BRUXELLES HA FINITO GLI AIUTINI ALL’ITALIA SUL PNRR: DOPO AVER ACCETTATO LE VARIE REVISIONI AL PIANO, LA COMMISSIONE EUROPEA FA SAPERE CHE NON C’È SPAZIO PER UNA PROROGA DELLE SCADENZE DAL 2026 AL 2027 PER METTERE A TERRA GLI INVESTIMENTI, COME VORREBBE GIORGETTI
IL COMMISSARIO AL BILANCIO, PIOTR SERAFIN, È STATO CHIARO: BISOGNA RISPETTARE LA TABELLA DI MARCIA CONCORDATA NEL 2020 … È SCONTRO TRA IL MINISTRO DEL TESORO E MELONI, CONTRARIA A UNA PROROGA PERCHÉ NON VUOLE AMMETTERE I PESANTI RITARDI
La prima reazione, a caldo, ha la traccia della chiusura in Europa e della diffidenza a Palazzo Chigi. Di fronte alla proroga del Pnrr, che Giancarlo Giorgetti si appresta a chiedere all’Ecofin informale dell’11 e 12 aprile, Bruxelles tiene il punto. Così: la scadenza del 2026 non si tocca.
L’Ue non può bloccare a priori il tentativo del ministro dell’Economia, ma il commissario al Bilancio, Piotr Serafin, mette subito le cose in chiaro: il percorso è lungo. Soprattutto richiede il consenso dei Ventisette che siedono nel Consiglio e la ratifica da parte dei parlamenti di tutti i Paesi dell’Ue.
Serafin consegna il messaggio ai parlamentari italiani che lo incontrano nella sala Isma del Senato. A sondare le possibilità di successo della mossa di Giorgetti è la senatrice del Pd, Beatrice Lorenzin. Chiede al commissario europeo se l’Italia può allungare il Piano nazionale di ripresa e resilienza fino al 2027. La risposta, viene
riferito dai dem, è negativa.
Il messaggio è un altro: tutti i Paesi devono impegnarsi a rispettare la tabella di marcia concordata nel 2020. Gli aggiustamenti sono possibili, una nuova revisione sarà ammessa, ma il perimetro delle concessioni si chiude qui.
Quello di Serafin potrebbe non essere un messaggio solitario. Lunedì sera toccherà al collega agli Affari economici, Valdis Dombrovskis, affrontare la questione durante il cosiddetto dialogo con gli europarlamentari. Accanto a lui siederà il vicepresidente esecutivo della Commissione, Raffaele Fitto. La primissima fila dell’esecutivo europeo. E i segnali che nelle ultime ore arrivano da Bruxelles dicono che la posizione sull’ipotesi di un rinvio del Piano italiano sarà ferma. Netta: non è prevista alcuna proroga, il termine è il 2026.
La strada per Giorgetti si prospetta in salita, ma lo schema della proroga poggia sulla possibilità di coinvolgere, già nelle prossime settimane, un numero importante di Paesi. D’altronde, viene fatto notare in ambienti della maggioranza, anche lo scorporo delle spese per la difesa dal deficit era nato come un’iniziativa solitaria, arrivando alla fine a incassare il via libera della Commissione.
Le ragioni del rinvio guardano anche alla tutela dei conti pubblici: spalmare la spesa del Pnrr su un arco temporale più lungo ridurrebbe l’impatto sul debito nel 2025-2026, soprattutto considerando che circa 50 dei 72,3 miliardi legati alle ultime quattro rate del Piano sono prestiti, quindi debito. Senza considerare gli interessi da pagare e il capitale da restituire che fanno riferimento alle prime tranche.
Le ragioni del ministro dell’Economia non convincono Giorgia Meloni. La premier è contraria alla proroga. A chi ha avuto modo di sentirla ha spiegato che una richiesta di rinvio oggi, quando manca ancora più di un anno alla scadenza, rischia di trasformarsi in un boomerang. E quindi di sconfessare il messaggio che lei stessa ha affidato alla premessa della relazione sull’attuazione del Piano approvata ieri dalla cabina di regia che si è riunita a Palazzo Chigi.
Il rischio, per la premier, è passare dal Paese che ha incassato più di tutti in Europa, arrivando prima degli altri anche sulle richieste di pagamento, a quello che autocertifica errori e ritardi. Non solo. Parlare ora di rinvio — è il ragionamento — porterebbe ministeri e Comuni a mollare la presa. Proprio adesso che, come ha sottolineato il titolare del Pnrr, Tommaso Foti, è arrivato invece «il momento della responsabilità».
I dubbi arrivano a lambire i numeri con cui la Ragioneria ha certificato la spesa a rilento. Al punto che nella maggioranza circolano altri dati: la messa a terra delle risorse viaggerebbe con una media di 2 miliardi al mese e sarebbe già arrivata a 75 miliardi, undici in più rispetto a quelli conteggiati dal Mef. La distanza sarebbe
dovuta a una rendicontazione lenta, che non ha ancora preso atto degli ultimi interventi portati a termine. Una distanza che corre velenosa dentro il governo.
(da agenzie)
Leave a Reply