Gennaio 10th, 2021 Riccardo Fucile
63 MILIONI DI TRANSAZIONI, HANNO SUPERATO LA SOGLIA DEL RIMBORSO 3,2 MILIONI DI ISCRITTI…RIMBORSO MEDIO DI 68.9 EURO… ORA SI PASSA AL SECONDO STEP, QUELLO ORDINARIO
Quasi 6 milioni di italiani si sono iscritti al Cashback di Natale e hanno effettuato oltre 63 milioni di transazioni con carte e bancomat, di cui la metà per acquisti di piccolo importo (sotto i 25 euro).
Sono i numeri definitivi del periodo sperimentale del programma pensato dal governo Conte per dare una spinta alla digitalizzazione dei pagamenti e allo stesso tempo combattere l’evasione fiscale. Palazzo Chigi parla di un “successo oltre le previsioni per l’incentivo alla moneta elettronica” e guarda già al 2° step, iniziato l’1 gennaio.
Durante la prima fase, si legge nel comunicato, sono stati registrati 9,8 milioni di strumenti di pagamento digitale. I cittadini che hanno raggiunto la soglia minima delle 10 transazioni per ottenere il rimborso del 10% sugli acquisti fatti nei negozi fisici sono 3,2 milioni.
Entro l’1 marzo, quindi, tutti i beneficiari riceveranno un rimborso complessivo di oltre 222 milioni di euro. Si tratta in media di 68,9 euro a testa.
“Favorire una digitalizzazione dei pagamenti senza penalizzare nessuno può portare al cambiamento delle abitudini di vita dei consumatori”, aveva dichiarato a settembre il presidente del Consiglio Conte, sin da subito tra i principali sostenitori del piano Italia cashless.
Un programma introdotto per “incentivare l’utilizzo dei pagamenti digitali, rendere il sistema più spedito, trasparente e tracciabile. In prospettiva significa porre le basi per recuperare l’economia sommersa“.
Con i numeri di oggi, Palazzo Chigi ritiene vinta la scommessa: “La partecipazione riscontrata è stata al di sopra delle aspettative dal punto di vista dei numeri e dei dati di sintesi”. Nello specifico, si sono iscritti 5.870.063 cittadini, titolari di 9.834.919 strumenti di pagamento elettronici, di cui oltre 7,6 milioni sull’app Io.
Il sistema ha elaborato 63.218.228 di transazioni complessive, per un importo medio di 46 euro. Supera i 222,6 milioni di euro (222.668.781) il valore dei rimborsi da erogare ai 3.230.906 partecipanti che, sul totale dei cittadini iscritti, hanno effettuato il numero minimo delle 10 transazioni per avere diritto all’Extra Cashback di Natale.
Il 3,1% degli aventi diritto, pari a circa 100mila italiani, ha raggiunto il rimborso massimo di 150 euro, mentre il 14,5% otterrà un bonifico tra i 100 e i 149 euro.
La maggioranza dei cittadini partecipanti al programma (49,6%) si verrà accreditare 50-99 euro e il 32,8% ha accumulato un rimborso inferiore ai 50 euro.
Uno degli aspetti più interessanti riguarda però il tipo di transazioni effettuate: nel 48,5% dei casi si è trattato di piccoli acquisti, non superiori a 25 euro.
Una fascia di importo in cui, soprattutto in Italia, il contante finora ha sempre fatto da padrone. Favorendo in tanti casi la micro-evasione fiscale.
Ora che la fase sperimentale di Natale si è conclusa, il governo guarda già al 2° step: “L’aspettativa è che la partecipazione continui a crescere in modo graduale e significativo nei prossimi mesi e che, con il tempo, l’iniziativa abbia un impatto positivo sul cambiamento delle abitudini di consumo degli italiani verso un sempre maggiore utilizzo della moneta elettronica negli acquisti di tutti i giorni“, si legge nel comunicato.
Dall’inizio dell’anno è infatti entrato a regime il Cashback “ordinario”: l’orizzonte per accumulare il rimborso viene esteso a sei mesi (1 gennaio-30 giugno) e serviranno almeno 50 transazioni per averne diritto, non più 10.
Ma c’è una novità , cioè il Super cashback di 1.500 euro da assegnare ogni sei mesi ai primi 100mila consumatori che effettueranno il maggior numero di pagamenti con strumenti elettronici. Non conta l’importo: il sistema terrà in considerazione solo il numero di transazioni, anche piccolissime.
La propria posizione in classifica potrà essere controllata in tempo reale sull’app Io. Un’ulteriore conferma della crescente adesione al progetto arriva dai dati aggiornati all’8 gennaio. Palazzo Chigi fa sapere che i cittadini iscritti hanno superato il tetto dei 6 milioni (6.244.446) e sono stati registrati 10,6 milioni di strumenti di pagamento. Circa 9 milioni le transazioni effettuate solo nei primi 8 giorni del 2021.
(da agenzie)
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Dicembre 26th, 2020 Riccardo Fucile
SECONDO IL “CENTRE FOR ECONOMICS AND BUSINESS RESEARCH”, LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE “DIVENTERA’ LA PRIMA ECONOMIA MONDIALE CINQUE ANNI PRIMA DEL PREVISTO”
La Cina supererà gli Stati Uniti e diventerà la prima economia al mondo entro il 2028,
cinque anni prima di quanto inizialmente stimato. Lo prevede il Centre for Economics and Business Research, secondo il quale il sorpasso avverrà prima del previsto a causa del Covid.
La Cina, secondo le stime, crescerà quest’anno del 2%, l’unica grande economia a crescere. Il Pil americano si contrarrà invece nel 2020 del 5%, consentendo così a Pechino di accorciare le distanze.
In seguito la Cina è attesa da una crescita del 5,7% dal 2021 al 2025, per poi registrare un calo al 4,5% annuo dal 2026 al 2030. Gli Stati Uniti, invece, si assesteranno intorno all′1,9 tra il 2022 e il 2024 per poi scendere all′1,6 negli anni successivi.
Il Giappone dovrebbe restare la terza potenza mondiale fino al 2030 quando verrà scavalcata dall’India che spingerà la Germania da quarto al quinto posto.
Il Regno Unito del dopo Brexit scivolerà dal quinto al sesto posto.
Complessivamente il Pil mondiale, è la stima del CEBR, calerà quest’anno del 4,4%, in quella che è la maggiore contrazione annuale dalla Seconda guerra mondiale.
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
“LA RIFORMA DEL MES E’ LUNICA STRADA” … L’ARTICOLO DELL’ECONOMISTA DI FORZA ITALIA
Sulla riforma del trattato MES (Meccanismo Europeo di Stabilità ) si sono dette e scritte tante cose, forse troppe. Eppure, in mezzo alla enorme propaganda che si è fatta sul tema, alcuni fatti appaiono incontrovertibili.
La prima versione del MES era di natura intergovernativa, costruita frettolosamente, sotto l’assillo della crisi dei debiti sovrani, ed obbediva alla miopia e all’egoismo degli Stati nazione che, pur temendo il contagio da default, non volevano costituire nuove istituzioni comunitarie a difesa dell’euro. Era il MES del momento “protestante” e “calvinista” dell’Europa, quello del sangue, sudore e lacrime, dei compiti a casa, del ‘debito’ sinonimo di ‘colpa’ alla tedesca, delle condizionalità punitive.
Era anche il MES di un’Europa asimmetrica, in cui alcuni paesi relativamente piccoli all’interno dell’Eurozona (Grecia, Portogallo, Irlanda) avevano accumulato debiti pubblici non sostenibili, mentre la media dell’Eurozona navigava ben al di sotto del 100% del rapporto debito/PIL. Quell’Europa, e la sua incapacità di gestire la crisi bancaria e il suo legame con i debiti pubblici nazionali, aveva poi consentito alla crisi stessa di allargarsi a Paesi con fondamentali rischiosi, ma non critici, come la Spagna e l’Italia, quest’ultima salvata grazie al ‘whatever it takes’ di Mario Draghi, dall’imbroglio dello spread.
Quell’Europa ora non c’è più, anche se pure la seconda versione del MES si presenta intergovernativa, per mancanza di coraggio e di visione.
Tre anni di discussioni tra i 19 dell’Eurogruppo, per l’Italia almeno tre governi con tre maggioranze diverse, con tre ministri, tutti degni di rispetto (Padoan, Tria e Gualtieri) e il risultato è certamente migliore della versione originaria del 2012, tuttora in vigore.
Nel frattempo, il mondo è cambiato per la crisi pandemica e con un grande shock culturale e politico, l’Europa si sta trasformando da intergovernativa a comunitaria, federale, anche se questa mutazione sembra più il prodotto della paura (pandemica) che di un maturo convincimento.
Proprio per questo anche la seconda versione del MES è purtroppo intergovernativa, ma l’introduzione del common backstop (una rete di sicurezza comune) sul sistema bancario, e la linea di credito (pandemica) temporanea, già operante da maggio scorso fuori dalla riforma, finiscono per portare il processo di mutualizzazione delle risorse europee dei 19 progressivamente e inevitabilmente verso una nuova dimensione federale, anche se non ancora comunitaria.
Il tutto in presenza di una nuova Europa, quella del momento Merkel, della ‘Next Generation’, della mutualizzazione una tantum del debito, di certo parziale, ma che rappresenta pur sempre una novità assoluta, quasi eversiva rispetto ai vecchi assetti ideologici e alle vecchie credenze.
Per tale motivo, questa riforma anfibia del MES sembra l’unica strada da intraprendere, perchè, pur figlia del passato, anticipa una istituzione di cui c’è bisogno, e che potenzialmente può diventare comunitaria e federale.
Per questo motivo, non si riesce a comprendere affatto (anzi si capisce benissimo) la posizione di chi dice no a questo nuovo MES, evidentemente ritenendo che sia meglio restare con il vecchio, più egoistico, meno solidale, meno comunitario, meno federale, e quindi meno europeo.
Andando nel merito, l’anticipo del meccanismo di ‘common backstop’ come rafforzamento del Fondo di Risoluzione Unico bancario dell’Eurozona, sotto forma di linea di credito Mes, e l’anticipo del ‘risk assessment’, entrambi al 2022, inseriti nella tanto attesa e discussa riforma del Trattato Mes, sono senza dubbio una ottima notizia.
Lo strumento del ‘backstop’ serve proprio ad evitare ciò che era accaduto tra il 2010 ed il 2012, quando l’incapacità europea di gestire la crisi di un (piccolo) Stato sovrano, la Grecia, ha rischiato attraverso il contagio del sistema bancario, di far deragliare la seconda più importante valuta del mondo, con conseguenze facilmente immaginabili.
L’anticipo dello strumento è oltremodo importante per un sistema bancario alle prese con quella che sarà una difficile uscita dalla crisi da pandemia, crisi che sta riempiendo nuovamente i bilanci delle banche dell’Eurozona di crediti inesigibili (NPLs), nel momento esatto in cui questi si stavano faticosamente riducendo.
Crediti NPL che, secondo le ultime stime della Bce, ammonterebbero alla cifra monstre di 1.500 miliardi di euro. Un quantitativo di sofferenze, latamente intese, che rappresenta una buona approssimazione della dimensione della crisi sofferta dalle imprese europee, che potrebbe presto portare a nuovi fallimenti sistemici negli istituti di credito.
L’Italia, da questo punto di vista, è lo Stato dell’Eurozona, insieme a Grecia e Portogallo, ad avere la percentuale di Npl più elevata, quindi tra i paesi più esposti a shock negativi, e dunque tra quelli che potrebbero maggiormente guadagnare dall’implicita stabilità garantita dal meccanismo di ‘backstop’ anticipato.
Come sostenuto correttamente dal collega Gaetano Quagliariello, la pandemia, e soprattutto le sue conseguenze economiche, hanno cambiato le carte in tavola in Europa. Anche grazie agli “scostamenti di bilancio” che in diversi casi sono stati votati dal Parlamento all’unanimità , il nostro debito sovrano è salito al 160 per cento del Pil.
Il Paese, anche per questo, si presenta molto più fragile ed esposto agli shock dei mercati finanziari, pur in mezzo agli squilibri comuni a tutta l’Eurozona. Come ben sappiamo l’Europa ha reagito in pochi mesi istituendo il Recovery Fund, una svolta epocale, mutualizzando una parte del debito sovrano (solo quello prodotto dalla pandemia) e affidando alla Banca Centrale Europea il ruolo di compratore di ultima istanza.
A riprova di tutto questo, in Italia nessuno sostiene che delle risorse del Recovery Fund si possa o si debba fare a meno. Purtroppo, l’accesso ai fondi NGUE, per effetto del veto posto dai sovranisti ungheresi e polacchi, rischia di essere rinviato ancora a lungo, lasciando il 2021 completamente scoperto dalla protezione finanziaria (famiglie, imprese, Stati), di cui avrebbe assolutamente bisogno.
Per questo motivo, proprio per non lasciare il problematico 2021 senza un bazooka a disposizione delle banche, sarebbe opportuno che il meccanismo di backstop, previsto dal MES riformato, fosse anticipato ulteriormente, in maniera da essere subito disponibile, fin dall’inizio del processo di ratifica del trattato (fine gennaio) da parte dei Parlamenti nazionali.
Ricordiamo che il Fondo unico di risoluzione bancario, attualmente esistente, è un fondo, capitalizzato dalle banche dell’Eurozona, che interviene per la risoluzione ordinata delle crisi degli istituti di credito, in maniera da evitare che i potenziali default diventino sistemici, per via dell’effetto contagio.
L’ulteriore anticipo di un anno del fondo unico ‘backstop’ dovrebbe idealmente essere accompagnato anche dall’entrata in vigore immediata dell’EDIS, lo schema di assicurazione dei depositi europeo, da anni in agenda tra le istituzioni dell’eurozona ma ancora lontano dall’essere attuato.
L’EDIS, lo ricordiamo, è un sistema di protezione dei depositi dei risparmiatori europei che, in caso di crisi bancarie estese, rischierebbero di perdere accesso al denaro depositato, in assenza di uno schema di garanzia che li tuteli in aggiunta a quanto già costituzionalmente previsto da tutti gli ordinamenti nazionali degli Stati membri. Insomma, accompagnare il processo di ratifica del nuovo MES (lungo tutto il 2021) con una prima piena attuazione del fondo Salva banche finanziato dal vecchio MES, ed un irrobustimento delle tutele a favore dei depositanti in tutta Europa. Come sarebbe possibile realizzare tutto ciò?
L’idea parte dalla considerazione che i 68 miliardi di euro di dotazione del Fondo di Risoluzione Unico già vigente, creato dalle banche stesse, appaiono insufficienti per far fronte da soli al credit crunch potenziale che potrebbe investire nel 2021 e 2022 il sistema bancario europeo.
Per questo motivo, potrebbe costituire una straordinaria novità , produttrice di stabilità e deterrenza, la creazione presso il vecchio Mes di una nuova linea di credito temporanea, pensata appositamente per fornire una ulteriore garanzia anticipata al Fondo di Risoluzione Unico europeo, una linea avente la stessa base giuridica della ‘Pandemic Credit Line’ azionata la scorsa primavera per offrire copertura per le spese sanitarie dirette ed indirette sostenute dagli Stati membri dell’area euro per affrontare la crisi.
Una linea di credito pensata ad hoc ex art. 136, comma 2 del TFUE, per fornire garanzie al sistema bancario, con una dotazione pari al 2% del Pil dell’Eurozona, che si esaurirà nel momento di entrata in vigore del common backstop nel 2022.
Una sorta di ‘polizza di assicurazione’ per il 2021, subito pronta, e che faciliterebbe il processo di ratifica da parte dei Governi, che con questo strumento avrebbero qualcosa di concreto da mostrare ai risparmiatori, ancora dubbiosi rispetto alle promesse di immediatezza delle risorse fornite dal Next Generation.
Una linea di credito che probabilmente non dovrà (si spera) neppure essere utilizzata, essendo appunto una garanzia da escutere solo in caso di crisi effettiva degli istituti di credito dell’Eurozona. Ma il rafforzamento della garanzia pubblica, si sa, sarebbe apprezzata immediatamente dai mercati, perchè contribuirebbe a ridurre il rischio sistemico del credito europeo, a tutto vantaggio dei paesi maggiormente esposti come l’Italia. Minor rischio significa minori tassi di interesse al dettaglio e una ripresa dei corsi azionari delle banche europee, ancora al di sotto dei livelli pre-crisi.
Questa nuova linea di credito, da realizzarsi subito, sarebbe, dunque, una soluzione win-win per i governi europei, le banche e i cittadini. Per questo motivo sarebbe bene cominciarne a parlare fin dal prossimo Euro Summit dell′11 dicembre e certamente a gennaio, prima della sottoscrizione da parte del Coreper a Bruxelles del nuovo trattato MES.
A ben pensarci, in fondo, quelle di Ungheria, Polonia e degli altri sovranisti, compresi quelli di casa nostra, sono le ultime strenue resistenze alla nuova Europa. Resistenze che si esplicitano da un lato nei veti di Ungheria e Polonia al bilancio europeo, perchè ‘Next Generation’ significa anche regole sui diritti democratici comuni di una nuova Europa veramente federale e comunitaria; e dall’altro nei veti sovranisti sul MES, visto che questi ultimi, coerentemente, non vogliono l’Europa delle istituzioni comunitarie condivise, fino al rifiuto dell’idea di moneta unica.
Bisogna leggere così questo momento storico: o con l’Europa dell’euro o contro l’Europa.
Per questo motivo, occorre dire sì, con la ragione, al nuovo MES, guardando con il cuore al futuro, e dicendo no all’involuzione sovranista e autoritaria del Vecchio Continente.
In fondo la nuova Europa non può che essere comunitaria, federale e dei diritti. Il passaggio di fase è tutto qui, è bene esserne tutti consapevoli.
Renato Brunetta
parlamentare Forza Italia
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Dicembre 3rd, 2020 Riccardo Fucile
I REGISTRATORI DI CASSA NON SONO AGGIORNATI CON IL SOFTWARE PERCHE’ NON L’HANNO RICHIESTO… SOLO 600.000 SU 1,4 MILIONI SI SONO ADEGUATI
Quella della lotteria degli scontrini in chiave anti evasione sarà una partenza azzoppata. Perchè circa
metà degli 1,4 milioni di nuovi registratori di cassa telematici che dialogano con l’Agenzia delle Entrate non ha ricevuto l’aggiornamento software messo a disposizione in piena estate, indispensabile per consentire ai clienti di ricevere i biglietti virtuali e partecipare alla riffa con premi fino a 5 milioni di euro.
Un intervento che per gli esercenti comporta ulteriori costi: fino a 300 euro tra installazione del software e scanner per la lettura del codice lotteria.
Spesa che molti, dato il momento di crisi, non vogliono sostenere.
Comufficio, che riunisce i produttori delle “casse 2.0”, conferma i numeri e spiega a ilfattoquotidiano.it che in ogni caso di qui al 31 dicembre è impossibile adeguare tutti gli apparecchi.
Così le associazioni di categoria dei commercianti chiedono al governo un ennesimo rinvio.
Passo indietro: con l’emergenza Covid l’obbligo di trasmissione telematica dei corrispettivi alle Entrate, sulla carta già in vigore per tutti, è stato di fatto rinviato allungando la fase transitoria fino al prossimo 1 gennaio.
Nel frattempo comunque gli esercenti si sono attrezzati, sfruttando il credito di imposta del 50% sui nuovi registratori telematici: stando agli ultimi dati dell’Agenzia, su 1,5 milioni di operatori Iva circa 1,4 milioni hanno comprato il registratore telematico o iniziato ad utilizzare la procedura web gratuita, pensata per chi come gli artigiani non batte scontrini ma fa solo ricevute.
La pandemia però ha determinato anche lo slittamento in avanti della lotteria degli scontrini, che sarebbe dovuta partire a luglio, e degli adeguamenti tecnici già previsti. I cui dettagli sono stati peraltro modificati dall’agenzia fiscale il 30 giugno.
“Di fatto però il dettaglio del programma per l’adeguamento dei registratori ai fini della dichiarazione precompilata Iva e della lotteria è stato rilasciato a metà agosto“, spiega Fabrizio Venturini, direttore generale Comufficio.
“Considerati i tempi dell’omologazione dei software, l’installazione da parte dei tecnici e la formazione degli esercenti che devono usarlo è iniziata ad ottobre”. Quando la questione non era in cima alle preoccupazioni degli esercenti rimasti chiusi per due mesi durante il primo lockdown.
Risultato: “Stando alle informazioni che abbiamo, solo 600mila registratori telematici sono stati adeguati”.
“Fino a ieri, quando si è iniziato a parlare della lotteria anche ai tg, i commercianti non se ne sono occupati”, è il punto di vista di Marco Franco della Vds di Rubano (Padova) che è tra i produttori di modelli approvati dalle Entrate. “Il 25 ottobre ho spedito 10mila pec invitando i clienti a sottoscrivere il contratto per l’adeguamento (quello per la lotteria è solo uno degli aggiornamenti da fare, l’altro è per la dichiarazione iva precompilata) e per lo scanner, mi hanno risposto in 500“.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 28th, 2020 Riccardo Fucile
“6 MILIARDI DI EURO INVESTITI, 234 MILIONI DI TASSE VERSATE IN ITALIA, 2.500 PICCOLE E MEDIE IMPRESE ITALIANE PRESENTI NEI NOSTRI NEGOZI, SUPPORTO ALLA DIGITALIZZAZIONE PER LE PICCOLE AZIENDE E TRE MESI GRATIS DI ABBONAMENTO”
Quasi 6 miliardi di euro investiti in dieci anni, oltre 120.000 posti di lavoro creati e 234 milioni di euro di tasse già versate.
All’incontro di ieri con il leader della Lega Matteo Salvini Amazon Italia ha lasciato parlare i numeri, che raccontano meglio di qualsiasi stratagemma comunicativo l’impegno dell’azienda per l’Italia, “attraverso investimenti, creazione di posti di lavoro, sostegno alla digitalizzazione delle PMI e contributo fiscale”, spiega il colosso in una nota ufficiale diffusa oggi.
Per essere precisi, dal 2010 da noi Amazon ha investito più di 5,8 miliardi di euro per la creazione di posti di lavoro e infrastrutture, diventando “uno dei principali creatori di posti di lavoro nel paese, dando lavoro a 8.500 persone e consentendone l’occupazione di oltre 120.000”.
La creatura di commercio elettronico fondata da Jeff Bezos, inoltre, “contribuisce anche al gettito fiscale attraverso le tasse, sia dirette che indirette, che vengono riscosse dal Governo a seguito delle nostre attività sul territorio nazionale, con un contributo fiscale complessivo — come abbiamo già detto — di 234 milioni di euro nel 2019”.
Per quanto riguarda le piccole e medie imprese, tante le iniziative, ma, avvertono, “faremo di più”. L’investimento di più di 85 milioni di euro già fatto nella promozione di questo tipo di imprese durante il Black friday e il periodo natalizio, si somma alla promozione dei prodotti “di oltre 2500 PMI italiane presenti nei nostri negozi Made in Italy in Italia, UK, Germania, Francia, Spagna e USA dedicati all’eccellenza italiana”, come si legge nello statement.
L’impegno preso da Amazon riguarda anche la formazione delle diverse realtà imprenditoriali tricolore con un supporto concreto alla loro trasformazione digitale.
Si chiarisce che è ben accetto “qualsiasi supporto da qualsiasi associazione o partito politico per promuovere il programma di formazione gratuito ‘Accelera con Amazon’, sviluppato con ICE, MIP Politecnico di Milano, Confapi e Netcomm”
Per quel che concerne il supportare alle aziende non digitalizzate, “rimborsiamo i primi tre mesi di abbonamento ai partner di vendita che si sono registrati tra il 6 novembre 2020 e il 5 dicembre 2020, cioè la durata del presente lockdown, e questa iniziativa verrà estesa in base all’evoluzione delle chiusure”, concludono da Amazon.
Matteo Salvini, con una nota, aveva chiesto alla multinazionale dell’e-commerce misure che in buona parte l’azienda ha già preso: “Sconti speciali sulle vendite online per aiutare i negozi italiani, raddoppio delle piccole imprese italiane coinvolte nel progetto ‘Accelera con Amazon’ sulla formazione gratuita nelle vendite online, valorizzazione dei prodotti made in Italy, aumento degli investimenti diretti in Italia, accesso facilitato alla piattaforma digitale per negozianti e piccoli imprenditori”.
Tutte istanze che non dettano una direzione e una filosofia diversa rispetto a quella che Amazon già segue e sulla quale è aperta a contributi e apporti di attori esterni, senza privilegiare un particolare colore politico.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 27th, 2020 Riccardo Fucile
LE PREVISIONI DI MAGGIORE ENTRATE FISCALI DIPENDONO DAL REALE FLUSSO DI DENARO DALLA UE
C’è un meccanismo con qualche dose di rischio per i conti pubblici nella catena che lega il Recovery
Plan, la crescita e i conti pubblici. I ritardi cumulati a causa della contesa politica su chi gestirà le risorse e come saranno articolati i 209 miliardi del NextGeneration Eu hanno indotto il ministro dell’Economia Gualtieri e gli uomini della Ragioneria generale dello Stato, a dare vita ad un piano B contabile: all’interno della legge di Bilancio è stato creato un Fondo di rotazione di 34,7 miliardi per il prossimo anno dal quale si potrà attingere per attivare fin dal 1° gennaio del 2021 quanto serve per finanziare gli interventi del Recovery Fund in attesa che arrivino le risorse europee.
Fin qui tutto bene ma nella recente audizione sulla legge di Bilancio, il presidente dell’Upb, l’autorità sui conti pubblici, Giuseppe Pisauro, ha segnalato un crepa nella costruzione evocando la mancanza di una “chiara esplicitazione” e di “informazioni sufficienti”.
Qual è il punto? E’ tecnico nella sua conformazione ma piuttosto semplice da capire quanto agli effetti.
Il Fondo per anticipare nel prossimo anno gli incassi dei soldi europei è stato contabilizzato nel cosiddetto “saldo netto da finanziare” ma non è stato considerato nelle colonne accanto che rappresentano il fabbisogno e il deficit e di conseguenza non è stato contabilizzato il suo effetto sulla crescita del debito e del deficit.
Dunque se il Recovery dovesse ancora tardare, e le risorse manifestarsi dopo la metà del prossimo anno, il Fondo si tramuterebbe in una sorta di promessa mancata: dovrebbe essere alimentato con nuove emissioni con i 77 miliardi della Tesoreria ma rimarrebbe a secco dalle risorse europee.
Servizio Bilancio del Parlamento nel suo dossier sulla manovra non si è fatto sfuggire la questione e ha osservato che il Fondo di rotazione potrebbe non produrre effetti su fabbisogno e deficit – come emerge dal testo della manovra – solo se “per l’attuazione delle misure si determini la medesima tempistica nell’acquisizione e nell’erogazione delle risorse”.
In altre parole il Fondo può evitare di essere contabilizzato per 34,7 miliardi in debito e deficit solo se si è sicuri che il prossimo anno a fronte di ogni spesa sarà pronto il finanziamento del Recovery.
A dire il vero c’è una via d’uscita, ma incerta: cioè la possibilità che il governo conti, soprattutto nel 2021, di attingere dalla parte sovvenzioni a fondo perduto del Recovery plan e in questo caso il transito nel deficit e nel debito non sarebbero necessari in quanto trattasi di grant o doni.
Ma possiamo esserne sicuri? Finchè il piano non sarà formalizzato con Bruxelles rischiamo una coltre di incertezza sui conti pubblici.
La catena di causa-effetto che parte dal Recovery va ad impattare su un secondo problema, anche questo ben segnalato dall’Upb.
Agli investimenti del Recovery Fund viene attribuito un effetto importante sul quadro economico, pari a poco meno di un punto nel 2022 e nel 2023: questa crescita – per quello che i tecnici chiamano effetto di retroazione – dovrebbe garantire coperture (definite “inusuali” dall’Upb) in termini di Irpef e contributi per 12,9 miliardi nel 2022 e 20,5 l’anno successivo.
Nessuna paura per il prossimo anno e il Tesoro assicura, come per i rilievi della Commissione sullo stesso tema, che non ci sono problemi perchè le entrate in questione riguardano il biennio successivo quando presumibilmente gli effetti del Recovery si saranno verificati. Ma certamente il rischio c’è e la soluzione sta nelle mani del governo: accelerare sul Recovery Plan.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 24th, 2020 Riccardo Fucile
LO SPREAD IN ITALIA AI MININI DA OLTRE 4 ANNI: 111
I mercati globali beneficiano delle notizie che arrivano dagli Stati Uniti, dove prende forma la squadra di Biden per una presidenza che ormai anche Donald Trump ha accettato e spicca il nome forte di Janet Yellen, ex numero uno della Fed, al Tesoro.
A Wall Street il Dow Jones si porta ai massimi oltre 30 mila punti per la prima volta nella storia e le chiusure in Europa sono tutte all’insù.
Nel finale di seduta Francoforte chiude la seduta in positivo dell’1,26%, Parigi mostra un aumento dell’1,21% e Londra dell’1,53 per cento.
Milano fa ancora meglio delle altre e a fine seduta segna un guadagno del 2,01%. A Piazza Affari, occhi puntati sul comparto bancario col risiko attivato dal Crèdit Agricole in movimento sul Creval. Bene in generale il comparto energetico, si segnala il piano dell’Enel che prevede 40 miliardi di investimenti al 2023: positiva la reazione del titolo della società elettrica.
Gli indici hanno accelerato proprio quando il Wsj ha anticipato la scelta del presidente eletto che vuole l’economista keynesiana come Segretario al Tesoro. Oggi la Borsa americana è tornata a volare sulle ali della scelta dell’ex numero uno della Fed al Tesoro Usa. Al termine delle contrattazioni del Vecchio continente, il Dow Jones consolida i rialzi e segna un +1,6% che lo porta per la prima volta sopra i 30 mila punti.
L’euforia degli investitori si travasa anche sul mercato dei titoli di Stato, con lo spread tra Btp e Bund tedeschi che scende in area 111 punti base (minimi da aprile 2016) e il decennale tricolore che aggiorna il minimo storico di rendimento allo 0,57%.
L’euro chiude in rialzo a 1,1875 dollari. La divisa unica europea guadagna terreno anche nei confronti dello yen in zona 124,25. Anche il biglietto verde avanza nei confronti della valuta giapponese a circa 104,65.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2020 Riccardo Fucile
LA STRADA MAESTRA E’ RIDURRE L’IRPEF, NON SI PUO’ CONTINUARE A FAR CRESCERE IL DEFICIT SPARANDO PROPOSTE A CASACCIO A SECONDO DI COME CI SI ALZA
La proposta di taglio dell’Iva da 20 miliardi, avanzata in questi giorni dalla Lega di Matteo Salvini, ha l’amaro retrogusto della faciloneria improvvisatoria e dell’indebolimento della credibilità per chi, all’interno del centrodestra, combatte da anni per un fisco più giusto e da mesi per aiuti mirati e non a pioggia.
Sia che la si guardi dal lato degli aiuti transitori a fronte della attuale situazione, sia che la di guardi dal lato della proposta a regime di riduzione del carico fiscale, quella di Salvini è una proposta che non regge e danneggia le battaglie di tutto il centrodestra.
Se la proposta è funzionale ad un aiuto transitorio, è del tutto evidente che i tagli di aliquote non distinguono tra chi ha bisogno e chi non ne ha.
L’inefficienza nell’investire in questo modo 20 miliardi di preziosissime risorse finanziarie è talmente lampante da non necessitare di altri commenti.
Se la proposta è, invece, funzionale a una riduzione a regime della pressione fiscale, nell’ottica di lubrificare la ripartenza, è altrettanto evidente, per lo meno a chi ha sempre creduto nella serietà delle proposte del centrodestra, che tradisce in modo davvero clamoroso quella che per noi è sempre stata la priorità : ridurre le tasse sui redditi, a cominciare dal ceto medio.
Intendiamoci, il taglio delle tasse è sempre una politica economica da valutare positivamente. Tuttavia, appare evidente che una operazione del genere non possa essere fatta alla leggera, prescindendo dal contesto economico nel quale essa avviene, dagli equilibri di finanza pubblica che devono essere tenuti in considerazione e dalla tipologia di tasse che si intende tagliare.
Partiamo da una considerazione banale. Le tasse, per quanto mal sopportate, sono tuttavia necessarie per finanziare le spese dello Stato.
E se queste, le tasse, non sono sufficienti a coprire tutte le spese, lo Stato si deve indebitare, come sempre ha fatto lo Stato italiano negli ultimi decenni.
Complice la crisi da pandemia, le finanze pubbliche italiane hanno toccato un nuovo record storico di debito pubblico, accompagnato dal ritorno del deficit a due cifre, nell’esatto contesto storico in cui, con fatica, l’Italia stava dirigendosi verso il pareggio di bilancio. L’eccesso di deficit di quest’anno e dell’anno prossimo devono essere quindi considerati come temporanei e per nulla si può pensare di effettuare politiche espansive senza limiti nei prossimi decenni.
Finita questa crisi, si spera al più presto, volenti o nolenti, bisognerà tornare a pensare alla sostenibilità della nostra finanza pubblica. Per questo motivo, se taglio delle tasse ci deve essere, occorre selezionare attentamente e con criterio quali tasse tagliare, nella consapevolezza che tutto non si può tagliare.
Un aiuto, da questo punto di vista, ci arriva dalla teoria economica della tassazione e dall’evidenza empirica, le quali mostrano inequivocabilmente che la tassazione diretta (redditi da lavoro e da impresa) è più nociva per l’economia di quanto lo sia la tassazione indiretta (consumi), perchè provoca maggiori effetti distorsivi sull’offerta di lavoro e di capitale e, di conseguenza, sul Pil e sul benessere della società .
In altre parole, l’Irpef e l’Ires sono imposte più distorsive per l’economia di imposte come l’Iva. Non a caso, questa evidenza empirica è stata fatta propria dalla Commissione Europea, che da anni, nelle sue Raccomandazioni Paese, invita il Governo italiano ad abbassare la tassazione dei redditi in cambio di un aumento della tassazione dei consumi. Uno switch fiscale che Bruxelles reputa conveniente per il nostro Paese.
Un suggerimento però che è sempre rimasto inascoltato, nonostante, di recente, l’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria si fosse mosso per attuare proprio una politica di questo tipo.
Anche in una situazione di enorme crisi come quella attuale, possono venire meno le risorse ma non devono venire meno i principi economici sui quali bisogna effettuare le scelte. Ecco perchè, se vi è la possibilità di tagliare le tasse nella prossima Legge di bilancio, occorre pensare al taglio di quelle sui redditi, non di quelle sui consumi.
Il taglio dell’Iva può sembrare appetibile come proposta, ma non è la migliore che il Governo possa fare. Per aumentare i consumi non è necessario tagliare le aliquote, ma occorre abbassare le tasse sul reddito da lavoro delle famiglie, in maniera che il salario netto aumenti e di conseguenza il potere di acquisto, che può essere impiegato per aumentare la domanda.
Ma con in più il beneficio di ridurre il costo del lavoro, incentivandone l’offerta e l’occupazione. Sotto qualsiasi punto di vista, il taglio dell’Irpef si rivela superiore rispetto a quello dell’Iva e, per questo, è quello che andrebbe sostenuto.
Quale credibilità potrà mai avere la nostra proposta di flat tax, se invece di continuare a portarla avanti con determinazione, spostiamo continuamente il tiro saltando di palo in frasca, a seconda di come ci siamo svegliati quella mattina?
Noi siamo da sempre consapevoli della grande difficoltà di arrivare in tempi brevi a una flat tax sui redditi per tutti, ma sappiamo anche che essa costituisce un faro politico utile a indirizzare tutti gli sforzi di graduale avvicinamento nella giusta direzione.
Già solo arrivare a metà di quel percorso, in una legislatura, sarebbe un grande successo per tutti quei contribuenti che oggi pagano il 38% già a partire da 28.000 euro.
Ecco un obiettivo di serio riformismo che potrebbe mettere insieme maggioranza e opposizione, fuori da ogni schema ideologico e da ogni inutile contrapposizione.
Renato Brunetta
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
VA MALE L’INCONTRO TRA IL LEGHISTA E IL CAPO DI CONFINDUSTRIA: BONOMI NON AMA I SOVRANISTI, E’ CONVINTO EUROPEISTA E A FAVORE DEL MES… E PREFERISCE PARLARE CON ZAIA E GIORGETTI CHE CON SALVINI
Doveva restare un incontro riservato perchè pensato come una riunione di routine, una delle tante che Confindustria tiene solitamente con tutti i partiti. Un momento di confronto, uno scambio di idee, tra l’altro nell’ambito di quel Patto per l’Italia che Carlo Bonomi ha rilanciato appena quattro giorni fa nel confronto in video con il segretario della Cgil Maurizio Landini.
E invece poco prima di mezzogiorno, la Lega decide di rendere noto alla stampa l’incontro avvenuto in mattinata tra Matteo Salvini, accompagnato da una delegazione del partito capeggiata da Claudio Borghi, e i vertici dell’associazione degli industriali. Parte così il tentativo del leader del Carroccio di tirare Bonomi nel fronte anti Governo.
Salvini e i suoi fedelissimi di partito arrivano al quartiere generale di Confindustria di buon mattino. Sul tavolo intorno a cui siedono Bonomi e il direttore generale Francesca Mariotti, i rappresentanti della Lega mettono una serie di slide e di documenti che contengono grafici e soluzioni per provare a dare una sterzata a un’economia tramortita dall’emergenza Covid. Si parla di posti di lavoro, di produzione industriale, ma soprattutto di manovra. E non è un caso se l’accento dei leghisti finisce proprio sulla legge di bilancio. Perchè è su questo fronte che gli industriali, a tutti i livelli – dal cervellone di viale dell’Astronomia alle territoriali – hanno ritirato fuori una forte contrarietà nei confronti delle misure adottate dal Governo.
Dopo un mese di sostanziale calma, negli ultimi giorni la temperatura dei rapporti tra Confindustria e l’esecutivo è tornata a surriscaldarsi. Dopo averla definita una manovra “ancora di emergenza, e non di ripartenza” il 20 ottobre, Bonomi è tornato a parlare del provvedimento una settimana fa, ponendo l’accento sulla necessità di non spegnere la discussione in Parlamento con tempi ultra contingentati.
E appena martedì Marco Bonometti, il presidente di Confindustria Lombardia, è andato giù duro affermando che nella manovra ci sono “troppe mancette” e che così “non c’è crescita”. Bonometti non è uno dei tanti presidenti delle articolazioni regionali di Confindustria. È la voce di una delle quattro Regioni del Nord che conta di più in termini di Pil: insieme al Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, tira su il 45% della ricchezza del Paese.
Da quando è scoppiata la pandemia, il fronte confindustriale del Nord è solitamente più acceso nei toni e più intransigente nelle rivendicazioni perchè il virus ha messo in ginocchio soprattutto quell’area del Paese, anche con la seconda ondata. Al di là delle differenze, l’atteggiamento di Confindustria nei confronti del Governo è tornato guardingo. Non oltranzista anche perchè il momento delicato che sta attraversando l’Italia spinge l’associazione degli industriali a cercare di tirare tutti – dai sindacati ai partiti di opposizione – dentro a un progetto di unità nazionale.
Al tavolo del confronto, la manovra è il tema che più avvicina Confindustria e la Lega, ma è un punto di contatto che non ha la forza di generare un asse in chiave anti Governo. Tutt’altro. Dopo l’incontro Salvini festeggia l’esito. Prima con un comunicato, poi in tv. Ed è in questa seconda occasione che tenta di tirare Bonomi sul carro dell’opposizione dura contro Giuseppe Conte.
Tutta la ricostruzione fatta in tv è mirata a questo obiettivo. Con queste parole: “Quello che mi ha colpito di più dell’incontro con Bonomi è il fatto che insieme stiamo lavorando per l’Italia che verrà , mentre l’impressione che molti mi danno di Conte e del suo Governo è di navigare a vista”.
E ancora, rivolgendosi al conduttore di Ore 14 su Rai2: “Ma le pare normale che il presidente degli industriali che lunedì deve intervenire in Parlamento sulla manovra ad oggi, che è mercoledì, ancora non ha il testo? Siamo sulla stessa lunghezza d’onda con gli industriali, sono sicuro che lo saremo anche con i commercianti e gli artigiani”.
Dall’ultima frase si evince anche un altro tentativo del leader della Lega, quello cioè di intercettare il malcontento delle categorie danneggiate dalle restrizioni e dalle chiusure. Per tirarle dalla sua, sempre in ottica di attacco al Governo.
Alitalia.
Il tentativo di Salvini di stringere Confindustria su una posizione di assalto frontale al Governo però non riesce. Troppi elementi dividono il leader della Lega e l’associazione degli industriali. Non sono i tempi del Papeete quando Bonomi era presidente di Assolombarda e accusava Salvini di essere inadeguato perchè – disse allora il leader degli industriali – “non si guida un Paese da una spiaggia”. Ma il fatto che i toni si siano fatti più concilianti non porta al fronte comune.
Per Confindustria, infatti, Salvini resta sempre Salvini, mentre gli industriali sono contro il sovranismo, per l’Europa senza se e senza ma, a favore del Mes.
La Lega che Confindustria può e vuole tenere dentro le sue interlocuzioni è quella dell’ala più morbida, dei governatori come Luca Zaia, quella che ha un approccio radicalmente diverso rispetto a quello di Salvini. Salvini ci ha provato, ma dall’altra parte nessuno ha abboccato.
(da “Huffingtonpost”)
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