ALTRO CHE FINANZIARIA, NEI PROSSIMI SETTE ANNI CI SARA’ DA PIANGERE: PER IL DEFICIT, LA RIDUZIONE È DRASTICA (13 O 14 MILIARDI ALL’ANNO FINO AL 2032). LA SPESA PUBBLICA DOVRA’ RIDURSI MA CI SONO LA DIFESA DA FINANZIARE, GLI STIPENDI DEGLI STATALI DA REINTEGRARE E LA SANITÀ DA RAFFORZARE
C’È IL PNRR DA SPENDERE: A OGGI I RITARDI SONO COSÌ MACROSCOPICI CHE NEI PROSSIMI DUE ANNI RESTANO IN TEORIA CIRCA 150 MILIARDI SU 194, DI CUI BEN CENTO DI PRESTITI EUROPEI. E QUESTI ULTIMI NEL DEFICIT E NELLA SPESA PUBBLICA SI CONTANO ECCOME, MINACCIANDO DI FAR SALTARE LA “TRAIETTORIA TECNICA” CHE IL GOVERNO DEVE RISPETTARE
Ancora poche settimane e l’Italia invierà a Bruxelles il suo piano di rientro del deficit e del debito pubblico. Da quel momento saremo in pieno nel nuovo sistema di regole europee, che il governo ha firmato ma nessun eurodeputato dei principali partiti italiani — maggioranza e opposizione per una volta unite — ha accettato di votare. Ora comunque le regole ci sono e dovremo conviverci.
Un punto già chiaro è che sceglieremo un percorso di rientro diluito in sette anni — con precisi impegni di riforme e investimenti — invece del programma concentrato e brutale di quattro. L’intero Paese si sta dunque imbarcando in un viaggio destinato a sfociare nel 2032; eppure, si direbbe, né la destinazione né le tappe interessano granché a nessuno. Forse è fisiologico, per l’Italia. È sempre andata così fin da quando si firmò il trattato di Maastricht nel 1992. Con le implicazioni siamo abituati a fare i conti solo quando ci sbattiamo contro.
E anche stavolta l’attenzione si concentra tutta sull’immediato: la prossima legge di Bilancio e le misure una tantum — dalla decontribuzione alle nuove aliquote sui redditi personali — da rifinanziare in modo stabile per ben 21 miliardi di euro.
Su questo fronte, il gioco a incastri potrebbe rivelarsi meno difficile di quanto si pensasse fino a qualche tempo fa, per almeno due ragioni. In primo luogo è plausibile che la Francia, l’altro Paese problematico, riceva a Bruxelles un trattamento in guanti bianchi vista la fragilità dei suoi assetti politici.
La sostanza non cambia: la prossima legge di Bilancio non si profila come lo scoglio contro il quale sia destinata a sfasciarsi la caravella del governo. Niente di tutto questo. Sarà giusto un passaggio di una navigazione comunque delicata, proprio perché si tratta di un viaggio in sette anni e non su un’unica tappa. È il caso dunque di misurare bene i prossimi appuntamenti e le regole del gioco.
La regola più importante è stata riservatamente comunicata dalla Commissione europea al governo nelle scorse settimane e verrà resa nota in autunno. È la cosiddetta «traiettoria tecnica», frutto di un’«analisi di sostenibilità» del debito pubblico italiano che tiene conto di tutto: la nostra capacità di crescita, l’invecchiamento della popolazione, l’eredità del Superbonus, il livello del debito stesso e i tassi d’interesse.
È un check up dell’Italia fatto a Bruxelles. Il risultato è che — ci è stato «raccomandato» — l’aumento della spesa pubblica sui prossimi sette anni dovrebbe essere dell’1,6% all’anno al massimo, contato in quantità di euro sborsati. Non oltre. E la riduzione «strutturale» del deficit dovrebbe essere dello 0,6% del prodotto lordo all’anno per adesso e dello 0,67% verso la fine del periodo di sette anni.
Che significa? Per il deficit, la riduzione è drastica — 13 o 14 miliardi all’anno fino al 2032 — ma in parte essa è già insita nelle tendenze automatiche dei conti, se non si fanno altre mosse troppo costose. Per la spesa pubblica, la raccomandazione di Bruxelles comporta che le uscite dello Stato di fatto dovranno ridursi o restare bloccate in termini reali (al netto dell’inflazione) e diminuire in proporzione alle dimensioni dell’economia italiana. Fino al 2032. E questa è già una sfida più seria.
Non solo perché ci sono la difesa da finanziare, gli stipendi degli statali da reintegrare dopo il grande carovita e la sanità da rafforzare, prima che l’accesso a esami e cure diventi un privilegio per pochi benestanti. C’è anche il Piano nazionale di ripresa da spendere. Ad oggi i ritardi del Pnrr sono ormai così macroscopici che nei prossimi due anni restano in teoria circa 150 miliardi su 194, di cui ben cento di prestiti europei.
E questi ultimi nel deficit e nella spesa pubblica si contano eccome, andando a gonfiare entrambi e minacciando di far saltare la «traiettoria tecnica» che il governo deve rispettare. A quel punto l’Italia andrebbe in difficoltà. È per questo che Giorgetti chiede un rinvio al 2028 delle scadenze del Pnrr. Ed è probabilmente per questo che Giorgia Meloni pensa di designare il ministro Raffaele Fitto a Bruxelles come commissario europeo, sperando che lui riesca a negoziare il prezioso rinvio.
Per l’Italia questo è uno dei punti critici dei prossimi anni. Siamo indietro e per cavarcela abbiamo bisogno di un grosso favore, dalla Commissione e dagli altri governi. Ciò peserà adesso che Ursula von der Leyen si gioca la riconferma a Bruxelles. Su di lei Giorgia Meloni si è già astenuta al Consiglio europeo. Ma se la prossima settimana neanche gli eurodeputati del partito della premier votassero la fiducia a von der Leyen, di quanto ne risulterà più facile il viaggio dell’Italia nei prossimi anni?
(da Corriere della Sera)
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