Aprile 27th, 2016 Riccardo Fucile
LA SENATRICE DEM ANTICAMORRA: “IL PD HA SCARSA PERCEZIONE DEL RISCHIO COLLETTI BIANCHI”
“Matteo Renzi ascolta solo chi è portatore di grossi pacchetti di voti, mentre dovrebbe ascoltare anche chi non lo è. Tanti come noi non portano voti e per questo sono relegati ai margini”.
A parlare in un’intervista a La Stampa è Rosaria Capacchione, cronista del Mattino di Napoli che vive sotto scorta per le minacce della camorra, eletta nel 2013 in Senato con il Pd.
Un partito nel quale dice di non riconoscersi più dopo l’inchiesta antimafia sulla presunta corruzione e gli appalti truccati in favore del clan dei Casalesi, che vede indagato il presidente del Pd campano Stefano Graziano, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
“Ho abbracciato un progetto un progetto che in quel momento era rappresentato dal partito ma devo constatare che in quel partito non c’è la capacità di leggere certi fenomeni”, questa la dura analisi della Capacchione secondo cui tra i democratici “c’è una scarsissima percezione del pericolo che arriva dai colletti bianchi e dall’attività disinvolta di certe parti della Pubblica Amministrazione. I rimedi che si cercano sono spesso di facciata — continua la senatrice — l’esibizione del casellario giudiziario non serve a nulla, non quello il punto”.
Secondo la senatrice il punto è che “una volta i partiti facevano da argine contro le mafie“. La futura classe dirigente dei partiti si faceva le ossa nei circoli. Mentre adesso “quell’istanza di controllo è fallita”.
Perchè oggi “i circoli sono luoghi pressochè disabitati, le decisioni arrivano tutte preconfezionate e le voci di allarme vengono derubricate costantemente a echi di guerre tra correnti. Queste cose le dico e mi batto da tempo, inascoltata”, accusa la giornalista che punta il dito contro il segretario-premier: “Ascolta solo chi è portatore di grossi pacchetti di voti”.
E in Campania, “territorio intriso di cultura mafiosa”, anche nel Pd “c’è la corsa di certi personaggi a salire sul carro del partito che vince”.
“Che il Partito democratico della Campania fosse diventato oggetto di un arrembaggio piratesco da parte di affaristi privi di scrupoli e collusi, è cosa che abbiamo denunciato da molto tempo”, ha detto ieri a caldo subito dopo l’iscrizione nel registro degli indagati di Graziano.
E il suo futuro all’interno del partito dopo l’inchiesta che lo ha travolto in Campania? “Magari resterò anche iscritta al gruppo Pd a palazzo Madama, se i colleghi mi vorranno ancora tra loro. Di certo non mi candiderò alle prossime elezioni politiche. D’altronde io non sono una portatrice di voti controllati. E poi mi manca la possibilità di dire queste cose che ho sempre detto nel corso della mia carriera di giornalista, senza che vengano lette sempre col filtro dell’interpretazione partitica” conclude Capacchione che nel 2013 venne candidata alle politiche perchè “emblema della cultura della legalità nella lotta contro la criminalità organizzata, temi per noi di assoluta priorità che avranno bisogno di protagonisti nel nuovo Parlamento”, diceva il segretario dell’epoca Pierluigi Bersani.
Della stessa idea Andrea Orlando, allora responsabile giustizia e futuro Guardasigilli, che parlava di “un forte segnale di incoraggiamento a chi raccontando le mafie e la loro perversa azione contribuisce a combatterle. Con Rosaria entra in Parlamento una storia e una competenza importante per rafforzare gli strumenti di contrasto alla criminalitaà organizzata e per il riscatto civile del Mezzogiorno e del Paese”.
Il duro attacco alla classe dirigente del Pd da parte della Capacchione arriva a pochi giorni di distanza dalle parole di un’altra icona dell’antimafia in Campania, Roberto Saviano.
Che in un’intervista a Sky TG24 ha detto (guarda): “Non credo nella giustizia neanche più per un secondo. In nome della giustizia si sono fatti i peggiori crimini ed ancora oggi vengono commessi. Credo nella bontà , credo nel bene fatto occhio che guarda nell’occhio, mano che stringe mano. Non ho alcuna speranza verso le istituzioni, non ho alcuna speranza verso la politica, non ho alcuna speranza verso i media”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 22nd, 2015 Riccardo Fucile
NEL LIBRO “IL GALLO SIAMO NOI” LA STORIA AUTOBIOGRAFICA DI VIVIANA CORREDDU, EX TOSSICODIPENDENTE TIRATA FUORI DALLA DROGA GRAZIE ALLA COMUNITA’ DI SAN BENEDETTO
Pubblichiamo il reportage di Ferruccio Sansa dalla Comunità di San Benedetto al Porto realizzato in occasione dell’uscita di Il Gallo Siamo Noi, scritto da Viviana Correddu, ex tossicodipendente tirata fuori dalla droga grazie al lavoro del prete genovese e dei suoi operatori (Chiarelettere 2015).
Il libro racconta il suo persorso di liberazione e il ritorno a una vita “normale”. La prefazione è di Vasco Rossi.
La Liturgia delle Ore, con la copertina di pelle consumata che ti pare di vederci il segno delle dita è lì, sulla scrivania. Pronta per essere aperta. Insieme con una bandiera della pace appesa alla lampada. Accanto un crocifisso di metallo e un altro, di stuzzicadenti, fatto da Maurizio Minghella. Proprio il serial killer di donne e prostitute ancora in carcere.
Poi alla parete la lavagnetta bianca con un messaggio a pennarello rosso che pare scritto ieri sera: “Pregare e fare le cose giuste tra gli uomini”.
Davvero sembra che Andrea Gallo possa rientrare nel suo studio da un momento all’altro. Che possa sedersi sulla sedia tutta consumata, rimediata chissà dove, e riprendere la sua missione.
Lo senti quasi fisicamente, forse per quel portacenere dove don Andrea posava i suoi sigari e dove trovi ancora un po’ di cenere.
Oppure guardando la brandina tutta sbilenca con la coperta di iuta pronta per essere usata, come faceva lui quando dopo una notte a leggere, scrivere lettere su lettere, pregare si lasciava andare per qualche ora di sonno.
Ma è soprattutto il tepore, la luce della primavera di Genova che preme sui vetri che ti fa sentire ancora la vita in questa minuscola stanza.
Così disadorna che sembra fatta apposta per mettere in risalto la grandezza di altre cose e dell’uomo che ci è passato.
Il Gallo non rientrerà più in questa stanza, sono già passati due anni, te lo ricorda l’orologio di plastica rosso appeso sopra la porta. Tic tac, tic tac, il tempo non si è fermato mai dal 22 maggio 2013 quando proprio su quel lettino Andrea si spense.
In poche ore, come per non dare troppo disturbo e pena. Erano appena le otto del mattino che lui, mentre tirava il respiro con i denti, spalancò gli occhi.
Sapeva che la fine era vicina, vicinissima, eppure accolse gli amici, il cronista, con uno sguardo che insieme sembrava comprendere questo mondo e qualcosa oltre. Stringeva la mano prendendo chissà dove le forze quasi fosse lui a doverti consolare della propria morte.
Sì, qualcosa è rimasto nella stanza affacciata sul porto, il calore che senti non è soltanto quello della stagione.
Erano in tanti, quel giorno a temere. Per Andrea, certamente, ma anche per la sua Comunità , per quei ragazzi — centinaia — che nella Comunità di San Benedetto al Porto trovano un approdo in ogni tempesta.
Bastava bussare e il pesante portone di legno si apriva, sapevi di essere accolto e non giudicato. Sempre. Comunque.
Il Gallo non c’è più, non fisicamente per lo meno, ma il suo gruppo ha resistito. È vivo.
È da poco passata l’alba e già senti che al piano di sopra qualcuno si è alzato. Sono don Federico Rebora, l’altra metà del Gallo, che ha condiviso in silenzio decenni di impegno e oggi a 87 anni non intende abbandonare la casa di San Benedetto.
Oppure Domenico Mirabile, che gira per il mondo, va e viene dalla Repubblica Domenicana, ma poi sempre qui.
E alle nove, potete starne certi, arriverà la Lilli.
Nella Comunità , ma in mezza Genova, basta dire il suo nome. A Gallo e ai suoi ragazzi ha dedicato ogni giorno della vita, fino, sembrerebbe, a dimenticarsi della propria.
Non è cambiato nulla nella casa, entri e trovi il pavimento di ardesia e marmo consumati, dove ti sembra ti vedere i passi di migliaia di persone. Anche il tuo.
Tutti entrati con i loro dolori e usciti quasi sempre consolati. Almeno dalla certezza di non essere soli. Di aver qualcuno che aveva cura di loro. Li pensava.
Tutta Genova è passata di qui, e non solo.
Volti noti, da Fabrizio De Andrè a Vasco Rossi e Fiorella Mannoia, fino a mille e mille giovani sconosciuti.
Tutti uguali, tutti subito amici. Bastava uno sguardo per riconoscersi uomini e donne.
Chi temeva che senza il Gallo si perdessero non aveva capito.
San Benedetto al Porto c’è ancora, nonostante tutto. Resiste questa casa con le altre due comunità , quella di Mignanego alle spalle di Genova e l’altra di Frascaro, nell’alessandrino, dove i ragazzi lavorano e piano piano si ritrovano.
Poi i quattro alloggi protetti con i loro ospiti. In tutto sono quasi cento persone. Più trenta dipendenti che mandano avanti la macchina.
La distribuzione degli indumenti, il lavoro in carcere, i gruppi per i genitori, l’accoglienza e l’assistenza, funziona tutto come prima, con la stessa anarchica precisione del Gallo.
“Per il secondo anniversario della scomparsa del Gallo — ricorda Megu Chionetti — abbiamo organizzato due giorni di iniziative”. Il primo giorno, giovedì, si sono trovati a Palazzo Ducale alle 21 per un incontro titolato: “L’Italia ripudia la guerra?”.
Poi, oggi, 22 maggio, dalle 17 in poi tutti in piazza don Andrea Gallo.
Chissà che faccia avrebbe fatto lui, il Gallo, a sapere che gli avrebbero dedicato una piazza. Ma sarebbe stato contento sapendo che era nel centro storico, proprio accanto alla via del Campo di De Andrè.
Saranno in tanti, ci sarà anche Moni Ovadia. E speriamo che vengano i genovesi che dopo la morte di Andrea, uno degli ultimi padri della città , si sentono più soli.
Intanto un’altra giornata è cominciata, la città si è risvegliata, senti le auto che corrono sulla sopraelevata che passa davanti alla finestra del Gallo, i rumori del porto; vedi le navi che arrivano e partono senza sosta.
C’è il mondo fuori, ma Andrea era riuscito a farlo entrare anche qui. In queste stanze così spoglie, con quell’odore inconfondibile di corpi, cibo, vita.
Si va avanti, allora come oggi. Fino a sera, fino alla riunione dei ragazzi che mandano avanti la Comunità .
Si rivedono nello studio di don Andrea, tra i suoi libri, in mezzo ai suoi oggetti.
Nella stanza sempre uguale che però non è stata trasformata in un mausoleo. Lui non avrebbe voluto. Andrea che il 22 maggio, quando la morte è arrivata, si è fatto trovare ancora vivo, con gli occhi aperti e la stretta forte della mano.
I suoi amici oggi parlano del futuro, dei nuovi progetti, delle difficoltà da superare. Ma ce la faranno, non hanno dubbi.
Dalla finestra si vede la Lanterna che illumina la notte sempre con lo stesso ritmo: un lampo, cinque secondi, un lampo, quindici secondi.
Il simbolo di Genova. Ma anche certi uomini, pur così fragili, sanno portare una luce, indicare la strada verso un porto.
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 23rd, 2013 Riccardo Fucile
OLTRE GLI STECCATI: IL SACERDOTE CHE HA SALVATO VITE E DIGNITA’
Un giorno don Andrea incontrò un illustre prelato che lo rimproverò di non vivere all’altezza della dignità richiesta agli uomini di Chiesa.
Egli rispose con semplicità di limitarsi a seguire l’esempio di Gesù e di chiedersi ogni volta che avvicinava un drogato o un ladro o una puttana come avrebbe reagito Gesù al suo posto.
“Ah beh, caro don Gallo – ribattè l’illustre prelato – se lei la mette su questo piano…”
“E perchè, eminenza – ribattè lui – su che piano la dovrei mettere?”
Ciao don Andrea. Da poche ore sei entrato là dove gli angeli ti hanno sostenuto perchè il tuo piede non vacillasse.
Grazie da parte di tutti i poveri cristiani che avrebbero già da tempo perduto la fede, se esempi come quello di Francesco d’Assisi, madre Teresa e di don Gallo, prete degli angiporti, non li avessero confortati.
Papa Bergoglio ha scelto la pallida luce dell’argento per l’Anello del Pescatore.
Ma il tuo esempio di povero prete, il tuo cappellaccio spiegazzato, il tuo eterno mezzo sigaro, rifulgono come l’oro presso il trono di Dio.
Una volta dicesti: “A chi incontro per strada non chiedo se è di destra o di sinistra, se ha studiato o no, se è gay o eterosessuale. A qualcuno potrò magari insegnare l’italiano, loro mi insegnano la vita”.
E nella vita conta la coerenza con cui ci si batte per i propri convincimenti e la coscienza di far parte di una comunità umana fondata sulla solidarietà e l’aiuto ai più deboli.
Beati gli ultimi, oggi più che mai.
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Maggio 23rd, 2013 Riccardo Fucile
SI VANTAVA DI NON ESSER MAI ENTRATO IN UNA FARMACIA PER 84 ANNI”, RACCONTANO TRA LE LACRIME ALLA COMUNITà€ SAN BENEDETTO AL PORTO
Andrea è nel suo archivio”. Nella stanza di pochi metri quadrati, con quel quadro all’ingresso dove si intravvedono figure piegate dal dolore, ma anche uno squarcio di cielo.
Con quella porta stretta che a migliaia hanno varcato per cercare consolazione.
Come in un giorno qualsiasi, uno delle migliaia di questi 43 anni della comunità di San Benedetto al Porto.
Ma oggi è l’ultimo giorno. Don Andrea Gallo se n’è andato.
Dopo aver vissuto ogni minuto della sua esistenza in prima linea, ha deciso di partire con la massima discrezione.
Come fosse un giorno qualunque.
“Portatemi nel mio studio”, ha chiesto nei giorni scorsi tornando dall’ospedale.
Sapeva, sentiva, che l’orizzonte era vicino. Ma nessun addio, nessuna frase solenne.
E pensare che appena un mese fa era ancora lui. Certo, ormai sottile e trasparente come una foglia. “Poi all’improvviso ha detto che non dormiva più”, racconta Domenico Chionetti, il portavoce della Comunità di San Benedetto al Porto.
L’acqua nei polmoni.
In poche settimane il prete si è spento, lui che “in 84 anni non era mai entrato in una farmacia, non per sè, almeno”.
Ha chiesto soltanto di essere sistemato nella stanza dove da decenni chi ha bisogno di lui sa di poterlo trovare.
In una brandina nel suo studio, davanti agli occhi un’immagine della Madonna. In mezzo alle carte e ai libri di preghiera e di Gramsci.
Accanto a quella scrivania dove ha passato una vita a parlare e ascoltare. Dalla finestra affacciata sul porto si vedono le navi, i gabbiani spinti a terra dal vento di libeccio che spazza via le nuvole.
E si vede Genova cui Andrea Gallo è rimasto saldamente legato, nonostante i periodi passati nelle favelas del Brasile e nelle carceri.
A guardarla di qui, dalla Comunità di San Benedetto, ti pare una giornata qualsiasi: il traffico, i passanti. Non sa ancora, la città , che don Gallo non c’è più. Ma lui ha voluto così.
Che la notizia della malattia arrivasse all’ultimo, anche per la sua Genova.
Che la morte fosse davvero un momento della vita, pure se l’ultimo.
Andrea è rimasto lì per giorni. Le mani sempre pronte a restituirti la stretta, ma gli occhi puntati verso un luogo sempre più inaccessibile.
Come se tenesse aperta la porta, se mostrasse ai suoi amici che proseguire è possibile.
Accanto c’erano i volti di sempre: Paola, Domenico, Giambattista, Cinzia.
Soltanto più silenzio. E quello sguardo che fuggiva verso l’archivio, dove c’era Andrea con Lilli, con due i nipoti.
Dove stava accadendo qualcosa di grande e terribile.
“Vorrei piangere”, racconta Lucia sulla porta, “Vorrei, ma gli farei torto, a Gallo, che mi ha ridato la vita. Che mi ha insegnato a sperare”.
Sì, Dio sembrava più vero attraverso le parole di Andrea: “Credevamo a Dio perchè aveva Gallo come testimone”, prova a scherzare qualcuno.
Don Andrea che si è sempre definito “prete”. Più che religioso, più che sacerdote. Proprio prete.
Sono arrivati in tanti, anche il cardinale Angelo Bagnasco e don Andrea per riceverlo ha voluto essere vestito l’ultima volta.
Ma soprattutto ci sono i ragazzi della Comunità . Si chiamano sempre così, “ragazzi”, anche se sono passati decenni da che sono entrati la prima volta dal portone.
Se hanno magari sessant’anni, se i tatuaggi sui bicipiti sono deformati dall’età che svuota tutti. “Sai”, dice una donna che ti prende sottobraccio, “io tante volte in questi anni ho immaginato questo giorno. La morte di Andrea, intendo. Come avviene con il papà ”.
Padre, stupisce sentire tante volte questa parola per un sacerdote.
“Davvero Andrea ha avuto tanti figli. Lui prete li ha avuti attraverso di noi, i nostri bambini che sono nati perchè Andrea ci ha tolti dalla strada e salvati. Senza Gallo non sarebbero mai nati”, racconta Daniela.
Davvero è così: “C’erano anni che ogni settimana morivano dei giovani. Che cercavamo disperatamente comunità che li ospitassero per salvarli. Spesso era impossibile trovarne. Ma lui, don Gallo, apriva le porte a tutti. Sempre”, racconta un magistrato che conosceva Gallo da decenni.
Oltre al personaggio pubblico don Andrea è stato anche, soprattutto, questo.
I mobili di legno annerito, il pavimento con i disegni consumati.
Una canonica come tante, ma di queste poche stanze don Gallo ha fatto uno dei centri di gravità di Genova. Città in crisi, di coscienza prima che economica, e però fino a ieri sapeva che c’era questo prete a prendersi cura di lei.
Le alluvioni, il G8, gli scandali, don Gallo come i patriarchi delle famiglie era una di quelle figure che aiutano a non smarrirsi.
Ora dovrà cavarsela da sola. Genova, ma anche la Comunità : “Siamo una grande famiglia, cinquanta dipendenti. Centinaia di volontari. Ce la faremo”, assicura Chionetti.
Ma non sarà facile. Bisognerà trovare una nuova guida. Un sacerdote, forse, ma chi?
Don Federico Rebora, il parroco che ha seguito Gallo per 42 anni, ha 85 anni. Andrea istrionico, incontenibile, Federico mite, riservato.
Già , don Gallo doveva consolare, non ha avuto tempo per parlare di sè, della propria fine.
Di quel passaggio ha lasciato soltanto un messaggio indiretto, nelle prediche dei tanti funerali che ha dovuto celebrare: “Non è facile imparare a morire. Non è facile obbedire fino alla morte e quindi fare obbedienza alla morte. Non è facile fare di essa un dono di amore per la famiglia e per gli amici”, disse in una predica riportata nel suo ultimo libro “In viaggio con Francesco”, uscito proprio in questi giorni.
“Quando di sera tornavo a casa, sulla sopraelevata che attraversa il porto, guardavo verso la finestra di don Gallo. La vedevo spesso accesa. Ora Genova è più sola”, racconta Adriano.
Sono le 17,45 quando don Andrea lascia andare l’ultimo respiro.
Qualcuno corre in chiesa. Altri lo cercano sul terrazzino pieno di gerani, di rosmarino.
Una ragazza apre la finestra dello studio e la spalanca verso la città .
Come raccontò don Andrea: “Gesù disse… Vi ho tenuta nascosta una cosa che ora non posso più nascondervi: devo proprio partire. Addio”.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 23rd, 2013 Riccardo Fucile
FUORI DALLE RIGHE SIN DAL PRIMO INCARICO AL RIFORMATORIO, EDUCAVA I RAGAZZI ALLA LIBERTà€ E ALL’AUTONOMIA… ANIMATORE DELLA PARROCCHIA DEL CARMINE, FU TRASFERITO PIÙ VOLTE, FINO ALLA FONDAZIONE DELLA SUA COMUNITà€
Don Andrea Gallo, per tutti noi il Don, è il compagno che vorremmo avere al nostro fianco in ogni momento della vita.
Ci ha insegnato che il vizio capitale peggiore è l’ottavo: l’indifferenza.
È stato un grande rivoluzionario. Quando glielo rammentavo, la risposta era sempre la stessa: “Io ho seguito solo le impronte lasciate dagli altri”.
Sì, è stato un grande rivoluzionario, non solo per il bene che ha fatto, ma per la forza della sua parola, per l’esempio dato dal suo modo di vivere, in una società che distrugge i valori, dove morale ed etica sono diventati optional.
Quante volte Don Gallo si è domandato: “Dov’è la fede? Nelle crociate moralistiche? Dov’è la politica? Nei palazzi? Dove sono i partiti? Sempre più lontani. È una vera eutanasia della democrazia, siamo tutti corresponsabili, anche le istituzioni religiose”.
Lui ha semplicemente messo in pratica gli insegnamenti del cristianesimo partendo dalla virtù che dovrebbe essere alla base della vita di un prete: la povertà , e che invece la Chiesa, quella conservatrice, quella dei tabù, gli ha sempre contestato, a volte trattandolo da eretico.
Con la Chiesa il rapporto è stato difficile sin dall’inizio.
“Chi vuol farsi obbedire deve prima riuscire a farsi amare”, sono le parole di Don Bosco che Andrea aveva fatto sue.
Ordinato sacerdote il 1° luglio 1959, poco prima del suo trentunesimo compleanno.
Il primo incarico, l’anno dopo, come cappellano alla nave scuola della Garaventa, noto riformatorio per minori.
Il metodo che usava con i ragazzi (non aveva alla base l’espiazione della pena), non era gradito.
Con lui fiducia e libertà prendono il posto della repressione. Lavora sulla responsabilità , consentendo ai ragazzi di uscire per andare al cinema e vivere momenti di auto gestione.
Dopo tre anni fu rimosso dall’incarico senza nessuna spiegazione.
Nel 1964 il Don decise di lasciare la congregazione salesiana per entrare nella diocesi genovese. “Mi impedivano di vivere pienamente la vocazione sacerdotale”, racconterà successivamente.
Alla Chiesa ha sempre contestato: la piramide gerarchica; la ricchezza; la mancanza del no totale alla guerra; la condanna nei confronti della laicità .
Per Don Gallo la laicità ha rappresentato la difesa dei diritti dell’uomo.
Nel 1965 la diocesi lo mandò come viceparroco alla chiesa del Carmine in un quartiere popolare di Genova.
“Di portuali e operai, con abitazioni inagibili, un mercato rionale quasi indecente. Giravo nei vicoli, sostavo tra i banchi, passavo in edicola, discutevo con il salumiere che era convinto che mi piacesse il prosciutto ma comprassi la mortadella perchè ero tirchio e volevo spendere meno”.
Erano gli anni della fine del concilio Vaticano II.
Gli anni in cui con papa Giovanni XXIII la Chiesa decise di leggere i segni dei tempi. La guerra del Vietnam. Facciamo l’amore e non la guerra, era lo slogan del movimento pacifista americano.
Da noi, dopo la rivolta francese, nacque la contestazione, il movimento studentesco con la riforma della scuola, i giovani entrarono sempre più nel sociale. Alla messa di mezzogiorno
Andrea trattava i temi di attualità , era nettamente schierato al fianco degli ultimi, cominciò a tenere due leggii: da una parte il Vangelo, dall’altra il giornale.
Nel 1970 la Chiesa, dopo averlo fatto spiare dal parroco che registrava di nascosto le sue prediche, decise di trasferirlo.
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso e che aveva fatto scatenare l’indignazione dei benpensanti fu la predica all’indomani della scoperta di una fumeria di hashish nel quartiere.
Il Don, invece di inveire contro chi rollava qualche spinello, ricordò che vi erano altre droghe ben più diffuse e pericolose, per esempio quella del linguaggio, che poteva tramutare il bombardamento di popolazione inerme in un’azione a difesa della libertà . Fu accusato di fare politica e di essere comunista.
Don Gallo aveva trasformato la parrocchia del Carmine in un luogo di aggregazione, di confronto per giovani e adulti. “Mi hanno rubato il prete” è quello che disse un bambino a chi gli chiedeva perchè stesse piangendo, seduto sulle scale della chiesa del Carmine il 2 luglio 1970 durante la manifestazione di solidarietà contro il trasferimento di Don Gallo voluto dall’arcivescovo di Genova, cardinale Siri.
Quel giorno erano migliaia le persone che manifestarono a suo favore.
Quel giorno segnò la sua identità , rappresentò il momento in cui Don Gallo prese coscienza di essere in relazione con gli altri, di essere prete e laico contemporaneamente.
Don Gallo rimarrà per sempre un simbolo della dignità e dell’uguaglianza tra gli uomini.
Quel biglietto da visita che Gesù gli aveva consegnato non se l’è mai messo in tasca, lo ha stretto forte, forte per sempre nelle mani, il sale, il lievito, il chicco di grano sono stati sempre presenti in ogni sua azione.
Per don Gallo “l’incontro” con Don Bosco arrivò a vent’anni.
Un giorno mentre giocava a pallone conobbe il salesiano Piero Doveri, è lui che gli cambiò la vita. “La gioia di vivere con gli altri e per gli altri di questo prete mi ha completamente fulminato. E se diventassi anch’io un prete di Don Bosco? Diventando educatore posso stare al contatto con i ragazzi, cercando di aprire la loro anima, di aprire le loro potenzialità nella libertà , nella giustizia, nella democrazia nel benecomune, nella pace”.
Così Don Gallo trovò la vocazione: “Don Bosco mi ha dato Gesù”. Un giorno gli chiesi il significato di queste parole e lui mi disse: “Io non son portato all’illuminazione o altro. L’incontro è come uno scambio di biglietti da visita. Gesù mi ha dato il suo biglietto: son venuto per servire e non per essere servito”. Dopo la cacciata dalla chiesa del Carmine, il Don capì che la diocesi non lo avrebbe mandato da nessuna parte.
Grazie a un amico incontrò don Federico Rebora, il parroco di San Benedetto. “Quando gli parlai la prima volta, mi rispose semplicemente: venite. Io e i miei ragazzi siamo accampati lì da quarantatrè anni. Qualche anno dopo è nata la comunità di base San Benedetto al Porto”.
Don Gallo ha sempre ricordato che è ad essa che deve la sua maturazione come uomo, come cristiano, come prete. “Io so che devo rispondere alla mia coscienza di fede, ma è stando in comunità che ho capito che devo rispondere anche alla mia coscienza civica”.
Ho scritto qualche anno fa dopo un nostro dibattito: “Peccato che il Don sia un prete, se fosse un politico, avremmo trovato il nostro leader”.
Ci hanno rubato il prete che parlava dell’amore, ci hanno rubato il prete che era monsignore.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 13th, 2011 Riccardo Fucile
LA POSIZIONE DEI PARTITI, I NOMI PIU’ GETTONATI PER I VARI MINISTERI… SPICCANO TRA I PAPABILI DIVERSI DOCENTI UNIVERSITARI
Berlusconi insiste su Gianni Letta, Amato agli Esteri o all’Interno.
Si fanno i nomi di diversi docenti dei due atenei milanesi, compresi i rettori Tabellini e Ornaghi.
Dell’Aringa al Lavoro gradito al Pd.
Ugo De Siervo alla Giustizia, oppure Cesare Mirabelli, consigliere in Vaticano. Veronesi alla Salute.
Ipotesi di interim sull’economia. In alternativa Bini Smaghi
Dopo 17 anni da protagonista della politica italiana, Silvio Berlusconi si dimette e lascia il Quirinale tra fischi e insulti.
Ma le giornate di passione non sono finite.
Con il fiato dei mercati finanziari sul collo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano apre le consultazioni per il nuovo governo domenica alle 9 e dovrebbe concluderle in giornata, incontrando per ultimo il Pdl verso le 17,15.
Per la prima volta nella storia, dicono le indiscrezioni d’agenzia, il premier uscente avrebbe dettato condizioni al successore in pectore, l’economista Mario Monti, la carta giocata dal Quirinale per salvare il paese dal tracollo finanziario, appena nominato senatore a vita.
Condizioni di interesse politico e di interesse privato.
In un pranzo a a Palazzo Chigi, Berlusconi, imputato in diversi processi, avrebbe chiesto a Monti “garanzie” sul ministero della Giustizia, per il quale avrebbe proposto il magistrato Augusta Iannini (moglie di Bruno Vespa), a quanto si sa senza successo, perchè l’ex Commissario europeo vuole mantenere le mani libere sulla squadra di governo, a esclusivo appannaggio di tecnici.
Secondo punto, che il governo Monti non metta mano a norme sulle Telecomunicazioni (tradotto: televisioni).
E neppure alla legge elettorale, il criticatissimo Porcellum.
Monti, secondo l’agenzia Ansa, avrebbe accettato.
Nei giorni scorsi si era parlato di un’ulteriore condizione posta da Berlusconi in cambio del sostegno del Pdl al futuro governo voluto da Napolitano: che Monti non si candidi a future elezioni.
L’era berlusconiana tramonta come si è dipanata in questi 17 anni, in un inestricabile conflitto d’interesse tra problemi politici e problemi personali.
Al via delle consultazioni, i governo Monti conta sull’appoggio di Pd, Terzo Polo (Udc, Fli e Api) e dei transfughi del Pdl.
L’Italia dei Valori è passata da un no netto a un’apertura: “L’Idv si impegna a fare il proprio dovere e aspettiamo con fiducia il professor Monti e chiediamo di sapere chi formerà la sua squadra”, ha annunciato Antonio Di Pietro, contrario alla presenza nell’esecutivo di “reduci” berlusconiani.
Il Pdl, dopo giornate di profonde lacerazioni e diaspore, ha deciso di sostenere il professore, ma limitatamente alla realizzazione delle misure contenute nella lettera di impegni dell’Italia all’Europa.
Cade l’ipotesi di Gianni Letta come (ulteriore) “garanzia” berlusconiana all’interno dell’esecutivo. Lo stesso Letta ha annunciato il “passo indietro”.
Resta il no della Lega nord. Dopo il colloquio con Monti, Berlusconi ha affrontato un drammatico scontro con Umberto Bossi, durante il quale ha cercato di convincere l’alleato più fedele a non spaccare l’alleanza e ad appoggiare l’esecutivo tecnico.
Senza successo. ‘Mai con Monti”, ha confermato poi Bossi. “Come si fa a sostenere un governo che farà portare via tutto?”.
E ha annunciato “la lunga marcia” della Lega all’opposizione. L’alleanza che durava ininterrottamente dal 2001 — dopo la rottura sanguinosa del 1994 — non esiste più.
Mario Monti ha già in tasca il programma e la lista dei ministri.
Dove sarebbero ben rappresentatate componenti laiche e cattoliche (persino vaticane), molto mondo universitario (tre i rettori in corsa) con netto predominio Bocconi-Cattolica di Milano e qualche nome non disdegnato da Berlusconi.
La scelta è comunque quella di un governo formato strettamente da tecnici, senza politici, come si era inizialmente ipotizzato.
Giuliano Amato è in pole position per gli Esteri (ma si parla anche dell’Interno), una carica per la quale si evoca anche il nome del segretario generale della Farnesina Giampiero Massolo.
Mentre la carica finora ocupata da Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, potrebbe andare a Enzo Moavero, già capo di gabinetto di Monti a Bruxelles.
All’Economia sono in corsa il rettore della Bocconi Guido Tabellini, gradito anche al Pdl, e il direttore generale di Bankitalia Fabrizio Saccomanni, ma c’è da tenere in conto anche Lorenzo Bini Smaghi, appena dimessosi dal board della Bce.
Sarebbero tanti i nomi “pescati” da Monti alla Bocconi e alla Cattolica, le due prestigiose università private milanesi.
Il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi potrebbe diventare ministro dell’Istruzione e ci sono buone speranze anche per Carlo Dell’Aringa, economista e collaboratore di Lavoce.info, candidato al Lavoro, dove potrebbe contemperare le istanze del sindacato e delle imprese.
Tornando in Bocconi, si fa il nome dell’economista Carlo Secchi (ex rettore) per lo Sviluppo economico, a cui punterebbe anche Antonio Catricalà , presidente dell’Autorità garante per le Telecomunicazioni, gradito a Berlusconi (il ministero “copre” anche le Telecomunicazioni).
Il totoministi annoverava un altro bocconiano, Lanfranco Senn (di Comunione e Liberazione, presidente della Metropolitana milanese), che però ha avvertito: “Non posso, sono cittadino svizzero”.
Altra poltrona pesante, quella del ministero dell’Interno, per il quale in alternativa ad Amato spunta il nome di Carlo Mosca, prefetto di Roma cacciato nel 2008 dal tandem Berlusconi-Maroni perchè aveva giudicato “non necessario” prendere le impronte digitali ai bimbi rom, come previsto dal decreto sicurezza.
Per la Giustizia, eterno tasto dolente del premier uscente, al nome dell’ex presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo si affianca il cattolicissimo Cesare Mirabelli, già vicepresidente del Csm e della Consulta, nonchè consigliere generale della Città del Vaticano.
Sul celebre (e laico) oncologo Umberto Veronesi alla Salute sarebbe fredda l’Udc, dunque si parla anche del rettore della Sapienza Luigi Frati.
Alla Difesa non paiono emergere alternative al generale Rolando Mosca Moschini, già al vertice della Guardia di Finanza.
L’archeologo Salvatore Settis viene indicato come possibile ministro dei Beni Culturali.
E i politici?
A parte una figura di mezzo come il “professore” socialista Amato, qualcuno ipotizza ancora che in mezzo ai tecnici possano spuntare uomini di partito come Beppe Pisanu e Marco Minniti per l’Interno, ma nel caso anche il Pdl vorrebbe la sua parte, per esempio con Franco Frattini in permanenza agli esteri.
Paolo Costa, già europarlamentare dell’Ulivo, sindaco di Venezia e ministro del governo Prodi potrebbe cimentarsi alle Infrastrutture.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 3rd, 2011 Riccardo Fucile
CRESCE IL TIMORE CHE LA BCE NON INTERVENGA PIU’ NELL’ACQUISTO DEI TITOLI DI STATO ITALIANI… E PALAZZO CHIGI TORNA A STUDIARE L’IPOTESI DI ALZARE L’IVA PER COPRIRE TUTTI I SALDI
“La verità è che Giulio ormai non è più una garanzia in Europa, non possiamo contare su di lui come lasciapassare per i palazzi di Bruxelles”.
Un Silvio Berlusconi sempre più assediato nel fortino di Arcore non nasconde, a chi gli ha parlato, tutta la sua preoccupazione.
Preoccupazione per i dubbi piovuti dalle autorità Ue sulla manovra salvaconti che il governo italiano sta faticosamente, confusamente portando avanti.
Sorpreso, raccontano, ancor prima che irritato, il Cavaliere lo è soprattutto perchè meno di 24 ore prima aveva tentato di rassicurare di persona i leader europei.
A margine del conferenza di Parigi sulla Libia.
“Io su questa manovra ci ho messo la faccia, ne ho parlato ancora con la Merkel, con Herman Van Rompuy, con Barroso, loro si fidano di me e ho promesso che faremo bene e in fretta” ripete il presidente del Consiglio.
A Palazzo Chigi, da un lato, sono portati a minimizzare l’uscita del portavoce del commissario Ue agli Affari economici e monetari Olli Rehn.
Ma quell’allarme sull’eccessivo ricorso alle misure antievasione per recuperare risorse è ponderato, nasce da consultazioni e briefing informali tra le autorità a Bruxelles.
D’altronde, andava in quella direzione anche l’avvertimento a “non annacquare le misure adottate ad agosto”, lanciato dal presidente uscente della Bce Jean-Claude Trichet nell’intervista di ieri al Sole24ore in cui si legge una chiara minaccia sulla possibilità che Francoforti non compri più i nostri bot.
In ogni caso, Berlusconi si ritiene responsabile fino a un certo punto della situazione di incertezza generata anche oltre confine.
Se c’è un “artefice” dei tentennamenti che hanno generato confusione, quello è il suo ministro dell’Economia.
È stato l’inquilino di via XX Settembre a fare della sterzata sulla lotta all’evasione il marchio di questa manovra.
Tanto più dopo le correzioni apportate proprio da Tremonti due giorni fa con i “suoi” emendamenti depositati in commissione al Senato.
“Non ha la bacchetta magica e lo hanno capito anche in Europa” è una delle considerazioni più amare che alti dirigenti Pdl hanno sentito pronunciare dal premier in queste ore.
E tanto basta a questo punto per convincere ancor più il presidente del Consiglio del fatto che non sia rinviabile oltre un intervento sull’Iva.
Aumentare di uno-due punti l’imposta con un blitz della presidenza del Consiglio, come lo stesso Berlusconi ha ipotizzato da Parigi.
Ma non nei prossimi mesi, come preferirebbe il responsabile dell’Economia. “Non c’è altra strada per recuperare risorse certe e in tempi rapidi per rassicurare l’Europa e i mercati”, va ripetendo il capo del governo ai ministri più fidati.
Tutto questo mentre non solo a Bruxelles maturano i primi dubbi sulle misure antievasione che pure – assicurano dal Tesoro – garantirebbero un gettito quantificato dalla Ragioneria.
Ma già il vicecapogruppo al Senato Gaetano Quagliariello invita per esempio a riflettere meglio sulla pubblicazione dei redditi dei contribuenti on line. Misura che sembra non abbia fatto esultare di gioia lo stesso Berlusconi.
Ma queste sono davvero ore di grande concitazione.
Lo scontro che poi in serata si fa frontale tra Roma e Bruxelles chiude un venerdì già di suo abbastanza nero.
Segnato dal nuovo tonfo di Piazza Affari, che perde quasi il 4 per cento, e dal differenziale tra i buoni del Tesoro i Bund tedeschi che torna a superare quota 330 punti, come nelle giornate d’agosto più infauste per la borsa italiana.
Mentre la maggioranza è già andata sotto in un’occasione sull’esame della manovra in commissione Bilancio.
Una situazione complessiva che il Quirinale tiene sotto controllo ora dopo ora, con una buona dose di preoccupazione.
I moniti lanciati dalle autorità comunitarie non sono stati presi affatto sotto gamba al Colle. Non fosse altro perchè il rigoroso rispetto dei saldi della manovra, l’obiettivo dell’azzeramento del deficit, le riforme per favorire la crescita sono i paletti che già il presidente Napolitano ha richiamato a più riprese nelle scorse settimane.
Invitando le forze politiche a un dialogo e a un confronto sui conti da risanare che invece non è mai decollato.
E rischia di non decollare mai, se è vero – come ipotizzavano ieri sera a Palazzo Madama – che un governo che vuol fare quanto più in fretta possibile si prepara a porre la fiducia al decreto non solo alla Camera, ma anche la settimana prossima in aula al Senato.
Fare in fretta d’altronde è il diktat imposto da Arcore da un presidente del Consiglio che ha già sulle spine per le sue faccende private.
Turbato e innervosito dall’inchiesta napoletana che ha portato in carcere Tarantini e schiaffato sui giornali le imbarazzanti intercettazioni sul caso escort.
Un motivo in più per premere sull’acceleratore del giro di vite, già previsto dal ddl approvato in Senato e in procinto di essere discusso alla Camera.
Non a caso berlusconiani di stretta osservanza come Cicchitto e Osvaldo Napoli preannunciano fin d’ora che il testo andrà “anticipato e messo in calendario subito dopo l’approvazione della manovra”.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Maggio 3rd, 2008 Riccardo Fucile
CITTA’ BLINDATA IL 17 MAGGIO: STATO LAICO O PRIDE LAIDO?
E’ di questi giorni una interessante inchiesta del Secolo XIX, quotidiano cittadino, sullo stato dell’Università di Genova: sono emersi dati inquietanti, come un “buco” nei conti di 40 milioni di euro, come il fatto che l’ex Albergo dei poveri, sede ora di alcune facoltà universitarie, sia costato 55 milioni di euro e già cada a pezzi ad appena due anni dalla fine dei lavori o come nel 70% dei palazzi universitari non siano rispettate le prescrizioni antincendio e in sei sedi vi siano tracce di amianto. Diversi giorni di inchiesta documentata e nessuna reazione: la sindaco Vincenzi dorme, il presidente Burlando sonnecchia, i docenti universitari fanno finta di nulla: cadono calcinacci sull’aula magna, ma fanno finta che sia un refolo di scirocco. Sono mesi che accade, ma nessuno ha mai denunciato la cosa. Che strana categoria questa dei docenti universitari genovesi, sempre sottotraccia, mai una “voce di dissenso”, mai “esporsi troppo”: qua vige il conformismo, incancrenito da decenni. Continua »
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Novembre 17th, 2007 Riccardo Fucile
PROFETI DI SCIAGURA E CARNEVALE DI RIO…….L’ULTIMO CANTO DEL (DON) GALLO
I manifestanti rivoluzionari del G8 hanno lasciato Genova dopo averci deliziato di bandiere rosse (tradizionali), nere (anarchici) e bianche (no TAV), tra essenze di marijuana, ritmi afrocubani e un Bella Ciao che non ci sta mai male. Il sospetto che le manifestazioni anti G8 di 6 anni fa siano solo servite a far eleggere Agnoletto al Parlamento Europeo, Caruso alla Camera e Heidi Giuliani al Senato, garantendo loro un ricco appannaggio si fa strada tra i genovesi…sempre malfidati come siamo. I disobbedienti ( si fa per dire) hanno ripreso i loro treni speciali (chi ha pagato solo 10 euro, tariffa speciale, chi nulla, chi quasi nulla ( Rifondazione ha pagato la differenza a Trenitalia) e sono tornati alle loro basi. A Genova rimangono le centinaia di scritte sui muri da cancellare (costeranno 200.000 eurini ai contribuenti genovesi), tutte ispirate ovviamente alla “pace” …” 10.100.1000 Raciti”, “Polizia assassina”, “Morte allo sbirro”, “Vendetta”, “Brucia il Vaticano”, “10.100.1000 Nassirya” Continua »
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