ABOLIRE LA FORNERO VUOL DIRE TROVARE 20 MILIARDI L’ANNO PER 12 ANNI E PERCEPIRE PENSIONI RIDOTTE DAL 20% AL 50%
ALTRO CHE LE CAZZATE DI SALVINI SUI “NONNI CHE POSSONO GIRARE E SPENDERE”… AL MASSIMO POSSONO SEDERSI CON LE PEZZE AL CULO NEL GIARDINETTO DAVANTI A CASA
Circa venti miliardi l’anno da trovare di qui al 2030.
Come dire un’intera manovra finanziaria, o due volte il costo del bonus 80 euro.
E pensioni più basse dal 20% fino al 50%-
È l’impatto che avrebbe lo smantellamento della riforma delle pensioni varata a fine 2011 dal governo Monti.
Cavallo di battaglia del leader leghista Matteo Salvini, stando a quanto annunciato da Renato Brunetta la proposta di cancellare quella che è passata alle cronache come legge Fornero è stata recepita anche dagli alleati del centrodestra, nonostante Silvio Berlusconi si dicesse convinto che occorre salvaguardarne alcune parti.
Ma l’ha sposata in toto pure il candidato premier M5S Luigi Di Maio, secondo cui “chi ha fatto 41 anni di lavoro deve andare in pensione” senza altri requisiti.
Promesse che, a meno di non compensare la maggior spesa con aumenti di tasse o corposi tagli, rischiano di far deragliare il debito pubblico.
Non solo: potrebbero trasformarsi in una beffa per i pensionati, che vedrebbero alleggerirsi di molto l’assegno visto che in un sistema a ripartizione come il nostro sono i contributi di chi lavora a pagare le prestazioni previdenziali.
“Prima si va in pensione”, avverte Guido Ascari, docente di Economia all’università di Oxford, “più basso sarà il tasso di sostituzione“.
Cioè il rapporto tra la pensione e l’ultimo stipendio incassato. “Per questo è logico che l’età sia agganciata all’aspettativa di vita: si vuole garantire il più possibile una pensione adeguata“.
La demografia è impietosa: stando all’ultimo studio Ocse sul tema, Pensions at a glance 2017, l’Italia è seconda su 35 Paesi (dietro il Giappone) per percentuale di cittadini over 65 ogni 100 persone in età da lavoro.
Oggi il rapporto, noto come “indice di dipendenza” visto che i pensionati vengono di fatto “mantenuti” da chi produce, è del 38% contro una media Ocse del 27,9%. E nel 2050 è destinato a salire intorno al 70 per cento.
Se attualmente gli italiani in pensione sono poco più di 16 milioni, la Ragioneria generale dello Stato in un rapporto dello scorso giugno ha calcolato che nel 2050 saranno 17,8 milioni.
E la spesa pensionistica, stando alle previsioni macroeconomiche utilizzate dalla Commissione europea per analizzare la sostenibilità delle finanze pubbliche, salirà al 17% del pil dal 15,5% attuale: 337,2 miliardi contro circa 270.
Nel frattempo i lavoratori saranno diminuiti dagli attuali 23 milioni a soli 21,6 milioni su una popolazione totale ridotta a 59,1 milioni di persone.
Visto che la nostra previdenza pubblica è basata su un sistema a ripartizione, la crescita dei pensionati rispetto agli attivi tende naturalmente a ridurre l’ammontare del trattamento pensionistico.
In vista di questa evoluzione verso un Paese di anziani, già a partire dagli anni ’90 il sistema pensionistico pubblico è stato radicalmente ripensato: nel 1992 il governo Amato ha alzato di 5 anni l’età pensionabile (a 65 per gli uomini e 60 per le donne) e portato da 15 a 20 anni la contribuzione minima per l’assegno di anzianità , oltre a costituire un sistema di previdenza complementare.
Nel 1995 la riforma Dini ha introdotto il metodo contributivo, cioè il calcolo della pensione sulla base dei contributi versati e non dell’ultima retribuzione.
Nel 1997 Prodi ha inasprito i requisiti per la pensione di anzianità (quella che si poteva chiedere dopo aver totalizzato 20 anni di contributi) e tra 2004 e 2005 il governo Berlusconi ha stabilito che già dal 2008 sarebbero stati necessari almeno 35 anni di contribuzione e 60 di età per lasciare il lavoro.
Nel dicembre 2007 il secondo governo Prodi (all’Economia c’era Tommaso Padoa Schioppa) ha eliminato lo “scalone”, cioè appunto l’innalzamento da 57 a 60 anni dell’età anagrafica richiesta, introducendo un sistema di quote costituite dalla somma di età e anni lavorati. Nell’agosto 2009 il governo Berlusconi ha deciso che dal 2015 l’età di pensionamento avrebbe dovuto essere periodicamente adeguata all’incremento dell’aspettativa di vita.
Il decreto legge 201/2011, “la Fornero” appunto, ha esteso e anticipato l’entrata in vigore del meccanismo di adeguamento.
Così oggi per andare in pensione occorre avere un minimo di 20 anni di contributi versati e un’età di 66 anni e 7 mesi, ma dal 2019 si potrà lasciare il lavoro solo dopo averne compiuti 67.
Escluse dall’incremento solo le 15 categorie esentate a valle del negoziato tra governo e sindacati.
Le pensioni di anzianità invece sono state abolite, sostituendole con la “pensione anticipata” che quest’anno si può chiedere se si sono totalizzati 42 anni e 10 mesi di contributi e si hanno almeno 63 anni e 7 mesi di età . I requisiti, anche in questo caso, vengono aggiornati ogni due anni per effetto dell’aumento della vita attesa.
Negli anni sono state poi aperte alcune “uscite di emergenza”. Oltre agli otto interventi di salvaguardia per gli esodati (stando ai dati Inps sono state accettate ad oggi oltre 140mila richieste), dall’anno scorso i disoccupati con almeno 30 anni di contributi versati, i caregiver di parenti con handicap e i lavoratori che hanno fatto attività gravose e pagato i contributi per 36 anni possono chiedere l’anticipo pensionistico gratuito (Ape social). Nelle prossime settimane, con un ritardo di quasi un anno rispetto alla tabella di marcia, è attesa poi la partenza di quello a pagamento (Ape volontaria) a cui si potrà accedere indebitandosi con una banca
La situazione attuale deriva dunque da una lunga serie di riforme e abolire solo la legge del 2011 non eliminerebbe l’aspetto più contestato, cioè il requisito dell’età che ogni due anni viene ritoccato all’insù per star dietro all’aumento della vita media.
Ipotizziamo comunque di voler fare tabula rasa rispetto ai nuovi requisiti in nome del principio, enunciato dal leader del Carroccio, che “andare in pensione dopo 41 anni è un sacrosanto diritto“.
Principio condiviso da Di Maio, che il 10 gennaio ha inserito di diritto la Fornero tra le “400 leggi da abolire” per sostituirla con la regola che “si va in pensione dopo 41 anni di lavoro a dispetto dell’età ”.
Se a quel punto tutti scegliessero la pensione anticipata, che cosa succederebbe? Risponde, anche in questo caso, il rapporto della Ragioneria sulle “tendenze di lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario” aggiornato al 2017: da un lato assisteremmo al “significativo peggioramento del rapporto fra spesa pensionistica e pil”, anche perchè nei prossimi anni molti nuovi pensionati godranno ancora di assegni calcolati con il metodo retributivo.
L’effetto positivo della Fornero è stimato in 1,4 punti di pil nel 2020, pari a quasi 24 miliardi. Poi è previsto in diminuzione allo 0,8% del pil intorno al 2030 — 13,6 miliardi circa — e in seguito decrescerà fino ad annullarsi nel 2045. Nel prossimo decennio i risparmi medi ammontano quindi a circa 20 miliardi l’anno.
Cancellando la legge, quelle risorse andrebbero recuperate attraverso tasse o tagli.
L’altro aspetto riguarda i redditi dei pensionati. In base alle simulazioni dell’Ispettorato generale per la spesa sociale il risultato sarebbe “un abbattimento crescente nel tempo dei tassi di sostituzione fino a raggiungere, alla fine del periodo di previsione (2070, ndr), 12,8 punti percentuali per un lavoratore dipendente e 10 punti percentuali per un lavoratore autonomo, con conseguente peggioramento anche dell’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche”.
Il tasso di sostituzione lordo, che oggi per i dipendenti privati in pensione di vecchiaia è del 71%, scenderebbe in base alle simulazioni della Ragioneria al 67% nel 2030, al 53% nel 2040 e crollerebbe sotto il 50% dal 2060.
Vale a dire che chi ha un salario lordo di 1500 euro al mese ne riceverebbe dall’Inps 795 se andasse in pensione tra 20 anni e meno di 750 se avesse iniziato a lavorare da poco e contasse quindi di mettersi a riposo tra quarant’anni.
Con le norme attuali l’assegno sarebbe invece, rispettivamente, di 894 e di 910,5 euro. Con la “quota 41” proposta da Lega e M5S, gli importi risulterebbero quindi ridotti di più del 12% per chi va in pensione del 2040, di oltre il 21% per chi lascia il lavoro nel 2060.
I sessantenni potrebbero sì “fare i nonni, girare e spendere“, come auspica Salvini, ma al netto di un’eventuale pensione integrativa di soldi in tasca ne avrebbero ben pochi.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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