ALITALIA, QUANTO CI E’ COSTATA L’INCAPACITA’ DI MANAGER E POLITICI: I CONTI DEL DUEMILA
L’INCHIESTA DEL “CORRIERE DELLA SERA”
È il 5 maggio del 1947 e dalla pista lunga dell’aeroporto di Torino decolla un Fiat G.12 scampato alla guerra. Ai comandi c’è il colonnello Virginio Rainero, chiamato a trasportare – in un paio d’ore – 18 passeggeri da Torino a Roma. Si inaugura così Alitalia. Da quel primissimo volo commerciale sono passati 78 anni e 67 governi. E quando le cose hanno cominciato a mettersi davvero male, tutto quello che ricordiamo sono gli slogan: «Io amo l’Italia e volo Alitalia» (Berlusconi); «Il decollo di Alitalia è il decollo dell’Italia» (Renzi). L’ordine politico era di tenere «in casa» la compagnia di bandiera. Che ora finisce nelle stesse mani tedesche che l’avrebbero voluta già 17 anni fa. Ma quanto c’è costata l’incapacità politica e manageriale in nome dell’orgoglio nazionale? Il Centro ricerca di economia industriale dell’Università Bicocca ha analizzato per Dataroom tutti i bilanci dal Dopoguerra in avanti, oltre ai contributi, alla cassa integrazione, ai prestiti mai restituiti, aggiornando le cifre ai valori attuali. Salta fuori che tenerci stretta la compagnia di bandiera è costato agli italiani quasi come l’intera manovra 2025, o due ponti sullo Stretto, quattro Mose, undici Salerno-Reggio Calabria.
Gli anni d’oro e le prime difficoltà
La storia era partita proprio bene. Per i primi vent’anni, Alitalia va alla grande: nel ’69 ha in pancia utili per 635 milioni di euro attuali, vale a dire 16 miliardi di lire dell’epoca. Un tesoretto che però si esaurisce con la crisi petrolifera del 1973. Negli anni Ottanta i bilanci tornano in attivo e ci restano fino al 1988, poi cominciano a peggiorare, ma non per cattiva gestione: nel 1992 – l’anno della crisi valutaria – Alitalia accumula perdite per 1,5 miliardi, quasi tutte sulle spalle dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale che controlla la compagnia di bandiera. Intanto il mondo del trasporto aereo sta cambiando: nel ’97 l’Ue liberalizza anche i voli domestici e sbarcano le prime low cost. Per battere la loro concorrenza bisogna puntare sul lungo raggio, che significa trovare finanziamenti dai privati per l’acquisto di nuovi aerei. Le principali compagnie europee – fino a quel momento quasi tutte in mano ai rispettivi Stati – corrono a quotarsi in Borsa. Alitalia resta saldamente sotto il controllo pubblico e nel 1999 salta pure il confuso tentativo di integrazione con gli olandesi di Klm (durato 9 mesi). Tirando le somme, il millennio si chiude con perdite complessive a quota 2,5 miliardi.
Dall’Iri al Mef
Negli anni Novanta l’Iri è in affanno e accumula enormi debiti legati soprattutto alla crisi delle aziende siderurgiche. L’Europa spinge perché lo Stato venda le partecipazioni e alla fine l’Istituto finisce in liquidazione. Nel 2000 Alitalia passa sotto il controllo del ministero dell’Economia, che dovrebbe trovare altri operatori per rimpinguare la cassa e avviare un nuovo piano operativo. Invece si ritrova a gestirla direttamente per otto anni. Per il Centro ricerca della Bicocca, è questo il punto di svolta: «Da qui in avanti i bilanci iniziano a precipitare – spiega il prof Ugo Arrigo – probabilmente perché ancora non si espande né si rinnova la flotta per far fronte alla crescita del mercato, ma soprattutto perché il Mef, a differenza dell’Iri, non era strutturato per governare grandi aziende».
Le altre compagnie si fondono fino a diventare dei colossi dell’aviazione: Klm con Air France, British Airways con Iberia, Lufthansa incorpora Swiss, Austrian e poi Brussels Airlines. Noi invece chiamiamo a risanare l’azienda i boiardi di Stato: difficile scordare i 3 anni di pessima gestione dell’allora presidente e amministratore delegato Giancarlo Cimoli. Sta di fatto che dal 2000 al 2008 Alitalia perde altri 7,2 miliardi di euro, per il 60% sulle spalle dell’azionista pubblico. Si apre la fase del commissariamento e della liquidazione, che ci costa un patrimonio: 300 milioni di prestito-ponte mai restituito, 447 di obbligazioni dello Stato che vanno in fumo, un ulteriore miliardo di passività emerse, e poi ci sono le obbligazioni dei privati rimborsate dallo Stato, la cassa integrazione… In totale si bruciano 5,4 miliardi: 4,1 di soldi pubblici; 1,3 miliardi a carico dei creditori di Alitalia che non vengono rimborsati. A quel punto una fusione pare inevitabile.
Dal 2009 al 2017: l’Alitalia privata
Sono mesi di trattative serrate. Quelle alla luce del sole con Air France, dove è l’ostilità dei sindacati a far saltare il banco. E quelle sottotraccia con Lufthansa. La scena è gustosa: 26 maggio 2008, a Villa Almone, residenza privata dell’ambasciatore tedesco Michael Steiner, si incontrano Gianni Letta, Roberto Colaninno e un top manager della Compagnia tedesca. Lufthansa vorrebbe una bancarotta pilotata: per una manciata di soldi si accollerebbe tutto, buono e cattivo, debiti e personale. «Ma loro non l’accetteranno – confiderà Steiner – perché Berlusconi ha promesso che avrebbe trovato la cordata italiana, e ci perderebbe la faccia».
Infatti Berlusconi chiama a raccolta i Capitani coraggiosi guidati proprio da Colaninno, e nel 2009 nasce la privatizzata Alitalia Cai. La fusione con Air-One sarà più un affare per il Gruppo Toto che per la nascente Compagnia, che non decolla: manca un vero piano di investimenti sul lungo raggio, mentre sul mercato domestico spopolano le low cost e sulla tratta Milano-Roma arriva la concorrenza dei treni ad alta velocità. In cinque anni si sommano perdite per 2,8 miliardi. Nel 2015 esce Cai ed entra Etihad Airways. La Compagnia araba annuncia finalmente l’intenzione di investire sul lungo raggio mettendo a disposizione i propri aerei, ma poi non lo fa e in tre anni accumulano 2 miliardi di perdite. Affari loro? Non del tutto, visto che lo Stato deve provvedere alla cassa integrazione, costo: mezzo miliardo.
Dal fallimento a Ita Airways
Nel 2017 Etihad lascia e si apre un nuovo commissariamento. Il prezzo è di 6,5 miliardi, di cui 3,9 miliardi a carico del pubblico tra prestiti-ponte, sostegni Covid e cassa integrazione; 2,6 miliardi di mancati pagamenti a fornitori e creditori privati. Nel 2021 dalle ceneri di Alitalia nasce «Italia Trasporto Aereo» (detta Ita), interamente partecipata dal Mef: i bilanci fino al 2023 segnano perdite complessive per 700 milioni, tutti pubblici. Ad aprile si conosceranno le perdite del 2024, che secondo gli esperti ammonterebbero a circa 50 milioni.
Il prezzo dell’italianità
«Alitalia – conclude il prof. Arrigo – è stata gestita secondo logiche non di mercato, senza visione strategica né capacità manageriali. Tutto pur di tenere il vettore in mani italiane, sotto controllo politico e anche sindacale». Le cifre del Cesisp: la Compagnia di bandiera è costata al Paese 27,6 miliardi di euro (di cui 25,1 dal Duemila): 16,3 a carico dei contribuenti e 11,3 sulle spalle di azionisti e creditori privati. Vale a dire, quattro volte l’attuale valore di borsa di Lufthansa, la compagnia tedesca prossima a prendersi con 325 milioni il 41% di Ita, e destinata anche a scegliere la catena di comando. E, se lo vorrà, con altri 504 milioni, nel giro di qualche anno, potrà acquisire la totale proprietà.
Milena Gabanelli e Andrea Priante
per il corriere.it
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