Giugno 5th, 2021 Riccardo Fucile
“IL PREMIER E’ UN TECNOCRATE DI DESTRA”… “IL RECOVERY? SCORDATEVI I 209 MILIARDI, AL MASSIMO SARANNO 60”
L’austerity? Chi la crede morta e sepolta si sbaglia. I falchi del rigore sono stati costretti dalla pandemia a prendersi una pausa, ma sono già pronti a tornare. L’avvertimento arriva dall’economista Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica all’Università del Sannio, che in questa intervista a TPI boccia sonoramente le politiche economiche del “tecnocrate” Mario Draghi e smonta la retorica del “whatever it takes”: con quella frase, dice, “Draghi, in realtà, smentì se stesso”.
Professore, durante un recente dibattito con il suo collega Daron Acemoglu del Mit di Boston, lei ha esibito una serie di ricerche empiriche secondo cui la flessibilità del lavoro non favorisce la crescita dell’occupazione ma al contrario la ostacola. Le chiedo: il blocco dei licenziamenti negli ultimi 15 mesi è servito a contenere l’emorragia di posti di lavoro oppure – come dicono Draghi, Confindustria e l’Ue – ha inquinato il mercato favorendo i garantiti a scapito dei precari?
“L’idea che gli strumenti di protezione del lavoro pregiudichino la crescita e l’occupazione è stata dominante per anni, in Italia e in gran parte del mondo. Ma è seccamente smentita dalla ricerca scientifica: secondo l’88% delle pubblicazioni uscite su riviste accademiche internazionali negli ultimi dieci anni, la tesi per cui la flessibilità crea occupazione non trova riscontro empirico. Sia pure a denti stretti, questo risultato viene riconosciuto anche da istituzioni fautrici della flessibilità come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca mondiale e l’Ocse, che in alcuni loro rapporti ammettono che l’impatto della flessibilità sull’occupazione risulta ‘non significativo’, ‘insignificante’, ‘nullo’”.
Quindi sul blocco dei licenziamenti il premier, gli industriali e Bruxelles hanno torto?
“Il blocco dei licenziamenti corrisponde a una riduzione emergenziale della flessibilità del lavoro. La tesi di Confindustria, della Commissione e dello stesso Draghi è che questo irrigidimento del mercato del lavoro pregiudica l’occupazione. Ma, come dicevo, l’evidenza empirica li smentisce. Evidentemente a Palazzo Chigi e a Bruxelles hanno troppo da fare e leggono poca ricerca scientifica”.
I sindacati dicono che togliendo il blocco si rischiano 500mila licenziamenti. Esagerano?
“Il vero problema è che il blocco dei licenziamenti blocca poco, perché la sua applicazione è limitata e perché interviene in un mercato del lavoro ampiamente precarizzato. Nell’ultimo trentennio l’indice di protezione del lavoro in Italia è crollato del 17% sui licenziamenti collettivi e fino al 60% sui contratti a termine. Il blocco dei licenziamenti è una toppa utile, ma può fare poco in un quadro normativo in cui le imprese hanno la possibilità di licenziare per motivi estranei al blocco o di non rinnovare i contratti temporanei. Ecco perché, nonostante il blocco, durante la pandemia abbiamo perso quasi un milione di posti di lavoro”.
Se sanno che non possono licenziare, però, i datori di lavoro tendono ad assumere solo con contratti precari. O no?
“Gli imprenditori tendono quasi sempre a utilizzare le forme contrattuali più precarie a disposizione. Ma questo non è certo un valido motivo per precarizzare, dal momento che ormai sappiamo che la precarizzazione non aiuta affatto l’occupazione”.
Quindi, che fare?
“Dovremmo aprire un grande dibattito intorno alla lunga stagione della precarizzazione del lavoro e trarne un bilancio. Per quel che ci dice la ricerca scientifica, i risultati sono stati fallimentari: non c’è stato alcun beneficio dal punto di vista occupazionale e si è spostata la distribuzione del reddito dai salari ai profitti e alle rendite”.
Quindi – lei dice – bisognerebbe aumentare le protezioni anziché rimuoverle.
“Sì. Anziché continuare con la litania secondo cui bisognerebbe abbassare le tutele di coloro che ancora godono di qualche diritto, bisognerebbe piuttosto innalzare le tutele dei precari”.
Draghi ha stroncato subito la tassa di successione proposta da Letta. Quella proposta meritava forse più attenzione?
“Innanzitutto va detto che la tassa di successione, da sola, non basta. Le proposte ‘spot’ possono avere qualche efficacia nella battaglia politico-mediatica, ma poi bisognerebbe progettare una riforma fiscale di carattere generale”.
Detto questo…?
“Da anni la tassazione grava principalmente sul lavoro, mentre è molto bassa la pressione fiscale sui più ricchi: possessori di capitali, percettori di rendite e profitti. La progressività delle imposte prevista dalla Costituzione è stata fortemente depotenziata. E mi sembra si continui ad andare in questa direzione”.
Draghi, però, nel suo discorso di insediamento da premier, ha detto proprio che vuole fare una riforma del Fisco in senso progressivo.
“Quel cenno alla progressività che aveva evocato temo che resti di fatto lettera morta. Se vuole le spiego perché”.
Prego.
“Lo spostamento dei carichi fiscali a favore dei soggetti ricchi e a scapito dei poveri è una tendenza internazionale. Questa tendenza si collega al fatto che oggi i capitali possono spostarsi liberamente da un luogo all’altro del mondo, e quindi possono andare a caccia delle tassazioni più favorevoli. Dunque, per poter attuare riforme fiscali in senso nuovamente progressivo ci sono solo due strade: o si raggiunge un accordo internazionale per elevare tutti insieme le imposte sui capitali oppure bisogna introdurre controlli sui movimenti internazionali di capitali”.
E quindi ?
“Draghi mi sembra contrario a entrambe le opzioni. Da un lato, è apparso freddo rispetto alla proposta di un accordo internazionale sulle tassazioni arrivata dagli Usa. Dall’altro, è notoriamente un liberista dei movimenti di capitale. In questo scenario, mi sembra improbabile che Draghi si faccia promotore di una riforma fiscale in senso progressivo”.
Draghi contro il blocco dei licenziamenti, Draghi contro la tassa di successione: Draghi è un premier di destra?
“Draghi può essere considerato un liberista temperato, e in quanto tale appartiene a una classica destra istituzionale e di governo. Fin dai suoi primi passi al ministero del Tesoro con Ciampi, passando per Bankitalia e Bce, ha sempre espresso grande ottimismo nel libero gioco delle forze del mercato. E anche di recente, poche settimane prima di insediarsi a Palazzo Chigi, ha esaltato le virtù della ‘distruzione creatrice’ del libero mercato. Incarna una visione desueta, che ha fatto molti danni e che risulta superata dagli eventi”.
Con il suo celebre “whatever it takes”, però, aprì un varco nel muro dell’austerity.
“Il liberismo è un’ideologia, e in quanto tale entra sistematicamente in contraddizione con la realtà dei fatti. Dopo la crisi del 2008 si è aperto un grande dibattito nella tecnocrazia delle banche centrali e dei governi sugli effetti destabilizzanti del libero mercato. All’epoca Draghi si rese conto che il sistema dell’euro sarebbe imploso se la banca centrale non fosse intervenuta pesantemente come ‘market maker’, cioè come una vera e propria domatrice della ‘bestia’ del libero mercato. Con quella svolta Draghi ha smentito l’ideologia di cui è stato sempre un convinto propugnatore”.
La narrazione comune è che il “whatever it takes” salvò l’Eurozona. Sarebbe più corretto dire che salvò le banche tedesche?
“Sono vere entrambe le cose. Per salvare l’Eurozona bisognava liberare le banche tedesche e francesi che avevano ampiamente foraggiato gli squilibri delle partite correnti tra Nord e Sud Europa. Aver salvato le banche con massicci interventi di politica monetaria ha significato anche salvare l’Eurozona dagli squilibri che essa stessa aveva creato al suo interno”.
Sta dicendo che la responsabilità di quella crisi finanziaria fu anche delle banche?
“Ovviamente sì, ma soprattutto la responsabilità fu di chi ha edificato l’Europa su basi liberiste, in particolare sul caposaldo della libera circolazione internazionale dei capitali. Questo principio ha creato squilibri sui quali le banche hanno lungamente prosperato. Poi il sistema ha rischiato il collasso e le autorità pubbliche sono dovute intervenire per salvarlo”.
Yanis Varoufakis, ex ministro dell’Economia greco, imputa a Draghi gravi responsabilità nella gestione della crisi ellenica. Ha ragione?
“Draghi minacciò di interrompere l’erogazione di liquidità fin quando il riottoso governo greco non avesse fatto ciò che la Troika richiedeva, contro la volontà popolare. Una politica chiaramente anti-democratica. Ma Draghi è stato solo uno dei tanti esecutori di questa dottrina nefasta, che purtroppo è stata prevalente nel corso di quegli anni e che rischia di ripresentarsi appena lo shock pandemico sarà dimenticato”.
Draghi era presidente di Bankitalia durante una importante stagione nel risiko del credito italiano: ci furono, tra le altre, le fusioni Intesa-Sanpaolo e Unicredit- Capitalia, e il controverso acquisto di Antonveneta da parte di Mps dal Banco Santander. Operazioni che determinarono esuberi di personale e ricchi proventi per alcune grandi banche, come appunto Santander. Lei ebbe anche un ruolo in quelle vicende. A suo avviso, Draghi banchiere fece anche in quel caso l’interesse dei suoi amici banchieri?
“All’epoca fui chiamato nel consiglio di amministrazione di una banca del gruppo Mps per risanarne i conti. Fui tra i pochissimi a oppormi all’acquisizione di Antonveneta, sostenendo che il prezzo di acquisto era eccessivo, chiaramente da bolla speculativa. Alla fine l’operazione venne compiuta comunque, nell’entusiasmo dei grandi media, della comunità finanziaria e delle autorità politiche e di governo. Tra i favorevoli c’era anche Draghi, che da governatore di Bankitalia avallò quelle operazioni. Ma non la metterei sul piano del ‘complotto’. Non c’è alcun bisogno di immaginare un tavolo in cui si organizzano trame segrete. La verità è che l’intero sistema era pervaso da un liberismo viscerale: lasciare agire le libere forze del mercato, non interferire negli accordi privati di centralizzazione dei capitali, anche se questi sono governati da logiche speculative violente, che lasciano sul campo pochi vincitori e tanti sconfitti, con danni economici e sociali pesantissimi”.
Del Mes non si parla più. È stato un tema strumentalizzato per far cadere Conte?
“Il Mes è stato chiaramente strumentalizzato. Sapevamo fin dall’inizio che il suo utilizzo avrebbe conferito risparmi minimali in termini di tassi di interesse, fra l’altro con condizionalità molto rigide. Il problema vero, però, rimane”.
Cioè?
“Il Mes viene denominato meccanismo di stabilità ma sarebbe più appropriato definirlo ‘di instabilità’, perché per statuto assume il solo punto di vista dei creditori anziché quello generale dell’Unione europea. La conseguenza è che per favorire gli interessi dei creditori si rischia di distruggere l’economia debitrice. Il guaio è che il Mes ormai è stato approvato. E molto probabilmente verrà innescato appena la Bce diventerà meno disponibile a erogare liquidità”.
Quindi, finito il Quantitative Easing, ci saranno paesi costretti a ricorrere al Mes?
“Ci sono interessi forti in Europa che mirano al ritorno alla vecchia prassi: vogliono che la Bce si ritiri e che venga sostituita dal Mes”.
Wolfgang Schauble, l’ex ministro tedesco delle Finanze, oggi presidente del Bundestag, dalle colonne del Finacial Times già invoca il ritorno all’austerity.
“È evidente che esiste una forte convergenza di interessi verso il ritorno alle vecchie consuetudini dell’Europa”.
Fino al 2023, però, il Patto di Stabilità è sospeso.
“Secondo dati dell’Fmi, prima della crisi pandemica il Patto di stabilità era violato nel 66% dei casi. Con la crisi pandemica, ovviamente, sarebbe stato violato nel 100% dei casi. Solo per questo lo hanno sospeso, perché non poteva in alcun modo essere applicato”.
Intanto Bruxelles è anche tornata a rimproverare l’Italia per il debito pubblico e la spesa corrente. I soldi del Pnrr saranno il prezzo da pagare per nuovi tagli alla spesa pubblica?
“Sul Financial Times, qualche settimana fa, segnalavamo che in realtà i finanziamenti del Pnrr sono insufficienti rispetto all’enormità della crisi. Se andiamo a fare i conti netti, il Recovery Plan dovrebbe conferirci meno di 10 miliardi all’anno per sei anni, a fronte di una crisi che nel solo 2020 ha bruciato oltre 150 miliari di Pil”.
Scusi: non saranno 209 i miliardi?
“I 209 miliardi di cui parla anche il premier sono composti da 127 miliardi di prestiti e 82 miliardi di sovvenzioni a fondo perduto. La parte di prestiti conferisce solo un risparmio sui tassi di interesse, una cifra modesta che va da mezzo miliardo a 4 miliardi all’anno. Considerato che la condizionalità è molto restrittiva, non credo convenga chiedere quei prestiti. Quanto alle sovvenzioni, bisogna tener conto che saranno finanziate con una contribuzione da parte dei singoli stati, tra cui noi. Se si applicheranno i criteri di contribuzione basati sul Pil, è ragionevole prevedere che l’Italia dovrà conferire al bilancio europeo circa 40 miliardi. Quindi il netto che ci rimarrà sarà di circa 42 miliardi, ossia soltanto 7 miliardi all’anno per sei anni”.
Avremo, però, meno vincoli di bilancio e faremo più investimenti.
“Più che di investimenti, mi sembra che si parli dei soliti incentivi”.
Mi faccia un esempio.
“Pensiamo ai vaccini. Sotto la voce finanziamento per la ricerca e lo sviluppo nel campo dei vaccini, il Governo si limita a offrire incentivi, sotto forma di credito di imposta, alle imprese private che eventualmente decidessero di occuparsene. Ma gli esperti in materia ci spiegano che per costruire la famigerata filiera nazionale dei vaccini ci vorrebbe una pianificazione dei processi produttivi da parte dello Stato. Ma questa opzione, ancora una volta, non sembra entrare nelle corde di Draghi. Lo chiamano ‘Piano’, ma del concetto di ‘Piano’ nella sostanza c’è davvero poco”.
Di converso, dovremo ridurre la spesa corrente?
“La Commissione già chiede tagli alla spesa corrente. Per il momento sono soltanto voci dal sen fuggite, che non si traducono in austerity concreta perché tutti sanno che la ripresa è ancora fragile. Ma, ripeto, gli interessi prevalenti in Europa cercheranno di ripristinare l’antica dottrina appena sarà possibile”.
Insomma, chi parla di un cambio di paradigma in Europa è fuori strada?
“Il paradigma di fondo non è ancora cambiato. L’ideologia liberista è stata drammaticamente smentita dalla realtà di questi anni ma resta tuttora la dottrina prevalente, nei governi e nelle istituzioni”.
(da TPI)
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Maggio 29th, 2021 Riccardo Fucile
DOPO IL VIA LIBERA AI LICENZIAMENTI ORA PUNTA A FAR SALTARE LA DIRETTIVA UE SULLA PLASTICA
Ci risiamo. Se ci fosse Giorgio Forattini lo disegnerebbe con gli stivaloni e il dollaro in mano. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, parlando all’inaugurazione dell’hub italiano di Gaia X, progetto di gestione dati europeo, si è lamentato, ormai lo fa giornalmente, per l’ultima bozza della direttiva Ue sulla plastica monouso richiedendo l’intervento del commissario all’economia Paolo Gentiloni.
Il capoccia di Confindustria ha proseguito imperterrito: “Il testo è fortemente pregiudizievole nei confronti dell’industria italiana, di quella tedesca e dell’intera industria europea. Credo che la impropria, ingiustificata e sproporzionata applicazione della direttiva potrebbe sottoporre l’industria italiana ed europea a un’interpretazione giuridicamente infondata, del tutto inaccettabile per gli interessi nazionali”.
A parte che non si capisce l’interesse di Bonomi per la manifattura tedesca che è nostra concorrente, il succo è che – come al solito – Confindustria vuole inquinare con la plastica fregandosene dell’ambiente e delle direttive Europee. Ma non solo.
Quando via dell’Astronomia se la vede brutta, da liberista torna improvvisamente statalista, punta i piedi e chiede l’intervento di “mamma” Stato che come al solito ha le sembianze di Paolo Gentiloni che dovrebbe nei suoi desiderata venire a togliergli le castagne dal fuoco in Europa. Troppo facile caro Bonomi.
Le industrie italiane sono graciline, nella stragrande maggioranza incapace di competere sul mercato internazionale, drogate come sono dagli aiuti di Stato in cambio di occupazione. Dopo l’attacco al ministro Andrea Orlando che aveva osato proporre un posticipo del blocco dei licenziamenti ora Bonomi torna a chiedere, cosa che gli riesce molto bene. La sua figura sta diventando francamente ingombrante per la stessa Confindustria che rischia, alla lunga, do venire danneggiata dalla irruenza e dal dirigismo bonomiano che qualche girono fa voleva abolire il codice degli appalti e puntare al massimo ribasso.
Perché i partiti restano e Draghi resta, gli si potrebbe ricordare per evitare fra qualche mese a Bonomi di recarsi con il cappello in mano a chiedere aiuto a chi prima attaccava. E poi c’è la questione etica.
Dopo la vicenda della funivia – e ancor prima del ponte Morandi – abbiano visto che gli imprenditori pensano solo al profitto e non certo alla sicurezza e così ora Bonomi vorrebbe libertà di inquinare per aiutare le sue aziende. Ma l’ambiente è un bene pubblico che va tutelato e rispettato e non certo piegato agli interessi industriali.
Il caso dell’Ilva è emblematico in tal senso. Ma ci sono tante “Ilve” in giro per l’Italia, frutto dell’avidità commerciale di chi pensa solo al profitto. Confindustria, per un certo periodo, aveva fiutato l’aria di soldi e si era lanciata nel business del green, e fu l’epoca della sospetta riconversione industriale di Eni ed Enel al verde, con una pletora di industrie e industriette al seguito. Ed ora, stranamente, visto che il Recovery Fund mette l’ambiente al primo posto, dobbiamo assistere a queste storie penose sulla plastica che inquina e fa male.
Le aziende straniere si sono veramente riconvertite al verde e qui in Italia dobbiamo assistere a un ministro dell’Ambiente, Roberto Cingolani, che ancora non sblocca l’importantissima commissione Aia (scaduta da tredici anni!) e cerca di indebolire la fondamentale commissione Via, Valutazione impatto ambientale, peraltro decimata dagli abbandoni, provocando le rimostranze di tutte le associazioni ambientaliste e del leader dei Verdi Bonelli. Ministro Roberto Cingolani se si occupa un pochino di ecologia si faccia sentire sulla plastica.
(da La Notizia)
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Maggio 1st, 2021 Riccardo Fucile
DA NOI RICEVE GARANZIE SUI PRESTITI, IN FRANCIA VERSA SOLDI PER COMBATTERE LA DISOCCUPAZIONE: MA SIAMO SEMPRE NOI I FESSI?
In Italia c’è una Stellantis che chiede soldi allo Stato sotto forma di garanzie sui prestiti e cassa integrazione, in Francia ce n’è un’altra che allo Stato i soldi li dà per combattere la disoccupazione.
Miracoli del capitalismo alla transalpina che regge ormai saldamente il comando di quella che un tempo era la Fiat italiana degli Agnelli.
La notizia è che Stellantis contribuirà con 10 milioni di euro a un Fondo istituito dal governo francese per riqualificare i lavoratori del settore automotive che rischiano di perdere il posto a causa della transizione verso l’elettrico, per la quale il presidente Emmanuel Macron ha varato un maxi-piano da 8 miliardi di euro.
Il fondo per i lavoratori ammonta a 50 milioni di euro: tre quinti delle risorse ce le metterà la mano pubblica, il resto sarà a carico di Stellantis e Renault, entrambe partecipate dallo Stato francese (10 milioni ciascuna).
“Stiamo facendo il massimo per proteggere i lavoratori”, ha spiegato il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire. I soldi serviranno, in particolare, a fornire nuove competenze agli operai oggi impiegati nella produzione di componenti metallici o siderurgici per il settore automobilistico. Addetti che, di fronte all’avanzata dell’elettrico sollecitata anche dalla Commissione europea, rischiano di rimanere tagliati fuori dal mercato.
Stellantis e Renault sono aziende private transnazionali: franco-italo-cinese la prima, franco-nippo-tedesca la seconda. Se finanzieranno l’operazione pubblica, è anche perché entrambe hanno tra i propri azionisti lo Stato francese, che controlla il 6% di Stellantis e il 15% di Renault.
In Italia – almeno nel comparto dell’automotive – non siamo abituati a questo interventismo privato nel settore pubblico. La storia di Fiat, prima, e di Fca poi, è scandita, al contrario, da una lunga serie di finanziamenti statali a favore del privato.
L’ultimo in ordine cronologico risale a un anno fa, quando, tra mille polemiche, Fca Italy chiese e ottenne un prestito bancario garantito dallo Stato per 6,3 miliardi di euro per far fronte alla crisi determinata dall’emergenza Covid.
A far discutere, allora, fu in particolare la prospettiva del maxi-dividendo da 5,5 miliardi di euro previsto in pagamento per gli azionisti a fine anno (il dividendo poi effettivamente distribuito è stato pari a 2,9 miliardi).
“Fca usa i soldi degli italiani per pagare dividendi, fanno i liberisti con il culo degli altri”, protestò l’eurodeputato Carlo Calenda intervistato da Luca Telese su TPI.
Ma ad arrabbiarsi molto per quel finanziamento fu anche Andrea Orlando, che all’epoca era vicesegretario del Pd e che oggi, ironia della sorte, è ministro del Lavoro.
Perplessità motivate anche dal fatto che nei decenni precedenti Fiat era già stata sovvenzionata più volte dallo Stato. L’ufficio studi della Cgia di Mestre ha calcolato che solamente nel periodo tra il 1977 e il 2012 l’azienda di casa Agnelli ha ricevuto l’equivalente di 7,6 miliardi di euro da Roma, a fronte di 6,2 miliardi investiti.
Gli Agnelli, tramite la holding di famiglia Exor, restano ancora oggi i primi azionisti di Stellantis, ma ultimamente hanno intrapreso con slancio la strada della diversificazione: l’auto non è più al centro degli affari di casa, affiancata dai nuovi business dell’editoria e della moda.
E se John Elkann è presidente di Stellantis, il volante del gruppo ce l’hanno in mano i francesi, con l’amministratore delegato Carlos Tavares che giorni fa, insieme al ministro transalpino Le Maire, si è premurato di assicurare che “la Francia sarà una grande nazione dell’auto”.
Il futuro delle fabbriche italiane, invece, è un’incognita. L’ad ha fatto sapere che i costi vanno tagliati e in alcuni stabilimenti – vedi Melfi – si parla insistentemente di una forte riduzione delle linee produttive, mentre la controllata torinese Comau (componentistica) dovrà ricorrere a 9 settimane di cassa integrazione per far fronte all’annullamento delle commesse da parte della casa madre. I sindacati chiedono a gran voce al Governo Draghi di interessarsi della partita, ma il premier per ora si è limitato a dire che “Stellantis non è un dossier aperto”.
(da TPI)
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Aprile 24th, 2021 Riccardo Fucile
LA LEZIONE DELL’ECONOMIST AI MEDIA ZERBINO DI DRAGHI
Un editoriale dell’Economist, il prestigioso settimanale inglese di economia mette in guardia dalle delusioni. Le “grandi aspettative” nei confronti di Mario Draghi sono “comprensibili”, ma dovrebbero essere “temperate”, scrive il settimanale.
E poi ancora: “L’Italia ha una voce più forte sulla scena europea grazie a Draghi. Ma questo non dovrebbe richiedere un miracolo. L’Italia è uno dei membri fondatori, il terzo paese più popoloso e la sua terza economia più grande. Prima di Draghi, non era sempre trattata come tale”.
L’Economist prosegue nella sua analisi spietata e continua: “Non ci sarà sempre e gestire una banca centrale è diverso da gestire un paese… alla Bce, uno può tirare una leva e il denaro esce. Nel governo italiano, si può tirare una leva e scoprire che non è collegata a niente”.
Poi si occupa anche del futuro perché “fra due anni ci saranno le elezioni e riformare l’Italia non è un lavoro veloce”.
Insomma gli inglesi distruggono l’immagine di SuperMario, nomignolo che fa riferimento ad un idraulico di origine italiano dei videogiochi, e istillano dubbi sulla sua capacità di agire concretamente in un meccanismo difficile come è quello italiano, fatto di leve che – appunto – se fiduciosamente tirate si scopre – come in un film dell’orrore – che non sono collegate a nulla, come se la cloche dell’aereo non avesse poi un pilota.
L’editoriale dell’Economist è il secondo in una settimana proveniente dal mondo anglosassone e risponde a quello del New York Times che invece era più possibilista sulle capacità dell’attuale premier di guidare la macchina Italia verso esiti certi.
Ed in effetti, le aspettative su Mario Draghi sono quantomeno esagerate. Vediamo perché. Draghi è stato chiamato a salvare la Patria e l’Italia – come dicono gli inglesi – ha una grande (e pericolosa) tradizione di salvatori della Patria, come anche diceva Machiavelli.
L’Italia non è come la Bce
Gli ultimi sono stati Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Il primo lo definiscono un “clown” dedito ai festini orgiastici il secondo uno che non ha mantenuto le promesse. E quindi gli italiani sono rimproverati per questa attesa medianica e fiduciaria che si risolve sempre irrimediabilmente in delusioni di proporzioni apocalittiche. Draghi ha un obiettivo a termine: mettere in sicurezza il Paese sfruttando il buon nome che ha in Europa dopo esser stato il presidente della Bce.
Ma, detto questo, ci sono due vincoli temporali: fra un anno l’elezione del capo dello Stato e quello dopo le elezioni politiche. In entrambi gli appuntamenti Mario prenderà il volo. Il piano A di Draghi è infatti quello di diventare presidente della Repubblica e data la mancanza di concorrenti credibili la cosa è possibile. Ma se lo diventa l’Italia sarà ancora in balia di qualche nuovo condottiero che dovrebbe inevitabilmente ricominciare da capo.
Il piano B
Se invece non riesce a salire al Quirinale il piano B prevede la creazione dell’ormai tradizionale partito-movimento che sfrutta qualche mese di popolarità del leader per poi scomparire malinconicamente nel nulla come è successo in passato a Mario Monti e similari. Quindi ha ragione l’Economist: niente di strategico niente di fondamentale. Solo un periodo di gestione della transizione. Si sta infatti creando un clima messianico sul premier, “uomo della provvidenza”, “uomo di Francoforte”, “uomo della salvezza”, ma ancora solo “uomo e neppure politico, solo strumento del presidente Mattarella che così ha tappato solo temporaneamente una falla evitando le elezioni anticipate dopo la caduta del secondo governo Conte.
Draghi, oltretutto, è stato chiamato appositamente per due cose: in primis gestire il Recovery Fund e in secundis per gestire la pandemia.
Il primo compito, e cioè la gestione di una cospicua pioggia di miliardi di euro che stanno facendo venire l’acquolina a tutti i partiti, è la partita principale.
Tra l’altro, non si capisce come mai di ben 221,5 miliardi di euro la Sanità sia l’ultimo settore di investimento con 15,5 miliardi (l’8%) mentre la transizione ecologica è la prima voce con ben 57 miliardi di euro (il 30%). Ma come? C’è una pandemia in atto, l’Italia ha chiuso per decenni gli ospedali, non ci sono posti in terapia intensiva e Draghi la mette all’ultimo posto, dopo pure a Inclusione e coesione che ha in dote 19,1 miliardi (il 10%)?
(da La Notizia)
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Aprile 11th, 2021 Riccardo Fucile
I BENETTON USCIREBBERO DALLA PORTA PER RIENTRARE DALLA FINESTRA
Nove mesi fa, 15 luglio 2020. Blog delle Stelle: “Gli italiani si riprendono le proprie autostrade”. Giuseppe Conte: “Ha vinto lo Stato, hanno vinto i cittadini”. Luigi Di Maio: “I Benetton non gestiranno più le nostre autostrade”. Alessandro Di Battista: “Non ricordo una famiglia di potenti presa a schiaffi come è stata presa a schiaffi la famiglia Benetton”.
Nove mesi dopo, 10 aprile 2021: le autostrade sono ancora in mano ai Benetton. Oggi come allora le vogliono sempre vendere, ma alla fine potrebbero cederle non alla cordata “statale” guidata da Cdp, ma alla Acs di Florentino Pérez. Spagnola. Quindi autostrade spagnole. Non autostrade in mano agli italiani. Conte: nessun commento. Di Maio: nulla. Di Battista: mutismo.
Qualcuno avvisi i 5 stelle e i fuoriusciti ancora più corsari che i festeggiamenti finali su Autostrade, quelli che contano, rischiano di farli altri.
Non attraverso una leva pubblica, ma attraverso quel mercato tanto vituperato, considerato l’agorà dei poteri forti.
Certo l’offerta della Cassa depositi e prestiti, insieme ai fondi Blackstone e Macquarie, è quella decisamente più credibile perché è vincolante, perché i soldi messi sul piatto da Pérez non sono di più o tanto di più, ma soprattutto perché la Cassa ha studiato ogni file di Autostrade prima di presentare un’offerta. Ma sul tavolo dei Benetton e degli altri soci di Atlantia (quest’ultimi ostili all’offerta di Cdp) l’offerta degli spagnoli comunque c’è. Con tanto di 10 miliardi.
Poi qualcuno avvisi i 5 stelle anche di un’altra cosa.
Pérez ha in mente una fusione: tra Abertis, la società delle autostrade spagnole, e Autostrade, non più per l’Italia ma con bandiera rosso-oro. Dentro Abertis c’è Atlantia, la società attraverso cui i Benetton controllano oggi Autostrade. Quindi i Benetton potrebbero vendere Autostrade a Acs.
Le autostrade italiane diventerebbero così spagnole, poi europee con la fusione tra Abertis e Autostrade. Dentro il nuovo polo ci sarebbe ancora Atlantia. Tradotto: i Benetton uscirebbero dalla porta e rientrerebbero dalla finestra. Da azionisti.
Se di maggioranza o di minoranza è un dettaglio di un dato più grande e certo: continueranno a incassare dalle macchine che andranno su e giù lungo le autostrade spagnole. E lungo quelle italiane. In mano loro. Non agli italiani.
Ps: alle 15.23, due ore dopo la pubblicazione di questo articolo, Di Battista ha rilasciato una dichiarazione all’Adnkronos per dire che per lui “resta solo la revoca e la nazionalizzazione di Autostrade l’unica soluzione” e che “i proprietari delle autostrade devono essere i cittadini”. Siamo felici di avere ricordato a Di Battista che esiste Autostrade e di averlo informato dell’offerta di Pérez. Pubblica già da due giorni.
(da “La Notizia”)
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Marzo 26th, 2021 Riccardo Fucile
PER LIBERARE LA “EVER GIVEN” CI VORRANNO FORSE SETTIMANE
Il blocco del canale di Suez, dove martedì 23 marzo 2021 si è arenata una nave portacontainer più lunga di piazza San Pietro, potrebbe costare l’equivalente di 8,16 miliardi di euro al giorno, pari a 340 milioni di euro l’ora. È la stima “approssimativa” della rivista di settore Lloyd’s List, citata da Bloomberg, e basata su un valore giornaliero di 5,1 miliardi di dollari per le merci dirette a occidente e di 4,5 miliardi di dollari per quelle dirette a oriente.
A tentare di liberare la portacontainer, in questi giorni è stata chiamata una delle società che già aveva lavorato al recupero della Costa Concordia, naufragata di fronte all’isola del Giglio nel 2012. L’olandese Smit Salvage nota nel settore per i salvataggi di alto profilo, spesso abbordando navi in tempesta, ha inviato a Port Said la propria nave Boka Da Vinci, pronta a prendere parte alle operazioni di recupero. Oltre a Smit Salvage la compagnia che opera la Ever Given, Evergreen Marine, ha dichiarato di aver ingaggiato la giapponese Nippon Salvage.
Secondo quanto riportato da Reuters, Peter Berdowski, amministratore delegato di Boskalis, che ha acquisito Smit Salvage nel 2010, ha dichiarato che al momento non è possibile escludere che le operazioni per rimuovere la Ever Given, entrata 5 metri nella riva del canale, possano richiedere diverse settimane.
Negli scorsi giorni un altro veterano del recupero della Costa Concordia, il “salvage master” Nick Sloane, ha detto a Bloomberg che il momento migliore per liberare il canale potrebbe arrivare domenica o lunedì, con l’aiuto dell’alta marea che dovrebbe aggiungere altri 46 centimetri di profondità . Nel caso dovesse fallire il tentativo, Sloane ha detto che sarà necessario attendere almeno altri 12 giorni prima che la marea torni a un livello adeguato.
Nel 2020 quasi 19.000 navi sono passate per il canale che collega il Mar Rosso con il Mediterraneo , una media di 51,5 navi al giorno. Attualmente, secondo dati compilati da Bloomberg, 185 navi sono in attesa di attraversarlo. Nel canale, in cui transita circa il 12 percento del commercio globale, sono stati rilevati 75 incidenti nell’ultimo decennio, oltre un terzo dei quali hanno riguardato navi portacontainer nella maggior parte dei casi per arenamento.
Shoei Kisen Kaisha, società giapponese proprietaria della nave, si è scusata per i disagi causati dall’incidente, affermando che non si sono verificate perdite di carburante e impegnandosi a risolvere la situazione nel più breve tempo possibile. Secondo la compagnia i 25 membri dell’equipaggio, tutti cittadini indiani, sono al sicuro.
Martedì la Ever Given, lunga 400 metri e dal peso di quasi 220mila tonnellate, si è arenata nel canale mentre si dirigeva verso i Paesi Bassi dalla Cina con un carico di 200.000 container, a causa del forte vento. Da allora le centinaia di navi che ogni settimana transitano nel principale canale al mondo sono bloccate in fila in attesa della fine delle operazioni di soccorso.
Secondo quanto riportato da Reuters, Shoei Kisen Kaisha e le compagnie che hanno assicurato la nave dovranno far fronte a richieste di risarcimento nell’ordine di svariati milioni di dollari per i ritardi e i costi aggiuntivi.
I mercati petroliferi non sembrano essere preoccupati al momento da un blocco del traffico marittimo nel canale in cui transita circa il 10 percento del petrolio mondiale. Dopo la sospensione, mercoledì i prezzi globali del petrolio sono aumentati del 6%, compensati giovedì da un calo di oltre il 4%. La mancanza di una reazione sostanziale al blocco è finora dovuto a pressioni al ribasso dal lato della domanda e dell’offerta del mercato. Nel caso il dovesse continuare tuttavia gli operatori dovranno cercare rotte alternative e più costose. Quelle che ad esempio passano intorno al capo di Buona Speranza in Africa meridionale possono richiedere due settimane in più.
Secondo quanto riportato dal New York Times, citando la società di ricerche di mercato Kpler, le petroliere per il momento bloccate nel canale trasportano 8,8 milioni di dollari di greggio, meno di un decimo percento dei consumi giornalieri globali, per un valore di circa 550 milioni di dollari.
Nel 1967 a seguito della guerra dei sei giorni tra Egitto e Israele, il canale rimase chiuso per otto anni, lasciando intrappolate le quindici navi che vi stavano navigando allo scoppio del conflitto, che divennero note come parte della “flotta gialla”, per la sabbia che vi si era depositata. Dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973 che portò alla prima crisi petrolifera, nel 1974 iniziarono le operazioni di sgombero a cui seguì la riapertura l’anno successivo.
(da agenzie)
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Febbraio 21st, 2021 Riccardo Fucile
MENTRE MILIONI DI ITALIANI POSSONO RISPARMIARE FINO A 300 EURO L’ANNO E STANNO ARRIVANDO I PRIMI RIMBORSI
La notizia di partenza è che i primi cittadini italiani che hanno raggiunto la quota dei 10 pagamenti elettronici nel mese di dicembre stanno per ricevere il rimborso del 10% sui loro acquisti, per una cifra che potrà arrivare — in totale — a 150 euro a testa.
L’altra notizia è che c’è un movimento neanche troppo sotterraneo da parte di forze che, fino a due settimane fa erano all’opposizione e che adesso si trovano in maggioranza, esprimendo anche ministri chiave, per spingere il governo di Mario Draghi a bloccare l’operazione Cashback.
In questi giorni è partita la prima tranche di rimborsi, equivalente a circa 121 milioni di euro. Per i restanti 122 (il totale previsto è di 223 milioni per il periodo che è andato dall’8 al 31 dicembre), l’erogazione è prevista nei prossimi giorni.
Dunque, ad alcuni cittadini è già stato accreditato il rimborso per la sperimentazione natalizia della misura e — nel giro di poco tempo — questa erogazione toccherà tutti i cittadini che hanno raggiunto la soglia minima delle dieci operazioni.
La domanda che ci si pone, tuttavia, è se queste disquisizioni saranno utili ancora per molto: Forza Italia, da poco entrata in maggioranza e al governo, esprimendo tra le altre cose il ministro della Pubblica Amministrazione (Renato Brunetta), sta spingendo per sospendere il programma cashback.
Gli azzurri sostengono che le misure non abbiano centrato il proprio obiettivo, non incentivando i pagamenti elettronici da parte di chi, in passato, ha sempre pagato in contanti e ha continuato a farlo anche in questi mesi.
Dal momento che a bilancio il cashback vale 4 miliardi, Forza Italia è in pressing su Draghi per convincerlo a sospendere la misura.
Il sospetto è un altro: che Forza Italia non ami la misura perchè ha costretto molti commercianti a fare lo scontrino in quanto richiesto dal cliente, riducendo quindi le possibilità di evasione fiscale.
(da agenzie)
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Gennaio 31st, 2021 Riccardo Fucile
IL LEADER DEGLI INDUSTRIALI BOCCIA ARCURI PER L’ASSENZA DI UN PIANO VACCINALE E SU CONTE GLISSA: “NON FACCIAMO SCELTE SUI NOMI”
“Per il bene del Paese alcune persone devono restare e faccio riferimento al ministro dell’Economia”. A dirlo è il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, parlando della crisi di Governo a Mezz’ora in più su Raitre. “Quel che portiamo a casa con il Recovery Fund è merito del ministro Gualtieri”.
Alla domanda sul presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, attaccato duramente a mezzo stampa dal leader degli industriali lombardi Bonometti – che lo ha invitato a trovarsi un’altra occupazione – Bonomi però si trincera dicendo che “Confindustria non fa scelte di persone o partiti. Sta sui temi. Siamo molto rispettosi delle scelte dei partiti, per noi sono importanti le caratteristiche del governo: deve essere serio, autorevole, competente, efficace”.
Al prossimo Governo “chiediamo ascolto, ma ascolto vero” dice Bonomi, spiegando che sul Recovery plan, il Governo Conte “si è arroccato su se stesso. Da quello nuovo chiediamo ascolto vero. Abbiamo bussato alla porta sia di Palazzo Chigi che dei Ministeri. Con Conte abbiamo personalmente un ottimo rapporto ma non si è trasformato in un qualcosa che ha dato sostanza per quelle misure che servono al paese”.
Tra i bocciati invece finisce Domenico Arcuri, anche se non viene mai nominato dal leader di Confindustria. “Non c’è ancora un piano vaccinale” afferma Bonomi, “abbiamo dei problemi. Esiste? Un piano serio prevede che tutti sappiano quando e dove verranno vaccinati. Qui invece si stanno ancora facendo i bandi per le primule, quando altri paesi hanno già utilizzato grandi strutture per utilizzarle come centri vaccinali. Crediamo che la questione sia stata affrontata in maniera non corretta soprattutto per quel che riguarda la logistica”.
(da agenzie)
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Gennaio 26th, 2021 Riccardo Fucile
A DAVOS IL PRESIDENTE FRANCESE METTE IN DISCUSSIONE IL LEGAME TRA ECONOMIA DI MERCATO E DEMOCRAZIA LIBERALE
Il modello del capitalismo e dell’economia di mercato “non può più funzionare” in quanto “l’accelerazione” della finanza e della digitalizzazione hanno spezzato il “compromesso” che lo legava “alla società democratica, alla libertà individuale e all’espansione della classe media”.
Lo ha dichiarato il presidente francese, Emmanuel Macron, durante i lavori virtuali del World Economic Forum di Davos. “Il capitalismo e l’economia di mercato non si possono certo liquidare in fretta, dal momento che hanno tirato fuori dalla povertà molti milioni di persone e offerto accesso a beni e servizi in un modo senza precedenti”, ha sottolineato il capo dell’Eliseo, “allo stesso tempo, però, hanno espulso dal ciclo produttivo altre centinaia di milioni di cittadini che hanno dovuto subire shock economici legati alle delocalizzazioni, hanno perso il lavoro e sentono di aver perso la loro utilità ”.
Macron ha poi puntato il dito sulla “disconnessione tra la finanziarizzazione e la catena del valore” che ”è una cosa negativa quando concentra troppi fondi in attività poco rischiose”. Inoltre, ha aggiunto il presidente francese, “i social network hanno globalizzato l’immaginazione, facendo sì che le persone si confrontassero l’una con l’altra su scale mai viste prima”. “In questo modo abbiamo creato due re del sistema, i produttori e i consumatori, a spese dei lavoratori e ciò ha creato esternalità negativa per l’ambiente e ha alimentato la crisi della democrazia”.
(da agenzie)
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