CANTIERE ITALIA, DRAMMA SANITA’: ECCO PERCHE’ IL SISTEMA SANITARIO STA ANDANDO IN TILT
MANCANO I MEDICI, PRONTO SOCCORSO IN AFFANNO, INFERMIERI CON TURNI MASSACRANTI, TECONOLOGIE DA RINNOVARE: IN ITALIA SI E’ SMESSO DI INVESTIRE
Quando non trovano un posto per fare la risonanza in tempi accettabili, quando aspettano troppo a lungo di entrare al pronto soccorso o non riescono a reperire qualcuno che assista un proprio caro a casa. Quando devono pagare per operarsi prima, quando fanno mille chilometri per curarsi o sono ricoverati in ospedali vecchi e scomodi. Sono molte, sempre di più, le occasioni nelle quali gli italiani vivono direttamente la crisi del sistema sanitario pubblico. Il glorioso strumento di democrazia, che dice ancora la sua a livello internazionale e vanta eccellenze di altissima specialità, scricchiola e sbuffa per la fatica. Carenze di personale, difficoltà organizzative, tecnologie da rinnovare: il timore è che sia arrivato il momento della crisi definitiva, dalla quale non si tornerà più indietro. I problemi sono diversi ma ce n’è uno che per certi aspetti li genera tutti, o comunque una buona parte: la carenza di risorse. Ci vogliono soldi per migliorare l’assistenza, estenderla, recuperare gli espulsi dal sistema. Poi, certo, è anche necessario spendere bene il denaro già a disposizione, ridurre gli sprechi, organizzarsi meglio, ma intanto partire da risorse più corpose sarebbe di aiuto.
Sono anni che il sistema italiano è sottofinanziato ma ora i numeri stanno diventando preoccupanti. La sanità è pagata prevalentemente dal Fondo sanitario nazionale, che viene suddiviso ogni anno tra le Regioni basandosi su una serie di parametri, prima di tutto la popolazione, ma anche l’età degli abitanti. Osservare solo il Fondo però non basta. Il suo valore tende infatti a salire anno dopo anno, per fronteggiare, ad esempio, l’aumento dei prezzi dei fornitori legato all’inflazione ma anche quello degli stipendi. Così, anche a livello internazionale, ci si basa sul peso percentuale della spesa sanitaria rispetto al Pil.
In Italia il rapporto spesa-Pil è basso e tenderà a scendere nei prossimi anni, a detta dello stesso governo. Nell’ultimo Def, il Documento di economia e finanza, il Mef lo ha fissato al 6,4% per quest’anno, al 6,3% per il 2025 e il 2026 e infine al 6,2% per il 2027. Il Fondo sanitario intanto cresce da 138 miliardi di euro quest’anno a 147 nel 2027, ma appunto questo dato da solo, di solito citato da Giorgia Meloni per sottolineare che il suo governo ha investito di più degli altri, non è veritiero perché l’aumento è “mangiato” dall’incremento dei prezzi. Basta vedere cosa succede alla spesa farmaceutica, che è in continua crescita. Nel 2023 è salita del 6,5% rispetto al 2022, con un aumento assoluto di 1,4 miliardi.
In passato il rapporto Spesa-Pil ha raramente superato il 7%, salvo negli anni del Covid, quando c’erano spese extra legate alla pandemia. Prima, si andava comunque meglio di oggi. Il confronto internazionale, poi, è impietoso. Nel 2022, quando da noi il rapporto Spesa sanitaria pubblica-Pil era del 6,7%, la Germania era al 10,9%, la Francia al 10,3%, il Regno Unito al 9,3%, i Paesi Bassi all’8.6%, la Spagna al 7,3%. Sotto l’Italia, e della media dei Paesi Ocse che era del 7,1%, il Portogallo (6,7%) e la Grecia (5,1%).
Ecco perché non si investe
Perché l’Italia non investe di più nella sanità? Per Renato Balduzzi, ministro della Salute durante il governo Monti, «c’è uno sbilanciamento della spesa pensionistica che non ha paragoni, nonostante le misure adottate a suo tempo dal nostro governo e dopo malamente modificate. Poi, c’è il perdurare di uno stock di evasione fiscale, anche questo sconosciuto alla gran parte degli altri Paesi. Infine, anche quando si sarebbe potuta espandere la spesa, spesso non c’è stata volontà, scelta che si può leggere in più modi. Ad esempio, si sottofinanzia il pubblico per privilegiare modelli diversi, oppure perché in un quadro di regionalismo differenziato saranno le Regioni a mettere mano al portafogli».
Beatrice Lorenzin (oggi nel Pd) è la ministra alla Salute rimasta in carica più a lungo nella storia repubblicana, cinque anni: «Si è smesso di investire nella Seconda Repubblica – dice – Si è puntato prima sulla riorganizzazione, cioè su efficienza e programmazione, e aveva senso. Con la riforma del Titolo V del 2001 c’è stata la devoluzione delle competenze sulla sanità alle Regioni ma non avevano una infrastruttura di dirigenza adeguata e sono finite commissariate. In epoca di vincoli di Maastricht l’unica spesa veramente certificata sulla quale fare tagli era quella sanitaria, così si è iniziato a spremere. Ora bisogna tornare indietro. Fare sacrifici in altri settori per finanziare la sanità».
Il personale che manca
In Italia mancherebbero circa 20 mila medici (su 136 mila) e 65 mila infermieri (su circa 400 mila). Il problema, con i camici bianchi, interessa soprattutto alcune specialità, come il pronto soccorso, la chirurgia generale, la radioterapia e comunque le discipline prevalentemente svolte all’interno del servizio pubblico. Si è sbagliato a programmare i posti nelle scuole di specializzazione, perché non si è tenuto conto delle esigenze del sistema sanitario. È ben nota la situazione dei pronto soccorso, che quasi ovunque hanno seri problemi di organico e sono in difficoltà a rispondere alla massa di pazienti che si presentano ogni giorno. Le figure che hanno grande mercato privato, come chirurghi plastici, oculisti o ginecologi, invece non sono in sofferenza.
I fenomeni che mettono in crisi le Asl sono due. Da un lato in tanti escono dagli ospedali prima della pensione perché si spostano nel privato o all’estero, dall’altro ci sono problemi in entrata, di reclutamento dei giovani. Certe scuole di specializzazione non riescono ad assegnare tutte le borse di studio bandite. Talvolta si fermano sotto la metà. «Solo nel 2023 sono stati 3 mila i medici tra i 43 e i 55 anni che hanno lasciato il lavoro prima del tempo – spiega Pierino Di Silverio, segretario del sindacato degli ospedalieri con più iscritti, Anaao – Se ne sono andati per i carichi di lavoro, per la mancanza di sicurezza, per l’impossibilità di fare carriera». Poi ci sono posti dove i giovani non vogliono lavorare. «È il caso dei pronto soccorso – dice sempre il sindacalista – Bisognerebbe contrattualizzare gli specializzandi per alzargli gli stipendi, fermi a 1.500 euro al mese, e dare loro diritti che adesso non hanno». Da tempo il ministero alla Salute parla di aumenti di stipendio, per adesso riconosciuto solo a chi lavora nell’emergenza. «Non basta di certo – attacca Di Silverio – I medici italiani guadagnano molto meno dei colleghi europei. Per attrarre professionisti bisogna pagarli bene, intanto detassare una parte dello stipendio. Il governo deve smettere di proporre tariffe più alte per gli straordinari, come nel recente decreto sulle liste di attesa, perché va premiato il lavoro ordinario. Bisogna fare assunzioni e dare a tutti paghe più alte». Anche i medici di famiglia vivono una situazione difficile, perché i pensionati sono più numerosi degli iscritti ai tirocini.
Le carenze più critiche riguardano gli infermieri. Secondo la Corte dei conti ne mancano 65 mila. «Ma la situazione è destinata a diventare più grave con i prossimi pensionamenti: dal 2023 al 2033 saranno 113.000, ai quali si aggiungeranno uscite per altri motivi». A parlare è Barbara Mangiacavalli, presidente di Fnopi, la Federazione degli Ordini degli infermieri: «Le carenze nascono dal blocco delle assunzioni, ma anche dalla mancanza di attrattività della professione. Oggi un infermiere trova subito lavoro, ma poi resta bloccato per 30 anni senza crescita di carriera. È prioritario intervenire sull’incremento della base contrattuale e serve lavorare per migliorare il percorso universitario». Mangiacavalli dice che «l’impegno degli infermieri è spesso ai limite anche della tolleranza fisica conseguenza del ricorso agli straordinari». Bisognerebbe puntare sempre di più sull’assistenza territoriale. «Senza infermieri non c’è futuro».
Ospedali e attrezzature vecchie
Non è solo una questione di persone ma anche di spazi. L’Italia deve rinnovare il suo parco ospedali. Le strutture sanitarie sono vecchie. Solo il 18% dei luoghi di cura ha meno di 34 anni. Sono ben più numerosi gli ospedali tirati su prima della fine della Seconda guerra mondiale, cioè fino al 1945. Sul totale nazionale sono il 27%. Proprio sulle strutture c’è stato alcuni mesi fa uno scontro tra Regioni e governo. Il Piano nazionale complementare (Pnc) al Pnrr prevedeva infatti lo stanziamento di 1,2 miliardi di euro per interventi la messa in sicurezza antincendio e antisismica degli ospedali. Soldi in molti casi già impegnati dalle amministrazioni locali. Il ministro al Pnrr Raffaele Fitto ha fatto sapere che quel denaro non è più disponibile e ha invitato le Regioni a reperire le risorse nel cosiddetto “Articolo 20”, un fondo per interventi su immobili sanitari. «Sono tagli», hanno denunciato le Regioni, sostenendo che nel fondo non c’è abbastanza denaro e di non aver ancora ricevuto le istruzioni su come utilizzare il denaro dell’“Articolo 20”.
Ma ad essere vecchie, in Italia, sono anche le apparecchiature sanitarie. Si tratta di un problema sia per la qualità degli esami svolti sia per la rapidità. Per Confindustria dispositivi medici, nel nostro Paese ci sono quasi 37 mila apparecchi di diagnostica per immagini non più in linea con lo stato dell’arte della tecnologia esistente: «Il 92% dei mammografi convenzionali, il 96% delle Tac, con meno di 16 slice, il 91% dei sistemi radiografici fissi convenzionali, l’80,8% delle unità mobili radiografiche convenzionali, il 30,5% delle risonanze magnetiche chiuse, da 1-1,5 tesla, hanno più di 10 anni». I soldi per rinnovare i macchinari, 1,1 miliardi, li ha messi il Pnrr. Molte Regioni sono avanti con gli ordini e le istallazioni, l’obiettivo è avere nel 2026 almeno 3.100 nuove grandi apparecchiature operative.
Liste di attesa e privato
Il sistema sanitario nazionale, da dopo il Covid, lavora meno. Nei primi sei mesi del 2023 ha fatto, dice Agenas, l’agenzia sanitaria delle Regioni, 29 milioni di visite e 34 milioni di esami (esclusi quelli di laboratorio). Nello stesso periodo del 2019, i due dati sono stati 33 milioni e 36,5. Già così si comprende che le liste di attesa non possono che essersi allungate. A fronte di una offerta che è calata, infatti, la domanda non è certo scesa (non ci sarebbe motivo epidemiologico), e così in certi casi i cittadini aspettano mesi e mesi. E qui c’è il grande bivio. Chi può permetterselo paga e va nel privato, chi non può aspetta. Che la prima ipotesi sia sempre più utilizzata lo dice Istat, che ha calcolato come addirittura il 50% delle visite specialistiche vengano ormai fatte a pagamento. Un dato enorme. In realtà c’è anche una terza via: andare al pronto soccorso, dove tutti sono curati gratis (o quasi, in certe Regioni c’è un ticket per i casi meno gravi).
Sempre Istat, nel suo Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) calcola che il 4,2% dei cittadini nel 2023 ha rinunciato alle cure per motivi economici. Si tratta di 2,5 milioni di persone, dato cresciuto rispetto al 2022. Poi ci sono quelli che pagano. Il valore della spesa “out of pocket” è cresciuto negli anni, di pari passo con il venir meno della risposta del servizio pubblico, ma anche con l’aumento del fondo sanitario nazionale. Per Istat la spesa diretta delle famiglie nel 2012 era di 34,4 miliardi di euro. Nel 2022 è arrivata a quota 41,5 miliardi. La crescita è stata in 11 anni di oltre il 20%. Oltre 20 miliardi vengono spesi per visite specialistiche, servizi dentistici, servizi di diagnostica e per servizi paramedici. Altri 15 sono serviti a comprare farmaci, apparecchiature medicali e altro. «Il livello di spesa sanitaria in Italia è più contenuto degli altri paesi Ue, sia in termini di prodotto sia guardando in termini di parità del potere d’acquisto», ha da poco ribadito la Corte dei Conti: «La spesa privata sta crescendo in modo consistente, con una rilevante, forte differenza della capacità di spesa tra fasce più agiate e quelle più in difficoltà della popolazione. C’è dunque bisogno di mantenere un livello di spesa pubblica elevato per rispondere al declino che si prefigura».
Per affrontare le liste di attesa, il governo ha presentato un dl con alcune misure subito prima delle elezioni Europee. Ma nel provvedimento, un misto di misure già previste e di indicazioni poi modificate dallo stesso esecutivo, praticamente non ci sono soldi.
Il nodo appropriatezza
Quando si parla di attese non si può tacere un altro problema che compete l’organizzazione: l’inappropriatezza, cioè il consumo di prestazioni inutili. Per certi esami, come le risonanze, si stima che gli accertamenti che non servono siano addirittura il 40% del totale di quelli prescritti. «L’importante è fare attenzione a non additare solo il medico come colpevole», spiega Nicola Montano, ordinario di medicina interna al Policlinico di Milano e presidente eletto della Simi, la Società italiana di medicina interna. «Tutto dipende dal sistema, non nasce da errori di un singolo attore. Per ridurla dobbiamo mettere chi prescrive in grado di lavorare con tranquillità. Oggi abbiamo una carenza di medici di medicina generale, quindi questi colleghi hanno un carico di lavoro importante, spesso sono molto giovani, e hanno una tendenza alla medicina difensiva». Cioè, a prescrivere per paura di sbagliare.
Spesso sono gli stessi cittadini a chiedere più prescrizioni del necessario e se non le ottengono si rivolgono al privato. «Abbiamo da tempo un forte consumismo sanitario – dice Montano – che nasce da una iper medicalizzazione della società. I progressi delle scienze mediche sono stati così tanti che praticamente tutti sono considerati malati. Nel frattempo però non facciamo prevenzione. Non insegniamo ai bambini a mangiare, alle giovani madri l’importanza dell’attività fisica o del sonno. Ma i fattori ambientali pesano per il 60% sullo sviluppo di una malattia».
Autonomia differenziata
Per il governo, o almeno per una parte, l’autonomia differenziata migliorerebbe anche la situazione della sanità. Il settore rappresenta un buon punto di osservazione per valutare la nuova disciplina. Dal 2001 infatti la modifica del Titolo V della Costituzione ha assegnato gran parte delle competenze legate all’assistenza dei cittadini alle Regioni. Il sistema non ha funzionato molto bene, visto che le realtà deboli, prevalentemente nel Centro-Sud, sono rimaste in difficoltà e quelle con un’assistenza di livello medio-alto, salvo alcuni casi eclatanti, si sono confermate.
Per questo in molti temono che l’autonomia differenziata rinforzerà alcuni di coloro che sono già forti e farà sprofondare chi è debole. Già oggi l’aspettativa di vita nel meridione è inferiore rispetto al settentrione (86,5 anni per le donne in Trentino-Alto Adige, 83,6 in Campania). Uno dei rischi è quello dello spostamento di professionisti e di conseguenza anche di pazienti verso le Regioni che lavorano di più e meglio. Con l’autonomia differenziata le Regioni potrebbero fare i loro contratti ai professionisti della sanità e ovviamente chi è più ricco offrirà paghe migliori, spingendo i camici bianchi e gli infermieri a spostarsi. Su questo da tempo lanciano l’allarme sindacati degli ospedalieri, che parlano del rischio di mobilità professionale. E il timore è anche che, in un Paese dove già oggi tantissimi viaggiano per curarsi (nel 2022, 140 mila malati da Sicilia, Calabria, Puglia e Campania si sono ricoverati altrove e ben 62 mila sono andati in Lombardia), questi spostamenti diventino ancora più numerosi. E il sistema sanitario nazionale crolli.
(da La Repubblica)
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