IO SONO LA NAZIONE, IO SONO IL POPOLO
“LA VERA SFIDA IN POLITICA E’ IMPARARE A PENSARE NEI LIMITI”
Tema della settimana: Meloni, le toghe, la ragion di Stato, le tre regole dell’avvocato Roy Cohn (feroce mentore del Signore di Tutti i Dazi, Donald Trump) e la capacità ormai perduta della politica di pensare nei limiti, sbriciolando gli auspici di Hanna Arendt. Non abbiamo più il senso del pudore. Sembra un dettaglio. È l’inizio di un nuovo mondo in cui prevale chi è più forte e selvaggio. Trumpismo quintessenziale. Un’aria non esattamente salubre che si respira anche qui da noi.
Confesso che non sapevo cosa fosse il metodo “Falqa”, tortura utilizzata dai nazisti, dai Khmer Rossi di Pol Pot in Cambogia e dal generale libico Nijem Osama Almasri, sadico in capo delle prigioni in Tripolitania, disumano protagonista di questi nostri infelici giorni che contrappongono Palazzo Chigi alla magistratura, nella stucchevole, decennale, ripetizione di un modello suicida, destinato ad azzerare la fiducia già ridicola nelle istituzioni e a radere al suolo la voglia di partecipazione democratica della collettività.
Il metodo “Falqa”, dicevo. Si individua un prigioniero – e in Libia chiunque è prigioniero, se così decide l’onnipotente Almasri – gli si distendono le gambe e le si legano ad un asse di legno di modo che non si possano più muovere. Poi si prendono a bastonate le piante dei piedi del malcapitato fino a quando vomita, implora e perde i sensi. Una volta rianimato, lo si lascia agonizzante a strisciare in mezzo ai cumuli di sporcizia della sua cella, affinché sia chiaro a tutti che quell’uomo non è più un uomo. Succede ogni giorno. Suppongo anche oggi. Banalmente perché il generale Almasri vuole così. A noi fa comodo. Impedisce le partenze fuori controllo dei migranti, parrebbe. I numeri di queste ore dicono il contrario. Dettagli.
Nelle quarantadue pagine in cui la corte penale internazionale dell’Aja chiede il suo arresto, il generale Almasri, felice di passare i suoi fine settimana in giro per l’Europa a guardare partite di pallone con gli amici, è accusato di avere consentito lo stupro di un bambino, l’assassinio di trentaquattro persone e di avere autorizzato, previsto e richiesto l’applicazione costante e inflessibile di trattamenti disumani. Vale la pena averlo presente prima di ragionare sul resto. Aggiungo, anche se sarebbe più che sufficiente il quadro appena fatto, la rapida sintesi della testimonianza di un prigioniero ascoltato dalla psicologa di Medici Senza Frontiere, Maria Eliana Tunno. Le sue parole: «Sentivo di non avere più un’anima». Il generale Almasri, criminale probabilmente non ignoto ai servizi americani, italiani e inglesi, forse per questo intoccabile, è un uomo che strappa l’anima.
Perché lo abbiamo rimandato a casa? Per la sicurezza dello Stato ha spiegato Giorgia Meloni, formula all’interno della quale si può nascondere (persino legittimamente) qualunque cosa. Iscritta intempestivamente nel registro degli indagati per peculato e favoreggiamento dal procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, la premier ha preso la palla al balzo per scatenarsi contro i magistrati, rei – giura – di volere affossare la presidente del Consiglio e assieme a lei il Paese, dato che, nella sua visione, tra le due cose non c’è differenza. Io sono la Nazione. Io sono il Popolo.
In suo aiuto – mi auguro non richiesto – è intervenuto un indignato Bruno Vespa che, autoproclamatosi maestro Manzi del melonismo, ha spiegato a tutti noi ingenui e manipolabili abitanti della penisola che «in ogni Stato si fanno cose sporchissime, anche trattando con i torturatori per la sicurezza nazionale». Perché stupirsi, dunque? Gridiamolo con orgoglio: se ci servono le canaglie usiamo le canaglie. E tu pensa a quei fessi della corte penale convinti che l’Italia fosse legata ai trattati internazionali.
Inutile spiegare che tra “fare” cose forse utili, certamente ignobili, “dirle”, “legittimarle” e addirittura “rivendicarle”, passa tutta la variegata scala dell’opportunità, del buongusto, della decenza, del decoro, del rispetto della politica e della sensibilità collettiva. Merce avariata che non interessa più a nessuno. Altrettanto inutile sottolineare che il segreto di Stato o è, appunto, segreto, oppure è una vergogna.
Va da sé che dopo avere scatenato questo nuovo incandescente dibattito sui motivi per cui “le toghe rosse” vogliano la rimozione di Giorgia Meloni, le possibilità di capire davvero cosa nasconde il pasticcio Almasri sono precipitate nello scantinato delle illusioni.
Pausa e passo indietro. Tra le telefonate fatte in settimana per ragionare di questi temi, due mi sono rimaste in testa. La prima con l’ex presidente del Consiglio e leader dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte. Era in macchina. In mezzo alle gallerie. La conversazione era disturbata, ma il senso chiarissimo. La riassumo sbrigativamente perché in qualche modo contiene la linea delle opposizioni: «Il comportamento di Giorgia Meloni sul caso Almasri denota irresponsabilità politica, insipienza giuridica e vergogna morale». Non esagera? «No. La premier usa modi intimidatori. È diventata berlusconiana. E sottrae l’Italia alle norme di diritto internazionale. Quello che vale per Almasri d’ora in avanti varrà per i rapporti con tutti gli Stati canaglia?» . Bella domanda. Che sarebbe stato utile rivolgere ai ministri Piantedosi e Nordio in Parlamento. Peccato che questo disastro abbia congelato assieme ai lavori dell’Aula, la possibilità di un dibattito vero. Per la premier un risultato niente male.
Seconda telefonata, Gustavo Zagrebelsky. Anche qui riassumo rapidamente il pensiero del professore. «È un caso che ogni volta che la magistratura si occupa della politica, la politica parli di complotto? Sono i magistrati ad essere dei cospiratori comunisti, sempre disponibili per iniziative ad orologeria, o magari è la politica che non tollera i limiti del diritto? Noto, peraltro, che a far venire fuori la notizia dell’iscrizione di Meloni sul registro degli indagati è stato Palazzo Chigi. Perché? La mia risposta è semplice: perché Meloni è furbissima». Siamo di fronte ad un verminaio o ad esigenze di sicurezza? «Chi lo sa». Ne usciamo, professore? «Solo se manteniamo viva l’intelligenza e l’ironia». Auguri.
In questo marasma l’unica cosa certa è che Giorgia Meloni, straordinaria cercatrice di pepite d’oro, forse confortata dalla distruzione dei freni inibitori prodotta dal Trump II la Vendetta, ha impresso una svolta radicale al suo stile narrativo. Difficile capire fino a che punto voglia spingersi. Se davvero immagini, come ritengono alcuni osservatori, di arrivare addirittura alle urne anticipate. La premier vive di consenso. Ha bisogno dell’acclamazione collettiva. Un’identificazione – impropria, considerato che un italiano su due non vota e che lei è titolare del trenta per cento dell’altra metà – che le consente di derubricare a fastidiosi orpelli i contrappesi democratici. Per i prossimi due anni e mezzo di legislatura sembra non avere in mano molte carte. L’economia frena, i soldi mancano, le riforme (giustizia a parte) sono al palo. La creatività che dimostra all’estero, in Italia si vede a fatica e di certo Meloni non vuole diventare l’ennesimo campione della democrazia dell’impotenza. Da qui i ritornelli muscolari.
Un discreto paradosso. Per un decennio, quello appena trascorso, le destre italiane hanno avuto il problema di rendersi democraticamente presentabili. Mostrarsi in grado di accettare le consuetudini e le regole. Adesso fanno marcia indietro, perché essere “impresentabili” improvvisamente paga, da Washington a Buenos Aires, dunque torniamo impresentabili.
Perciò mi riaggancio inutilmente ad Hannah Arendt: «la vera sfida, in politica, è imparare a pensare nei limiti». Ci interessa ancora o abbiamo deciso di impiccarci ad una deriva da saloon?
In queste ore rimbalzano un po’ ovunque le tre regole di Roy Cohn, protagonista del film “The Apprentice, alle origini di Trump”. Cohn, spietato avvocato newyorkese, teorico del maccartismo negli Anni Cinquanta e mentore del giovane Donald, declina così il podio del successo. Regola numero uno: «attacca, attacca, attacca». Regola numero due: «non ammettere niente, negare ogni cosa». Regola numero tre: «dire che hai vinto e non ammettere mai la sconfitta». Adesso chiudete gli occhi e chiedetevi se pensando a questo schema vi viene in mente Trump, Milei, Putin o Meloni. È lo Spirito del tempo. Ma attenzione a fingere che tra cinismo e buonismo, tra aggressività e mediazione, non ci sia differenza. Ad alzare le spalle e a fingere che non ci riguardi, perché – e sono per la terza e ultima volta ad Hannah Arendt – «la triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive».
(da La Stampa)
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