Giugno 29th, 2019 Riccardo Fucile
FORTE COI DEBOLI, VILE COI FORTI: RAPPRESENTA BENE DI CHI LO VOTA
“Giustizia è fatta” è questo lo slogan con il quale Matteo Salvini ha accolto l’arresto da parte della Guardia di Finanza di Carola Rackete.
Alla violenza con la quale un Ministro dell’Interno si scaglia contro una trentenne che salva vite c’è da aggiungere un tassello che rende questa storia, se possibile, ancora più tragica: Matteo Salvini dall’alto del suo scranno urla e chiede la punizione della legge per gli altri ma quando si tratta di sè stesso invoca l’immunità parlamentare.
È la logica che Salvini applica da sempre, forte con i deboli, debole con i forti.
Come i suoi amici e finanziatori del gruppo Atlantia (i Benetton e Autostrade per l’Italia per capirci). Contro di loro si è scagliato il Movimento 5 Stelle all’indomani del crollo del ponte Morandi mentre Matteo Salvini faceva orecchie da mercante e se ne guardava bene dal prendere una posizione contro una famiglia a cui tutto il centrodestra deve tanto.
C’è poi il caso della Nave Diciotti. Il Ministro degli Interni è accusato di sequestro di persona e non appena le cose iniziano a mettersi davvero male Salvini fa una cosa che nessun cittadino comune potrebbe fare: invia una lettera al Corriere della Sera. Una lettera in prima pagina in cui invoca l’immunità parlamentare (che poi prontamente otterrà ) e lo fa senza avvisare gli alleati di governo.
Salvini è questo: “una tigre di carta”, un “guappo di cartone”, forte con i deboli, debole con i forti. Non una parola sui 49 milioni di euro sottratti dal suo partito; non una parola sulle collusioni tra parti della Lega e la criminalità organizzata; non una parola sui capi ultras arrestati per spaccio con cui amava farsi fotografare.
Nei suoi post c’è sempre e solo odio verso gli ultimi, i più deboli. Perchè sono quelli più facili da colpire, quelli che non hanno mezzi per difendersi. Uomini comuni, a volte anche con problemi psichiatrici, che vengono dati in pasto alla sua macchina della propaganda.
E così propaganda dopo propaganda si arriva alle urla rivolte alla capitana della Sea Watch in questo video: “Ti devono violentare”, “ti piace il c..o nero”. No Ministro, questa non è giustizia, è odio contro chi salva vite umane, è invocare allo stupro contro una donna. Ma anche stavolta lei non dirà nulla perchè questo è il ruolo che si è scelto: quello di chi sta dalla parte dei più forti e mai dei più deboli.
(da Fanpage)
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Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
LA LETTERA INEDITA DEL “PICCONATORE” CHE SMENTISCE LE BALLE DI GRILLO
Rievocano l’ultima incendiaria stagione di Francesco Cossiga per usarla contro di lui.
Lo dipingono come un suo storico e giurato nemico che oggi però starebbe scivolando sulle stesse «prassi irrituali», «forzature», «interferenze», «esorbitanze dai poteri» e «giochi politici» che si era concesso il Picconatore una ventina d’anni fa.
Così, ricordano la prova di forza aperta tra la primavera del 1991 e l’inizio del ’92, quando il Pds, dopo una lunga gestazione, preparò un dossier di quaranta pagine per la messa in stato d’accusa di quel presidente della Repubblica che, con una traumatica profezia della catastrofe irrigata da durissime e asfissianti esternazioni («vi prenderanno a pietrate per le strade», ripeteva ai leader di partito, compreso il proprio) aveva messo il sistema sotto stress – e quasi in torsione – facendosi in prima persona patrocinatore di una vasta riforma della Carta costituzionale
L’iniziativa presa allora da Botteghe Oscure fu archiviata dal Parlamento al termine di un esame trascinatosi fino all’11 maggio 1993, quando al Quirinale c’era già da un pezzo Oscar Luigi Scalfaro.
E ora, per una sorta di straniante legge del contrappasso, un certo fronte politico-mediatico recrimina che anche Giorgio Napolitano avrebbe tracimato dagli argini costituzionali e sarebbe meritevole di impeachment.
Con un destino che dovrebbe quindi ricalcare quello di Cossiga.
Pretesa che poggia su basi più che fragili, costituzionalmente inesistenti, lanciata dal circuito Movimento 5 Stelle–Fatto Quotidiano .
Ma su cui soffia aggressivamente pure Forza Italia, nella speranza di alzare il più tossico dei polveroni. In modo da intimidire il capo dello Stato, condizionarne i passi (in vista di un impossibile salvacondotto per il Berlusconi decaduto da senatore?), spingerlo a sloggiare dal Colle dopo averlo pregato con il cappello in mano, appena otto mesi fa, di concedere il bis
Un pressing incrociato che si alimenta di ricostruzioni spesso confuse e distorte, come minimo approssimative e in qualche caso platealmente fuorvianti, per Napolitano.
Insopportabile, per lui, passare alla stregua di un irriducibile avversario ideologico del vecchio presidente scomparso un paio d’anni fa.
E, in quanto tale, congiurato di spicco in quel «partito trasversale» che avrebbe voluto far processare Cossiga per attentato alla Costituzione e spodestarlo.
Altro che fedeltà con la rigida disciplina imposta dal vertice dell’ex Pci. Napolitano fu tra i pochi a contrastare la linea più aspra scelta dal Pds.
Certo, era anche lui colpito e sotto choc per le devastanti provocazioni del Picconatore, e non a caso sottolineò che «al Quirinale si era totalmente smarrito il senso della misura».
Tuttavia indicò le dimissioni come la via d’uscita che avrebbe salvaguardato di più la saldezza di un sistema se non sabotato, di sicuro ferito.
Con Emanuele Macaluso, Gianni Pellicani e Umberto Ranieri – la corrente riformista, cosiddetta dei «miglioristi», di cui era leader – spinse per quella soluzione.
Pagandone un prezzo rispetto ai compagni di partito. E lo stesso Cossiga glielo riconobbe.
Lo dimostra una lettera chiarificatrice finora inedita che Maurizio Caprara, suo portavoce in questo nuovo mandato, ha fatto avere al Corriere proprio per sgombrare certe intossicate letture
Il contrasto su quella decisione – «presa non collegialmente» – il capo dello Stato lo aveva sintetizzato nella propria Autobiografia politica , pubblicata da Laterza nel 2005, quand’era da poco tempo senatore a vita e non ancora eletto al Quirinale.
Rammenta in quelle pagine Napolitano: «Non eravamo d’accordo con quella esasperazione, in termini istituzionali, della polemica con il presidente della Repubblica… ma nessun dissenso politico poteva giustificare il protrarsi di quella campagna di deformazioni e insinuazioni contro noi riformisti».
Cossiga, che dei travagli interni di Botteghe Oscure sapeva molto, dimostrò di non considerare «in alcun modo tendenziosa o ostile la posizione» tenuta all’epoca dall’attuale capo dello Stato. «Caro Giorgio», gli scrisse tra l’altro il 2 novembre 2005 l’ex picconatore, «ho molto apprezzato il riferimento al dissenso dell’area riformista del Pci su episodi che hanno dolorosamente coinvolto la mia persona. Ma alcuni che dissentivano da te, si sono ricreduti…». E chiuse la missiva con un auspicio affettuoso, che aveva il sapore del presentimento: «Mi auguro che il centrosinistra (anche con il trattino) ti valorizzi! Ma perchè non eleggerti capo dello Stato? Io ti voterei!!!».
Marzio Breda
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 3rd, 2012 Riccardo Fucile
ROSARIO MONTELEONE, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO REGIONALE, COMPARE IN DIVERSE INCHIESTE… DALLE INTERCETTAZIONI EMERGONO I SUOI RAPPORTI CON MIMMO GANGEMI, AL CUI APPOGGIO SAREBBE RICORSO PER OTTENERE AIUTO ELETTORALE
Due giugno, festa della Repubblica, è il giorno in cui vengono nominati i cavalieri della Repubblica.
E fra i nominati ieri da Giorgio Napolitano figura anche Rosario Monteleone, presidente del Consiglio regionale della Liguria.
Ma Monteleone, politico dell’Udc con una parentesi nella Margherita, compare nelle indagini che hanno portato all’inchiesta ‘Maglio’ e in alcuni passi dell’indagine ‘Crimine’, come ha denunciato oggi la Casa della Legalità di Genova.
Monteleone non è indagato ma dagli atti emergerebbe una sua vicinanza con Mimmo Gangemi, il fruttivendolo di San Fruttuoso accusato di essere il capo della ‘ndrangheta in Liguria, a cui sarebbe ricorso più volte per ottenere appoggio elettorale.
Nell’inchiesta ‘Crimine’, nel mezzo della lotta che oppone Gangemi a Domenico Belcastro per le candidature da sostenere, Belcastro si lamenta con Giuseppe Commisso perchè Gangemi vorrebbe sponsorizzare “un finanziere, uno sbirro.
Cinque anni fa ha detto che lui che è sbirro questo qua, che è un infame, adesso ha voluto appoggiare a Monteleone, lui lo potete appoggiare.
Uno vale l’altro, appoggiamo a Monteleone”.
La ragione di questa scelta, spiega ancora Belcastro, risiede nel fatto che il politico avrebbe promesso un posto di lavoro al genero di Gangemi.
Ma l’intercettazione rivela anche che i rapporti fra Monteleone e la consorteria non sono sempre stati pacifici e lineari.
In particolare, dalle indagini che hanno portato all’operazione Maglio (ma che non sono confluite nell’Ordinanza di misure cautelari) emerge che Monteleone si sarebbe servito dell’appoggio del clan già nelle elezioni del 2005.
Una volta eletto, però, non avrebbe mantenuto i patti convenuti, provocando così una rottura con il sodalizio che, in spregio, lo avrebbe soprannominato “il lardone”.
“Allora lo facciamo sto armistizio, la facciamo sta spaghettata?”, propone ancora Monteleone all’alba delle elezioni del 2010, in un tentativo di ricucire i rapporti con il clan.
L’intercettazione è riportata in un rapporto del Ros in cui si evidenzia “come gli amministratori locali (alcuni di origine calabrese) ben conoscessero i caratteri organizzativi della struttura ‘ndranghetistica, rivolgendosi a personaggi inseriti nel locale del capoluogo di Regione, per far giungere richieste di appoggio elettorale alle strutture periferiche”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
Monteleone, nel 2005 incassò l’appoggio della ‘ndrangheta per le elezioni regionali. Molteplici furono gli incontri presso il negozio di GANGEMI ed al bar vicino.
Poi ebbe dallo stesso gruppo facente capo al boss GANGEMI un bel pacchetto di tessere per vincere il congresso di partito.
Poi non mantenne la “parola” data agli ‘ndranghetisti che quindi lo consideravano un traditore, ribattezzandolo in senso dispregiativo “il lardone”. Alle ultime elezioni regionali è stato ricandidato.
Ha cercato di “ricucire” il rapporto con gli ‘ndranghetisti, come certificato dalle più recenti indagini del ROS (nell’immagine un estratto del loro rapporto alla Dda).
La “spaghettata” che proponeva per fare la pace ed incassare i voti non convince il Gangemi e gli altri componenti del “locale” della ‘Ndrangheta di Genova.
Monteleone viene rieletto in Regione, nella coalizione di Burlando (la stessa appoggiata fortemente anche da un altro affiliato della ‘ndrangheta, a quanto risulta dagli Atti, alias Vincenzo “Enzo” Moio).
Poi viene nominato Presidente del Consiglio Regionale della Liguria.
Per festeggiare la sua rielezione, dopo le elezioni del 2010, Monteleone ha pensato bene di fare una cena nel ristorante del noto boss “Gianni” (Giovanni) Calvo, esponente storico di Cosa Nostra a Genova, già dagli anni Novanta ed indicato chiaramente in due inchieste “pesanti” recentissime (una del ROS di Genova sulle attività di usura del boss ‘ndranghetista Garcea Onofrio con il riesino Abbisso Giuseppe (legato al Calvo; l’altra della DDA di Firenze).
Oggi, 2 giugno 2012, in occasione della Festa della Repubblica Rosario Monteleone, è stato formalmente nominato — per decisione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – “Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana”, nell’ambito delle onorificenze che venivano ufficialmente consegnate in occasione della Festa della Repubblica.
Non solo non si è dimesso dal Consiglio Regionale… ma gli viene data anche l’onorificenza della Presidenza della Repubblica.
(da “Casa della Legalità “)
Commento del ns. direttore
A proposito del Terzo Polo in Liguria, ricordiamo che Rosario Monteleone, in qualità di segretario regionale dell’Udc ligure, è stato l’artefice dell’operazione di inserimento nella Lista Musso, per le comunali di Genova, di uomini dell’Udc.
Il listone unico, voluto dal suo partito e dal segretario regionale di Futuro e Libertà , Enrico Nan, alla fine ha determinato l’elezioni di 3 consiglieri Udc su 4 e nessuno di Fli.
I fatti sopra indicati e ben noti da tempo avrebbero dovuto sconsigliare la dirigenza di Fli, partito che nel Manifesto programmatico fa della trasparenza e della legalità una bandiera, dal “confondersi” con personaggi di tale fatta.
Non a caso avevamo sostenuto, ovviamente inascoltati, la necessità che Fli si presentasse con il proprio simbolo, per tenere ben distinte le due liste.
Ma a Roma vige notoriamente la regola delle tre scimmiette: chi non vede, chi non sente e chi non parla.
E qualcuno vorrebbe il Terzo Polo in Liguria?
Con Monteleone e Nan?
Auguri.
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Febbraio 13th, 2012 Riccardo Fucile
SONO APPENA 224 SU 945 I DEPUTATI E I SENATORI CHE HANNO CONCESSO LA LIBERATORIA PER SUPERARE L’OSTACOLO DELLA PRIVACY… RECORD DI ADESIONI DAL PD: 139… IL PDL SI FERMA A 42, I LEGHISTI SONO APPENA 4
Solo 224 parlamentari su 945, cioè uno su quattro, sono disposti ad alzare il velo sui loro patrimoni e redditi, accettando che siano pubblicati online sul sito di Camera e Senato.
In questo modo sono in grado di consultarli tutti i 50.276.247 elettori e non solo (com’è ora) quelli – pochissimi – che si recano negli uffici del Parlamento per prenderne visione su documenti cartacei.
L’operazione trasparenza via web, promossa dalla deputata radicale Rita Bernardini, ha trovato, però, la resistenza dei Questori, che s’erano opposti appellandosi ad argomentazioni giuridiche.
Il presidente Fini ha poi deciso di consentirne la pubblicazione previa la sottoscrizione
di una liberatoria.
Ma appena una piccola parte di senatori e deputati ha accettato di firmarla: 139 del Pd, 42 del Pdl, 4 della Lega Nord, 12 dell’Idv, 8 dell’Udc, 5 di Fli e i restanti del Gruppo Misto.
Ecco alcuni dei parlamentari che hanno acconsentito alla pubblicazione dei propri patrimoni
Brunetta
Da Ravello alle Cinque Terre proprietà con panorama-mare
Inizia la legislatura – ancora single – vantando una casa con terreno a Ravello (Salerno), una a Monte Castello di Vibio (Perugia), una a Roma e un’altra a Venezia.
Viaggia, a scelta, su una Fiat 500 del ’68, su una Lada Niva o una Jeep Wrangler.
Esibisce un 740 da 228 mila euro.
Nel 2009, mentre è ministro della Funzione pubblica, acquista per 40mila euro una casa di 40 metri quadri, con giardino di 400 (da ristrutturare), a Riomaggiore, alle Cinque Terre (La Spezia).
Il reddito negli anni successivi passa a 182 mila, 310 mila e 279 mila.
Veltroni
Un reddito super fino al 2007 poi nel 2011 scende a 136 mila
Walter Veltroni viene eletto nel 2008 presentando un reddito 2007 invidiabile, 477 mila euro. Paga 198mila euro di tasse.
Con ogni probabilità , agli emolumenti politici si sommano le royalty delle vendite dei suoi libri. Una volta eletto, l’imponibile dell’ex segretario democratico ha un brusco calo, quasi si dimezza passando nel 2009 (relativo all’anno prima) a 238mila mila e a 214mila l’anno successivo.
Ma nel 2011 (rispetto al 2010), il reddito si riduce a 136 mila.
Maroni
Una casa a Varese, un terreno anche una barca per l’ex ministro
Tra i “beni mobili iscritti in pubblici registri” di proprietà di Maroni Roberto-Ernesto risultano, nel 2008, una barca di sedici metri (una quota del 33%) immatricolata nel 1980, due Fiat Panda e un’Audi A4.
Dichiara fabbricato più terreno a Lozza, vicino a Varese, e dichiara un imponibile di 220 mila euro (di cui 90 da lavoro autonomo).
Negli anni successivi acquista un immobile a Varese con la consorte. E vende un’auto. Mentre è ministro non esercita la professione di avvocato, e dunque il reddito scende a 170 mila euro.
Bersani
Il leader pd a quota 137 mila euro e allega lo stipendio della moglie
Pier Luigi Bersani dichiara nel 2008 50 mila euro di spese elettorali per approdare alla sedicesima legislatura.
Il segretario Pd pare non amare le auto made in Italy visto che dichiara due auto d’Oltralpe (Renault Megane e Twingo).
Il suo reddito oscilla da 163mila euro nel 2007, a 150, 137 e 136 mila negli anni successivi.
Il politico democratico allega al suo anche il 740 della moglie, che ha un reddito complessivo di 15mila euro.
Al netto delle tasse, la signora Bersani guadagna all’incirca mille euro al mese.
Di Pietro
Un appartamento a Bruxelles e investimenti a Montenero
Antonio Di Pietro, nel 2008, denuncia di possedere sei fabbricati, uno persino a Bruxelles (ma solo al 50%), uno a Curno (Bg), e poi a Montenero di Bisaccia (Cb).
L’appartamento a Milano è di una Srl, Antocri, di cui è proprietario.
Viaggia su una Hyundai Santa Fè, dichiara 219mila euro, ed ha 26mila azioni Enel.
Negli anni successivi cessa l’usufrutto dei fabbricati a Bergamo e Milano, vende Curno, compra e vende terreni e fabbricati nella sua zona natia.
E si libera della Santa Fè.
Il suo reddito si assesta alla fine intorno ai 190mila euro.
Bonino
Immobili e 217 mila euro di reddito ma il 70 per cento va ai Radicali
Emma Bonino, stando al suo stato patrimoniale, nel 2010 ha incassato un reddito complessivo di 217 mila euro (compresa la pensione da parlamentare europea di 17 mila euro).
Di questi, però, ne ha versati al partito Radicale, stando alla documentazione presentata, 158 mila.
Per essere eletta, ha speso 447 euro in volantini.
Il suo patrimonio immobiliare è composto da un negozio a Roma, in piazza della Malva, un fabbricato a Roma, un box a Bra (Cn), e una casa ad Alassio, in Liguria.
Casini
Azioni del Monte dei Paschi e quote in sei fabbricati
Pier Ferdinando Casini, appena eletto, dichiara 150mila euro e di essere proprietario di sei fabbricati (ma in quote che vanno da un sesto al 50%), a Bologna.
Nel 2008 ha 489 azioni San Paolo, 115 Unicredito Italiano e 400 della Banca Alto Reno Lizzano in Belvedere.
Ma negli anni successivi il leader Udc incrementa il suo portafoglio azionario acquistando 13 mila azioni del Monte dei Paschi di Siena.
E svariati titoli stranieri: dai tedeschi Solarword, Basf e Siemens ai francesi Peugeot e Citroen, dagli spagnoli della Telefonica Sa ai lussemburghesi D’Amico Shipping Luxemburg.
Della Vedova
Un rustico da 200 metri, azioni e un reddito da 126 mila euro
Benedetto Della Vedova (uno dei quattro di Fli ad aver accettato la pubblicazione online dei dati fiscali), nel 2008 dichiara di aver un rustico a Tirano, vicino a Sondrio, un alloggio a Milano di sessanta metri quadri e una Fiat Croma. Dichiara 126 mila euro.
Gli anni successivi acquista una Sedici, il rustico cresce da 75 a 200 metri quadri, e il portafoglio azionario s’arricchisce di azioni del Credito Valtellinese, del Fondo Carmignac.
Nel 2011, l’anno in cui i finiani furono cacciati dal Pdl, stipula una polizza vita rivolgendosi al Capital Progress di Allianz.
Alberto Custodero
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 17th, 2012 Riccardo Fucile
PER FORTUNA IN ITALIA PER OGNI SCHETTINO C’E’ ANCHE UN DE FALCO…DOPO LA DIFFUSIONE DELLE TELEFONATE TRA IL CAPO DELLA CAPITANERIA DI PORTO DI LIVORNO E IL COMANDANTE DELLA CONCORDIA, IL WEB SI SCATENA TRA STIMA E INDIGNAZIONE
La nave prende voce. E risuona in tutta Italia.
Passa dai telegiornali, rimbalza tra le stanze degli uffici, esce dai computer, dalle radio, dai profili dei social network.
Frasi, toni, risposte e domande che danno un quadro più chiaro di una notte buia.
Si ascoltano, riascoltano e mentre la Costa Concordia si inclina e affonda lenta, i contorni dei protagonisti del naufragio diventano più netti. Il capitano, gli ufficiali, la capitaneria di porto.
Chi ha aiutato, chi è andato via, chi ha avuto troppa paura, chi ha mantenuto il controllo, chi ha tentennato.
Ma la voce della nave oggi è quella di Gregorio De Falco, capo della Capitaneria di porto di Livorno. Esce dalle telefonate nelle ore 1 del naufragio con Francesco Schettino, comandante della Costa Concordia.
E’ la sua voce oggi a fare eco ovunque.
Il timbro deciso come nei film di guerra in bianco e nero, come gli eroi dei fumetti. Ma purtroppo è tutto vero.
De Falco ha una voce e l’impostazione d’altri tempi.
E non ci sono descrizioni che valgano più di quel tono indignato per far immaginare la scena di una sola notte.
Non è questione di processi nè giudizi.
C’era il capitano della nave su una scialuppa. C’erano le persone ancora intrappolate dentro.
C’era il capo della capitaneria in una stanza, alla radio, che cercava di capire la situazione, che spingeva il comandante a tornare indietro.
Per fare quello che lui, dalla sua stanza, non poteva fare.
Al telefono, rumori di fondo, altre persone intorno, caos. Schettino che si giustifica: “Ma si rende conto che è buio e qui non vediamo nulla …”.
De Falco, perentorio: “E che vuole tornare a casa Schettino? E’ buio e vuole tornare a casa? Salga sulla prua della nave tramite la biscaggina e mi dica cosa si può fare, quante persone ci sono e che bisogno hanno. Ora!”.
L’allarme alla capitaneria era arrivato da una passeggera della Concordia, tramite i carabinieri.
Da quel momento una serie di telefonate legano i due comandanti.
La prima dalla capitaneria il comandante Schettino la riceve verso mezzanotte e mezza (00,32).
Gli viene chiesto quante persone sono ancora a bordo.
Pochi minuti dopo (00,42) una nuova telefonata. De Falco chiede quante persone devono ancora essere evacuate. Schettino risponde un centinaio di persone. Inizia a contraddirsi. E’ fuori la nave.
De Falco è infuriato, capisce che sta mentendo ma non alza il tono, smuove il comandante, che sembra sperduto. “Comandante, ha abbandonato la nave?”, chiede De Falco. E’ gelido.
Spazientito, non vuole perdere tempo, per perdere le staffe ci sarà tempo: “Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo!”, dice.
All’1,46 le comunicazioni si fanno più concitate.
L’ufficiale della guardia costiera alza la voce.
Schettino: “Comandà , io voglio salire a bordo, semplicemente che l’altra scialuppa qua… ci sono gli altri soccorritori, si è fermata e si è istallata lì, adesso ho chiamato altri soccorritori…”.
De Falco: “Lei è un’ora che mi sta dicendo questo. Adesso va a bordo, va a B-O-R-D-O!. E mi viene subito a dire quante persone ci sono”.
Schettino: “Va bene comandante”.
De Falco: “Vada, subito!”
Gregorio De Falco è di origini napoletane, arruolato in Marina nel settembre del 1993, arrivato a Livorno nel 2005.
Vent’anni di esperienza alle spalle.
Venerdì sera era a capo della sala operativa della Capitaneria e coordinava un team di cinque persone.
Insieme a lui c’erano il capoturno, un operatore radio, l’operatore dell’apparecchiatura Port approach control (Pac), l’ufficiale di ispezione e l’ufficiale operativo, De Falco appunto.
Che in un’intervista sul Tirreno ha detto: “Abbiamo fatto solo il nostro dovere, cioè portare a regime il soccorso. La Capitaneria è un’istituzione sana, bellissima, semplice. Io sono innamorato del lavoro che faccio”.
E tutti hanno immaginato il timbro in cui l’ha dichiarato.
La rete, dopo aver sentito le voci della nave, si è scatenata.
Su Twiiter gli hashtag sono diversi, tre di questi hanno quasi 20 post al minuto (#vadaabordocazzo – #schettino – #defalco).
Su Facebook, sono nati subito altrettanti fanclub per De Falco e uno a sostegno di Francesco Schettino con duemila iscritti.
Continuano a riempirsi di commenti.
Post di stima per De Falco e indignazione per Schettino. Onore, gloria, e disonore.
L’Italia buona e l’Italia irresponsabile.
Qualcuno invita a non accanirsi troppo sul comandante della Concordia, a non renderlo vittima di un “tribunale del popolo”.
Ma non funziona così.
Funziona che la rete è viva, e commenta.
“La telefonata fra il comandante De Falco e Schettino andrebbe tradotta subito in tedesco. Monti apprezzerebbe”, dice un utente.
E un altro “Direi che vadaabordocazzo dovrebbe essere l’hashtag per tutti quelli che dicono ‘non è un problema mio'”.
E poi “Viva l’Italia del Comandante della Capitaneria di Porto”.
E ancora. “Comunque quella di De Falco è la cazziata del secolo”. E anche: “Io son qua, sto coordinando, ma scusate: che r’è na biscaggina?? Ccà c’stamm’ muzzann’e fridd!! Tenimm’l ummid intelloss!”, scrive il rapper Frankie Hi Nrg, anche lui su Twitter.
E mille altri, come: “grazie al cielo in italia per ogni schettino, c’è anche un de falco”.
Così la tenacia di un uomo del quale tutti hanno ascoltato la voce, oggi ha battuto i tentennamenti di un altro che avrebbe dovuto restare a bordo.
Che invece ha risposto al telefono da una scialuppa di salvataggio.
Che non aveva contato i passeggeri rimasti a bordo.
Che era al sicuro con gli altri ufficiali.
Che negli audio registrati sembra un bambino nel panico sgridato da un adulto.
Ma soprattutto un comandante che nel pericolo, non è riuscito a rispettare il codice d’onore.
Di lui deciderà il tribunale, deciderà la legge.
La reazione della rete è solo una critica alla voce che ha tentennato, alle bugie scoperte, e al disonore.
Katia Riccardi
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 29th, 2010 Riccardo Fucile
LA TELEFONATA NON E’ STATA SMENTITA E GETTA UN’OMBRA POLITICA SU UNA VICENDA CHE METTE A RISCHIO ANCHE LA TENUTA DEL GOVERNO… COME IL FATTO CHE GLI INDAGATI SIANO TUTTI DELL’ENTOURAGE DEL PREMIER
Le «indagini difensive» dell’avvocato Niccolò Ghedini e quelle della Procura, come ribadito ancora ieri dal procuratore Bruti Liberati, convergono su un unico punto: Silvio Berlusconi non è nè può essere indagato per eventuali serate a «luci rosse» trascorse ad Arcore in compagnia anche di una minorenne.
La convergenza però finisce qui.
Perchè per il resto, a partire dalla presenza o no di ragazze di facili costumi alle feste di Villa San Martino per finire con la telefonata fatta alla Questura di Milano dalla presidenza del Consiglio per far rilasciare «Ruby», la minorenne protagonista del nuovo scandalo e che nel maggio scorso era stata fermata per furto aggravato, la divergenza è totale.
La vicenda della telefonata per altro è oggetto di grande attenzione da parte degli inquirenti perchè non solo rappresenta una sorta di cartina di tornasole dei racconti di «Ruby», ma potrebbe anche configurare un reato di abuso d’ufficio.
Ma se il Cavaliere viene «salvato» dall’unico reato che campeggia finora sul fascicolo d’inchiesta, ovvero favoreggiamento della prostituzione, così non è per due big della televisione che avrebbero animato le serate nella villa del premier.
Perchè nell’inchiesta, oltre all’impresario Lele Mora – già finito nel mirino e poi prosciolto per ipotesi simili nell’inchiesta su Vallettopoli – spunta il nome di Emilio Fede, il direttore del Tg4, e, per finire, quello di Nicole Minetti, diventata famosa per essere stata l’igienista dentale del Cavaliere che, rimastone folgorato, la candidò e la fece eleggere al Consiglio regionale della Lombardia.
Sono questi tre personaggi, per ora, a essere stati iscritti sul registro degli indagati in seguito ai racconti di «Ruby», la diciassettenne di origini marocchine, fuggita dalla Sicilia due anni fa per tentare la fortuna nel rutilante mondo delle discoteche e che ha riempito diversi verbali, come testimone, su un paio di serate, forse tre (la prima il 14 febbraio scorso, San Valentino, la seconda un mese dopo, la terza poco dopo ancora) in compagnia del premier.
Una «ragazza immagine», secondo la definizione più benevola, una «escort» secondo la procura, che sarebbe stata introdotta ad Arcore prima grazie alle attenzioni di Lele Mora e poi grazie ai passaggi in auto di Emilio Fede, con il viatico della Minetti.
E sono state proprio queste circostanze a far scattare il reato di «favoreggiamento» della prostituzione. Ma non minorile.
Il che significa che a fornire eventuali prestazioni sessuali non sarebbe stata tanto Ruby, che compirà 18 anni tra due giorni e che ha negato anche a verbale di avere avuto rapporti con chicchessia durante le feste di Arcore, quanto altre «amiche» sempre della cosiddetta «scuderia» di Lele Mora, contattate talvolta da Fede e talvolta da Nicole Minetti.
«Ospiti» disinibite di cui ha parlato «Ruby», finite in mezzo a un catalogo vario di personaggi: da celebri conduttrici televisive, a star in ascesa, a veline in carriera, fino a due ministre.
Tutte omaggiate, sostiene «Ruby», di vari regalini: a lei in particolare un abito bianco e nero di Valentino con cristalli di Swarovski, «regalato da Silvio».
Ma successivamente i regali si sarebbero fatti più importanti, fino a ricevere una Audi del valore di oltre 100 mila euro, sebbene la procura sia piuttosto scettica sull’esistenza di somme così importanti.
La seconda volta, preavvisata da Mora, «Ruby» si sarebbe fermata ad Arcore anche per la notte partecipando, come spettatrice, a uno strano gioco che alla villa veniva chiamato «bunga bunga» (titolo di una vecchia barzelletta) e dove Berlusconi sarebbe stato l’unico maschio presente.
La terza volta, infine, si sarebbe trattato di una cena cui avrebbero partecipato anche Daniela Santanchè, George Clooney ed Elisabetta Canalis. In quest’ultima occasione, ha raccontato la giovane, Berlusconi le avrebbe raccomandato di farsi passare per una «nipote di Mubarak», il presidente egiziano, per potere così giustificare il suo nuovo tenore di vita.
E sarà proprio sostenendo che in Questura si trovava «la nipote di Mubarak» che dalla presidenza del Consiglio il 9 maggio scorso arriverà la telefonata notturna per far rilasciare Ruby, denunciata da un’altra ragazza per un furto di 3000 euro.
Fin qui il racconto della giovane. Ma cosa c’è di vero in tutto ciò? Secondo la difesa Ghedini «un bel niente».
E ieri già sono arrivate alcune smentite: dagli indagati in primis, come Fede e Mora, e poi da alcuni ospiti, come Daniela Santanchè o lo stesso Clooney.
La Procura sa bene di muoversi su un terreno scivoloso.
Ma a differenza di Ghedini, secondo gli inquirenti alcuni riscontri ci sono già . Non solo in qualche interrogatorio delle altre «ospiti» di Arcore, che hanno confermato l’espressione gergale del «bunga bunga» ma anche nei regali ricevuti da Ruby e perfino dal suo cellulare, la cui cella satellitare, la sera di San Valentino, era posizionata ad Arcore.
Paolo Colonnello
(da “la Stampa“)
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Dicembre 30th, 2008 Riccardo Fucile
RIPORTIAMO IL TESTO DELL’INTERVISTA CHE FRANCESCO COSSIGA HA RILASCIATO A ROBERTO SCAFURI DE “IL GIORNALE”… ECCO COME L’EX PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIUDICA ANTONIO DI PIETRO
Presidente Cossiga, ha visto? Preso in castagna, Antonio Di Pietro ha sgridato pure il figlio Cristiano.
“Guardi se Di Pietro dice buongiorno, io sono certo che è già sera. Quando dice buonasera, sono sicuro che è l’alba”.
Che c’azzecca, presidente?
“C’azzecca, perchè mi tocca riconoscere che, avendo torto su tutto, stavolta Tonino la dice giusta: le raccomandazioni possono essere fatte da chiunque e non sono certo un comportamento penale. Io non le faccio più soltanto perchè non me lo chiedono”.
Di Pietro allora l’ha imbroccata, per una volta.
“Può capitare. Però mi chiedo che cosa avrebbe detto se le stesse intercettazioni avessero riguardato un esponente del Pdl o del Pd. Avrebbe sostenuto che la raccomandazione è un reato gravissimo e che le intercettazioni sono necessarie”.
Non è tutto oro quello che luce, nei comportamenti dell’ex pm.
“Oro di Campobasso, più falso di quello di Bologna” Continua »
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