Agosto 11th, 2016 Riccardo Fucile
IL PARADOSSO DI UN SURPLUS DI ELETTRICITA’ CHE NON RIESCE A VENDERE AI PARTNER… IN CALO LA PRODUZIONE DI RINNOVABILI DAL 43% AL 41,7% PER PIOGGE PIU’ SCARSE E MINORE RADIAZIONE SOLARE
Cala in Italia la produzione di energia da fonti rinnovabili, in controtendenza rispetto al resto d’Europa.
E sempre rispetto alle principali nazioni del continente, continuiamo a importare più elettricità di quanta ne esportiamo, nonostante un eccesso di produzione che sarebbe disponibile per essere “venduta” e che invece rimane inutilizzata.
Sono i paradossi del sistema elettrico nazionale, così come emergono dai dati del primi semestre dell’anno, se confrontati con lo stesso periodo dell’anno scorso.
E se il calo delle rinnovabili, può essere almeno in parte imputato alle fonti idrolettriche, visto che nella prima parte del 2016 ci sono state precipitazioni inferiori alle medie, il secondo fenomeno è imputabile alla mancanza di un quadro completo di regole europee.
Paradosso export. In pratica, cosa succede?
L’Italia ha il parco di centrali a gas più efficente d’Europa. ma il calo della domanda (dovuta alla crisi economica), unita al successo delle rinnovabili comporta a un utilizzo ridotto degli impianti, che lavorano solo poche ore al giorno.
Abbiamo quindi, un quantità di energia che saremmo in grado di produrre per l’esportazione nei paesi confinanti: soprattutto quando ci sono momento di “picco”, ovvero richiesta di energia superiore alla media.
Perchè in altre nazioni, come la Francia, la Svizzera, la Germania, la Slovenia dispongono di centrali nucleari che garantiscono l’equilibrio del sistema con un flusso di energia costante, ma che non sono “flessibili”, non sono in grado di aumentare la produzione quando ci sono rischieste improvvise.
Esattamente il contrario di quello che fanno le centrali a gas.
Invece, per mancanza di regole comuni tra le società di trasmissione dell’elettricità dei vari paese, tra le Borse elettriche e tra le autorità di controllo, l’Italia è limitata nelle esportazioni. Ma continua a importarne più di tutti.
Lo si vede bene dal documento elaborato da Assoelettrica relativo ai dati del primo semestre.
“E’ una questione che ci trasciniamo da tempo – spiega il presidente di Assoelettrica Simone Mori – se facciamo un confronto tra l’Italia con i principali paesi Ue è evidente come tutti riescano a destinare una parte dell’energia prodotta all’esportazione mentre noi non ce la facciamo, anzia abbiamo un saldo negativo. In parte è dovuto al fatto che altri hanno energia nucleare che ha un prezzo di produzione più basso, ma un parte è dovuto al fatto che la Ue a parole vuole accelerare la creazione di un mercato unico dell’energia ma, nei fatti, l’insieme delle regole da armonizzare tarda ad essere approvata”.
Frenata rinnovabili.
Tra gennaio e giugno del 2016, la produzione complessiva di elettricità fa fonti rinnovabili è scesa – rispetto alla produzione conplessiva – dal 43% dello stesso periodo di un anno fa. al 41,7%.
Mentre la produzione da fonte rinnovabile è salita dal 57 al 58,3%. Il che è dovuto in particolare alle minori piogge che hanno ridotto la capcità degli invasi delle dighe.
In calo anche la produzione da fotovoltaico, perchè nei primi sei mesi dell’anno cì’è stata una minore radiazione solare, mentre è salita la produzione da eolico. Complessivamente il peso degli incentivi sulla bolletta è stato di 6,6 miliardi.
Luca Pagni
(da “La Repubblica”)
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
COSI’ TASSE E PASTICCI FRENANO LA CONCORRENZA
Le liberalizzazioni hanno funzionato per i cellulari e i collegamenti internet.
Dove l’apertura alla concorrenza non ha raggiunto il suo scopo, se non in misura poco incisiva per le tasche delle famiglie, è il mercato dell’energia elettrica.
Dove l’ex monopolista continua ad avere un peso preponderante su tutti gli altri e non c’è mai stata una vera guerra di offerte grazie alle quali un consumatore attento avrebbe potuto trarre benefici e risparmi.
Detto in altri termini: il mercato è stato completamente liberalizzato nel 2003, ma non esiste una vera concorrenza.
In pratica, sia le famiglie che le partite Iva e le Pmi (così come era accaduto in precedenza per la grande e media industria) possono scegliere liberamente con quale gestore sottoscrivere il contratto di fornitura dell’elettricità .
Ma questo non si è tradotto in una diminuzione delle bollette. Le quali rimangono, per buona parte delle famiglie, tra le più alte dell’Unione Europea.
Basta leggere le tabelle pubblicate nella relazione annuale dell’Autorità per l’energia. Soltanto chi consuma meno di 2500 kilowattora all’anno può vantare prezzi medi leggermente inferiori della media Ue.
Per tutte le altre fasce di consumo superiori, gli utenti pagano quasi il doppio della media degli altri stati membri.
Questo vale per le famiglie, partite Iva e piccole imprese per lo più artigianali. Ma non per l’industria.
Quest’ultima può acquistare energia all’ingrosso, mettendo in concorrenza i maggiori fornitori. Oltre a godere di incentivi (pagati in bolletta da tutti gli utenti) destinati ai settori cosiddetti energivori, cioè i grandi consumatori di elettricità .
Ma perchè non ha funzionato la concorrenza? E perchè non sono scese le bollette? Una parte della risposta la si trova nella bolletta stessa, mettendone in fila le varie voci di cui è composta.
Il costo effettivo dell’energia è pari al 43 per cento della somma che esce effettivamente dal portafoglio del consumatore.
Per la parte rimanente, il 13,5 per cento è composto dalle tasse e dall’Iva, il 19,3 per cento va ai servizi per la gestione della rete e il 25 per cento circa per quelli che vengono definiti “oneri generali di sistema”.
Tutte queste cifre significano sostanzialmente due cose.
La prima è che gli operatori possono farsi concorrenza solo su una parte della bolletta, circà la metà relativa al costo dell’energia.
L’altra metà – ed è il secondo elemento – se na va in costi fissi determinati per legge (e regolamentati dall’Autorità ) come sostegno al “sistema”.
Non per nulla vengono definiti “oneri impropri”.
In pratica, paghiamo per altri: il grosso di questi incentivi è destinato alle rinnovabili (84% del totale), per la dismissioni delle centrali nucleari e relative scorie (7,5%), per gli energivori (4,6%), per la promozione dell’efficenza (1,6%), per le tariffe agevolate delle Ferrovie (1,4%).
Il secondo elemento che ostacola la concorrenza è la dipendenza dell’Italia dalle forniture di gas dall’estero, essendo la produzione nazionale sufficiente a soddisfare non più del 10 per cento del fabbisogno.
Fino a due anni fa, i due terzi dell’energia veniva prodotta dalle centrali alimentata a gas.
Ma l’aumento della produzione da rinnovabile e il crollo del prezzo del gas hanno rivoluzionato il mercato, al punto che il governo Monti ha imposto all’Authority di rivedere il prezzo dell’energia per il “mercato tutelato”, adeguandosi ai cambiamenti in atto. Il che ha permesso, nel corso del 2015, di far scendere, in piccola parte, le bollette.
“Mercato tutelato” è l’ultimo elemento che spiega perchè la concorrenza fino a oggi non è mai decollata.
Il termine significa che gli utenti hanno dal 2003 la possibilità di passare al mercato libero scegliendo una offerta migliore (se la trovano) ma non l’obbligo.
Quest’ultimo scatterà solo dal 2018. Per cui solo un utente su quattro ha deciso di fare il “salto”: una base troppo ristretta per una vera concorrenza di prezzo.
I consumatori: “Con il mercato libero spese più alte del 20%”
Da tempo gli operatori fanno pressione per abolire il mercato di tutela, dove il prezzo della componente energia è fissata trimestralmente dalla’Autorità in una sorta di prezzo calmierato. In modo da aumentare la platea degli utenti.
Fino a ora si è opposta proprio la Autorità , che ancora in un recente documento ha dimostrato come i prezzi del mercato tutelato sono mediamente più convenienti del mercato libero.
E come i consumatori non siano ancora pronti ad affrontare un mercato completamente liberalizzato. In sostanza, un circolo vizioso da cui si uscirà soltanto fra due anni.
(da “La Repubblica”)
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Agosto 30th, 2015 Riccardo Fucile
DE SCALZI: “EVENTO CAMBIA SCENARIO ENERGETICO”
Se i rilievi saranno confermati, Eni potrebbe festeggiare la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel mar Mediterraneo, che potrebbe diventare una delle maggiori scoperte di gas a livello mondiale.
Il colosso italiano dell’energia ha individuato infatti un giacimento nell’offshore egiziano del Mar Mediterraneo, presso il prospetto esplorativo denominato Zohr.
Dalle informazioni geologiche e geofisiche disponibili, e dai dati acquisiti nel pozzo di scoperta, ci sarebbe un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas in posto (5,5 miliardi di barili di olio equivalente) e un’estensione di circa 100 chilometri quadrati.
Un successo esplorativo che offrirà un contributo fondamentale nel soddisfare la domanda egiziana di gas naturale per decenni.
Il pozzo Zohr 1X, attraverso il quale è stata effettuata la scoperta, è situato a 1.450 metri di profondità d’acqua, nel blocco Shorouk, siglato nel gennaio 2014 con il Ministero del Petrolio egiziano e con la Egyptian Natural Gas Holding Company (Egas) a seguito di una gara internazionale competitiva.
L’Amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, si è recato nelle scorse ore al Cairo per aggiornare il presidente egiziano, Abdel Fattah Al-Sisi, su questo successo, e per parlare della nuova scoperta con il Primo Ministro del paese, Ibrahim Mahlab, e con il Ministro del Petrolio e delle Risorse Minerarie, Sherif Ismail.
Descalzi ha commentato: “È un giorno davvero importante per la nostra società e le persone di Eni. Questo importante risultato è la conferma delle nostre competenze e delle nostre capacità di innovazione tecnologica con immediata applicazione operativa, e dimostra soprattutto lo spirito di forte collaborazione tra tutte le componenti aziendali che sono alla base di questi grandi successi. La strategia che ci ha portato a insistere nella ricerca nelle aree mature di paesi che conosciamo da decenni si è dimostrata vincente, a riprova che l’Egitto presenta ancora un grande potenziale. Questa scoperta storica sarà in grado di trasformare lo scenario energetico di un intero paese, che ci accoglie da oltre 60 anni. L’esplorazione si conferma al centro della nostra strategia di crescita: negli ultimi 7 anni abbiamo scoperto 10 miliardi di barili di risorse e 300 milioni negli ultimi sei mesi, confermando così la posizione di Eni al top dell’industria. Questa scoperta assume un valore ancora maggiore poichè fatta in Egitto, paese strategico per Eni, dove possono essere sfruttate importanti sinergie con le istallazioni esistenti permettendoci una rapida messa in produzione”.
Eni, che è presente in Egitto dal 1954 ed è stata precursore nell’esplorazione e sfruttamento delle risorse gas nel Paese fin dalla scoperta del Campo di Abu Maadi nel 1967, svolgerà ora le attività di delineazione del giacimento per assicurare lo sviluppo accelerato della scoperta che sfrutti al meglio le infrastrutture già esistenti, a mare e a terra.
Il pozzo Zohr 1X, che è stato perforato a 4.131 metri di profondità complessiva, ha incontrato circa 630 metri di colonna di idrocarburi in una sequenza carbonatica di età Miocenica con ottime proprietà della roccia serbatoio.
La struttura di Zohr presenta anche un potenziale a maggiore profondità , che sarà investigato in futuro attraverso un pozzo dedicato.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA NASA: “UN SOGNO DELL’UMANITA’ DA MIGLIAIA DI ANNI”
Si chiama Kepler-452b ed è il primo pianeta simile alla Terra scoperto dagli uomini.
La conferma, attesissima, è arrivata nel tardo pomeriggio quando la Nasa ha spiegato che la missione Kepler è riuscita a rintracciare un pianeta grande più o meno come il nostro che orbita in una “zona abitabile” – e cioè compatibile con la vita – attorno a una stella molto simile al Sole.
Per l’agenzia spaziale americana questa scoperta è una pietra miliare nel viaggio che dovrebbe portare alla scoperta di un nuovo pianeta Terra.
Durante la conferenza stampa sono stati presentati altri 11 piccoli pianeti in nuove zone abitabili, che potrebbero essere a loro volta nostri cugini.
Ad oggi Kepler-452b è il pianeta più piccolo mai scoperto in una “zona abitabile”, ossia dove l’acqua può rimanere in forma liquida sulla superficie, nell’orbita di una stella di tipo G2 – vale a dire della stessa famiglia del nostro Sole.
Si trova a 1400 anni luce, nella costellazione del Cigno.
Ecco i suoi dati, così come vengono forniti dalla Nasa:
Nonostante la sua massa e la composizione non sono ancora stati determinati, ricerche fatte in passato suggeriscono che i pianeti delle stesse dimensioni di Kepler-452b hanno una buona probabilità di essere rocciosi. Sebbene sia più grande della Terra, la sua orbita di 385 giorni è più lunga soltanto del 5% rispetto alla nostra. Inoltre Kepler è distante dalla sua stella il 5% in più rispetto alla distanza che separa la Terra dal Sole. È vecchio 6 miliardi di anni, 1,5 miliardi di anni di più del Sole, ha la stessa temperatura, il 20% più luminoso, il suo diametro è del 10% più largo.
Proprio per queste caratteristiche, la Nasa ha dichiarato che Kepler-452b è un “cugino più vecchio e più grande” del nostro pianeta, “un’opportunità per capire e riflettere sul modo nel quale può evolvere la Terra”.
“È emozionante pensare che questo pianeta è stato 6 miliardi di anni nella zona abitabile della sua stella, più a lungo della Terra. La vita in queste condizioni può avere molte probabilità di fiorire, se tutti gli ingredienti e le condizioni per la vita esistono su questo pianeta”
Il pianeta Kepler-452b ha dimensioni del 60% maggiori della Terra e orbita attorno a una stella del 10% più grande
L’agenzia governativa americana ha anche reso noti i progressi raggiunti dalla missione Keplero, progetto per scovare eventuali pianeti abitabili nella Via Lattea.
Il telescopio “cacciatore di pianeti” inviato nello spazio nel 2009 ha da allora trovato più di 4.000 pianeti nelle cosiddette “zone abitabili” della nostra galassia.
L’annuncio della scoperta di Keplero 452b, che ha tenuto con il fiato sospeso tutto il mondo, è “qualcosa che le persone hanno sognato per migliaia di anni”, la presenza di un pianeta come la Terra.
Come riporta il Telegraph:
È stato scoperto un enorme numero di pianeti vicini a noi, ma molti di essi sono inabitabili giganti gassosi o pianeti rocciosi simili alla Terra che sono troppo vicini alle loro stelle per ospitare la vita. Dal momento che è l’acqua a rivestire un ruolo cruciale per la nascita della vita, molti scienziati credono che sia necessario concentrarsi sui pianeti in cui l’acqua è presente.
Inoltre, anche le dimensioni del pianeta sono molto importanti in quanto si deve avere una forza di gravità sufficiente alla creazione dell’atmosfera – e la cosa migliore sarebbe trovarne uno grosso all’incirca come la Terra.
Lo scorso aprile gli astronomi trovarono il pianeta in assoluto più simile al nostro mai trovato sin’ora.
È stato rinominato Kepler-186f e si trova a 500 anni luce da noi. Orbita attorno ad una nana rossa nella costellazione del Cigno posizionata dalla nostra parte della Via Lattea.
Il Telegraph scrive ancora:
Kepler-186f sta orbitando al limite esterno della zona abitabile della sua stella, che vuol dire che l’eventuale presenza di liquidi sulla sua superficie potrebbe essere a rischio di congelamento. Tuttavia, poichè è leggermente più largo della Terra, gli scienziati sperano che l’atmosfera sia abbastanza densa da fornire il necessario isolamento termico.
In attesa di conoscere da vicino il nuovo pianeta Terra, gli scienziati ben sperano rispetto alla possibilità di vita aliena, e infatti è già stato costituito in Australia un gruppo di ricerca per captare eventuali segnali di vita extra-terrestre, ben finanziato e sostenuto da Stephen Hawking.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 18th, 2013 Riccardo Fucile
L’ENERGIA ELETTRICA MENO CARA TANTO SBANDIERATA SI RIDUCE A UNA PRESA IN GIRO
Quattro-cinque euro annui in meno sulla bolletta della luce del 2013, il doppio l’anno prossimo.
Tanto dovrebbe valere per le famiglie italiane (che ogni anno pagano in media 511 euro di luce) la riduzione, pari a 550 milioni, del prezzo dell’energia elettrica, deliberata dal governo Letta nel decreto «Fare».
Il condizionale è d’obbligo, visto che ieri i tecnici dei ministeri competenti erano ancora al lavoro per «cifrare» il decreto e nelle ultime ore è circolata l’indiscrezione di 150 milioni di euro, di cui ora dispone l’Erario, provenienti dalla cosiddetta componente A2 della bolletta (oneri per la messa in sicurezza del nucleare), e che potrebbero essere destinati al taglio delle bollette.
Se queste risorse fossero risorse aggiuntive, genererebbero un ulteriore sconto quest’anno di due euro, ma potrebbero anche essere soltanto sostitutive di qualche altra voce.
Pericolo in vista.
Il piccolo risparmio, messo a punto dal governo, potrebbe però essere totalmente vanificato se l’esecutivo concederà , con un imminente provvedimento, gli sconti previsti dal governo Monti alle imprese energivore, che valgono esattamente 600 milioni e che ricadrebbero sulle bollette degli italiani.
La Robin tax.
Ma andiamo per ordine. Il decreto «Fare», nella versione entrata in Consiglio dei ministri sabato scorso, prevedeva un mix di misure per ridurre il prezzo dell’energia elettrica.
Si partiva dall’estensione della Robin tax dalle imprese che producono energia da fonti rinnovabili con ricavi superiori a 10 milioni di euro e un reddito imponibile a un milione di euro a quelle con ricavi superiori a 500 mila euro e un imponibile superiore a 80 mila euro.
Proprio questa norma sarebbe saltata perchè l’intento del governo sarebbe quello di fare una riflessione più ampia sul tema delle rinnovabili.
L’olio di palma.
Quello che invece nel decreto c’è ancora e produrrebbe risparmi per 300 milioni di euro è il blocco della maggiorazione dal 15% al 40% degli incentivi concessi agli impianti alimentati a bioliquidi (olio di palma).
Un aumento che era previsto dovesse scattare dal primo gennaio, ma per il quale l’ex ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, perplesso sulla misura, non aveva emanato il decreto ministeriale.
Tuttavia l’Autorità per l’Energia, tenendo presente il dettato legislativo, aveva già iniziato a computare sulla bolletta elettrica il costo della maggiorazione di quegli incentivi.
Il fatto che ora il decreto «Fare» la blocchi, non significa dunque un taglio della bolletta ma un mancato aumento.
Rinnovabili e assimilate.
L’altro capitolo su cui il governo è intervenuto è quello che passa sotto il nome di Cip6, il meccanismo, introdotto nel ’92, per incentivare la produzione di energia elettrica privata attraverso le fonti rinnovabili e le assimilate, cioè quelle derivanti da processi industriali come la chimica, la siderurgia, la raffinazione del petrolio.
Questa categoria ha assunto un peso in termini economici vieppiù crescente: l’onere in bolletta ha toccato gli 89 euro l’anno, di cui due terzi per le assimilate.
Gli impianti di rinnovabili e assimilati ricevono una remunerazione per chilowattora determinata dalla tecnologia e dai «costi evitati», cioè dal valore del quantitativo di gas la cui produzione è stata sostituita.
Questo valore si è calcolato per anni in base all’andamento del prezzo del gas dei contratti take or pay , più di recente essendo state limitate le quote di contratti di questo tipo, l’Autorità per l’Energia, guidata da Guido Bortoni, ha raccomandato di cambiare parametro e di adeguarsi ai prezzi di mercato. Un suggerimento inviato al governo Monti nel dicembre 2012 che non è stato seguito ma che oggi il governo Letta ha fatto proprio. Ma non da subito.
Le due fasi.
Il regime che si individua leggendo l’ultima versione del decreto circolata, distingue una fase di graduale adeguamento, che si svolgerà quest’anno, da una fase di pieno regime, nel 2014.
Ecco perchè il risparmio previsto nel 2013 non è di 500 milioni, ma della metà , con le conseguenze sulla bolletta annua che abbiamo detto: 4-5 euro, che raddoppieranno l’anno prossimo.
Si mantiene ancora sul vago, circa gli effetti del decreto, il presidente dell’Autorità per l’Energia, che ieri ha detto di voler aspettare a leggere il testo del decreto del governo ma ha sottolineato che, per quanto riguarda l’energia «si va nella direzione giusta. Come va nella direzione giusta l’intervento sul Cip6 perchè, come già segnalato da noi, è cambiato il prezzo del gas, quindi è giusto ridurre gli incentivi, ora dobbiamo vedere con che intensità »
Bortoni ha poi aggiunto che nel decreto ci dovrebbe essere una riduzione della componente A2 della bolletta per un minor prelievo per gli smantellamenti nucleari.
Gli energivori.
C’è infine un aumento in vista per le bollette che andrebbe evitato per evitare di vanificare i provvedimenti del decreto «Fare»: è quello legato alle agevolazioni alle imprese energivore, che costerebbe 600 milioni.
Bortoni ieri ha spiegato che sta collaborando con il governo per l’applicazione di queste agevolazioni: «Ora aspettiamo la discussione. Condividiamo le agevolazioni per le imprese che hanno un alto costo dell’energia, ma deve essere fatto in modo molto selettivo» ha raccomandato.
Antonella Baccaro
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Marzo 24th, 2013 Riccardo Fucile
ECCO COSA ACCADE IN SVIZZERA
La Svizzera si pone all’avanguardia sul fronte delle energie rinnovabili.
L’energia verde diviene di anno in anno sempre più importante entro i confini svizzeri, dà lavoro e produce ricchezza più che nel resto d’ Europa (ovviamente in proporzione).
I numeri, davvero molto interessanti, sono stati pubblicati dall’agenzia stampa Swissinfo e sono stati ricavati durante un lavoro di ricerca svolto dall’Ufficio Federale di Energia, organo della Confederazione Elvetica.
Il rapporto informa che le energie rinnovabili hanno prodotto nell’ultimo anno un valore aggiunto pari a 4,8 miliardi di franchi svizzeri, pari a circa 4 miliardi di euro. Le persone occupate sono 22.800 (su un totale di popolazione che di poco supera gli 8 milioni).
In grande evidenza le esportazioni, ovviamente di energia, in particolare da impianto idroelettrico e da fotovoltaico.
Il volume dell’export si attesta attorno ai 3,2 miliardi di franchi.
In totale, il giro di affari che le energie rinnovabili muovono compone lo 0,9% del Pil. L’outlook, in questo senso, è addirittura positivo: si prevede la crescita del peso sul Prodotto fino al raggiungimento del 2% in 3 anni.
Il settore crescerà da qui fino al 2020 in media del 2,5%, una percentuale superiore rispetto a quelle di crescita dell’intera economia svizzera.
La Svizzera è l’esempio che dimostra il potenziale delle energie rinnovabili.
Non solo battaglia l’ambiente, ma anche prospettive di ricchezza.
Un insegnamento che l’Italia dovrebbe digerire, soprattutto alla luce dei tagli sugli incentivi operati, nel corso del 2012, dal Governo Monti (un catastrofico — 50%).
( “da mondoeco.it”)
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Febbraio 10th, 2013 Riccardo Fucile
RELAZIONE DELLA AUTHORITY PER L’ENERGIA: 199 I CASI IN CUI LE AZIENDE AVREBBERO TRASLATO SUL CLIENTE FINALE IL COSTO DELLA TASSA ADDIZIONALE IRES
Un miliardo e 600 milioni di incremento dei margini degli operatori non dovuti dai consumatori. E’ questo il sospetto dell’authority per l’energia che, nel suo rapporto annuale ha segnalato 199 casi sospetti, di incremento dei margini ‘dovuti all’effetto prezzo e tali da costituire una possibile violazione del divieto di traslazione’.
Il riferimento è a quelle aziende che, pagando la Robin tax, potrebbero averne “scaricato” il costo sul consumatore.
L’Autorità è tenuta per legge a svolgere l’attività di vigilanza in merito alla cosiddetta Robin Tax, vale a dire l’addizionale Ires a carico delle imprese energetiche dal giugno del 2008, che non può essere ‘traslata’ sui consumatori, e quindi nè in bolletta nè, per esempio, sulla benzina o il gasolio.
La legge vieta infatti esplicitamente alle imprese “di traslare l’onere della maggiorazione d’imposta sui prezzi al consumo” a affida proprio all’Autorità per l’energia elettrica e il gas il compito di vigilare “sulla puntuale osservanza della disposizione”.
Nella Relazione al Parlamento licenziata il 24 gennaio scorso l’Autorità evidenzia invece un quadro fortemente critico, in cui appare evidente che molte imprese violano questo divieto.
Nel corso dell’attività di vigilanza svolta lo scorso anno sui dati relativi al 2010, infatti, l’Autorità ha trovato 199 operatori (sui 476 totali), di cui 105 appartenenti al settore dell’energia elettrica e gas e 94 a quello petrolifero, in cui “è stata riscontrata una variazione positiva del margine di contribuzione semestrale riconducibile, almeno in parte, alla dinamica dei prezzi”.
Insomma, per l’Autorità “è ragionevole supporre che, a seguito dell’introduzione dell’addizionale Ires, gli operatori recuperino la redditività sottratta dal maggior onere fiscale, aumentando il differenziale tra i prezzi di acquisto e i prezzi di vendita”.
In parole povere, il sospetto è che venga infranto proprio il divieto di traslazione, con il quale si comporta “uno svantaggio economico per i consumatori finali”.
L’Autorità , che come chiarito dal Consiglio di Stato non dispone di poteri sanzionatori in questo campo, si spinge a calcolare l’ammontare dei margini teoricamente accumulati facendo leva anche sull’effetto prezzo.
Nel secondo semestre 2010 per le aziende elettriche e del gas si tratta di una somma pari a circa 0,9 miliardi di euro in più rispetto al corrispondente periodo pre-tassa, mentre per quelle petrolifere la cifra è appena più bassa e pari a circa 0,7 miliardi di euro.
In sostanza, i consumatori sarebbero stati ‘appesantiti’ di 1,6 miliardi di euro.
Nel 2011 la Robin Tax è stata una ottima fonte di reddito per lo Stato, che ne ha incassato 1,457 miliardi di euro, 930 milioni in più rispetto all’esercizio precedente: una somma che è stata raggiunta grazie all’incremento dell’aliquota, all’estensione del tributo alle rinnovabili e alle società della rete (Snam, che ha contribuito per 104 milioni, e Terna, per 81 milioni) e alla modifica di alcuni parametri di applicazione.
Il contribuente maggiore è stato il gruppo Enel, con la sola Distribuzione che ha versato 312 milioni di euro.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 12th, 2012 Riccardo Fucile
RICERCA SU “NATURE CLIMATE CHANGE”: SULLA TERRA C’E’ ABBASTANZA VENTO PER COPRIRE LA DOMANDA GLOBALE…. LE PIU’ EFFICIENTI SAREBBERO LE TURBINE ATMOSFERICHE CHE SFRUTTANO LE BREZZE IN ALTA QUOTA
Una riserva di energia in grado, potenzialmente, di soddisfare il fabbisogno mondiale: una vera svolta potrebbe venire dall’eolico, secondo uno studio guidato da Kate Marvel del Lawrence Livermore National Laboratory.
La ricerca, uscita su Nature Climate Change, sostiene che particolarmente efficienti sarebbero le turbine atmosferiche che possono trasformare la forza dei venti ad alta quota in energia meglio delle turbine a bassa quota o sul mare che lavorano sui venti di superficie.
Usando modelli matematici e prendendo in considerazione solo le limitazioni geofisiche – e non fattori tecnici o economici – i ricercatori hanno calcolato che i venti di superficie possono generare sino a 400 terawatt di energia, mentre dai venti in tutta l’atmosfera si potrebbero ottenere 1800 terawatt.
Secondo i dati disponibili, sul pianeta il fabbisogno energetico oggi è quantificabile in 18 terawatt di potenza.
Se ne deduce che con i venti di superficie si potrebbe generare una potenza pari a 20 volte il fabbisogno terrestre e con quelli di alta quota di ben oltre 100 volte.
Lo studio mostra però che per avere effetti globali, le pale per la produzione di energia eolica dovrebbero essere distribuite uniformemente su tutta la superficie terrestre e non concentrate in poche regioni.
Gli effetti climatici, ipotizzando uno sfruttamento a livelli massimi, potrebbero essere significativi, sottolinea lo studio.
Per soddisfare l’attuale fabbisogno, tuttavia, sarebbero decisamente inferiori, a patto di avere una distribuzione su ampia scala delle pale.
La fattibilità , dunque, su un piano geofisico, sarebbe garantita.
“E’ più probabile, quindi”, ha sottolineato Ken Caldeira, della Carnegie Institution for Science, coautore dello studio, “che saranno fattori economici, tecnologici e politici a determinare la crescita dell’energia eolica nel mondo”.
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Agosto 30th, 2012 Riccardo Fucile
TERRITORIO E BENI COMUNI… IL “MOSTRO” POLACCO E’ IL PIU’ PERICOLOSO
Alcuni mostri si aggirano per l’Europa. Più che muoversi stanno fermi ma la loro presenza si percepisce anche a centinaia di kilometri di distanza.
Stiamo parlando delle centrali termoelettriche a carbone.
Se la pericolosità delle centrali nucleari si misura nel rapporto tra i benefici di un sistema più o meno efficiente e i costi altissimi di eventuali incidenti agli impianti, l’inquinamento generato dalla combustione di carbone (in tutte le sue forme) è visibile a distanza, è percepibile immediatamente dentro i polmoni, è quantificabile nelle emissioni di anidride carbonica.
È un inquinamento quotidiano, a cui da tempo si sarebbe dovuto porre un argine: le mastodontiche dimensioni degli apparati produttivi, le ingentissime risorse finanziarie che servirebbero per una riconversione ecologica, la volontà degli Stati di mantenere un certo autonomo margine di manovra in campo energetico, vari tipi di interesse delle grandi multinazionali sono solo alcuni fattori che rendono evidente la difficoltà di ammodernare un comparto vitale per il nostro futuro.
Eppure l’Europa si era data obiettivi ambiziosi sulla riduzione del 20% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2020.
Traguardo arduo da raggiungere.
Anche perchè la “disunione europea” non si manifesta soltanto nel persistere di interessi nazionali, come dimostra il modo in cui si sta affrontando la crisi dei debiti sovrani, ma anche nella pressochè totale assenza di una politica energetica comune.
Al di là della retorica infatti c’è chi spinge per un rapporto univoco e diretto con la Russia (vedi la Germania), chi sogna l’autosufficienza puntando sulla nuova futuribile tecnologia di fusione dell’idrogeno (vedi Francia), chi non sa che pesci pigliare e raccatta tutto il gas a disposizione (vedi Italia) e chi mantiene un obsoleto settore di produzione di energia non curandosi dell’impatto ambientale (vedi i paesi dell’ex blocco comunista con l’eccezione della Lettonia).
I costi di questa mancata strategia continentale, oltre che economici e strategici, riguardano la salute nostra e del pianeta.
Le cifre fornite dall’Agenzia europea per l’ambiente sono incontrovertibili.
Come riporta il quotidiano La Stampa: “Le emissioni di agenti inquinanti nel 2009 pesavano tra i 102 e i 169 miliardi l’anno, ovvero dai 200 ai 330 euro a persona. Quel che colpisce di più è che ben il 50 per cento dei costi aggiuntivi (tra 51 e 85 miliardi) sono generati da soltanto 191 impianti. è il 2% del totale di quelli censiti, quelli più «sporchi» in assoluto. Il 75% del totale delle emissioni è prodotto da soli 622 siti industriali.
A guidare la classifica – che è calcolata sui dati del 2009 – sono le centrali termoelettriche, in particolare a carbone o a olio combustibile; il discutibile primato di industria più inquinante in assoluto d’Europa se lo aggiudica la famigerata centrale elettrica di Belchatow, in Polonia, una «bestia» alimentata a lignite (un carbone di particolare bassa qualità ) da 5.000 MW nei pressi della città di Lodz.
Tra le prime venti però troviamo anche la centrale termoelettrica Enel Federico II di Brindisi, che da sola genera costi connessi ad inquinamento tra i 536 e i 707 milioni di euro l’anno.
E al 52esimo posto c’è l’acciaieria Ilva di Taranto, che ci costa dai 283 ai 463 milioni l’anno”.
Il mostro polacco è quello più pericoloso.
La storia di Belchatow comincia negli anni ’70: occorreva sfruttare le miniere di carbone limitrofe, ed ecco una centrale a lignite, una delle forme più elementari e grezze (quindi più inquinanti) del carbone.
Persino una brochure auto celebrativa della centrale, ora di proprietà dell’azienda polacca PGE e della multinazionale francese Alstom, descrive la situazione fino agli anni ’90: “Il progetto originario non aveva previsto nessuna misura per limitare le emissioni di ossidi di zolfo perchè a quel tempo le tecnologie di desolforizzazione dei gas erano praticamente sconosciute o soltanto in una fase di sviluppo”.
Le migliorie apportate successivamente non migliorarono l’impatto inquinante delle 12 unità che compongono la centrale, se pensiamo che nel 2008 sono state emesse 31 milioni di tonnellate di CO2 per una produzione di energia di 28 TWh (il 20% dell’intero fabbisogno del paese).
Si è così progettato un piano generale di ammodernamento.
Così descriveva la situazione nel 2009 Greenreport: “Il responsabile della centrale di Belchatow, Jacek Kaczorowski, non si scompone più di tanto e in una intervista alla Reuters ha detto che «Le nostre emissioni nei prossimi anni, nel periodo contabile 2008-2012, resteranno a livelli simili. Così, in breve, alla fine di tutto il periodo, ci vorranno circa 14 – 20 milioni di tonnellate di quote di emissioni di CO2».
Per rientrare nei limiti europei con l’ampliamento la centrale pensa di risolvere la cosa ricorrendo allo stoccaggio sotterraneo delle emissioni di CO2.
Quindi la Polonia non intende rinunciare alle sue super-inquinanti centrali a carbone, ma chiede all’Unione europea di finanziare la ricerca e la tecnologia per la Carbon caputre storage (Ccs) per poter “imprigionare” un terzo dei gas serra prodotti dal nuovo blocco produttivo.
«Ma anche se non avremo i soldi dell’Unione europea, dovremo andare avanti con il progetto a causa della necessità di ridurre le emissioni – ammette Kaczorowski. Dobbiamo andare verso lo sviluppo delle tecnologie Ccs per rimanere competitivi»“.
Belchatow non lascia ma raddoppia costruendo un’altra unità da più di 800 MW, sulla carta molto meno inquinante del complesso della centrale, e chiudendo i camini più vecchi.
Il progetto viene portato a termine nei tempi prestabiliti e proprio in questi giorni vengono inaugurate le strutture.
L’obiettivo di diminuire le emissioni è però ancora lontano.
Mancano soldi e soprattutto volontà politica.
Il carbone resta una materia prima a basso costo e in Europa si sta pensando a nuove centrali.
Una strada che contraddice ogni istanza ambientale.
Pierluigi Cattani
(da “Unimondo.org“)
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