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AREZZO E LA BANCA ETRURIA: COSI’ E’ STATO RASO AL SUOLO IL FEUDO DELLA FAMIGLIA BOSCHI

L’EX DEL CDA: “LASCIAI PER GLI ENORMI CONFLITTI D’INTERESSE…. “I CONSIGLIERI SI AFFIDARONO 220 MILIONI CON DISINVOLTURA”

Al caffè Michelangelo, l’unico bar nel centro storico di Laterina, si gioca a carte. Scopa. La posta è qualche bicchiere. Qui ancora si paga a consumo.
“Il caffè correggilo a dieci centesimi che ho giusto un euro”, sono le richieste tipo dei pensionati presenti.
Ai tavoli, tra un’imprecazione e l’altra, qualcuno bofonchia delle sorti di banca Etruria. Ma i commenti si limitano alle spallucce, nel tempo che serve a mischiare e ridistribuire le carte.
Eppure questo è il paese della famiglia Boschi.
Nella piazza su cui affaccia il bar c’è la chiesa in cui Maria Elena è cresciuta e che tutt’ora frequenta, accanto il Comune di cui Stefania Agresti, mamma del ministro, è vicesindaco. Li conoscono tutti, i Boschi.
Qui nel 1948 è nato Pier Luigi, diventato prima latifondista, poi presidente di Confcooperative, consigliere della Camera di Commercio fino al 2013 e l’anno successivo vicepresidente della banca d’Etruria nella quale il fratello di Maria Elena, Emanuele, ha fatto un’ottima carriera.
Entrato poco prima del 2010 oggi è un dirigente con un contratto quadro di secondo livello e percepisce anche un compenso premio che in banca chiamano “personam”.
È il numero due dell’ufficio incagli, quello da cui passano i crediti che non si riescono a recuperare e finiscono nel pozzo dei deteriorati.
Voce che per l’Etruria è da anni la più importante a bilancio. Dal 2012, per l’esattezza
Da piccolo istituto a gigante dai piedi d’argilla
Da qui inizia la storia che trasforma la banca dell’oro in banca del buco con 2,8 miliardi di sofferenze e un patrimonio ridotto a poco meno di 20 milioni.
Storia ricostruita da Bankitalia nell’ispezione terminata nel 2014 e che ha poi dato avvio all’inchiesta della Procura di Arezzo nei confronti dei vecchi e nuovi vertici per vari reati – tra cui ostacolo alla vigilanza – aperta dal procuratore capo, Roberto Rossi. Storia che inizia nel 2012 quando ancora bastava un aumento di capitale per tentare di recuperare le perdite che già  ammontavano a 1 miliardo 260 milioni di euro. L’aumento andò in porto ma gli ispettori di Banca d’Italia, all’epoca già  ad Arezzo, ebbero da ridire: verificarono che molti affidamenti inferiori ai 300 mila euro concessi con crediti chirografari, cioè senza garanzie, non erano stati riportati e conclusero che i fondi deteriorati erano sottostimati del 19,7%.
C’erano dunque altri 136 milioni di fondi elargiti e persi. Ma l’istituto mostrava ancora solidità .
I 342 milioni di capitale sociale erano garantiti da 252 milioni di azioni in mano a circa 60 mila soci e il titolo nel febbraio 2012 valeva 3,92 euro.
Etruria sembrava dunque essere riuscita a digerire l’esborso di 120 milioni di euro per acquistare la banca privata fiorentina Federico del Vecchio, cassaforte della borghesia toscana, pagata ben 80 milioni più di quanto stimano da San Marino.
Sembrava aver superato anche l’acquisizione della banca Lecchese, l’acquisto di 14 sportelli di Unicredit per oltre 40 milioni e persino l’incorporazione di ConEtruria ed Etruria Leasing.
In quel 2012 non era più la banca di mutua popolare nata nel 1882 radicata nel territorio e all’agricoltura, non era neanche più la banca dell’oro, legata allo sviluppo degli orafi aretini, sembrava diventata un gigante rispetto alle origini.
Sembrava.
Il cda guidato da Giuseppe Fornasari – con vice Lorenzo Rosi e tra i consiglieri Pier Luigi Boschi — porta a bilancio 1,5 miliardi di sofferenze.
Il 25 febbraio 2013 il titolo che un anno prima valeva 3,92 euro, crolla a 1 euro e 20 centesimi. Ad aprile la singola azione scende sotto l’euro.
Per rimanere a Piazza Affari con un valore non troppo ridicolo il consiglio decide di dare il via a un’operazione cosiddetta di raggruppamento: a ogni 5 azioni sarà  corrisposta una sola azione.
Il passaggio avviene il 29 aprile 2013 e il titolo chiude a 0,93 centesimi. In pratica il valore reale delle singole azioni era inferiore ai 20 centesimi. Banca d’Italia interviene nuovamente.
Impone il rinnovo del cda e caldeggia un “matrimonio” con un istituto capace di assorbire le perdite dell’Etruria.
Nel maggio 2014, con il titolo a 0,70 centesimi, si fa avanti la popolarediVicenzaconun’offerta pubblica di acquisto vantaggiosa: 1 euro ad azione. Il cda però rifiuta.
Nel frattempo il board aveva quasi cambiato volto. In realtà , ha tra l’altro contestato Palazzo Kock nel decreto con cui l’11 febbraio scorso ha commissariato l’istituto, è cambiato solo il presidente: non più Fornasari ma Rosi.
Che però era vice di Fornasari. Mentre il numero due, Pier Luigi Boschi, era già  consigliere nel 2011.
Verso la class action per tutelare i piccoli azionisti
Insomma, secondo gli ispettori di Banca d’Italia non è stata attuata l’invocata discontinuità .
E oggi, con i commissari a controllare i conti, anche ad Arezzo molti fanno spallucce, come al caffè Michelangelo di Laterina.
“Doveva essere commissariata un anno fa”, ne è certo Vincenzo Lacroce. Quando la procura dispose le perquisizioni.
“Io lo dissi allora e lo ripeto oggi: doveva arrivare prima Banca d’Italia”. Lacroce parla con cognizione di causa.
Non solo è stato per oltre venti anni ispettore di Palazzo Kock, ma da quando è in pensione guida l’associazione amici di banca Etruria, è socio e azionista della popolare e nel 2014 gli è stato proposto di entrare nel cda. Ma rifiutò. Un altro profondo conoscitore della banca è Rossano Soldini.
Imprenditore, Soldini ha un pacchetto personale di 150 mila azioni dell’Etruria (Boschi, per dire ne ha meno di 600) e fece il suo ingresso nel cda nel 2007 ma nel 2012 lasciò “dopo aver scoperto gli enormi conflitti di interessi di vari consiglieri”, ricorda.
“Denunciai oltre 220 milioni di euro che i consiglieri si affidavano con disinvoltura, poi l’elezione di Fornasari con 8 voti a favore e 7 contrari ma tra i favorevoli venne conteggiata la preferenza di un consigliere che non avrebbe potuto votare perchè superato l’ammontare degli affidamenti”.
Insomma “per me era impossibile rimanere in consiglio”. Ora “dobbiamo pensare a una class action e tentare di restituire la banca agli aretini, ai cittadini, a questo territorio”.
Sottrarla, dice, “a chi l’ha condotta qui mischiando le carte”.
Un po’ come al caffè Michelangelo di Laterina, sempre che i commissari di Bankitalia riescano a trovare il modo di organizzare un’altra mano.

Davide Vecchi
(da “il Fatto Quotidiano”)

This entry was posted on domenica, Febbraio 22nd, 2015 at 23:35 and is filed under denuncia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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