud anche quando muore il nostro smartphone. È possibile che esista un cloud dove vivono le nostre coscienze?
«Con ogni probabilità, sì. L’ho già detto: noi non ci annulliamo. Ognuno di noi produce costantemente informazioni e pensieri: perché mai dovrebbero annullarsi? La luce che produciamo non si esaurisce. Scompare, certo, non si vede più. Ma procede. Può darsi che io venga visto tra qualche millennio in qualche altra galassia».
Come avviene con la «luce delle stelle morte», citando il titolo di un lavoro dello psicanalista Massimo Recalcati.
«Infatti, l’ho detto in dialogo con Emanuele Severino, e ad abundantiam nel mio ultimo libro, Metafisica concreta».
Un tempo la morte aveva anche una funzione educativa, pedagogica, didattica: la sofferenza arricchiva la conoscenza. Oggi che la nascondiamo, la neghiamo, ne abbiamo quasi vergogna, sembra invece aver perso ogni significato…
«È vero, concepiamo la vita ormai come mera durata, pensiamo solo a sopravviverci. L’individuo contemporaneo è attaccato alla sua apparenza fisica. Ma è insensato immaginare di durare eternamente. L’eternità è l’opposto della durata. Il Paradiso è un istante eterno, un nunc, non una durata che non finisce mai. Il guaio è che il nostro tempo è abitato da un’umanità oscena. Perché questo atteggiamento vale in ogni ambito della nostra vita. In ogni campo l’esistenza per noi è un andare avanti senza fine. E quando dico “senza fine” intendo anche senza un fine, senza uno scopo ultimo: un indefinito sviluppo».
Lei crede che la memoria possa essere una forma di immortalità?
«Se è memoria attiva, sì; memoria vivente che renda possibile sperare. La memoria delle persone scomparse mi dà energia. Con essa riporto nella mia vita ciò che è apparentemente morto. Ma nel mio cuore, nella mia coscienza. Una memoria che non sia vissuta, immaginativa, che sia solo ricordo, non serve. Passato, che sciocca parola! Passato e nulla sono la stessa cosa, dice Mefistofele nel Faust».
Lei ha conosciuto il lutto nel corso della sua vita. E deve averne sofferto molto, a giudicare da come cambia la sua voce, più incerta, più sommessa, più pudica, appena affrontiamo l’argomento. Che cosa è il lutto per lei, e come se ne esce
«Il lutto è un pezzo della tua vita che è scomparso ma resta nella tua vita. È quella parte di te in cui si accumula la memoria, e che con il passare del tempo cresce, e cresce. Il lutto è esperienza di ciò che scompare. È doloroso. Ma non se ne deve affatto “uscire”. Non si deve affatto “superarlo”, come si dice oggi. Il lutto bisogna “lavorarlo”, secondo la lezione di Freud. Se esce dal tuo cuore, come lo riempi altrimenti? Bisogna sentirli sempre, ricordarli i tuoi morti, perché sono alimento per la speranza. Ti lega a loro una mutua appartenenza: restare in rapporto con loro è essenziale per alimentare la tua vita. Se non ce la fai, allora il peso della scomparsa dei tuoi cari ti toglie la parola».
Ha predisposto qualche aspetto del suo futuro addio: ha lasciato indicazioni per il rito, preferisce l’inumazione o la cremazione, cose così…
«Anche di questo non me ne frega nulla. Chi resta, faccia come cavolo vuole».
Obietto che non mi sembra gentile non lasciare almeno qualche indizio.
«Se proprio me lo chiedono, vorrà dire che glielo dirò. Per esempio: penso che il rito più bello sia quello zoroastriano, che ora immagino sia proibito anche in Iran, dove pure esiste ancora una comunità, un’enclave di fedeli di questa antica religione. Lì ci sono queste bellissime “torri del silenzio”, dette dakma, alte fino a dieci metri, sulla cui sommità venivano esposti i cadaveri perché gli uccelli e gli avvoltoi se ne nutrissero, portandoli in volo con loro. Mi piacerebbe. D’altra parte, se la morte è trasformazione, meglio in un’aquila che in un verme».
E l’Occidente è morto? Come comunità di valori, come solidarietà tra popoli uniti da una cultura comune?
«L’Occidente è tante cose. Così come l’Oriente, o l’Islam. Certo, lo unifica una specie di spirito di famiglia, nonostante e anzi forse a causa del bellum civile che lo ha costantemente tenuto in conflitto interno. L’Occidente c’è insomma, e nei secoli ha assalito il mondo. Quella che noi chiamiamo globalizzazione non è altro che occidentalizzazione del globo. E ora è in evidente difficoltà.
La nostra crisi demografica è spaventosa. La contrazione percentuale della ricchezza prodotta è inesorabile. L’egemonia occidentale sul mondo è in drammatica e irreversibile decadenza. Eppure l’Occidente avrebbe al suo interno, potrebbe ritrovare dentro sé stesso, l’energia e i valori per una nuova forma di egemonia, per esercitare ancora un peso decisivo sulle sorti del mondo. Se ricorda i suoi principi, quelli che l’hanno reso grande: i diritti umani, i diritti della persona, la solidarietà, la sussidiarietà. Sarebbe un’egemonia culturale, ancora possibile, nonostante sia stata fin qui tradita ostinatamente.
Purtroppo nessun leader, nessun soggetto, comprende oggi questa possibilità e la interpreta. Cercano solo una supremazia, fingendo una forza di cui non disponiamo più, puntando tutto sul primato dell’economia che non deteniamo più. Per l’Occidente vale il discorso che facevamo prima per l’individuo: concepisce la sua vita come durata. Vuole conservarsi. Siamo diventati tutti conservatori. Pensiamo solo a proteggerci dai nemici, dagli stranieri, dagli immigrati. Il che è l’opposto dello spirito dell’Occidente, che è stato invece una grande esperienza rivoluzionaria, di cambiamento. Abbiamo tradito noi stessi sull’essenziale. Finiremo male».
Per lei Trump è la cura, colui che può riscattare questa decadenza con una nuova energia rivoluzionaria, o non è altro che l’estrema conseguenza di quella decadenza?
«La seconda che ha detto: la sua è la presunzione di un sistema tecnologico-economico che vuole omologare il mondo, non il progetto di una nuova egemonia culturale».
E così, parlando di morte e di ciclo della vita, concludiamo con una profezia:
«Ex Oriente Lux. Il sole ha splenduto nella storia delle civiltà dapprima sull’Oriente, poi sull’Europa, e da lì è passato a illuminare quell’estremo Occidente che è l’America. Ora si trova sul Pacifico, e sta completando il suo giro millenario».
(da Il Corriere della Sera)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
LA DUCETTA NON PUÒ PARLARE A NOME DELL’UE. MA SPINGERÀ PER IL PROGETTO DI UN MERCATO UNICO EURO-ATLANTICO A “TARIFFE ZERO”, RILANCIATO DA ELON MUSK – PER AVERE L’ATTENZIONE DI TRUMP, LA STATISTA DELLA GARBATELLA DOVRÀ PROMETTERE MAGGIORI ACQUISTI DI GAS AMERICANO E DI AUTO MADE IN USA
Le telefonate con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sono continue. Perché, è vero che Meloni sta facendo circolare quale sarà
il senso della missione alla Casa Bianca, sostenendo che si tratta di un bilaterale tra Italia e Usa, colmo di dossier, e che «non andrò come rappresentante dell’Unione europea», ma questa versione è anche un po’ un modo di cautelarsi di fronte all’imprevedibilità di Donald Trump.
Nelle interlocuzioni con Bruxelles, mediate dai consigli di Raffaele Fitto, Von der Leyen avrebbe invece dato il suo via libera, del tutto informale, alla premier. L’obiettivo è di ragionare sull’idea di rafforzare il progetto di un mercato unico euro-atlantico, di fatto rilanciato da Elon Musk in collegamento video durante il congresso della Lega. Il magnate e consigliere di Trump ha reso esplicito cosa punta a ottenere con la strategia muscolare dei dazi il capo della Casa Bianca.
Un’area a zero tariffe, una cooperazione a più livelli, che tenga fuori la Cina e garantisca una maggiore circolarità di prodotti e servizi americani. Questo sarà anche, domani, l’oggetto del confronto a Washington di Maros Sefcovic, il commissario al Commercio dell’Ue, lui sì con tanto di mandato ufficiale di Bruxelles a trattare
Meloni sa di non aver uno spazio troppo ampio di negoziato, perché è consapevole di cosa difficilmente sarà in grado di offrire a Trump. Le linee rosse le ha fissate Von der Leyen nella sua intervista di due giorni fa al Financial Times: nessuna apertura sulla web tax e sull’Iva, tassazione sui consumi che l’americano si ostina a non concepire.
Più facile invece aprire un ragionamento solido sull’energia. Trump vuole che gli europei diano una maggiore disponibilità all’acquisto del gas americano. Su questo, quasi certamente chiederà uno sforzo a Meloni, in qualità di leader di un Paese del Mediterraneo costretto a diversificare le fonti di approvvigionamento (per esempio in Algeria) per affrancarsi dalla dipendenza dalla Russia.
La premier italiana potrà far leva anche su un’altra aspettativa del repubblicano: aumentare le vendite delle auto made in Usa in Europa. Una maggiore reciprocità di ingresso è l’altro capitolo dove, secondo Palazzo Chigi, si possono fare dei passi in avanti. Infine, difficilmente Meloni si sottrarrà dal confronto con Trump sulle spese militari, vero nodo dolente per l’Italia che non ha ancora raggiunto l’obiettivo del 2%, previsto dagli accordi Nato.
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
TRA KIEV E LE CAPITALI EUROPEE SERPEGGIA DA TEMPO IL SOSPETTO CHE L’EX UOMO D’AFFARI ESPERTO DEL MERCATO IMMOBILIARE, PRECIPITATO NELLA POLITICA INTERNAZIONALE, NON SAPPIA DI COSA STIA PARLANDO
Il sospetto che l’ex uomo d’affari esperto del mercato immobiliare americano
precipitato nella politica internazionale non sapesse di cosa stesse parlando serpeggiava da tempo tra Kiev e le capitali europee.
Si era rafforzato durante i negoziati in Arabia Saudita con le delegazioni russa e ucraina a fine marzo, quando, davanti alle televisioni di tutto il mondo, non era stato in grado di ricordare i nomi delle quattro regioni ucraine parzialmente occupate dalle truppe russe dal 2022 (Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia).
Aveva fatto confusione tra la Crimea, già occupata nel 2014, e le altre prese più di recente. Poi un’altra gaffe aveva lasciato i suoi critici indecisi se fosse frutto di pura ignoranza, oppure avesse volutamente scelto di sposare in toto la propaganda del Cremlino.
Parlando ancora delle zone occupate, aveva infatti sottolineato che la loro popolazione «ha a grande maggioranza espresso la volontà di assoggettarsi alla sovranità russa». Il riferimento era al referendum farlocco voluto da Putin nel settembre 2022 e imposto dai soldati russi con i mitra puntati contro civili inermi. Un referendum considerato illegale e condannato da larga parte della comunità internazionale.
Da allora il lavoro di Steve Witkoff è sempre più associato ai fallimenti dei tentativi di Donald Trump di essere il paciere del mondo. Scenario ucraino, Gaza, Iran in bilico: non c’è ad ora un risultato positivo.
Difficile dire quanto gravi siano le responsabilità dirette del 67enne Witkoff, originario del Bronx e compagno di partite sui campi da golf di Trump, quando entrambi si occupavano di affari immobiliari. Il presidente allora avevA apprezzato le sue qualità di negoziatore. Ma un conto è comprare con profitto un palazzo a Manhattan e un altro è trattare il cessate il fuoco tra Hamas e Israele, o parlare con quel giocatore di poker dei negoziati che è Putin.
A San Pietroburgo dicono che due giorni fa il presidente russo lo abbia costretto a otto ore di anticamera. Un dato comunque è certo: Witkoff nulla ha a che fare con le sottigliezze intellettuali di Henry Kissinger (l’uomo dell’apertura alla Cina nei primi anni Settanta e della pace tra Israele e Egitto nel 1979), o con le grandi visioni di George Kennan, l’inventore della teoria del «contenimento»
Ma Kissinger e Kennan erano il meglio della cultura del dipartimento di Stato Usa, fondata su conoscenza storica e pragmatismo del dialogo. Witkoff è invece il prodotto del semplicismo populista trumpiano, per cui un accordo diplomatico non dovrebbe essere più complesso di un contratto per l’acquisto di un immobile.
Resta però il problema che adesso i fallimenti stanno diventando preoccupanti. Gli accordi tra Israele e Hamas, che Trump aveva addirittura annunciato poche ore prima del suo insediamento alla Casa Bianca il 19 gennaio, sono finiti nella polvere delle bombe israeliane e dei nuovi morti a Gaza.
I negoziati sull’Iran restano penalizzati dalla scelta di Trump nel suo primo mandato di rompere unilateralmente gli accordi che bloccavano i programmi nucleari di Teheran. E la guerra tra Mosca e Kiev è più calda che mai.
(da agenzie)
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