Maggio 27th, 2021 Riccardo Fucile
E’ STATA LA PIU’ GRANDE BALLERINA DEL MONDO: LE ORIGINI POPOLARI, LO STUDIO TENACE, I SUCCESSI NEI PIU’ GRANDI TEATRI DEL MONDO
È vissuta volando ma di sé diceva orgogliosa: “Sono cresciuta tra i contadini, nelle campagne vicino Cremona, libera, tra molti affetti e necessità concrete. E proprio lì, ben piantate nella terra, ci sono le mie radici”.
E così, leggiadra e solida, dolce e tenace, se n’è andata un “monumento nazionale”, un mito del balletto, una delle più grandi artiste della danza internazionale.
Carla Fracci è morta a Milano a 84 anni per un tumore che l’aveva colpita già da tempo e che aveva vissuto con coraggio e strettissimo riserbo. “Eterna fanciulla danzante”, la definiì il poeta Eugenio Montale. “You are wonderul” le confessò commosso Charlie Chaplin dopo averla vista.
Carla Fracci è stata davvero una artista unica, un misto di concretezza meneghina e leggerezza della poesia, una protagonista sia dell’esclusivo mondo del balletto classico che di quello pop della televisione e dei rotocalchi: un viaggio longevo e trionfale, il suo, delicatissima e struggente Giselle, toccante Giulietta, aerea Sylphide nei più grandi teatri del mondo, dalla Scala al Royal Ballet, lo Stuttgart Ballet, il Royal Swedish Ballet, e dal 1967 artista ospite dell’American Ballet Theatre, con i più eccelsi partner come Erik Bruhn, Rudolf Nureyev, Mikhail Baryshnikov, Gheorghe Iancu, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, gli italiani Amedeo Amodio, Paolo Bortoluzzi, e coreografi come Cranko, Dell’Ara, Rodrigues, Nureyev, Butler, Béjart, Tetley e molti altri.
Carla Fracci era nata il 20 agosto del 1936 a Milano. Amici di famiglia convincono i genitori a iscriverla alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala dopo averla vista muoversi nel salone del dopolavoro del papà tranviere.
Carla ha 10 anni, è magra, esile, “all’inizio non capivo il senso degli esercizi ripetuti, del sacrificio, dell’impegno mentale e fisico. Io, poi, sognavo di fare la parrucchiera. Fu pesantissimo”, raccontava in una intervista sui suoi inizi.
Ma il visino dolce, la leggerezza dei movimenti colpiscono le insegnanti, Vera Valkova, Edda Martignoni, Paolina Giussani e a 12 anni è una comparsa in La bella addormentata con Margot Fonteyn. L’incontro ravvicinato con la grande ballerina le fa capire che i sacrifici, lo studio, la disciplina possono produrre poesia. Si diploma nel 1954, nel 1955 debutta nella Cenerentola alla Scala; nel 1958, a 22 anni, viene promossa prima ballerina.
Sapienza tecnica, leggerezza, una spiccata capacità interpretativa le aprono i teatri del mondo e i maggiori ruoli (ne ballerà circa centocinquanta): oltre ai popolarissimi Lago dei cigni, Lo schiaccianoci, diventano suoi i ruoli romantici, Giulietta, la Swanilda di Coppelia, Francesca da Rimini, soprattutto Giselle, il “suo” personaggio: nei panni della giovane contadinella innamorata, coi capelli sciolti e un leggerissimo tutù, entrerà per sempre nella storia del balletto.
Dopo la prima del ’59 a Londra al Royal Festival Hall, la Fracci sarà Giselle in tantissime edizioni e tra le più belle si ricordano quella con Erik Bruhn al Met, e l’altra con Nureyev.
L’incontro con Rudy risale al 1963 e sarà un sodalizio artistico che incanterà mezzo mondo per oltre un ventennio. “Ballare con Rudolf era una sfida. Carattere difficile. Eccentrico e competitivo. Ma di grandissima generosità. Era inammissibile per lui che nel lavoro non ci si impegnasse. E per guadagnarsi la sua stima, bisognava essere più forti e uscirne vittoriosi”, ricorderà lei che proprio nei primi anni Sessanta, aveva lasciato la Scala (con una polemica per un balletto cancellato) e da ballerina indipendente, era diventa l’étoile italiana più famosa nel mondo, “la prima ballerina assoluta” scriverà il New York Times.
“In tanti mi hanno chiesto come ci si sente a essere un mito. Ma i miei che erano dei lavoratori, padre tranviere, madre operaia mi hanno insegnato che il successo si deve guadagnare. E io ho lavorato, lavorato, lavorato… “.
Continua a farlo anche dopo il matrimonio con Beppe Menegatti, aiuto regista di Visconti, nel ’64, e dopo che è diventata mamma nel ’68. Con Menegatti realizzerà molti spettacoli e personaggi (Medea, Pantea, Titania, Ariel, Luna, Ofelia, Turandot), coinvolgendo compagnie non sempre all’altezza del suo nome. “L’importante è che la gente veda la danza” diceva, e lei lo ha fatto vedere con sorprendente longevità anche fuori dal repertorio classico – e tra Medea, Concerto barocco, Les demoiselles de la nuit, Il gabbiano, La bambola di Kokoschka, svetta la Gelsomina de La strada di Nino Rota creata apposta per lei dal coreografo Mario Pistoni – e anche fino a 80 anni quando, fisico ancora asciutto, elastico, fece un cameo in La musa della danza al San Carlo di Napoli.
Ben prima di Roberto Bolle, Carla Fracci ha contribuito a portare la danza in contesti pop, a cominciare dalla televisione: nel’67 con Scarpette rosa, di Vito Molinari, in molti show del sabato sera e ancora in quella che resta una autentica e notevole prova di attrice, nello sceneggiato tv su Giuseppe Verdi, come indimenticata Giuseppina Strepponi, la soprano e seconda moglie del compositore (ma attrice lo è stata anche al cinema in Storia vera della signora delle Camelie di Bolognini con Isabelle Huppert e Gian Maria Volonté, Nijinskij di Herbert Ross con Jeremy Irons), fino alle civetteria di ridere con autoironia della bella imitazione di Virginia Raffaele al Festival di Sanremo
Per la diffusione del balletto, d’altra parte, Carla Fracci si è spesa nei contesti più diversi, anche politici.
Da sempre mpegnata a sinistra (nel 2009 diventa assessore alla Cultura della Provincia di Firenze) si è battuta contro lo smantellamento dei Corpi di Ballo dalle fondazioni liriche, anche con un appello nel 2012 all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Il ballo classico ha dato prestigio al nostro Paese ed è triste che oggi sia considerato residuale. Un’arte nobile come questa non può essere trattata come una Cenerentola”.
Lei stessa si era impegnata in prima persona a tenerli vivi: alla fine degli anni Ottanta quando dirige il Corpo di Ballo del Teatro San Carlo di Napoli, poi nel ’96 quello dell’Arena di Verona, e dal 2000 per dieci anni alla testa della compagnia di danza all’Opera di Roma, tuttavia sempre nel rimpianto, carico di rancori, della mancata direzione del balletto alla Scala dove proprio per questi dissapori non ballerà più dal ’99.
A gennaio di questo 2021 è il nuovo direttore del Ballo, Manuel Legris, a invitarla a tenere due masterclass su Giselle, ricucendo così quella rottura, e di cui resta una testimonianza nella docufiction Corpo di ballo su RaiPlay.
“Mi ha toccata l’accoglienza di tutto il teatro, il lungo applauso. Ho sentito rispetto e gratitudine. Spero che ci saranno altre di queste masterclass. Ai giovani voglio spiegare che la tecnica c’è ma non va esibita”.
Leggendaria la sua frase “la danza non è piedi e gambe. È testa”, che racchiude tutta la sua poetica.
La sua storia, invece, l’ha raccolta nell’autobiografia Passo dopo passo (Mondadori, 2013), che ora diventerà una fiction tv con Alessandra Mastronardi: non solo ha dato la sua consulenza insieme al marito e alla storica collaboratrice Luisa Graziadei, ma ha regalato un cameo nei panni della sua insegnante alla scuola della Scala. Come a chiudere il cerchio. “Mi lamento spesso e sono una polemica” ha confessato in una delle ultime apparizioni tv, vestita di bianco, come sempre, suo unico vezzo, “ma la mia è stata una gran bella vita”.
(da La Repubblica)
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Maggio 26th, 2021 Riccardo Fucile
LAURENCE DES CARS SCELTA DA MACRON PER ASSUMERE IL COMANDO DEL PIU’ GRANDE MUSEO DEL MONDO
La presidente del Musée d’Orsay, Laurence des Cars, è stata scelta dal presidente francese Emmanuel Macron per assumere il comando del Louvre, il più grande museo del mondo, al posto di Jean-Luc Martinez che lo dirigeva da otto anni. Il passaggio di consegne è previsto per il primo settembre.
Laurence des Cars è la prima donna a guidare il celebre museo parigino creato nel 1793 e custode di immensi capolavori come la Gioconda di Leonardo Da Vinci o Le Nozze di Cana di Paolo Veronese.
Obiettivo della futura presidente, riflettere al modo in cui “il Louvre può diventare pienamente contemporaneo. Ha molto da dire alla gioventù, come uno spazio che faccia eco alla società”, ha spiegato su France Inter.
La prima misura di Laurence des Cars sarà la creazione di un nono dipartimento consacrato a Bisanzio e ai Cristiani d’Oriente.
(da agenzie)
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Maggio 18th, 2021 Riccardo Fucile
AVEVA 76 ANNI… NELLA SUA LUNGA CARRIERA HA CONSEGNATO BRANI INDIMENTICABILI COME “LA CURA” E “CENTRO DI GRAVITA’ PERMANENTE”
È morto Franco Battiato. Il cantautore si è spento oggi nella sua residenza di Milo, era malato da tempo. Dopo la frattura al femore e al bacino era riapparso sui social ma non più in pubblico.
Era nato a Jonia il 23 marzo del 1945, aveva 76 anni. La conferma è stata data dalla famiglia che fa sapere che le esequie si terranno in forma strettamente privata e ringrazia tutti per le innumerevoli testimonianze di affetto ricevute.
Difficile incasellarlo, impossibile metterlo all’interno di un genere, dargli una pur semplice etichetta, e quindi se c’è un modo semplice per spiegare il suo lavoro è quello di chiamarlo “artista” e godere della sua musica senza tempo, ma anche del suo cinema, della sua pittura.
Nella sua lunghissima carriera ha consegnato brani indimenticabili come La cura, Centro di gravità permanente, Voglio vederti danzare. E sulla morte diceva: “Non esiste, è solo trasformazione”.
Capace di spaziare tra generi diversissimi dalla musica pop a quella colta, toccando momenti di avanguardia e raggiungendo una grande popolarità, ha sperimentato l’elettronica, si è misurato con la musica etnica e con l’opera lirica. Ha diretto anche diversi film tra cui Perdutoamor e Musikante su Ludwig van Beethoven presentato alla Mostra del cinema di Venezia.
Le visioni e le emozioni
La sensazione che una specie di appagamento interiore, di soddisfazione artistica, l’avesse alfine raggiunta, dopo tanto peregrinare, l’aveva data nel 1991, quando uscì Come un cammello in una grondaia. Il titolo diceva già tutto di quello che era diventato Battiato, ovvero un cantautore che sceglieva un titolo ispirandosi ad Al-Biruni, uno scienziato persiano del XII secolo. A dir poco insolito.
Nel disco c’era uno strano pezzo intitolato L’ombra della luce, non certo dei suoi più famosi, anzi, una mini-sinfonia di 4 minuti che sprigionava una calma e trasognata serenità. Come se esibisse un frammento di assoluto.
Il pezzo aveva qualcosa di misterioso, come fosse dovuto a logiche poco attinenti al mondo della canzone, ed effettivamente quando gli chiedemmo ragione di questa sensazione lui rispose con uno sguardo consapevole e commosso: “sì, è proprio così, quel pezzo è arrivato da altrove”.
Confessò che gli aveva attraversato la mente mentre era assorto in meditazione. Era fatto così, si commuoveva per queste visioni, non certo per i sentimenti ordinari, per gli amori cantati, e la sua rivoluzione l’aveva portata avanti proprio così, combattendo gli stereotipi, le rime facili, i mielosi sentimentalismi.
E del resto in quello stesso disco c’era anche Povera patria, la più struggente elegia cantata in Italia di fronte allo scempio della bellezza e della dignità umana. Un pezzo da ascoltare sempre, come una salutare prescrizione medica, come un compito da assolvere nelle scuole.
Battiato e quella storia iniziata nel 1971
Alle canzoni c’era arrivato quasi per scommessa. Anzi ci era tornato per scommessa, perché i suoi primi anni nella musica furono milanesi, alla corte della grande editoria musicale del tempo, in Galleria, dove si era trasferito abbandonando la natia Sicilia, e dove provò effettivamente a fare il cantantino commerciale per qualche anno, seppure con scarsi esiti, ma è l’unico passato che Franco rinnegava. Non amava quella roba, non la ricordava con simpatia.
La sua storia cominciò davvero nel 1971, quando uscì dalle nebbie purpuree della rivoluzione come artista devastante e minaccioso, autore di dischi avanzati e sperimentali come Fetus e Pollution e protagonista di spettacoli che stordivano o addirittura facevano infuriare gli spettatori.
Era spietato, abnorme, col volto trasfigurato dai trucchi, una vocazione all’“épater le bourgeois” che tutto sommato gli è rimasta addosso per tutta la vita, anche quando da quelle lussureggianti provocazioni era passato a qualcosa di più consonante.
Ma è vero che i successi arrivarono per scommessa, come lui stesso ha raccontato anni dopo, ricordando di aver risposto alla provocazione di un pugno di giornalisti musicali, tra cui il sottoscritto, radunati intorno alla rivista alternativa Muzak, che gli dissero che forse, se anche avesse voluto scrivere canzoni popolari, non ne sarebbe stato capace.
L’era del cinghiale bianco
Detto fatto, si mise a scrivere canzoni, anche se il primo dei dischi della nuova “era”, alla lettera L’era del cinghiale bianco, sembrava tutt’altro che popolare, ma era un gioiello, delicato e suggestivo, intrigante, ipnotico, capace di indicare una strada nuova percorsi che la nostra canzone non aveva m ai battuto.
E non erano solo gli argomenti, fascinazioni mistiche, esoterismi, citazioni colte, era il linguaggio stesso che era inedito, una scelta quasi oggettiva, senza partecipazione emotiva, spesso incastrando frasi con una tecnica di montaggio frammentata e surreale, con perle di staordinaria bellezza come Stranizza d’amuri, ben ribadita dal seguente Patriots, il suo secondo capolavoro, con Veneza-Istanbul, Prospettiva Nevski, dove si definisce ancora meglio quel sorprendente modo di intendere melodie e parole.
‘La voce del padrone’ e il boom commerciale
Poi arrivò l’esplosione commerciale, puntuale e travolgente con La voce del padrone, con pezzi che sembrarono inni intelligenti e spiazzanti dell’alba degli anni Ottanta, ovvero Bandiera bianca, Cuccurucucù e Centro di gravità permanente, una sbalorditiva sequenza che andò a celebrare un periodo irripetibile della canzone d’autore italiana e che portò al livello di massa idee e concetti che nessuno avrebbe mai potuto immaginare solo qualche anno prima.
Di quel clamoroso successo Battiato era allo stesso tempo lusingato, appagato, ma anche infastidito. Dopo aver dimostrato che era possibile, che grazie anche a un periodo di fertile Rinascimento culturale, si poteva utilizzare la canzone per fare arte, ironica, leggera, ma allo stesso tempo incisiva e a suo modo profonda, decise che bisognava andare avanti, migliorarsi, tornare ad atmosfere più pacate, più adatte al suo modo di concepire la musica e la performance. Il tono si fece più dolente, riflessivo, ma sempre più prezioso, e furono E ti vengo a cercare, L’oceano di silenzio fino alla inarrivabile La cura, tutti pezzi che possedevano l’insondabile ambiguità del doppio significato, rivolti ad amori terreni, così come a pensieri astratti, celesti, spirituali.
In realtà Battiato è stato anche tante altre cose, regista di film, autore di opere incredibilmente aliene e anche quelle lontane dagli stereotipi classici, pittore, generoso benefattore di giovani musicisti al cui appello non ha mai saputo né voluto resistere, autore di canzoni per altri e soprattutto per tante voci femminili che ha coltivato come un’arte a se stante, da Alice a Milva.
La ricerca della spiritualità
In fin dei conti è stato soprattutto un accanito ricercatore di arte e spiritualità, non disposto a compromessi, rigoroso, coerente. A volte sembrava spigoloso, quasi burbero, ma in genere capitava quando si trovava di fronte all’imbecillità o all’ignoranza, quelle davvero non le sopportava, altrimenti era gentile, protettivo, un uomo che aveva scelto la musica per raggiungere un obiettivo che andava molto al di là della musica stessa.
Per questo il suono gli era sacro, per questo l’atto della composizione era per lui il più sublime e insostituibile dei gesti umani, l’unico in grado di elevarci, di portarci in prossimità di quella verità che ha inseguito per tutta la vita, fino all’ultimo dei suoi giorni terreni.
(da La Repubblica)
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Aprile 24th, 2021 Riccardo Fucile
CANTANTE E ATTRICE, AVEVA 81 ANNI… SOFISTICATA INTERPRETE PREDILETTA DA AUTORI, REGISTI E COMPOSITORI
Nel 2010 sulla sua pagina Facebook aveva scritto una lettera bella e commovente. “Dopo cinquantadue anni di ininterrotta attività, migliaia di concerti e spettacoli teatrali sui palcoscenici di una buona metà del pianeta, dopo un centinaio di album incisi in almeno sette lingue diverse, ho deciso di mettere un punto fermo alla mia carriera (…) che credo grande e unica, non solo come cantante ma come attrice ed esecutrice musicale e teatrale (….). Ho deciso di abbandonare definitivamente le scene e fare un passo indietro”.
A undici anni da quel saluto, Milva ha dato addio alla vita. La “Rossa”, come la sua famosa fulgida chioma di capelli ramati, è morta a 81 anni: da un po’ aveva perso la coscienza del tempo e della memoria, viveva nella casa di via Serbelloni, pieno centro di Milano, con la fida segretaria Edith e l’affetto incondizionato della figlia, Martina Corgnati, critica d’arte.
Addio a Milva, una delle più grandi interpreti della canzone italiana. L’artista, vero nome Maria Ilva Biolcati, aveva 81 anni ed era soprannominata la ‘Pantera di Goro’, dalla città natale in provincia di Ferrara, o semplicemente ‘Milva la Rossa’, per il colore di capelli che è diventato anche il titolo di una famosa canzone scritta per lei da Enzo Jannacci.
In oltre 50 anni carriera è passata per generi musicali molto distanti fra loro grazie a una capacità e un talento interpretativo unico. La sua statura artistica è testimoniata dal successo ottenuto oltre che in Italia, anche in Germania, dove ha partecipato spesso a eventi musicali sui principali canali televisivi, ma ha pubblicato con successo dischi anche in Francia, Giappone, Corea del Sud, Grecia, Spagna e Sudamerica
Ha venduto oltre 80 milioni di dischi ed è l’artista italiana con il maggior numero di album realizzati: 173 tra album in studio, album live e raccolte.
Con Mina e Ornella Vanoni, è stata protagonista della musica italiana dagli anni Sessanta, ma, più irrequieta e volitiva delle colleghe, Milva ha saputo cambiare e trasformarsi, usando curiosità, bravura, versatilità per costruire una carriera unica, lunga oltre mezzo secolo, 173 album e lanciata in più direzioni, talvolta anche opposte: cantante ma anche attrice, pop a Sanremo, dove fu in gara per quindici volte – senza mai vincere (e le scaramucce non sono mancate) – engagé come interprete dei canti della Resistenza, di Bella ciao, delle Canzoni del tabarin e dei Canti della libertà; protagonista alla Deutsche Oper di Berlino con I sette peccati capitali di Brecht e Weill e conduttrice di Al Paradise il varietà del sabato sera, fino a diventare la sofisticata interprete prediletta di autori, registi e compositori come Giorgio Strehler e Astor Piazzolla, Franco Battiato e Vangelis, Luciano Berio ed Ennio Morricone.
Maria Ilva Biolcati era nata a Goro (e la “pantera di Goro” è stato a lungo il suo nomignolo), il 17 luglio del 1939. “A 7 anni insistevano con mia madre di farmi cantare, lei minimizzava”, ricorderà. Giovanissima, nel 61, ventiduenne timida e naif, magra e longilinea come è sempre rimasta, dotata di una estensione vocale straordinaria, approda al festival di Sanremo, dove si qualifica terza con Il mare nel cassetto.
Quello stesso anno debutta nel cinema (La bellezza d’Ippolita accanto a Gina Lollobrigida) e sposa Maurizio Corgnati regista televisivo, intellettuale, parecchio più anziano (“mi sentivo la sua bambina”), un pigmalione che avrà su Milva una influenza importante, come non accadrà, dopo la separazione, con altri compagni, gli attori Mario Piave e Luigi Pistilli, il filosofo Massimo Gallerani.
Ha già assimilato ricchezze e successo – nel ’62 era approdata all’Olympia di Parigi – quando nel 1965 Paolo Grassi invita Milva al Piccolo a interpretare i Canti della Libertà, il primo passo di un trentennale sodalizio con Giorgio Strehler che con lei farà Io, Bertolt Brecht e poi la dirigerà in Milva canta Bertolt Brecht e in Io, Bertolt Brecht N°2 con Tino Carraro. “Strehler amava la mia umiltà. A lui devo tutto quello che so, così come a Maurizio Corgnati: mi hanno insegnato tanto e mi mancano molto”, dirà.
Strehler fa di Milva una delle più accreditate interpreti del repertorio brechtiano, in Italia e perfino in Germania, e la sceglierà come indimenticabile Jenny delle Spelonche nell’edizione del ’73 dell’Opera da tre soldi accanto a Domenico Modugno, che indossava i panni di Mackie Messer
La voce, la capacità di adeguarsi a qualsiasi genere di musica, la facilità a parlare lingue straniere fanno il resto: Milva diventa una delle grandi interpreti della musica colta e d’autore.
Incanta il pubblico tedesco con i Lieder (riceverà la prestigiosa Onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania), affascina anche i francesi con la versione italiana di Milord di Edith Piaf, entra nelle hit parade con La filanda dal repertorio di Amalia Rodrigues, diventa la voce preferita di Mikis Theodorakis, senza contare le incursioni nella musica colta d’avanguardia, come quando alla Piccola Scala di Milano, interpreta il Diario dell’assassinata di Gino Negri e alla Scala La vera storia, di Luciano Berio, tratta da Calvino, con esiti trionfali tanto che replicò all’Opéra di Parigi, al Maggio Fiorentino, all’Opera di Amsterdam.
Dagli anni Ottanta prolificano le collaborazioni importanti: con un grande regista come Peter Brook (tra gli esiti c’è El tango poi curato da Filippo Crivelli), con Astor Piazzolla, Franco Battiato (gli album Milva e dintorni con la bellissima Alexanderplatz, Svegliando l’amante che dorme e l’ultimo del 2010 Non conosco nessun Patrizio), Vangelis (Dicono di me), canta Luigi Tenco, Fiorenzo Carpi, Fabrizio De André, Alda Merini, Enzo Jannacci che la avvicinò al suo surreale mondo con l’album La Rossa.
Tra gli ultimi impegni il teatro: La Variante di Lüneburg dal libro di Paolo Maurensig e a Vienna Der Besuch der alten Dame (La visita della vecchia signora) di Durrenmatt dove recita nientemeno che in lingua tedesca.
Infine, nel 2018 il Festival di Sanremo di Claudio Baglioni le assegna il premio alla carriera e nel ringraziamento letto dalla figlia Martina sul palco dell’Ariston, Milva si rivolge ai giovani: “La musica spazza via la polvere dalla vita e dall’anima degli uomini. Ma perché questo accada bisogna studiare e attingere dal passato”. E il “passato” che Milva lascia è nel segno del coraggio, di quando cantava, prima che si parlasse dei femminicidi, la femminilità negata in Sono felice o Uomini addosso, un grido contro la violenza contro le donne.
(da “La Repubblica”)
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Aprile 12th, 2021 Riccardo Fucile
AVEVA 79 ANNI, CAPITANO DELLA NAZIONALE CON 47 PRESENZE, POI ALLENATORE DEGLI AZZURRI NEL 1987 DOVE OTTENNE IL MIGLIORE RISULTATO DEI MONDIALI… DAI VICOLI DELL’ANGIPORTO ALLA GLORIA
Marco Bollesan ha passato la palla. Aveva 79 anni, è stato il capitano più iconico della storia del rugby italiano. Terza linea centro, nato a Chioggia ma genovese di adozione: un leone, un guerriero che nelle ultime stagioni – ospite di una struttura a Bogliasco, alle porte del capoluogo ligure – ha lottato a lungo e non si è mai arreso: nemmeno al Covid, che aveva superato nell’estate passata.
“Ho più punti (di sutura) nel mio corpo che quanti ce ne possono stare in un tailleur”, era solito dire. Quarantasette presenze in Nazionale, quando si indossava la maglia azzurra per poche volte in una intera stagione, condottiero di quella banda improbabile e coraggiosa che nel ’72 fu protagonista della prima, vera tournée internazionale in Rhodesia e Sudafrica con il successo sui Leopards, la nazionale nera sudafricana.
Un campione “venerato” dal mondo del rugby
Due scudetti vinti con Brescia e Partenope Napoli, la maglia di Cus Milano e Amatori Milano, ma la sua squadra è sempre stata una sola: il Cus Genova, che lo accolse adolescente e ribelle strappandolo ai vicoli dell’angiporto (“Sapevo solo fare a botte: se non ci fosse stato il rugby, chissà dove sarei finito”) e con il quale sfiorò per tre volte il titolo di campione d’Italia, beffato all’ultimo dal Petrarca Padova.
E poi allenatore della Nazionale protagonista della migliore edizione dei Mondiali di sempre: quella del 1987, con i quarti di finale sfiorati nonostante un girone con Nuova Zelanda, Argentina e Fiji. Tecnico di diversi club italiani (Milano, Livorno, Alghero, Cus Genova) in cui ha portato l’entusiasmo per uno sport di cui è stato interprete assoluto, quasi “venerato” da chi gli è stato a fianco ed è venuto dopo di lui. Serie A, B o C: l’importante era la battaglia, e una birra nel terzo tempo con gli “amici” che lo avevano sfidato. “La faccia sgherra e la testa leonina”, scriveva di lui Giorgio Cimbrico.
Lo storico scontro con “le Mongol”
Storico il suo esordio in azzurro nel 1963 a Grénoble, contro una Francia che sembrava di un altro pianeta ma il giovanissimo Bollesan ci mise tutto il suo proverbiale coraggio guadagnandosi il rispetto di una leggenda dell’epoca, Michael Crauste detto ‘le Mongol’, un gigante coi baffoni spioventi che alla prima mischia gli spaccò un sopracciglio ma Marco – dopo gli ennesimi punti di sutura – gli restituì il colpo: quel giorno, da tutti ricordato come la MalaPasqua, l’Italia perse di soli 2 punti conquistandosi il rispetto dei blasonati avversari.
Genova era orgogliosa del suo campione così come lo è di Eraldo Pizzo, il Caimano della pallanuoto: i due, grandi amici, sono sempre stati accumunati come grande esempio sportivo.
Il suo nome è inserito nella Walk of Fame degli sportivi italiani, al Foro Italico.
Gabriele Remaggi, rugbista e giornalista anche lui scomparso, ne aveva scritto una straordinaria biografia: “Una meta dopo l’altra. Della vita e del rugby”. Vedovo, due figlie che lo adoravano e gli sono state vicino in questo lungo calvario che ha affrontato a testa alta, come ha sempre fatto sul campo.
Il cordoglio di Innocenti, presidente Fir
“Per i rugbisti della mia generazione, per chiunque abbia praticato lo sport tra gli Anni ’60 e gli Anni ’80, ma anche per chi è venuto dopo Marco Bollesan è stato un esempio, l’epitome del rugbista coraggioso, il simbolo di un Gioco dove fango, sudore e sangue rappresentavano i migliori titoli onorifici. Ha contribuito a far conoscere il rugby nel nostro Paese ben prima della rivoluzione professionistica del 1996, incarnando lo spirito del rugby italiano per oltre due decenni e rivestendo anche negli anni successivi al suo ritiro dal campo una serie di ruoli strategici per la Federazione. Gli saremo eternamente grati per il suo straordinario contributo ed io, in particolare, porterò sempre nel cuore i suoi insegnamenti e l’onore che mi riconobbe assegnandomi, da Commissario Tecnico, i gradi di capitano della Nazionale durante la propria gestione. Siamo vicini alle figlie Miride e Marella ed a tutta la sua famiglia. Il rugby italiano ha perso uno dei suoi figli prediletti”, ha dichiarato il Presidente della FIR, Marzio Innocenti, esprimendo il cordoglio della Federazione.
I funerali a Boccadasse
Se ne è andato a poche ora da Massimo Cuttitta, 54 anni, altro campione azzurro ucciso ieri dal Covid. I funerali del Capitano si svolgeranno (domani o dopo, la data è ancora da definire) nella chiesa di Boccadasse, davanti al mare e una baia dove solo 13 anni fa Bollesan si era gettato tra le onde impetuose per salvare alcune barche alla deriva, fratturandosi il braccio destro: “E’ una sciocchezza, non sento neanche il dolore”, aveva sorriso come sempre.
Il dolore resta invece insopportabile in tutti quelli che lo hanno conosciuto ed amato.
(da agenzie)
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Marzo 13th, 2021 Riccardo Fucile
RAOUL CASADEI HA FATTO BALLARE MILIONI DI PERSONE IN TUTTO IL MONDO… E’ MORTO PER COVID A 83 ANNI
Raoul Casadei non ce l’ha fatta. Un’altra vittima illustre del coronavirus. La star del liscio si è spenta stamattina all’ospedale Bufalini di Cesena (lo stesso dove da giovedì è ricoverato Gianni Morandi, ma per una grave ustione).
Casadei aveva 83 anni e si era contagiato insieme a vari parenti, che si trovano in quarantena fiduciaria a Villamarina di Cesenatico nella tenuta di famiglia. Dopo il ricovero del 2 marzo scorso le sue condizioni erano andate aggravandosi progessivamente.
Raoul Casadei, così nasce una leggenda
Casadei è sinonimo di liscio, il tipico ballo da balera conosciuto in tutto il mondo: da generazioni i Casadei fanno ballare milioni di italiani e stranieri. Nato nel ’37 proprio nel giorno di Ferragosto, Raoul, diplomato alle magistrali e per diciassette anni maestro elementare, fu accolto da ragazzo nell’orchestra di famiglia fondata dalla zio Secondo Casadei nel 1928.
Dalla fine degli anni ’50 inizia a partecipare agli spettacoli e la band viene ribattezzata Orchestra Secondo e Raoul Casadei.
Liscio a tutto spiano: nei momenti di massimo splendore l’orchestra si esibisce anche 365 volte all’anno, con doppi turni pomeridiani e serali. Nel 1954 Secondo compone lo storico brano Romagna mia, divenuto un inno internazionale.
Nel ’71 alla morte di Secondo, Raoul diviene il leader della formazione e nel ’73 incide uno dei pezzi più celebri, Ciao mare. Negli anni seguenti nascono altri successi: Simpatia, La mazurka di periferia, Romagna e Sangiovese, Romagna Capitale. L’Orchestra esordisce anche al Festival di Sanremo nel 1974.
Raoul si ritira dal palcoscenico all’inizio degli anni Ottanta, continuando a gestire quella che era ormai diventata un’industria del liscio. Dal 2001 l’Orchestra è guidata dal figlio Mirko.
Nel 1996 partecipa al Festival di Sanremo fuori gara con Elio e le Storie Tese e La Terra dei Cachi.
Nel 1998 mette insieme tutte le musiche del mondo in un’unica manifestazione, realizzata prima a Riccione, poi a Rimini: il festival Balamondo fa accorrere oltre 200 mila persone, che vedono anche Gloria Gaynor cantare Romagna Mia
Sposato da oltre cinquant’anni con Pina, maestra napoletana conosciuta in Puglia durante gli anni di insegnamento scolastico, Raoul lascia anche i tre figli Carolina, Mirna e Mirko, diventato nonno nel 2013 a soli 40 anni rendendo Raoul e Pina bisnonni.
Raoul, che per la paura di volare non aveva mai partecipato a tournèe estere, vinse la sua fobia nel 2006 per prender parte all’Isola dei famosi.
La “tribù” dei Casadei vive nei pressi di Cesenatico nella fattoria creata da Raoul, chiamata il Recinto, ricca di coltivazioni, allevamenti di animali e un giardino di limoni che il patriarca curava di persona.
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2021 Riccardo Fucile
A SETTEMBRE L’APERTURA A LOS ANGELES DELLA PIU’ GRANDE ISTITUZIONE DEDICATA ALLA STORIA DEL CINEMA
L’Academy Museum of Motion Pictures aprirà ufficialmente il prossimo 30 settembre con un ritardo di cinque mesi a causa della pandemia.
Questa istituzione offrirà al pubblico “eccezionali esibizioni e programmi che rivelano il mondo del cinema” come si legge sul sito ufficiale del museo.
La struttura di 28 mila mq è stata ideata dall’italiano Renzo Piano con l’intento di creare uno spazio per la collettività capace di valorizzare le sfumature del cinema attraverso esibizioni inclusive ed accessibili. Il museo sorge vicino ad altri luoghi culturali come il Los Angeles County Museum of Art (LACMA), il Petersen Automotive Museum, La Brea Tar Pits & Museum, e Craft Contemporary.
La volontà del museo, organizzato su sei livelli all’interno di una struttura sferica (Saban Builiding), è quella di racchiudere in una sola struttura quello che è stato Hollywood, ciò che è adesso e cosa sarà in futuro.
Infatti, saranno esposte in modo permanente e a rotazione le collezioni provenienti dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences.
Saranno disponibili per i visitatori oltre 12 milioni e mezzo di fotografie, oltre 230 mila film e video, 65 mila poster e 85 mila sceneggiature. Verranno anche rese pubbliche delle collezioni speciali appartenenti ai grandi del cinema come Cary Grant, Katharine Hepburn, Hattie McDaniel, Alfred Hitchcock, Spike Lee.
I percorsi all’interno del museo si articolano per mostrare il mondo del cinema nella sua totalità : dal set alle sceneggiature, alle riprese degli attori, la fotografia così come i costumi, il trucco e le acconciature. Al visitatore sarà concesso di osservare la trasformazione che un attore deve affrontare per calarsi nella parte.
Il direttore del museo Bill Kramer ha annunciato che prima dell’inaugurazione si terrà una programmazione virtuale il 22 aprile, giorno vicino alla 93/a cerimonia degli Oscar. Come primo evento, si terrà una conversazione presenziata da Diane von Furstenberg e moderata da Jacqueline Stewart dell’Academy Museum dal titolo “Breaking the Oscars Ceiling”.
Figurano tra gli ospiti anche Sophia Loren a cui sarà consegnato il 25 settembre il primo “Visionary Award” del Museo dell’Academy. Un riconoscimento assegnatole per la sua lunga e premiata carriera e riservato “un artista o uno studioso la cui opera ha fatto fare progressi all’arte del cinema”.
(da agenzie)
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Marzo 3rd, 2021 Riccardo Fucile
LA CANTANTE, OSPITE DELLA PRIMA SERATA, CONQUISTA I TELESPETTATORI E DIVENTA L’EROINA DEL FESTIVAL
L’artista si prende il festival, chiude con un messaggio contro la violenza sulle donne e diventa l’eroina dei social. Niente sarà più come prima, dopo di lei
“Figlie di Loredana”. Dopo averla vista a Sanremo sono tutti “figlie sue”. Perchè quando arriva lei, La Bertè, capelli blu, coroncina di farfalle, minigonna, voce voce, si prende il festival e ci porta finalmente nel suo Mare d’inverno. Diventa subito l’eroina dei social, anche per la frase “sono il padre delle mie carezze, sono la madre delle mie esperienze”, tratta appunto dal singolo Figlia di….
Loredana, apparentemente improbabile, fa invece la vera partita: canta, ricanta, ci costringe ad ascoltarla, chiude con un messaggio contro la violenza sulle donne (“al primo schiaffo denunciate, denunciate”) e porta le scarpe rosse, sul palco. Niente sarà più come prima, dopo di lei
Loredana Bertè canta i suoi più grandi successi e il nuovo singolo “Figlia di”, facendo impazzire i telespettatori di Sanremo 2021.
Una vera e propria standing ovation virtuale per l’artista che, super ospite della kermesse canora, ha ripercorso la sua carriera con un medley di “Mare d’inverno”, “Dedicato”, “Non sono una signora”, “Sei bellissima”.
“Poi arriva Loredana Bertè e capisci cosa vuol dire BIG”, scrive un utente. E ancora: “Loredana Bertè vince Sanremo 2021 con ‘Il mare d’inverno’”, “Loredana Bertè è l’unica vera rockstar”, “Loredana, sei arte, poesia, leggenda. Questo medley è praticamente storia della musica italiana”.
La Bertè ha portato sul palco dell’Ariston la denuncia contro la violenza sulle donne. Durante la sua esibizione, infatti, oltre a un fiocchetto rosso in bella vista sulla giacca, ha tenuto una scarpa rossa, simbolo della lotta contro i femminicidi.
“Grazie per avermi permesso di portare il messaggio contro la violenza sulle donne. Al primo schiaffo bisogna denunciare”, ha detto la Bertè prima di congedarsi
(da agenzie)
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Marzo 1st, 2021 Riccardo Fucile
TRIONFO “NOMADLAND” E “THE CROWN”… PER LA CANTANTE SI PROFILA LA NOMINATION ALL’OSCAR
Un premio arriva per l’Italia. La migliore canzone dei primi Golden Globe dell’era Covid, è Io sì (Seen) di Diane Warren cantata da Laura Pausini per il film con Sophia Loren La vita davanti a sè. In questi premi così diversi da ogni altra stagione Nomadland vince come previsto e consegna a Chloè Zhao il riconoscimento come miglior regista, è solo la seconda donna nella storia del premio 37 anni dopo Barbra Streisand che ha subito twittato “era ora”.
Collegata dalla sua casa, seduta al suo bellissimo pianoforte a coda bianco, Laura Pausini ha ringraziato in italiano e in inglese: “Sono così orgogliosa, ho la pelle d’oca. Grazie mille” ha detto in italiano e ha ricordato Edoardo Ponti e Sophia Loren e naturalmente Diane Warren.
La cantante romagnola aveva anticipato che già la nomination agli Oscar sarebbe stata un bellissimo riconoscimento, quella candidatura adesso è quanto mai vicina.
“Dedico questo premio a tutti coloro che vogliono e meritano di essere ‘visti’ – ha scritto subito dopo Laura Pausini su Instagram – e a quella ragazzina che 28 anni fa vinse Sanremo e non si sarebbe mai aspettata di arrivare così lontano. All’Italia, alla mia famiglia, a tutti coloro che hanno scelto me e la mia musica e mi hanno reso quello che sono oggi. E alla mia bellissima figlia, che da oggi vorrei ricordasse la gioia nei miei occhi, sperando che cresca e continui sempre a credere nei suoi sogni”.
“Complimenti a LauraPausini per il prestigioso premio conquistato ieri sera ai goldenglobes. Una vittoria che unisce musica e cinema e che onora l’Italia. GoldenGlobes TheLifeAhead”, ha scritto su Twitter il ministro della Cultura, Dario Franceschini.
(da agenzie)
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