AEROPORTI, I 9 SCALI SENZA PASSEGGERI CHE BRUCIANO MILIONI DI SOLDI PUBBLICI
L’INCHIESTA DI MILENA GABANELLI SUL CORRIERE DELLA SERA
Era il 1973 quando l’economista-filosofo Ernst Friedrich Schumacher scrisse «Piccolo è bello». Nella sua analisi suggeriva di suddividere le grandi imprese in più virtuose micro-strutture, anche perché i grandi gruppi traggono benefici dalle infrastrutture create con spesa pubblica, ma a vantaggio di pochi. Da allora il mondo è cambiato ma se, per esempio, parliamo dei piccoli aeroporti italiani, basta guardare i loro bilanci per vedere che spesso vengono tenuti in piedi succhiando denaro pubblico più per interesse politico o di qualche lobby che per le reali ricadute sulla comunità locale.
La linea rossa
In Italia abbiamo 41 scali commerciali gestiti da una trentina di società diverse, che nella maggioranza dei casi rappresentano un mix di pubblico e privato. Un report commissionato da Aci Europe e Assaeroporti e trasmesso a settembre 2024 alla Commissione europea, mostra la relazione tra la dimensioni degli aeroporti e la loro capacità di realizzare profitti e di avere solidità finanziaria: nel 2023 sono transitati dai nostri scali 197 milioni di passeggeri complessivi, ma il 76% si sono concentrati nei 10 aeroporti più grandi. Per farsi un’idea, Roma-Fiumicino da solo muove oltre 40 milioni di persone, Milano-Malpensa 26, Bergamo 15 milioni, Napoli 12, Venezia 11. Agli altri,restano le briciole e questo mette in seria discussione la loro stabilità. La linea rossa di sopravvivenza – si legge nel report – si posiziona sul milione di passeggeri. E se si scende a meno di 500mila, senza l’aiuto dello Stato è pressoché impossibile stare in piedi.
La regola: fare sistema
Chi conosce bene i conti è il presidente Assaeroporti Carlo Borgomeo: «Se i piccoli aeroporti italiani non vogliono integrarsi con i grandi, non ce la possono fare: si faranno la guerra e moriranno tutti. A meno che la comunità decida che avere quello scalo è proprio indispensabile, ma allora dovrà prepararsi a pagare l’ira di Dio». Che le cose stiano in questi termini, lo sanno bene i gestori che ogni anno si svenano per tenere in vita i piccoli scali. L’alternativa alla chiusura è quella di fare squadra creando sistemi regionali dove gli aeroporti maggiori fanno da stampella agli altri. Aeroporti di Puglia, ad esempio, gestisce Bari (decimo scalo d’Italia con 6,4 milioni di passeggeri) e Brindisi (oltre 3 milioni), ma anche i piccoli di Foggia (48.900) e Taranto (1.080) . A Nordest invece c’è la società Save che gestisce il «Marco Polo» di Venezia (11 milioni) e Treviso, (3 milioni) ma controlla anche Verona (3,4 milioni di passeggeri) e Brescia (8.831).Se poi vogliamo prendere come parametro un modello economicamente più redditizio bisogna guardare alla Spagna, dove un’unica società statale controlla quasi tutti gli aeroporti, registrando utili per 2 miliardi l’anno.
I piccoli aeroporti di provincia
Dei 18 aeroporti italiani sotto il milione di passeggeri, il professor Ugo Arrigo del Centro di ricerca di economia industriale e pubblica (Cesisp) dell’Università Bicocca, ne individua 8 che non fanno sistema e la cui tenuta, sulla base dei bilanci degli ultimi dieci anni, è a rischio. Fra questi, Trieste, Pescara, Perugia e Rimini: alternano conti in rosso ad annate in leggero utile. Sono tutti sopra al mezzo milione di passeggeri l’anno, tranne Rimini che infatti nel 2013 era perfino fallito, salvo poi risorgere e tentare il rilancio. Si può aggiungere Trapani, che fino al 2022 perdeva -2,3 milioni di euro con 890mila passeggeri, ma nel 2023 ha portato i viaggiatori a quota 1,3 milioni tornando così in utile. «Questi aeroporti – spiega Arrigo – con una gestione oculata, anche senza il ricorso ad aiuti pubblici possono sperare di raggiungere un equilibrio e arrivare quindi all’autosufficienza». Gli scali da bollino rosso sono invece Ancona, Forlì, Parma e Cuneo: tutti da mezzo milione di passeggeri in giù, e tutti stabilmente in perdita. «Sono gli aeroporti più problematici, ai quali servono continue iniezioni di liquidità. Non significa che vadano per forza chiusi, ma senza un vero piano di rilancio o un’alleanza con altri aeroporti, probabilmente sono condannati a non essere in grado di mantenersi da soli».
L’esempio di Parma
Per capire cosa significhi tenere in vita un piccolo aeroporto, prendiamo il «Giuseppe Verdi» di Parma. L’hanno definito «un morto che cammina»: 134mila passeggeri, bilanci disastrosi. A volerlo sono stati i grandi industriali come i Barilla, i Pizzarotti (che tuttora detengono quote) e Calisto Tanzi. A gestirlo è Sogeap: fin dalla nascita con maggioranza ai privati e il resto ai soci pubblici a cominciare da Comune, Provincia e Camera di commercio di Parma, che difendono con i denti lo scalo cittadino, sebbene a un tiro di schioppo ci siano gli aeroporti di Bologna e Linate. Un mix di orgoglio e campanilismo. Nel 2006 la Regione Emilia Romagna – che all’epoca partecipa alla gestione di Bologna, Forlì e Rimini – propone a Sogeap di entrare con una quota per costruire una Rete Regionale che garantisca a tutti una fetta di mercato. La risposta dei soci: «Un aeroporto e una città come Parma non possono fare accordi con Bologna, abbiamo già avviato trattative con Milano e Roma, ritenute più in linea con le nostre ambizioni». Alla fine non viene fatta alcuna alleanza e oggi, in un esposto presentato in procura a Parma dall’avvocato Veronica Dini, si analizzano 82 milioni di perdite degli ultimi 31 anni. Tutti in rosso tranne uno, quello del 2018. Il caso vuole che proprio quell’anno Enac versi 1,2 milioni relativi a un vecchio contenzioso, mentre altri 1,7 milioni di debiti vengano dichiarati prescritti. Senza quell’intervento Sogeap avrebbe perso la concessione. Resta il fatto che tenere in vita lo scalo costa a soci pubblici, Enac e ministeri oltre 65 milioni di euro
L’affaire Gazzetta di Parma
Quando il passo è più lungo della gamba c’è sempre qualcuno che paga il prezzo. Nel 2019 Sogeap perde il suo maggior azionista, Meinl Bank, che Oltreoceano finisce in un’inchiesta per riciclaggio. A tappare il buco interviene l’Unione Parmense degli Industriali (Upi) con 8,5 milioni. Upi però controlla anche la Gazzetta di Parma e, poco dopo, circa la stessa somma viene tolta dal capitale sociale dello storico giornale della città. Da una parte quindi si salva l’aeroporto, dall’altra – osserva «con sgomento» il comitato di redazione del quotidiano – la Gazzetta di Parma è costretta a chiedere al ministero lo stato di crisi con avvio del piano di prepensionamenti e cassa integrazione. A carico della spesa pubblica.
I 12 milioni per i cargo
In quegli anni entra nel vivo il Piano di rilancio che punta a trasformare l’aeroporto in uno scalo di riferimento per il trasporto merci. Per farlo – spiega Sogeap – occorre prima allungare la pista e creare un hub logistico: progetto da 20,8 milioni. La Regione ci crede e ne mette 12, presi dal Fondo Sviluppo e Coesione. Iniziano gli espropri e Sogeap prevede che, terminati i lavori nel 2025, entro un paio d’anni i conti saranno finalmente in attivo. Merito delle 53mila tonnellate di merci l’anno che gireranno sullo scalo? Non esattamente. Il24 luglio 2023 il presidente di Sogeap, Guido Dalla Rosa Prati, convocato in Comune dice: «Il trasporto merci è stata una scusa che ho utilizzato per portare a casa i 12 milioni. Ma qui parliamo di trasporto passeggeri…». A giugno 2024 la canadese Centerline Airport Partners si prende il 51% di Sogeap e conferma che a loro le merci interessano poco, ma vogliono arrivare «a 700mila passeggeri entro 5 anni». Prima però serve un nuovo aumento di capitale da circa 6 milioni: Comune e Provincia non parteciperanno perché la legge vieta agli enti pubblici di investire in società partecipate stabilmente in perdita. E allora qual è il piano?
La via d’uscita
A Parma volano solo due compagnie, Ryanar e FlyOne, che garantiscono qualche collegamento con Cagliari, Palermo, Malta e Chişinău (Moldavia). Come abbiamo detto, muovono in tutto 134mila passeggeri l’anno. Per superare la soglia che metterebbe al sicuro i conti, si dovrebbe strappare quasi un milione di passeggeri agli altri aeroporti della zona, a cominciare da quello di Bologna che ne muove 10 milioni (il 95% del traffico regionale). Ma perché Bologna dovrebbe lasciarseli portare via? Governo ed Enac dicono di essere pronti a mettere dei limiti allo sviluppo di Bologna così da costringerlo a cedere alcune tratte o, meglio ancora, a entrare direttamente in società con gli aeroporti vicini, cominciando proprio dal «Giuseppe Verdi» e da Forlì. Bologna replica: «Siamo quotati, quindi diamo via libera soltanto a operazioni che abbiano un senso dal punto di vista del mercato». Tradotto: le alleanze le faremo solo se ci conviene.
Milena Gabanelli e Andrea Priante
(da il corriere.it)
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