Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
SONO 120 E NON SI PUO’ ANDARE ALTROVE
Papa Francesco non aveva fatto bene i conti, non prevedendo naturalmente la sua
uscita di scena così improvvisa. Così al Conclave che si sta per aprire ci sono 134 cardinali elettori più il cardinale Angelo Becciu che pensa di parteciparvi. In tutto 135. Non solo il numero più grande che ci sia mai stato, ma anche eccessivo rispetto alla Costituzione apostolica vigente. Perché all’articolo 33 della “Romano pontifici eligendo” è scritto chiaro: «Il massimo numero dei Cardinali elettori non deve superare i 120». È imperativo, non c’è un piano B. Sulla carta 15 cardinali elettori non potrebbero entrare in Conclave, perché altrimenti il rischio sarebbe quello di invalidare il voto finale rendendo inutile la scelta del nuovo Papa. All’articolo 34 della stessa Costituzione apostolica Paolo VI che la promulgò aggiunse: «dichiariamo nulli e invalidi i loro atti, che in qualunque modo tentassero temerariamente di modificare il sistema o il corpo elettorale». Non è pensabile però tirare a sorte e scegliere i 15 da escludere per rientrare nel numero massimo di 120. Perché la stessa Costituzione aggiunge: «Nessun Cardinale elettore potrà essere escluso dall’elezione, attiva e passiva, del Sommo Pontefice, a causa o col pretesto di qualunque scomunica, sospensione, interdetto o di altro impedimento ecclesiastico». Il problema è quindi grossissimo.
Francesco era certo che il Conclave non si sarebbe tenuto ancora per almeno un anno
Papa Francesco quando ha nominato più cardinali di quelli che avrebbero potuto votare al Conclave non ignorava affatto quel limite di 120. Semplicemente puntava sul fatto di restare al suo posto ancora un po’ di tempo. Dieci cardinali, infatti, sono nati nel 1945, ed entro la fine dell’anno avrebbero perso il diritto di voto. Il primo di loro, lo spagnolo Carlos Osoro Sierra, compirà 80 anni fra pochissimo, il 16 maggio. Dopo di lui a uscire dal numero degli elettori sarà il cardinale della Guinea, Robert Sarah (grande avversario di Bergoglio), che raggiungerà l’età fatidica il 15 giugno. Il 4 luglio perderebbe il diritto di voto il polacco Stanislaw Rylko, e come lui altri sette fra fine luglio
dicembre. Entro maggio 2026 i cardinali con diritto di voto sarebbero scesi a 119, perché altri sei avrebbero compiuto 80 anni. Fra loro anche tre italiani: Mario Zennari, Fernando Filoni e Francesco Montenegro. Papa Francesco, quindi, pensava che ben presto quel problema di soprannumero si sarebbe risolto da solo, per altro facendo uscire di scena molte porpore a lui lontane per cultura e idee. Ma il destino ha complicato tutto. E ora? Sulla carta solo un Papa potrebbe modificare una Costituzione apostolica firmata da un Papa precedente. Ma si stanno consultando freneticamente i canonisti per avere il via libera a modificare quel tetto di 120, abolendolo senza indicarne un altro, con un motu proprio del collegio dei cardinali. È la sola strada percorribile.
Due cardinali pronti a dare forfait per motivi di salute, però non c’è da dormire per tutti
Non cambia molto nella sostanza, ma secondo le indiscrezioni che abbiamo raccolto nei Sacri palazzi due cardinali elettori avrebbero comunicato la loro rinuncia ad entrare in Conclave per motivi di salute. Si tratterebbe del bosniaco Vinko Puljic, arcivescovo emerito di Sarajevo e del croato Josip Bozanic, arcivescovo emerito di Zagabria. Non risolvono il problema perché secondo le norme in ogni caso stando meglio potrebbero ritirare la loro rinuncia e prendere il loro posto anche a Conclave in corso. Ma potrebbero con la loro assenza dare una mano alla macchina organizzativa del Vaticano, che sta vivendo un altro dramma per l’abbondanza di elettori. Non c’è posto per tutti a Casa Santa Marta, che dall’inizio degli anni Novanta ha sempre ospitato tutti i cardinali nei giorni della clausura per scegliere il nuovo Papa. Nell’albergo ci sono al massimo 106 suite e 28 stanze singole, in tutto 134. Ma ora non ci sono nemmeno quelle, pur sfrattando temporaneamente dalla loro casa un buon numero di sacerdoti e suore che usavano la struttura come loro abitazione. Non è disponibile la stanza né dello scomparso Papa Francesco, né dei suoi principali collaboratori. Di fatto quasi tutto un piano della struttura alberghiera è stato sigillato e reso indisponibile fino all’elezione del nuovo Papa, come prevede il protocollo e le stanze che restano sarebbero appunto 120. Non era mai accaduto nemmeno questo, visto che tutti i Papi prima di Bergoglio hanno sempre abitato nel Palazzo Apostolico.
Architetti e ingegneri vaticani, corsa contro il tempo per ricavare nuove stanze
È stato Giovanni Paolo II nel 1992 a decidere che i cardinali elettori avrebbero dormito in una vera struttura alberghiera come Santa Marta. I cardinali durante il Conclave dormivano nel Palazzo Apostolico in condizioni però di fortuna. Poche stanze avevano un bagno a disposizione, non c’era acqua corrente in alcune parti dell’edificio, non c’era corrente elettrica in altre stanze e mancava ovunque la climatizzazione. Le stanze venivano attrezzate come dormitorio nell’occasione stanze che avevano altra funzione, magari di ufficio con relativa anticamera. Così quando voleva andare a dormire un cardinale spesso era costretto a passare dalla stanza di un altro porporato per raggiungere la sua, non tenendo per forza in conto alcun tipo di privacy. Casa Santa Marta esisteva già, ma non aveva spazi adeguati. L’edificio è stato abbattuto per tirarne su uno di cinque piani che fece polemizzare non poco i romani: così alto nascondeva la vista di San Pietro da quel lato a molte abitazioni private di Prati che erano state pagate profumatamente grazie a quel panorama. La nuova struttura alberghiera è stata però progettata pensando a quel limite massimo di 120 cardinali elettori. Ora bisogna trovare in fretta e furia una ventina di stanze, senza cercarle altrove perché i cardinali durante il Conclave devono stare insieme e in condizioni di assoluta sicurezza (le finestre sono chiuse e sigillate e le persiane giù in modo che nessuno possa vederli). Sono al lavoro gli architetti e gli ingegneri vaticani per dividere alcuni spazi comuni e un appartamento nella stessa struttura che può servire alla bisogna. E si studia come mettere in comunicazione isolandolo dal resto anche una parte di un edificio adiacente. Naturalmente è una corsa contro il tempo.
(da Open)
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Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
LE QUOTE ASSEGNATE DALL’AGENZIA VEDONO TRE FAVORITI E QUALCHE OUTSIDER
Chi sarà il successore di Papa Francesco? A poco più di ventiquattro ore dalla scomparsa di Bergoglio, venuto a mancare nella mattinata di lunedì 21 aprile,
già si inizia a guardare a chi potrebbe prendere il suo posto in Vaticano. Una discussione accesa, che anima non solo giornali, opinionisti ed esperti di questioni clericali, ma anche i bookmakers.
I tre nomi più papabili
Secondo il portale Bet 365, il favorito a prendere il posto di Bergoglio e diventare il prossimo papa è Pietro Parolin, attuale segretario di Stato vaticano. Con ogni probabilità, il suo pontificato si muoverebbe in continuità con Francesco, che nel 2013 lo ha scelto come “ministro degli Esteri” della Santa Sede proprio per via della sua solida esperienza diplomatica.
Al secondo posto, sempre secondo i bookmakers, viene Luis Antonio Tagle, 67 anni, la cui elezione è data a 2,75. Già arcivescovo di Manila, oggi prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, è una delle figure più amate dall’ala più progressista della Chiesa cattolica.
Al terzo posto, secondo Bet365, viene il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Papa Francesco gli ha affidato la missione di pace per porre fine alla guerra in Ucraina e la sua elezione al prossimo conclave
Le possibili sorprese
Un po’ più distaccati, ma comunque in corsa per diventare il prossimo Pontefice, due cardinali africani. Il primo è Fridolin Ambongo Besungu, 65 anni, cappuccino, arcivescovo di Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo. La sua eventuale elezione – che porterebbe al primo Papa nero della storia – è quotata a 13,00.
Un altro nome africano, ma di orientamento decisamente più conservatore, è quello del cardinale Robert Sarah, 79 anni, quotato a 10,00. Seguono Peter Erdő, arcivescovo di Budapest classe 1952, quotato 9,00, e Peter Turkson, arcivescovo del Ghana, quotato a 8,00.
(da Open)
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Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
“I MERCATI SANNO CHE I DAZI SONO TASSE, E LE TASSE SONO UN
OSTACOLO ALLA CRESCITA. I DAZI DI TRUMP RAPPRESENTANO IL PIÙ GRANDE ERRORE DI POLITICA ECONOMICA DEGLI ULTIMI DECENNI”…L’INDICE DOW JONES È AVVIATO VERSO IL PEGGIOR APRILE DALLA GRANDE DEPRESSIONE DEL 1929
Wall Street appare orientata ad aprire in rialzo, ma sui mercati resta alta la tensione.
Il Dow Jones è avviato verso il peggior aprile dalla Grande Depressione.
Non va meglio allo S&P 500: dall’insediamento di Donald Trump, la sua performance è la peggiore per un nuovo presidente dal 1928. A pesare – riporta il Wall Street Journal – sono i timori dei dazi e la prospettiva che Donald Trump possa rimuovere il presidente della Fed.
“I presidenti intelligenti prestano attenzione ai segnali del mercato e si adattano. L’adattamento” che Donald Trump dovrebbe effettuare “ora consisterebbe nel negoziare una rapida fine” della battaglia sui dazi, “ottenere qualche vittoria negli accordi commerciali e chiudere la questione.
Ma i mercati sono spaventati perché non sanno se Trump ascolta qualcuno che non siano i suoi impulsi”. Lo afferma il board editoriale del Wall Street Journal in un commento sugli attacchi del presidente americano a Jerome Powell.
“Trump pensa di poter sottomettere tutti con la forza, ma non può intimidire Adam Smith, che si occupa di realtà. I ;;mercati sanno che i dazi sono tasse, e le tasse sono un ostacolo alla crescita – mette in evidenza il board editoriale del Wall Street Journal -. I dazi di Trump rappresentano il più grande errore di politica economica degli ultimi decenni, e prorogare la riforma fiscale e la deregolamentazione del 2017 potrebbe non compensare tutti i danni”.
(da agenzie)
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Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
LE BARZELLETTE, LE PREGHIERE, I MIGRANTI: “PER ME E’ STATO UN PADRE, ADESSO TOCCA NOI CONTINUARE LA SUA RIVOLUZIONE”
“Probabilmente nel 2001, ai tempi del G8 e dei centri sociali, non avrei mai immaginato di diventare amico di un Papa. Ma se c’è una cosa che mi hanno insegnato questi anni con Francesco è che la vita può sempre aprirsi all’inaspettato”. Per anni identificato come figura di riferimento dei centri sociali del Nord Est e delle tute bianche, presenza fissa in piazza negli anni in cui i movimenti le riempivano gridando “un altro mondo è possibile”, dal 2019 Luca Casarini ha più volte incontrato Bergoglio.
Complice un percorso personale di fede e la decisione di Mediterranea Saving Humans, l’ong di cui è cofondatore, di imbarcare don Mattia Ferrari sulla Mare Jonio come cappellano, il Vaticano di Francesco è diventato un punto di riferimento anche per quello che i media per anni hanno identificato come “il cattivo ragazzo dei centri sociali”.
“Con don Mattia abbiamo messo insieme un dossier con tutti gli articoli che sono usciti negli anni sui problemi, le polemiche, i processi, per metterlo al corrente. E lui ha risposto con un messaggio. «Grazie, so già tutto». Francesco era così, non aveva paura dei movimenti popolari, delle persone scomode, si ricordava perfettamente dei nomi e delle storie di tutti gli attivisti che ha incontrato”.
Quando avete inviato quel dossier?
“Dopo il primo incontro con l’equipaggio di Mare Jonio nel 2019. Io ero lì, nel salone di Santa Marta, lui è uscito da una porta e mi ha abbracciato come se mi conoscesse. «Ciao, come stai?», mi ha detto. Mi ha veramente stupito”.
Da allora, ce ne sono stati altri?
“Molti altri. Sia insieme a don Mattia, sia da solo nel periodo del Sinodo. Erano momenti in cui discutevamo di cose diverse, dalle scritture alla situazione nel Mediterraneo. Erano incontri di lavoro, di preghiera, di risate”.
Risate?
“Francesco predicava il buon umore militante. Diceva che dobbiamo saper ridere, anche di noi stessi, e far ridere. Che il cristianesimo non potrà mai convincere nessuno se è triste. Faceva battute, raccontava barzellette. È capitato di vederlo dopo incontri che aveva avuto con personaggi che sapeva non affini e
lui raccontava: «Gli ho detto di pregare per me, non contro di me, per me». E giù risate”.
Francesco l’ha voluta come suo invitato speciale al Sinodo. Se lo aspettava?
“Assolutamente no. L’ho saputo quando hanno iniziato a chiamarmi i giornalisti. È una cosa di cui gli sarò eternamente grato”.
Il Sinodo italiano ha rinviato l’approvazione del documento finale perché la bozza non conteneva tutte le aperture emerse durante i lavori. Adesso quello slancio si potrebbe interrompere?
“Sinceramente non credo. La discussione è stata rinviata a ottobre. Questo pontificato ha avviato un percorso nella Chiesa che difficilmente si potrà arrestare perché Francesco ha seminato, diceva «meglio un ateo, che chi va a messa tutte le domeniche ma è divorato dall’odio». È un ritorno alle radici della cristianità che non si perde”.
Come vi tenevate in contatto?
“Avevamo anche un rapporto epistolare. Una delle lettere più note è quella che lui ha voluto che fosse resa pubblica. Gliela scrissi durante il Covid, dopo il naufragio diventato noto come la strage di Pasqua. Mi sentivo perso perché in mare si continua a morire. Rispose «Fratello io sono con te». Tante volte ha inviato messaggi a Mediterranea, ha parlato di noi durante l’Angelus”.
Per telefono non vi siete mai sentiti?
“No. E per fortuna, altrimenti sarebbe stato spiato anche lui da chi ha infettato i nostri telefoni con Graphite di Paragon”
Come nasce il rapporto di papa Francesco con Mediterranea?
“Sicuramente molto si deve a don Mattia. Era già un giovanissimo prete di strada, abituato a stare fra gli ultimi, quando abbiamo sentito l’esigenza di portarlo a bordo. Mediterranea non è un’associazione cristiana, dentro ci sono
laici, atei, buddisti, persone di tutte le confessioni, ma porta un messaggio alle “persone di buona volontà”. Ci siamo trovati a collaborare con persone idealmente lontanissime dai nostri mondi, ma che in realtà non lo sono, come gli scout”.
La barca della fondazione Migrantes che vi ha affiancato in missione è parte di questo percorso?
“Certamente. Quante volte Francesco ci ha invitato, ci ha protetto, si è fatto fotografare con noi quando venivamo attaccati”.
Temete che questo filo si spezzi?
“Personalmente credo di no. Parlo da cristiano: dobbiamo smettere di pensare che siamo padroni di tutto, c’è qualcosa di più grande che muove la speranza. Ma dobbiamo continuare nel mettere in pratica il suo messaggio, lottare contro la guerra e le ingiustizie. Credo fermamente che Francesco continuerà a camminare con noi in questo processo di trasformazione del mondo che si è innescato. Sarà una strada difficile, in salita, ma dobbiamo continuare perché in mare, nei lager, nei cpr, in Albania, ci sono fratelli e sorelle. E se mai dovessimo essere arrestate per questo, pazienza”.
Chi era per lei il Pontefice?
“Lui, come don Gallo, che portavo dentro di me a ogni incontro, sono stati due fratelli più grandi, due padri che mi hanno preso per mano”.
E adesso che anche papa Francesco non c’è più?
“Quando ho saputo della sua morte ho provato un grande senso di vuoto, di solitudine, mi sono sentito orfano. Poi mi è tornata in mente la sua voce che diceva «non dovete piangere, la morte non è la fine» ed è subentrato un gigantesco senso di gratitudine. Sono sentimenti che hanno bisogno di un progetto. Adesso tocca a noi prendere in mano quello che Francesco ha lasciato
metterlo in pratica e andare avanti. Non vedo l’ora di portarlo con me in un’altra missione. Lui fa parte della crew. Gli abbiamo regalato anche un giubbotto tutto bianco”.
(da agenzie)
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Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
IN SOSTANZA NON C’È STATA ALCUNA CACCIA ALL’EVASORE: NON SI E’ SCOVATO CHI SI NASCONDE AL FISCO, MA SI TRATTA SOLO DI ACCERTAMENTI. E I DATI PARLANO CHIARO VISTO CHE TRA GLI AUTONOMI L’EVASIONE È AL LIVELLO PREOCCUPANTE DEL 65%
Aveva fatto anche un video per festeggiare «il recupero di evasione più alto di sempre:
33,4 miliardi». Il 18 febbraio la premier Giorgia Meloni parlava di «somma mai raggiunta prima nella storia della nostra Nazione». Attribuiva gli 8 miliardi in più incassati dal fisco nel 2024 rispetto al 2022 anche alle norme introdotte dal suo governo «contro le attività “apri e chiudi” degli extracomunitari». Respingendo le accuse di «favorire gli evasori e nascondere condoni immaginari».
Ebbene, ora la Corte dei Conti smantella ogni facile entusiasmo: «L’exploit di introiti conseguito nel 2024 è in gran parte riconducibile a mera attività di controllo automatizzato e non già ad attività di controllo sostanziale».
Nessuna caccia all’evasore. Nessun aumento di base imponibile. Anzi, serve fare di più: «Auspicabile un rinnovato impulso». Visto che tra gli autonomi l’evasione è al livello «preoccupante del 65%». E le stime più recenti della Commissione Ue «indicano un nuovo non trascurabile incremento del gap Iva per il 2023 al 14,74% che colloca l’Italia tra gli ultimi posti in Europa».
Il giudizio severo dei giudici contabili si ritrova nel testo dell’audizione parlamentare di giovedì sul Dfp, il Documento di finanza pubblica.
Una disamina molto precisa delle cifre. Si parte intanto dal “record” di 26,3 miliardi che si ottengono togliendo dai 33,4 celebrati da Meloni i tributi recuperati dall’Agenzia delle entrate per conto degli enti: Comuni, Province, Regioni ma anche Inps e Inail. Di questi 26,3 miliardi – scrive la Corte – 22,8 miliardi sono «riferibili ad attività ordinarie» del fisco. Il resto, pari a 3,5 miliardi, viene per lo più dalla rottamazione, oltre a 100 milioni di “pace fiscale” e 200 milioni dalle liti pendenti.
La Corte si concentra quindi sui 22,8 miliardi che sono il cuore dell’attività di recupero dell’Agenzia delle Entrate. Somma che comprende tre voci: 12,6 miliardi da versamenti diretti, 5,7 miliardi da incassi di cartelle e 4,5 miliardi da “compliance” (avvisi per sollecitare i versamenti). I giudici si sono chiesti quanta parte di queste voci derivi effettivamente da una lotta all’evasione.
Cioè da una «attività di accertamento sostanziale» che punti a far pagare chi si nasconde al fisco. La conclusione è secca: «L’83% dei versamenti diretti deriva da attività automatizzate: 10,5 su 12,6 miliardi. E anche il 75% degli incassi da cartelle: 4,3 su 5,7 miliardi».
Significa che gli incassi “record” non partono da azioni mirate a far emergere il nero, ma da controlli che scattano quando il contribuente dichiara e poi non paga per «errori od omissioni individuati con modalità automatica». Peraltro, notano i giudici, questi recuperi automatizzati sono relativi a vecchie annualità: 2019, 2020 e 2021. Quest’anno il fisco si concentrerà su 2022 e 2023.
(da agenzie)
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Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
LE RIFORME NON LE HA FATTE. AVEVA PENSATO, SE NON DI CONSENTIRE AI PRETI DI SPOSARSI, DI CONSENTIRE AGLI SPOSATI DI FARE I PRETI; MA SI FERMÒ, QUANDO SI RESE CONTO CHE, QUALUNQUE DIREZIONE AVESSE IMBOCCATO, AVREBBE RISCHIATO, SE NON UNO SCISMA, UNA GRAVE SPACCATURA, ANZI DUE: QUELLA DEI CONSERVATORI, O QUELLA DEI PROGRESSISTI, IN PARTICOLARE I CARDINALI TEDESCHI”
«Buonasera». La Chiesa ha una storia millenaria, che accelerò vorticosamente in cinque minuti: quelli tra le 20 e 22 e le 20 e 27 del 13 marzo 2013. Cinque minuti che, se non sconvolsero il mondo, certo lo avvertirono che stava accadendo qualcosa di nuovo. E non soltanto perché era appena stato eletto il primo Papa sudamericano, il primo Papa gesuita, il primo Papa a chiamarsi Francesco.
Francesco si affacciò alla loggia di San Pietro senza la mozzetta rossa, simbolo del potere dei predecessori. Con una croce semplice anziché preziosa. Non si definì Papa ma vescovo di Roma. Chiese ai fedeli di pregare per lui. Poi si inchinò alla folla. […] fin dai primi passi Francesco ha provocato commozione e insieme sconcerto. Adesione e rigetto. Amore e ostilità, arrivato talora a degenerare nell’odio. Un sentimento mai sentito, visto, toccato in Vaticano nei confronti del Papa, come al tempo di Papa Francesco. Perché i progressisti forse non hanno amato Wojtyla; ma certo molti conservatori hanno odiato Bergoglio.
Ha rivoluzionato il linguaggio, gli argomenti, lo stile del papato. Eppure, le stesse cose che piacevano al popolo infastidivano la Curia. Le vecchie scarpe ortopediche al posto di quelle rosse. La borsa portata da sé. L’utilitaria anziché la Papamobile o la Mercedes nera con cui il suo predecessore era arrivato alle Giornate della Gioventù di Colonia.
Se Bergoglio andava a pagare il conto della stanza affittata a Roma, o a ritirare di persona gli occhiali da vista, le persone comuni se ne compiacevano, come a dire (o a illudersi): è uno di noi. Ma per gli uomini di Curia era un’inaccettabile deminutio del ruolo del Papa, quindi del loro. La scelta che parve insostenibile fu quella di non vivere nell’Appartamento, come viene chiamata la residenza all’ultimo piano delle logge di Raffaello, bensì a Santa Marta, cioè in un residence.
Questo non solo faceva sembrare obsoleti e fuori luogo gli agi curiali — a cominciare dal leggendario attico del cardinale Bertone, ancora segretario di Stato —, ma faceva sentire un intero mondo inadeguato se non umiliato. E questo non riguardava soltanto monsignori, ma funzionari, aristocratici neri, banchieri dello Ior, giornalisti, gruppi di pressione, con terminali lontani dall’Italia, sino agli Stati Uniti. E se i cardinali nordamericani erano stati tra i grandi elettori di Bergoglio, fin dall’inizio molti se ne sentirono traditi.
Perché Bergoglio era dentro lo spirito del tempo: la rivolta contro l’establishment, le élites, il sistema. Una rivolta che porta con sé il rischio del populismo. Perché la stessa rivolta ha prodotto anche Trump, che rappresenta tutto quello che Bergoglio detestava: l’arroganza del potere e della ricchezza, la violenza del linguaggio, la mentalità neoimperialista. E ora che la sua voce si è spenta, sarà più difficile, se non sovrastare, resistere a quella di Trump
Le prime uscite pubbliche di Francesco erano seguite da una folla commossa, spesso in lacrime. La semplicità, l’immediatezza, la difesa dei poveri, l’elogio dei semplici conquistarono fin dal principio. Però il Papa chiarì quasi subito che non era disposto a dispensare solo carezze. La sera del 22 giugno, nell’Aula Paolo VI, era stato organizzato un «Grande concerto di musica classica per l’Anno della Fede». I politici avevano preso posto in seconda fila, in modo da essere inquadrati dalle telecamere subito dietro la poltrona riservata al Pontefice. Ma quella poltrona restò vuota. «Non sono un principe rinascimentale» disse Bergoglio.
Il 4 ottobre 2013 andò ad Assisi. Era la prima volta che scendeva sulla tomba del santo di cui portava il nome, e si commosse. Bergoglio parlava piano, a bassa voce, ma in modo netto, con il tono di chi è abituato a comandare. Quel giorno tutti si attendevano parole più o meno di circostanza su san Francesco. Ma il giorno prima c’era stato il naufragio di Lampedusa: 368 morti. E il Papa pronunciò un’omelia durissima, che a molti parve quasi urticante. In realtà, stava dicendo le cose che san Francesco avrebbe probabilmente detto al suo posto.
Quello che era accaduto, ammonì Bergoglio, era anche colpa nostra, del nostro egoismo, del rifiuto di accogliere i migranti, del disinteresse verso i poveri del mondo.
Lì si comprese che il segno del papato di Francesco sarebbe stato la difesa dei miseri, dei deboli, degli esclusi, e nello stesso tempo la critica dell’Occidente; e non solo dei governi, ma di tutti noi.
Questo piacque meno ai fedeli. Da allora la sintonia dell’opinione pubblica con Francesco vacillò. Eppure, cos’altro avrebbe potuto dire un nipote di immigrati, l’arcivescovo che a Buenos Aires andava in metropolitana nelle «villas miseria»?
Paradossalmente, il Papa era a volte più apprezzato dai laici che dai credenti. E a lui questo non pareva dispiacere, se è vero che scelse come interlocutore prediletto un laico dichiarato come Eugenio Scalfari. Anche se il suo ultimo messaggio politico l’ha affidato in una lettera al direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana: «Disarmate la Terra». Sempre al Corriere disse che Putin aveva avvertito «l’abbaiare della Nato» alle sue frontiere: una frase citata in tutto il mondo.
Qualcuno sosteneva che il Papa fosse peronista, o populista, o addirittura comunista.
Lui giustamente rifiutava di essere etichettato con categorie che definiva «da entomologo». Catalogare un Papa con i parametri della politica, fece notare, sarebbe come dire: «Questo è un insetto socialdemocratico» Altri non gli perdonarono le parole di apertura e comprensione, come quando disse: «Chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca Dio?».
Altri ancora pensarono che fosse troppo pessimista, quando cominciò a parlare di «terza guerra mondiale a pezzi»; poi vennero l’aggressione di Putin all’Ucraina e il 7 ottobre.
Se certo un papato non può essere letto con le categorie della politica, comunque non c’è dubbio che Bergoglio sia stato un Papa progressista. Anche per questo si è cercato di porlo in contrasto con Ratzinger, almeno fino a quando il Papa emerito è stato in vita.
Qualche segnale di freddezza tra i due c’è stato. Ma tra i meriti di Francesco c’è anche quello di aver gestito con grande sensibilità una situazione inedita, con cui nessuno dei suoi predecessori si era mai confrontato: convivere con un predecessore dimissionario. Le riforme, quelle no, non le ha fatte. Aveva pensato, se non di consentire ai preti di sposarsi, di consentire agli sposati di fare i preti; ma si fermò, quando si rese conto che, qualunque direzione avesse imboccato, avrebbe rischiato, se non uno scisma, una grave spaccatura, anzi due: quella dei conservatori, o quella dei progressisti, in particolare i cardinali tedeschi.
A volte il suo parlare duro gli ha provocato critiche, non sempre irragionevoli. Dopo la strage islamista nella redazione di Charlie Hebdo, disse: «Se insulti mia mamma, ti può arrivare un pugno». Fu coniata allora la definizione di «papagno». Francesco ne diede parecchi, qualcuno certo meritato. Con lui il
peso della Chiesa italiana è diminuito, e non solo perché per la prima volta l’arcivescovo di Milano o il patriarca di Venezia non sono cardinali. Fin da quando, la sera del 13 marzo di dodici anni fa, si era affacciato alla loggia di San Pietro, Francesco era apparso un Papa straordinario. Ora possiamo concludere che lo è stato. Passerà alla storia. Resterà.
Aldo Cazzullo
per il “Corriere della Sera”
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Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
L’URBE, DECRETATA “NO-FLY ZONE”, SARÀ INVASA DA UN MILIONE E MEZZO DI FEDELI, 300 MILA DEI QUALI PARTECIPERANNO ALLE ESEQUIE IN PIAZZA SAN PIETRO, PREVISTE SABATO 26 APRILE ALLE 10 … BLINDATE LE STAZIONI FERROVIARIE DELLA CAPITALE, GLI AEROPORTI E IL PORTO DI CIVITAVECCHIA
La macchina della sicurezza che si è messa in moto in vista dei funerali di papa
Francesco sarà come quella in funzione dal 2 all’8 aprile 2005 dopo la scomparsa di Giovanni Paolo II. Anche adesso è previsto oltre un milione e mezzo di fedeli, 300 mila dei quali in piazza San Pietro, con circa 200 capi di Stato e di governo. Il piano è già scattato: ieri due riunioni in Prefettura, a Roma, per decidere le misure e i rinforzi in campo fra forze dell’ordine e intelligence.
Oggi per decreto del Cdm il capo della Protezione civile Fabio Ciciliano sarà nominato commissario straordinario per lo svolgimento delle esequie del pontefice. La Questura ha già alzato la vigilanza attorno alla Città del Vaticano, ma anche sulle principali basiliche. Ribadita la «no-fly zone», già in atto tutto l’anno su Roma, con particolare attenzione sui droni. Blindati stazioni ferroviarie (Termini, Tiburtina e Ostiense soprattutto) e della metro, aeroporti (Fiumicino e Ciampino), caselli autostradali e il porto di Civitavecchia.
Alle misure in corso per il Giubileo 2025 e per le feste di Pasqua e del Primo maggio, si uniranno adesso quelle per l’omaggio di centinaia di migliaia di pellegrini provenienti da tutto il mondo: nel 2005 furono tre milioni. Già potenziati i servizi sanitari e di accoglienza, nonché di telefonia mobile. Intelligence al lavoro per l’arrivo delle delegazioni straniere, senza contare tuttavia che per la giornata di venerdì sono anche in programma le celebrazioni del 25 aprile
(da agenzie)
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Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
FINE TEOLOGO, GRANDE ORATORE, DAREBBE ALLA CHIESA IL VOLTO DELLA SUA REALTA’ PIU’ EMERGENTE: L’ESTREMO ORIENTE. E RAPPRESENTEREBBE LA CONTINUITA’ CON BERGOGLIO
Luis Antonio Gokim Tagle, proprefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, è nato a Manila (Filippine) il 21 giugno 1957. Di madre cinese, è stato in questi anni una figura chiave della Chiesa nel dialogo sottotraccia con Pechino. Dopo il diploma, è entrato nel Saint Jose Seminary di Manila, diretto dai gesuiti, ha studiato filosofia presso la Manila University e la Loyola School della capitale e teologia alla Catholic University of America di Washington, fino al dottorato nel 1991.
Tagle è molto più di un diplomatico. È un uomo di popolo, vicino ai poveri, alle periferie esistenziali, in perfetta sintonia con lo spirito che ha caratterizzato il pontificato di Francesco. Proprio per questo, il Papa lo ha voluto alla guida della Caritas Internationalis nel 2015 e successivamente al Dicastero per l’Evangelizzazione, uno degli incarichi più importanti della Curia.
Non è un mistero che Papa Francesco abbia più volte indicato l’Asia come “il futuro della Chiesa”.
E Tagle potrebbe incarnare proprio questa visione: giovane rispetto alla media del collegio cardinalizio, con una formazione accademica solida e una visione pastorale radicata nei valori della misericordia e della missione.
Il suo nome circola da anni nei corridoi vaticani, ma oggi più che mai la sua candidatura sembra trovare terreno fertile. Se fosse eletto, sarebbe il primo Papa asiatico della storia moderna e rappresenterebbe una svolta epocale, anche per le relazioni della Santa Sede con il continente più dinamico e popoloso del
mondo.
Dopo anni di insegnamento, nel 2001 Giovanni Paolo II lo ha nominato vescovo di Imus. Dieci anni più tardi Benedetto XVI lo ha scelto come arcivescovo di Manila, nel 2012 lo ha creato cardinale. Nel 2015 Francesco lo ha nominato presidente di Caritas Internationalis e quattro anni più tardi prefetto di Propaganda Fide: con la soppressione della congregazione, è diventato pro- prefetto del dicastero per l’Evangelizzazione guidato dal Papa. Fu a lui che Francesco, durante il viaggio nelle Filippine, confidò: «L’Asia è il futuro della Chiesa»
(da agenzie)
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Aprile 22nd, 2025 Riccardo Fucile
PARENTI, FAMIGLIE E AMICI” TRA I POTENTI… UNA VITA A SPROLOQUIARE DI “MERITOCRAZIA” PER POI AFFIDARE RESPONSABILITA’ DI RILIEVO A UNA CORTE DEI MIRACOLI
C’è una cosa che va chiarita. Chi contesta Giorgia Meloni per le nomine di mezze
figure di partito o famigli assortiti in primarie società pubbliche per via di certe sue frasi contro “l’amichettismo” forse ricorda male le parole della premier.
All’inizio del 2024, in tv, Meloni sostenne sì che nelle partecipate “vige
l’amichettismo” e che con lei “quel tempo è finito”, ma poi aggiunse uno specifico “avviso ai naviganti: il mondo nel quale per le nomine pubbliche la tessera del Pd fa punteggio è fi-ni-to” (proprio così, sillabando).
E infatti adesso siamo nel mondo in cui a fare punteggio è la tessera di Fratelli d’Italia e, in subordine, quelle della Lega e di Forza Italia.
A non dire, certo, la vicinanza a questo o a quel capataz di maggioranza: sarà forse a questo che si riferisce la premier quando parla, e lo fa spesso, di “merito”. Siamo alle solite, si dirà, ma il “così fan tutti” non è mai una gran consolazione.
Qui accanto leggerete dell’ultima, faticosa, distribuzione di culi tesserati su svariate poltrone della galassia Cassa depositi e prestiti e, dando per scontato l’appetito di Meloni e soci, qui il pensiero va soprattutto a chi quelle nomine le ha firmate, ovvero i vertici di Cdp, l’ad Dario Scannapieco e il presidente Giovanni Gorno Tempini: tra i meglio tecnici del bigoncio, competenti tra i competenti, il primo arrivato addirittura circonfuso della speciale benedizione draghiana, eppure ben disposti – alla bisogna – ad attaccare l’asino dove vuole il somaro (o il padrone).
Questo, si diceva, è solo l’ultimo capitolo di un’abitudine ben radicata nel Palazzo Chigi meloniano, ovvero considerare la fedeltà l’unica qualità del nominando: dal primo, il manager digitale senza curriculum che inviava discorsi di Mussolini ai dipendenti, a quelli di oggi.
Basti dire, per capirci, che persino nella Commissione per la valutazione d’impatto ambientale ci sono tre consiglieri comunali di FdI. Sia chiaro, il problema non è certo la nomina “politica” in partecipate o enti, sacrosanta e in moltissimi casi prevista dalla legge: solo che l’indirizzo politico delle imprese pubbliche è una faccenda seria, piazzare mezze figure e camer-amichetti sul
maggior numero di poltrone è politichetta.
(da ilfattoquotidiano.it)
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