Giugno 7th, 2021 Riccardo Fucile
LOTTA AL TRAFFICO DI ESSERI UMANI E ALLA CORRUZIONE, MA ANCHE AIUTI ECONOMICI PER CONVINCERE A RESTARE
Il primo viaggio all’estero di Kamala Harris nel ruolo di vicepresidente Usa avviene nel segno dell’immigrazione, l’argomento più spinoso per l’amministrazione Biden dopo aver domato la pandemia.
Così, mentre il presidente lima i preparativi della missione europea di questa settimana, la sua numero 2 è impegnata in una visita di due giorni tra Guatemala e Messico.
L’obiettivo della visita – spiega il suo staff – è lanciare una serie di iniziative tese a contrastare il traffico di esseri umani e il contrabbando attraverso il confine meridionale degli Stati Uniti. Lo scopo di lungo periodo è ancora più complesso: intervenire “alla radice” sulle problematiche che alimentano i fenomeni migratori, incoraggiando le persone a restare nei propri Paesi d’origine
Harris, alla prima trasferta internazionale da quando ha assunto l’incarico, a gennaio 2021, è stata nominata dal presidente Biden titolare proprio del dossier migrazione, coordinando le relazioni con i Paesi del cosiddetto “triangolo nord” – Honduras, El Salvador, Guatemala – tradizionale punto di partenza dei flussi verso il nord del continente.
La missione centramericana è considerata un test per le sue ambizioni di leadership e la sua proiezione internazionale, un percorso ancora tutto da costruire vista la sua esperienza politica profondamente radicata nello Stato della California.
Il programma comprende incontri con il presidente del Guatemala Alejandro Giammattei ed esponenti della comunità guatemalteca. È prevista la firma di tre accordi con il governo guatemalteco che includono questioni di sicurezza delle frontiere, lotta alla corruzione e sviluppo economico.
La strategia di fondo – nelle parole della stessa Harris – è quella di “dare alla gente un senso di speranza: far capire loro che se decidono di fermarsi, le cose miglioreranno”.
Finora, gli aiuti dell’amministrazione Biden all’America centrale sono stati molto limitati. Tuttavia, Biden ha proposto un pacchetto di sostegni da 4 miliardi di dollari come parte di una strategia a lungo termine verso la regione.
Ad aprile, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo internazionale ha schierato una squadra di risposta ai disastri per aiutare nell’assistenza umanitaria. Nello stesso mese, Harris ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero inviato ulteriori 310 milioni di dollari per aiuti umanitari e per affrontare l’insicurezza alimentare in Guatemala, El Salvador e Honduras.
La VP ha anche annunciato che una dozzina di aziende e organizzazioni – tra cui Mastercard, Nespresso e Microsoft – si sono impegnate a investire nei Paesi del triangolo settentrionale per contribuire a stimolare lo sviluppo economico nella regione.
Una delle architravi della strategia Usa sarà il contrasto alla corruzione.
Un tema su cui non sarà facile trovare la quadra con il governo guatemalteco di Giammattei, che tempo fa ha denunciato come il fenomeno non riguardi “solo” la classe politica ma anche le organizzazioni non governative che nel Paese eserciterebbero forme di controllo illecito del denaro pubblico.
A febbraio il presidente ha promulgato una legge che aumenta i controlli, soprattutto contabili, sulle ong, ignorando le preoccupazioni espresse dai parlamentari Usa.
L’allarme, rilanciato anche dall’ufficio dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani in Guatemala, è scattato soprattutto per un articolo della legge che rende possibile la “cancellazione immediata” e l’imputazione “civile e penale” dei dirigenti di quelle ong “che utilizzano donazioni o finanziamento esterno per alterare l’ordine pubblico”.
La scorsa settimana la Casa Bianca ha emesso una nota nella quale conferma che Washington ha intenzione di usare proprio le organizzazioni non governative operanti sul terreno come strumento essenziale di intervento nella lotta alla corruzione, alla criminalità e di riflesso alla difesa degli interessi nazionali.
Un monito che in Messico è stato letto come conferma che l’amministrazione Biden non ha intenzione di chiudere i rubinetti a Mexicanos Contra la Corrupción y la Impunidad, ente che il presidente, Andrés Manuel López Obrador, definisce apertamente contrario al suo governo e pertanto non idoneo a ricevere fondi dall’estero.
Il presidente guatemalteco ha insistito sulla necessità che dagli States arrivi un messaggio “chiaro” sulla gestione dei migranti, censurando la “marcia indietro” fatta dopo i primi annunci di Biden sulla sospensione dei controlli imposti in precedenza da Trump. Il Guatemala si aspetta che il Congresso Usa renda quello dei “coyote”, i trafficanti di esseri umani, un reato federale e non più una fattispecie dei singoli Stati.
La tappa messicana sarà altrettanto delicata. Martedì a Città del Messico Harris incontrerà prima il presidente, López Obrador, in una conversazione privata e quindi il ministro degli Esteri, Marcelo Ebrard, con le due delegazioni al completo.
Secondo quanto riferisce la consigliera speciale per le Americhe del Dipartimento di Stato Usa, Hillary Quam, la vicepresidente dovrebbe anche sostenere colloqui con donne imprenditrici e intervenire a una tavola rotonda con un gruppo di lavoratori, oltre che colloqui con membri della missione Usa nel Paese.
La numero due della Casa Bianca arriverà in Messico in un momento particolare. Il Paese ha appena votato per le elezioni di medio termine, restituendo una tenuta ma anche un calo del partito dl presidente Obrador.
Secondo i primi risultati, il blocco al governo dovrebbe mantenere la maggioranza nella Camera bassa del Congresso. Il partito Morena di Obrador dovrà fare affidamento sui voti dei suoi alleati nel Partito dei lavoratori e nel Partito dei Verdi, ma insieme dovrebbero arrivare a conquistare tra i 265 e i 292 seggi nella Camera da 500 seggi. Si prevede che la sola Morena avrebbe vinto da 190 a 203 seggi.
Ciò segnerebbe un declino significativo per il partito del presidente che nell’attuale Congresso ha la maggioranza semplice, detenendo da sola 253 seggi. Inoltre, priverebbe il presidente della maggioranza qualificata dei due terzi necessaria per approvare le riforme costituzionali.
Che la visita di Harris sia entrata nella polemica politica interna è provato dalla cancellazione di un suo passaggio al Senato, originariamente in agenda martedì, per “mancanza di consenso”: “l’invito ha avuto reazioni contrastanti tra i colleghi parlamentari” , si legge in una nota.
Le posizioni del Messico sull’immigrazione sono chiare: al vertice internazionale sul clima promosso da Biden ad aprile Obrador aveva lanciato agli Usa l’offerta di agevolare le richieste di cittadinanza ai migranti che si impegnino – a determinate condizioni di modo e di tempo – nel programma sociale “Sembrando vida” (Seminando vita).
Si è tratta di uno strumento già in uso nel Messico meridionale e che Obrador vorrebbe estendere ai Paesi del triangolo nord: ai contadini delle zone più disagiate si offre uno stipendio mensile per seminare alberi da frutta e da legna nelle loro coltivazioni, con il triplice obiettivo di dare occupazione immediata, innescare un’attività che potrebbe rivelarsi un domani redditizia e aumentare il polmone verde della zona. La Casa Bianca non ha mai formalmente risposto.
Malgrado le aspettative centroamericane, non sono attesi annunci sulla questione dell’offerta dello status di protezione temporanea (TPS) ai guatemaltechi. Il programma TPS consente alle persone già negli Stati Uniti di soggiornare e lavorare legalmente se i loro Paesi d’origine sono stati colpiti da disastri naturali, conflitti armati o altri eventi che ne impediscono il ritorno in sicurezza. Le designazioni durano da sei a 18 mesi e possono essere rinnovate.
Oltre ad avere alcuni dei tassi di omicidi più alti al mondo, Guatemala, Honduras ed El Salvador sono stati scossi negli ultimi anni da disordini politici, disastri naturali e dalla pandemia di Covid-19, con relativa crisi economica. La pandemia sembra aver causato un drastico calo della migrazione dalla regione nel 2020, ma gli attraversamenti dei migranti sono aumentati nuovamente nel 2021.
Nei mesi scorsi Biden ha formalmente annullato il programma “Restate in Messico”, noto formalmente come Migrant protection protocols (Mpp). Si è trattato di una pietra angolare della politica di gestione delle frontiere di Trump, in base alla quale i potenziali richiedenti asilo venivano fatti rimanere in Messico per attendere l’esito della loro domanda presso il Tribunale per l’immigrazione degli Stati Uniti.
Per questa e altre decisioni sul tema, ritenute incentivi certi alle migrazioni, la Casa Bianca è finita nel mirino delle polemiche del Gop: secondo le autorità doganali Usa, il numero di migranti in arrivo da Messico e America centrale è passato dai circa 7000 di gennaio ai circa 19mila di aprile.
Frenare questo flusso senza perdere la ritrovata “umanità” – così il presidente Usa ha inquadrato la revoca delle misure dell’era Trump – sarà la grande sfida dell’amministrazione Biden. Con Kamala Harris in prima fila, consapevole delle opportunità ma anche dei rischi di una missione da coltivare nello spazio di anni.
(da Huffingtonpost)
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Giugno 1st, 2021 Riccardo Fucile
PUO’ ESSERE SOLO UN GOVERNO DI SCOPO, TROPPO DIVERSI TRA LORO LAPID E BENNET
Yair Lapid e Naftali Bennett sono al lavoro per rafforzare l’accordo che dovrebbe portare alla nascita del nuovo governo dopo quattro elezioni in due anni, stavolta senza il premier Benjamin Netanyahu e il suo Likud.
Le delegazioni dei partiti dei due leader si sono incontrate domenica sera dopo l’annuncio della disponibilità di Bennett a entrare nel governo di unità nazionale proposto da Lapid, che già oggi potrebbe andare dal presidente Reuven Rivlin per sciogliere la riserva.
La politica israeliana è alla resa dei conti dopo 12 anni consecutivi di governi di Netanyahu, soprannominato “Re Bibi” per la sua capacità di restare sempre al potere, qualsiasi cosa accada. Alla base dell’accordo di grande coalizione un patto per la condivisione del potere e forse (non è confermato), l’alternanza di Bennett e Lapid nel ruolo di capo del governo: i primi due anni il premier sarebbe Bennett, gli altri due Lapid.
L’idea non è una novità, anche Netanyahu aveva raggiunto un patto di coalizione con Benny Gantz in cui era prevista la “staffetta” del ruolo di premier. Le cose però non andate secondo i patti, e quel governo è crollato dopo un anno tumultuoso, pieno di giochi di potere e controversie.
Tuttavia, ieri Lapid ha confermato che gli sforzi per forgiare una coalizione di partiti ideologicamente opposti potrebbe portare presto a un nuovo governo. «Possiamo concludere entro la prossima settimana, lo stato di Israele può entrare in una nuova era con un premier diverso», ha detto.
Un parlamento assortito, e bellicoso
Israele si caratterizza per un sistema elettorale proporzionale tra i più puri in assoluto, mediato solo da una soglia di sbarramento al 3,25% per un parlamento di 120 seggi. Insieme a una società molto diversificata e una politica sempre più bellicosa, con il tempo è diventato impossibile per una colazione di pochi partiti riuscire a governare con una maggioranza solida.
Secondo la proposta Bennett-Lapid, nella maggioranza di unità nazionale ci sarebbero sette partiti: Yesh Atid, il partito di Lapid (centro, 17 seggi); Kaḥol Lavan, di Benny Gantz (centro, 8 seggi); Yamina, il partito di Bennett (destra, 7 seggi); Yisrael Beiteinu, di Avigdor Lieberman (destra, 7 seggi); Tikva Hadasha, di Gideon Saar (centro-destra, 6 seggi); HaAvoda, di Merav Michaeli (sinistra, 7 seggi) e Meretz, di Nitzan Horowitz (sinistra, 6 seggi).
Anche in questo modo, se tutto andasse bene in totale sarebbero 58 seggi, non sufficienti alla maggioranza assoluta di 61 su 120. Quindi, servirebbe comunque l’appoggio di altri partiti, che escludendo il Likud di Netanyahu (con 30 seggi) e i partiti degli ebrei ortodossi alleati di Bibi (sono due, con 16 seggi), significa andare a cercare i voti dei partiti degli arabi israeliani, divisi in un partito e una lista che riunisce partiti più piccoli.
Come se tutto questo non fosse già abbastanza complicato, va ricordato che nella maggioranza Bennett-Lapid ci sono molti leader che sono ex membri del Likud o ex alleati di Netanyahu, anche con ruoli chiave: è il caso di Bennett, del suo braccio destro Ayelet Shaked, di Saar, Lieberman, e Gantz. Per Bibi quindi è facile bollare il tentativo come «la truffa del secolo», e accusare il leader di Yamina di opportunismo politico.
Chi sono Lapid e Bennet
Lapid è Bennett hanno storie personali e pensiero politico diverso, è difficile immaginarli al governo insieme, ma entrambi condividono un ingresso in politica dopo carriere professionali di successo.
Lapid ha 57 anni, è un giornalista e scrittore, che dopo essere passato dalla carta stampata alla televisione diventa molto popolare tra gli israeliani. Nel 2012 all’età di 49 anni decide di cambiare cambiare vita ed entrare in politica con un suo partito, Yesh Atid. Le sue posizioni sono centriste, si propone come difensore della borghesia israeliana che lavora, difende la patria e paga le tasse, in opposizione al Likud di Netanyahu che secondo Lapid rappresenta gli interessi degli ideologi della colonizzazione della Cisgiordania, del clero ortodosso e dell’estrema destra.
Sostiene la posizione «due popoli, due stati», anche se in Israele questa è una posizione aperta a interpretazioni anche molto diverse da quelle europee.
Bennet ha 49 anni, imprenditore dell’high tech che ha guadagnato una fortuna con una start-up specializzata nel contrasto alle frodi su internet. Dopo aver venduto l’azienda, nel 2006 (a 34 anni) è entrato in politica nel Likud, nel 2012 fonda un suo partito HaBayit HaYehudi, molto più a destra.
Dopo varie cariche ministeriali nei governi Netanyahu (istruzione, economia, difesa istruzione e altri) nel 2019 prova a spodestarlo fondando prima un altro partito (con cui non entra in parlamento) e poi Yamina, con cui torna in gioco grazie alle elezioni anticipate.
Bennet è un politico navigato che punta a diventare il leder della destra israeliana, con posizioni contrarie a ogni concessioni ai palestinesi e una forte rivendicazione della natura ebraica di Israele. Durante il servizio militare è stato membro delle forze speciali.
Nonostante tutto, il negoziato prosegue
I negoziati tra Yamina e Yesh Atid sono proseguiti per tutto lunedì. La maggior parte dei membri della fazione di Bennett ha espresso sostegno per la sua decisione, ma due parlamentari non sono d’accordo, uno dei quali avrebbe già un piede fuori dal partito. Ciò nonostante, Bennett continua a sostenere che i membri di Yamina sono uniti, e respingono gli sforzi di Netanyahu per dividerli e riportarli dalla parte del Likud. La coalizione anti-Netanyahu richiede il sostegno – almeno con un appoggio esterno – di alcuni partiti arabi, che però sono del tutto antitetici all’agenda di Bennett, che include la costruzione di più insediamenti in Cisgiordania e una parziale annessione della Valle del Giordano, territori riconosciuti come occupati dal diritto internazionale.
Il partito arabo Balad, ha già annunciato la propria opposizione al governo Lapid-Bennett. Perciò, Lapid dovrà praticamente convincere uno ad uno i singoli parlamentari. Il problema però è che pur essendo un centrista, Lapid ha fornito solo un tiepido incoraggiamento alla prospettiva di porre fine all’occupazione e fare concessioni significative ai palestinesi, e tra i suoi alleati ci sono uomini che hanno combattuto personalmente nei conflitti più difficili di Israele – come lo stesso Bennett, ex incursore della Sayeret Matkal durante la Seconda Intifada, e Gantz, ex capo di stato maggiore delle IDF con 38 anni di carriera militare.
Quali scenari
Se dovesse riuscire nell’impresa, più che un governo dell’unità e del cambiamento, quello di Bennett-Lapid sarebbe un governo di scopo, fragile e troppo diverso, destinato a concentrarsi sul rilancio dell’economia e l’uscita dalla pandemia, evitando di affrontare le questioni più spinose, tantomeno il destino dei palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano. Un governo del genere potrebbe anche sciogliersi pacificamente dopo aver raggiunto alcuni risultati, e tornare a votare prima della scadenza.
Le risposte arriveranno presto. Se Lapid riuscirà a mettere tutti d’accordo prima della mezzanotte di domani, potrà tornare dal presidente Rivlin e nel giro di una settimana portare Bennett a chiedere la fiducia alla Knesset, mettendo fine a uno stallo politico che ha portato a quattro elezioni anticipate dal 2019 al 2021 allungando oltre misura il mandato di Netanyahu. Se invece Lapid fallisse, prima della fine dell’anno gli israeliani andrebbero a votare per la quinta volta, ma forse stavolta senza Netanyahu.
(da agenzie)
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Maggio 17th, 2021 Riccardo Fucile
ORA SARA’ POSSIBILE RIFORMARE LA COSTITUZIONE DEI TEMPI DEL REGIME MILITARE DI PINOCHET
La coalizione di centrodestra che governa in Cile, guidata dal presidente Sebastián Piñera, ha preso una grossa batosta alle “megaelezioni” del fine settimana, considerate le più importanti tenute nel paese dalla fine della dittatura militare, nel 1990.
Si votava per eleggere 346 sindaci e i governatori delle regioni cilene, ma soprattutto per decidere i 155 membri dell’Assemblea costituente, l’organo che avrà il compito di scrivere la Costituzione che sostituirà quella in vigore redatta durante il regime militare di Augusto Pinochet.
Una nuova Costituzione era stata la richiesta principale delle enormi proteste anti-governative iniziate a Santiago del Cile nel 2019 e proseguite fino all’introduzione delle restrizioni per la pandemia da coronavirus.
Con quasi tutte le schede scrutinate, la coalizione di Piñera, chiamata Chile Vamos, che includeva anche l’estrema destra, ha ottenuto 37 seggi, poco meno di un quarto del totale e molti meno di quanto si aspettava.
L’obiettivo minimo per Chile Vamos era ottenere almeno un terzo dei seggi, visto che gli articoli nella nuova Costituzione dovranno avere due terzi dei voti dell’assemblea, per essere approvati: senza la possibilità di esercitare un veto, il governo avrà grosse difficoltà a impedire cambi radicali nel testo costituzionale, a meno di formare alleanze con altri gruppi politici dell’Assemblea.
I grandi vincitori sono stati i candidati indipendenti, cioè quelli non legati ad alcun partito, che hanno ottenuto quasi un terzo dei seggi (48). Il dato più rilevante è che l’insieme dei seggi ottenuti dagli indipendenti, dai rappresentanti delle comunità indigene (17, numero che era stato stabilito in precedenza) e dalle due grandi liste di opposizione, di sinistra – Apruebo Dignidad con 27 seggi e Lista de Apruebo con 25 seggi – ha superato i due terzi dei seggi totali dell’Assemblea: non è ancora chiaro come queste forze politiche collaboreranno, e se riusciranno a trovare un accordo sui punti più importanti della nuova Costituzione, ma il risultato elettorale permetterà alle forze riformiste di discutere ed eventualmente approvare cambiamenti più radicali da inserire nel testo finale.
Diversi osservatori hanno commentato il risultato elettorale parlando di una sconfitta per i partiti tradizionali, soprattutto per la coalizione al governo, i cui consensi avevano già subìto un crollo durante le proteste degli ultimi due anni.
L’attuale Costituzione cilena fu introdotta nel 1980 durante il regime militare di Pinochet, e per anni il tema di una sua modifica sostanziale era stato presente nel dibattito pubblico.
Il governo conservatore di Piñera era stato costretto ad accettare il voto per un’Assemblea costituente dopo le enormi proteste iniziate nel 2019 per l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana della capitale Santiago, che si erano poi trasformate in qualcosa di più ampio: erano diventate manifestazioni contro il governo e contro le enormi differenze sociali ed economiche che caratterizzano il Cile, provocate in parte da meccanismi previsti nella Costituzione del 1980.
I manifestanti avevano iniziato così a fare richieste più radicali, che erano sfociate nell’ottobre 2020 in un referendum sulla possibilità di cambiare la Costituzione, nel quale l’80 per cento dei votanti si era detto favorevole.
I lavori dell’Assemblea costituente inizieranno il mese prossimo. I membri del nuovo organo discuteranno tra le altre cose del sistema politico e di governo del paese – un “presidenzialismo alla cilena”, come viene chiamato – messo in discussione durante le proteste perché considerato inefficiente; affronteranno i temi della decentralizzazione e della regionalizzazione, molto importanti in un paese in cui il potere è fortemente centralizzato nella capitale Santiago (distante più di 3mila chilometri dall’estremo sud del paese), e dei diritti delle popolazioni indigene, nemmeno citate nell’attuale Costituzione, e in particolare del delicato rapporto tra i mapuche e il governo centrale; e poi decideranno su una serie di altre questioni fondamentali, come l’autonomia della Banca centrale, i poteri del Tribunale costituzionale, i diritti economici e sociali, e così via.
Quello che uscirà dall’Assemblea costituente non sarà importante solo per il Cile, ma anche per diversi paesi dell’America Latina che per decenni hanno guardato al sistema cileno come a un modello da seguire.
La Costituzione che risulterà dai lavori dell’Assemblea costituente sarà importante anche per un’altra ragione: sarà la prima al mondo scritta da un organo formato per metà da donne. Per questo molti credono che toccherà temi rimasti ai margini finora, come la parità di salario e l’accesso paritario tra donne e uomini a posizioni di potere. «L’agenda del femminismo sarà centrale, e questo sarà un aspetto innovativo, che potrà avere effetti interessanti per tutta l’America Latina e per il resto del mondo, perché si vedrà cosa succede quando le donne si trovano in una condizione di uguaglianza nel redigere le nuove regole di una società», ha detto Marcela Ríos, che lavora al Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo in Cile.
L’Assemblea costituente avrà nove mesi di tempo per presentare un nuovo testo costituzionale (il processo si potrà poi allungare di tre mesi, ma solo una volta). A metà del 2022 i cileni saranno chiamati a esprimersi nuovamente in un referendum per approvare o bocciare la nuova Costituzione.
(da Il Post)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
INDIPENDENT: “BOMBARDARE I GIORNALISTI NON E’ DEMOCRATICO”
A margine delle chiamate di ieri, 15 maggio, tra il presidente statunitense Joe Biden e i leader di Israele e Autorità Nazionale Palestinese, la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez è intervenuta sulla escalation con un tweet.
«Gli stati di apartheid – ha detto riferendosi a Israele- non sono democrazie». La posizione ha scatenato numerosi commenti a favore e contro la deputata, che già in passato aveva espresso preoccupazione per le condizioni di vita delle popolazioni di Striscia di Gaza e West Bank e che ora torna a parlare a fronte delle oltre 170 vittime registrate in 7 giorni di scontri.
«Ci piacerebbe che ti unissi al nostro appello per boicottare e sanzionare Israele», ha commentato il profilo ufficiale del Bds Movement, il movimento che invita i Paesi a «boicottare, disinvestire e sanzionare» Israele.
A sostegno della deputata sono arrivati anche giornalisti come Adam Smith del britannico Independent: «Bombardare i reporter non è democratico», ha scritto, riferendosi alla distruzione di diversi edifici a Gaza che ospitavano redazioni giornalistiche. Ieri l’aviazione israeliana ha distrutto la sete della Associated Press e di Al Jazeera.
La presa di posizione radicale ha però suscitato reazioni avverse tra chi invece sostiene la legittimità delle azioni di Israele. La giornalista del The Jerusalem Post, Emily Schrader, ha postato un video del 2018 nel quale si vede una giornalista domandare a Ocasio-Cortez cosa intenda per «occupazione della Palestina», e dove lei risponde «non sono un’esperta di geopolitica». La clip di pochi secondi è stata però montata ad arte: nell’intervista completa, la deputata – pur dicendo effettivamente quella frase – dedica molto più tempo alla risposta e all’analisi della questione
Un “fake” che non è sfuggito agli altri utenti. Il ricercatore Omar Baddar, ex vice direttore dell’Arab American Institute, ha scritto: «Non ha bisogno di essere un’esperta per sapere che Israele è uno stato che fomenta l’apartheid, allo stesso modo in cui non c’è bisogno di essere un avvocato per sapere che uccidere sia illegale o un dottore per sapere che il cancro è una brutta cosa. E di certo -ha aggiunto – non serve essere un meccanico per capire che questa macchina non è più utilizzabile»
(da Open)
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Maggio 5th, 2021 Riccardo Fucile
RACCOLTI 2,4 MILIARDI DI DOLLARI, SERVIRANNO PER SANITA’ E SCUOLE…SOLO IN ITALIA NON SI PUO’ PARLARE DI TASSARE I MILIARDARI
Smentendo gli scettici la tassa una tantum sulla ricchezza introdotta dall’Argentina lo scorso anno per reperire risorse nella lotta al Covid ha raccolto 223 miliardi di pesos, l’equivalente di 2,4 miliardi di dollari (2 miliardi di euro).
Si tratta del 75% dell’obiettivo finale di gettito stimato dal governo di Buenos Aires che oggi ha reso noti i dati sull’andamento del tributo.
Il prelievo interessa i soli patrimoni al di sopra dei 200 milioni di pesos (1,8 milioni di euro), secondo le stime circa 10mila persone, lo 0,8% più ricco della popolazione argentina. L’aliquota può raggiungere, per le ricchezze più elevate, il 5,2%.
Chi doveva pagare ha procrastinato sino all’ultimo, a inizio aprile solo il 2% dei aveva versato quanto dovuto, con una scadenza per il pagamento fissata al 16 di aprile.
Alla fine però i pagamenti hanno superato le attese, smentendo chi aveva messo alla berlina il tributo in quanto facilmente eludibile.
Anche perché l’Argentina non ha tradizione di un sistema fiscale particolarmente efficiente e ha sperimentato in passato fughe di capitali. Tuttavia la tassa è stata sufficientemente ben congeniata per produrre i risultati sperati. I fondi raccolti tra gli argentini più ricchi saranno destinati a politiche sanitarie, sussidi alle piccole attività, edilizia scolastica e quella popolare.
L’opportunità di aumentare il prelievo sulle fasce più benestanti della popolazione, anche per contribuire alla lotta alla pandemia, è ormai posizione comune tra le grandi organizzazioni internazionali a cominciare da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale.
Negli ultimi decenni il prelievo su ricchi e ricchissimi si è progressivamente ridotto in tutto il mondo. Elemento che ha contribuito ad alimentare l’incremento delle diseguaglianze nei paesi occidentali.
A differenza di quanto propugnato dai sostenitori della riduzione delle imposte per i più ricchi non c’è stato alcun beneficio per l’economia nel suo complesso né tanto meno si è verificato quell’effetto “sgocciolamento” secondo cui la ricchezza accumulata in alto avrebbe finito per “bagnare” anche il basso.
(da agenzie)
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Maggio 2nd, 2021 Riccardo Fucile
VERDI 27%, CDU-CSU 24%, SPD 15%
Più si avvicina la fine del mandato della cancelliera Angela Merkel, carica da rinnovare a settembre, più scende insorabilmente nei sondaggi, ma anche in alcuni passaggi elettivi, l’alleanza Cdu-Csu. Segno che i tempi stanno cambiando e che la Merkel è l’unico vero collante della coalizione cristiana-democratica.
Cdu-Csu infatti perde tre punti percentuali in vista delle elezioni politiche del 26 settembre, che vedrebbero i Verdi come prima formazione politica nelle urne.
E’ quanto attesta un sondaggio realizzato da Kantar per l’edizione domenicale della Bild, secondo il quale il blocco conservatore che esprime come candidato alla Cancelleria Armin Laschet, raccoglierebbe nelle intenzioni di voto il 24%, rispetto al 27% dei Verdi, che propongono Annalena Baerbock alla guida del governo.
Il sondaggio rivela anche che il Partito socialdemocratico (Spd) ha guadagnato due punti percentuali, raggiungendo il 15%, così come i Liberal democratici della Fdp, che si attestano all’11%.
Invariati i consensi per la Linke, al 7% e per la formazione di destra Afd, al 10%.
(da Globalist)
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Aprile 28th, 2021 Riccardo Fucile
SOTTO INCHIESTA GLI AFFARI E LE PRESSIONI PER GETTARE FANGO SUI RIVALI POLITICI DI TRUMP
Gli affari “sporchi” di Giuliani in Ucraina per screditare i rivali di Trump, tra cui l’attuale presidente degli Stati Uniti Biden che è stato suo sfidante alle elezioni del 2020, sono finiti al centro di un’inchiesta della giustizia americana
Un gruppo di investigatori federali infatti ha eseguito un mandato di perquisizione, mercoledì, nell’appartamento di Manhattan di Rudy Giuliani, ex sindaco di New York City e avvocato personale dell’ex presidente Donald Trump.
Sono stati sequestrati computer e altri dispositivi elettronici.
La perquisizione è stata richiesta nell’ambito di un’indagine penale sulle relazioni di Giuliani in Ucraina, ha riferito il New York Times, citando tre persone a conoscenza della questione.
Le autorità federali si sono concentrate in gran parte sul fatto che Giuliani abbia fatto pressioni illegali sull’amministrazione Trump nel 2019 per conto di funzionari e oligarchi ucraini.
(da agenzie)
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Aprile 28th, 2021 Riccardo Fucile
IL “PIANO PER LE FAMIGLIE AMERICANE” PREVEDE 1.000 MILIARDI DI DOLLARI DI INVESTIMENTI E 800 MILIARDI DI TAGLI ALLE TASSE PER LE FAMIGLIE A REDDITO MEDIO-BASSO
Joe Biden revocherà i tagli alle tasse ai ricchi voluti da Donald Trump per finanziare l’istruzione e una serie di aiuti alle famiglie povere.
Il presidente degli Stati Uniti presenterà oggi al Congresso un piano da 1.800 miliardi di dollari per i prossimi 15 anni, chiamato “Piano per le famiglie americane“, finanziato in parte dai maggiori introiti dovuti alla cancellazione delle politiche fiscali volute dal suo predecessore alla Casa bianca.
La proposta di Biden prevede 1.000 miliardi di dollari di investimenti e 800 miliardi di dollari di tagli alle tasse e agevolazioni per le famiglie a reddito medio-basso. Le varie misure prevedono il finanziamento degli asili nido e dei community college (istituti di istruzione superiore che offrono corsi biennali di livello universitario), che dovranno diventare gratuiti in tutto il Paese, l’estensione fino al 2025 degli assegni familiari, la conferma delle agevolazioni fiscali per i single a basso reddito, il sostegno diretto dello Stato per l’assistenza all’infanzia, investimenti nella formazione degli insegnanti e un programma nazionale per il congedo familiare retribuito.
“Il presidente proporrà una serie di misure per assicurarsi che gli americani più ricchi paghino le tasse che devono, assicurandosi inoltre che nessuno con un reddito inferiore ai 400 mila dollari all’anno si veda aumentare le imposte”, ha rivelato in via anonima un funzionario dell’amministrazione statunitense all’agenzia di stampa Afp. La strategia mira a “ricostruire meglio e a creare un’economia forte e inclusiva per il futuro”. Il piano investirà infatti nei servizi all’infanzia e nell’istruzione primaria, nella cura dei bambini, nelle scuole superiori e in altri settori al fine di rilanciare la classe media americana.
A poco meno di 100 giorni dall’entrata in carica, Biden illustrerà la sua proposta durante il discorso previsto al Congresso alle 21:00 di oggi ora locale (le 3:00 del mattino in Italia), in cui affronterà anche i risultati della campagna vaccinale, i progetti per la ripresa dalla pandemia di Covid-19, le proposte della Casa bianca per contrastare i cambiamenti climatici e l’agenda di politica estera, in particolare le relazioni tra Stati Uniti e Cina.
Il piano richiederà l’approvazione di un parlamento profondamente diviso in cui i Democratici detengono la maggioranza al Senato solo in virtù del voto decisivo della vicepresidente Kamala Harris. Difficilmente infatti i membri più conservatori tra i Repubblicani voteranno la proposta di Biden, ma la Casa bianca punta sul sostegno degli elettori, in particolare in materia di aumento delle tasse ai super ricchi.
La proposta dell’amministrazione Biden prevede infatti un rialzo fino al 39,6 per cento dell‘aliquota massima dell’imposta sul reddito per chi guadagna più di 400 mila dollari all’anno, ponendo fine alla riduzione al 37 per cento voluta da Donald Trump. Il piano del presidente degli Stati Uniti intende inoltre abrogare le agevolazioni fiscali sui redditi da capitale, tassando la ricchezza ereditata, modificando il trattamento fiscale delle plusvalenze e stanziando nuovi fondi per l’Internal Revenue Service (l’Agenzia delle entrate americana) per imporre la riscossione delle tasse e controllare i contribuenti più facoltosi.
Il nuovo progetto segue un piano infrastrutturale da 2.250 miliardi di dollari, ancora al vaglio del Congresso, e un altro di sostegno all’economia per l’emergenza pandemica da 1.900 miliardi di dollari, appena varato dalla Casa bianca. Insieme, queste misure intendono cambiare profondamente il fisco e i programmi di assistenza sociale degli Stati Uniti, ampliando notevolmente il sostegno federale alla classe media e spostando il carico fiscale sui più ricchi.
“Il presidente è stato chiaro: il nostro sistema fiscale non funziona se un gestore di hedge fund che guadagna centinaia di milioni di dollari paga le tasse a un’aliquota inferiore rispetto a chi lavora nel suo ufficio o alla governante della sua villa”, ha sottolineato la consigliera della Casa bianca, Anita Dunn, in un memorandum riservato pubblicato da Bloomberg. “E sta per prendere una serie di misure – sostenute dal pubblico americano – per affrontare l’equità del sistema fiscale“. Il solo “Piano per le famiglie” riguarderebbe infatti circa 17 milioni di lavoratori a basso reddito e 66 milioni di minori.
“Il piano del presidente chiarisce dove dovremmo ridurre il carico fiscale e dove pensa che dovremmo aumentare adeguatamente le tasse“, ha spiegato ad Afp un altro funzionario dell’amministrazione statunitense. “Queste riforme riguardano fondamentalmente l’equità fiscale“.
(da agenzie)
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Aprile 23rd, 2021 Riccardo Fucile
LO SI GIUDICAVA UN “VECCHIO E LOGORO” PROFESSIONISTA, SI STA DIMOSTRANDO TUTT’ALTRO
Alle elezioni, pochi ritenevano che Joe Biden sarebbe stato un presidente incisivo in grado di condurre un’attiva politica riformatrice. Lo si giudicava un “vecchio e logoro” professionista, prescelto come male minore per convogliare un elettorato tradizionale e nero sul candidato in grado di battere Trump.
E, invece, Biden si sta dimostrando tutt’altro: un “presidente radicale” nel significato politico che dell’aggettivo si dà in Europa. Non un verboso radical americano, pronto a enunciare a parole progetti rivoluzionanti, e neppure un tranquillo liberal soddisfatto di smussare i più controversi aspetti degli Stati Uniti.
Alla prova dei fatti, la direzione di marcia del nuovo presidente è tipica del riformatore democratico radicale pronto ad affrontare i nodi più controversi della società americana senza la prudenza tipica dei precedenti. Se non quella dell’equilibrio dei poteri in presenza di un Congresso per metà al Senato repubblicano, e di una Corte Suprema controllata dai tradizionalisti.
I nodi che Biden ha affrontato sono tra i più difficili e “pericolosi” del potere nazionale. Di fronte al razzismo endemico è stato deciso nell’auspicare un “giusto verdetto” nel processo per l’uccisione di Floyd, e non ha fatto mancare un commento spregiudicato (per il presidente) alla sentenza di condanna. Quindi sta tentando di far passare una legge di controllo del comportamento violento delle polizie (statali e locali) che è difeso dalla supremazia dei bianchi sui neri.
Si è lanciato nella campagna ambientalista divenendo anche il leader dello schieramento internazionale per il controllo del clima, riconosciuto da indiani e cinesi. In patria ha toccato interessi poderosi: le lobby delle armi, del tabacco, del petrolio e dell’industria pesante che sono sempre state agguerrite nel condizionare la politica e l’Amministrazione.
Ha ripreso la classica tradizione democratica di attenzione verso i ceti medi e popolari istituendo una tassazione sui capital gains dei più ricchi per finanziare con l’American Family Plan la sanità (questione irrisolta della nazione più ricca del mondo), l’educazione nei college, il welfare, e le provvidenze per i poveri.
Ultima ma non di minore importanza per la comunità internazionale, ha rilanciato l’azione interventista nei diritti civili e umani nel mondo, come nella migliore tradizione americana, pronunziando per la prima volta il tabù “olocausto” degli armeni compiuto dai turchi nel 1915, e poi ha proseguito non tacendo sulla persecuzione di Navalny da parte del Cremlino.
Si dirà che nei confronti degli autocrati Erdogan e Putin le mosse di Biden rispondono ad avvertimenti di politica estera. Certo che si tratta anche di questo. Ma è significativo che la “grande potenza” per eccellenza oggi intervenga non solo per tutelare i suoi interessi ma anche per difendere con la sua influenza i diritti umani e civili.
A me sembra che la “sorpresa radicale” di Biden allinei l’ultimo presidente Usa a due suoi predecessori democratici ben diversi, ma entrambi mossi da quel vigore democratico radicale che riappare in questi giorni: Il Franklin D. Roosevelt del New Deal e il Lyndon B.Johnson della migliore politica interna – solo interna, ripeto – della War on Poverty.
(da agenzie)
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