Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
COME SI OTTIENE IL CERTIFICATO E DOVE SARA’ VALIDO
Ha superato il milione il numero di cittadini europei in possesso del Green pass, il certificato verde digitale che consente di viaggiare tra i Paesi dell’Ue senza doversi sottoporre a periodi di quarantena o a tamponi se si è vaccinati o se si è guariti dal Covid negli ultimi 6 mesi.
L’ultimo via libera alla certificazione verde su scala europea è arrivato nella serata di ieri, quando il Parlamento europeo ha votato favorevolmente alla misura e questa mattina ha definitivamente approvato il regolamento sul certificato con 546 favorevoli, 93 contrari e 51 astenuti per le regole sui cittadini Ue e 553 favorevoli, 91 contrari e 46 astenuti per i cittadini di Paesi terzi residenti nell’Ue.
Il Green pass entrerà in funzione il prossimo 1 luglio in tutti i Paesi dell’Unione Europea e dovrebbe rimanere in vigore per 12 mesi.
I singoli Stati membri continueranno però a poter imporre misure differenziate locali rispetto alle linee guida europee. Le misure però, si specifica, dovranno essere «necessarie e proporzionate per tutelare la salute pubblica». In sostanza, qualora in alcuni Paesi dovesse verificarsi un’impennata dei casi e l’aumento della circolazione di una variante, il singolo Stato potrà limitare gli spostamenti per evitare la diffusione del virus, o di una delle sue varianti.
Dove sarà valido il Green pass
Nove Stati (Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Polonia, Lituania, Grecia, Croazia e Spagna) hanno già strutturato il pass collegandosi alla piattaforma comunitaria. Il pass sarà valido anche in Svizzera, Islanda, Norvegia, Liechtenstein. L’Italia, al momento, pur avendo sviluppato le certificazioni verdi per gli spostamenti nazionali da e verso regioni in fascia arancione e rossa, non è ancora collegata alla rete europea. Tuttavia, da Roma il Governo ha specificato che mancano «alcuni piccoli ultimi passaggi finali» e, nei prossimi giorni, anche il database italiano comunicherà con quelli degli altri Paesi dell’Unione.
«Il regolamento sul Green pass digitale sottolinea l’importanza di test universali e accessibili per tutti i cittadini, soprattutto per le persone che attraversano le frontiere quotidianamente. E per sostenere questi sforzi la Commissione europea si è impegnata a mobilitare 100 milioni di euro per i test necessari al rilascio del certificato», ha sottolineato il commissario europeo alla Giustizia Didier Reynders, nel corso della dell’Europarlamento a Strasburgo. «È iniziato – ha aggiunto – un dibattito importante negli Stati membri sul prezzo dei test e sono sicuro che ci saranno nuovi sviluppi nelle prossime settimane sull’accessibilità dei test».
Cos’è il Green Pass: i requisiti e la durata
Il Green pass sarà fruibile dalle persone vaccinate (a partire dal 14esimo giorno dopo la vaccinazione), dai guariti dal Covid-19 negli ultimi 6 mesi, e dalle persone in possesso del referto negativo a un test antigenico o molecolare, da effettuarsi nelle 48 ore prima dello spostamento. La certificazione durerà 9 mesi per i vaccinati, 6 mesi per i guariti dal Covid, mentre per chi si sottoporrà a tampone e riceverà un referto di negatività al virus avrà una validità di 48 ore.
Come è strutturato e come richiederlo
La certificazione verde sarà costituita da un Qr code e avrà due formati. Uno cartaceo e uno digitale. Nel secondo caso il Green pass verrà caricato o sull’app Io o sull’Immuni. Nel primo caso, per accedere ai servizi delle applicazioni sarà necessario utilizzare lo Spid o un documento d’identità elettronico. I dati verranno inseriti nel database dalle autorità sanitarie. Sarà dunque cura dell’ente che vaccina, della struttura che ha curato e certificato la guarigione dal Covid del paziente, o della struttura o laboratorio che ha elaborato il tampone (negativo) rilasciare la documentazione necessaria.
A cosa serve il Green Pass
La certificazione servirà per potersi spostare nei Paesi dell’Unione Europea e negli Stati che hanno siglato accordi specifici con l’Ue per gli spostamenti, al fine di evitare periodi di quarantena all’arrivo o di doversi sottoporre a tampone prima e dopo aver viaggiato. Ovviamente questi due scenari sono validi solo per chi ha un Green pass grazie all’attestazione di vaccinazione o di avvenuta guarigione dal Covid. Chi invece utilizzerà il pass con tampone negativo, alla scadenza delle 48 ore di validità, dovrà nuovamente sottoporsi al test per verificare di non essere contagiato/a.
(da agenzie)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
ONDE EVITARE CHE L’ITALIA CONTINUI A SPUTTANARE SOLDI
Il ritorno del patto di stabilità, le critiche alle misure di protezione sociale e una vecchia quanto insistente proposta che puzza di commissariamento. È il quadro che emerge negli ultimi mesi in Europa dove, con particolare riferimento all’Italia, si torna a discutere di disciplina di bilancio, riduzione del debito e ritorno a una normalità in cui le percentuali del deficit dominano le scelte di politica economica, come se la crisi innescata dalla pandemia di Covid fosse già conclusa e non appena all’inizio.
Nel giro di poco meno di un mese, si sono susseguiti una serie di segnali indirizzati al nostro Paese (e non solo) e al presidente del Consiglio, Mario Draghi.
A partire dalle previsioni economiche di primavera divulgate nella prima metà di maggio dalla Commissione europea, da Bruxelles e oltre si moltiplicano gli allarmi sullo stato di salute dell’economia italiana e le valutazioni sulle scadenze delle misure di sostegno.
Tra le raccomandazioni approvate collegialmente dalla Commissione figura ad esempio una critica al blocco ai licenziamenti voluto dal governo di Giuseppe Conte, considerato “superfluo” e dannoso per certe categorie, e l’appoggio alla linea dell’attuale esecutivo volta a superare gradualmente il provvedimento, offrendo un assist a Confindustria.
Inoltre, secondo la Commissione, il nostro Paese continua a soffrire di “eccessivi squilibri macroeconomici” dovuti a un elevato livello del debito, alla bassa produttività e a un mercato creditizio in sofferenza.
Di fatto, pur figurando tra gli Stati membri in maggiore difficoltà dal punto di vista macroeconomico, grazie alla sospensione del Patto di stabilità finora l’Italia ha potuto evitare di incorrere nella procedura di infrazione ma deve comunque fare attenzione alle finanze pubbliche nonostante la sospensione delle regole di bilancio confermata anche per il 2022.
In questo clima, la scorsa settimana il vicepresidente lettone della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha paventato il ripristino del Patto di stabilità nel 2023, mentre sono arrivati i primi avvertimenti a Italia, Cipro e Grecia ad usare prudenza nello spendere i fondi europei, a “limitare la crescita delle spese”, favorendo gli investimenti “in ricerca, istruzione e infrastrutture pubbliche” in luogo della spesa corrente. Il ritorno alle regole di bilancio, nelle intenzioni del commissario all’Economia ed ex premier Paolo Gentiloni, sarebbe comunque accompagnato da una volontà di riforma del Patto, considerato “troppo complesso” e di fatto ormai obsoleto nel quadro creato dalla pandemia, un progetto però già avversato da diversi Paesi membri, tra cui Austria, Germania, Finlandia e Svezia.
A questo punto riemerge una vecchia proposta, che suona quasi come una minaccia di commissariamento, rimessa sul tavolo dall’ex ministro delle Finanze tedesco e attuale presidente del Bundestag Wolfgang Schaeuble che, citando espressamente l’Italia e il presidente del Consiglio Mario Draghi, dalle colonne del Financial Times ha riproposto “un patto di riscatto del debito per la zona euro” sul modello dello storico fondo di ammortamento istituito da Alexander Hamilton nel 1792 per gli allora nascenti Stati Uniti, un’idea già presentata a metà maggio sulle pagine de Il Sole 24 Ore.
Il politico tedesco prende le distanze dalla propria reputazione di falco dell’austerity, ricordando di aver sempre avuto soltanto a cuore il tema della sostenibilità del debito. “Prendere a prestito in tempi di crisi per stabilizzare l’economia ha senso, purché non si dimentichi la questione del rimborso”, scrive Schaeuble. In quest’ultimo caso, secondo l’ex ministro, si rischia di alimentare una continua espansione del debito sovrano e quindi di accrescere le pressioni inflazionistiche.
Dopo aver citato l’economista John Maynard Keynes e le sue valutazioni sull’inflazione come potenziale fattore in grado di “rovesciare le basi esistenti della società”, il presidente del Bundestag prosegue il ragionamento collegando l’eccessivo debito pubblico ai rischi “per la tenuta del tessuto sociale“. “La maggior parte dei creditori degli Stati sono individui ed entità benestanti. Il debito pubblico aumenta la loro ricchezza, allargando il divario tra ricchi e poveri”, sottolinea l’ex ministro tedesco, secondo cui il divario tra “abbienti” e “meno abbienti” rappresenta un’enorme minaccia per la coesione sociale.
La soluzione proposta da Schaeuble è il ritorno “alla normalità monetaria e fiscale”, ossia al Patto di stabilità aumentando però i controlli, magari attraverso un’istituzione ad hoc con nuovi poteri. “L’esperienza mostra che i bilanci in pareggio nei Paesi con alti livelli di debito sono quasi irraggiungibili, senza pressioni esterne”, afferma il politico tedesco, che indirizza esplicitamente il discorso all’Italia.
“Ho discusso più volte di questo ‘azzardo morale’ con Mario Draghi. Siamo sempre stati d’accordo che, data la struttura dell’Unione monetaria europea, la competitività e le politiche finanziarie sostenibili siano responsabilità degli Stati membri. Sono sicuro che intende sostenere questo principio come Presidente del Consiglio italiano. È importante per l’Italia e per l’Ue nel suo insieme”, scrive l’ex ministro tedesco, che prosegue con un avvertimento. “Altrimenti avremo bisogno di un’istituzione europea con poteri in grado di far rispettare le regole concordate insieme. Ciò richiederebbe delle modifiche ai trattati. Eppure, anche senza queste ultime, la Commissione europea sta assumendo maggiore importanza in questo ambito”.
Al di là della risibile quanto orribile idea che per tutelare la coesione sociale si debba adottare uno strumento coercitivo della sovranità finalizzato a far rispettare “una disciplina di bilancio più rigorosa”, il cui effetto primario è stato storicamente proprio il ridimensionamento della spesa per il welfare, le ultime righe sembrano alludere a una sorta di commissariamento. Si tratta in realtà di una proposta di dieci anni fa del Consiglio degli esperti economici della Germania, il cosiddetto “European redemption pact“.
L’iniziativa prevede l’istituzione di un Fondo europeo di rimborso a cui tutti i Paesi membri dell’Ue dovrebbero conferire la quota di debito eccedente la soglia del 60 per cento prevista dal Patto di stabilità, assumendosi l’obbligo di rimborsare le somme erogate entro 25 anni e impegnandosi a non oltrepassare ulteriormente tale livello di indebitamento. Il vantaggio per gli Stati molto indebitati è che pagherebbero tassi di interesse inferiori sulla quota trasferita al Fondo, obbligandosi in cambio a rispettare una serie di condizioni, come l’accantonamento del gettito di una specifica imposta per assicurare il rimborso dei debiti, il deposito di determinate garanzie e l’adozione di una serie di riforme strutturali.
Insomma ben più di un semplice strumento finanziario. Come ha scritto Schaeuble sulle colonne del Financial Times, “non è un semplice problema economico”, ma una questione politica e di primaria importanza. Prima di impegnare il Colosseo, o meglio una quota delle riserve del Paese, dovremmo forse guardare il calendario. Non siamo più nel Settecento.
Nonostante le inquietanti pulsioni verso la progressiva contrazione della rappresentanza, alimentate in Italia da quasi tre decenni di martellanti campagne per la presunta “governabilità” e il “voto utile” a tutto discapito del principio elementare “un cittadino, un voto”, non possiamo riportare il dibattito a un salotto frequentato da gentiluomini à la Alexander Hamilton, Benjamin Constant o John Stuart Mill.
Il caso storico citato dal presidente del Bundestag riguarda un fondo di ammortamento del debito concepito come uno degli strumenti di una politica di mutualizzazione delle responsabilità volta alla nascita di uno Stato federale e non un semplice metodo di riscossione dei prestiti. Un mezzo politico deve presupporre un fine politico e se fosse questo il caso un tale salto istituzionale richiederebbe ben più della modifica di qualche trattato.
Come ricordato qualche anno fa da Mario Draghi in audizione al parlamento dei Paesi Bassi, citando il pensiero di uno dei padri dell’integrazione europea quale Jean Monnet, la zona euro si fonda su due principi fondamentali: la convergenza e la fiducia.
Assolvendo l’ex ministro delle Finanze tedesco da qualsivoglia intento di supremazia di una nazione sulle altre mascherata da commissariamento di uno o più Stati membri per il bene di tutti, l’idea di fondare semplicemente “un’istituzione europea con il potere di far rispettare le regole” sulla base dell’assunto che “senza pressioni esterne, è pressoché impossibile realizzare bilanci equilibrati nei Paesi ad alto debito” non va nella direzione dell’integrazione, al contrario.
Se il processo di convergenza dei Paesi europei segue la strada tracciata dalla nascita del mercato comune e dall’aver coniato una moneta unica per concludersi idealmente con un’unione politica (non ancora raggiunta), ogni forzatura promette solo di aumentare i rischi di disgregazione proprio perché mina la fiducia. Ed è questo il punto: la fiducia di chi? Non dei mercati, degli Stati o dei creditori ma degli europei.
Il problema del “controllo politico” a livello comuntario, che sia del debito o di altro, è intrinsecamente legato alla questione di un’adeguata rappresentanza dei cittadini, a cui oggi è privilegiata quella degli Stati. Un principio decisamente non garantito dall’organo citato dall’ex ministro delle Finanze tedesco, quella Commissione europea che starebbe “assumendo maggiore importanza nel far rispettare le regole” e di cui non si riesce nemmeno ad assicurare l’elezione indiretta del presidente attraverso le consultazioni per il Parlamento europeo.
Unico organismo quest’ultimo veramente eletto e sottoposto per lo meno all’andamento del consenso ma con poteri molto limitati rispetto alla propria controparte, quel Consiglio europeo che decide effettivamente le sorti dell’Unione e in cui i ministri (nelle sue varie configurazioni) e i leader dei singoli Stati membri (nella sua composizione anomala) governano di fatto l’Ue.
Ammesso che i popoli europei abbiano intenzione di dare vita a un progetto confederale o addirittura federale, la convergenza degli indicatori politici, economici, civili e sociali dei singoli Paesi andrà accompagnata all’aumento della fiducia dei cittadini nelle nuove istituzioni, un obiettivo che potrà essere raggiunto soltanto attraverso la progressiva partecipazione e un salto di qualità nella rappresentanza, ad esempio riequilibrando ulteriormente i poteri tra Parlamento e Consiglio e magari trasformando in seggi elettivi i voti controllati in questa sede da ciascuno Stato con la proporzionale riduzione dei parlamentari.
Eppure nessuna di queste ricette potrà mai funzionare né sarà possibile un vero rilancio del progetto europeo senza due fattori fondamentali: la crescita e la giustizia sociale. È solo questa la soluzione principe ai problemi del debito come del consenso all’integrazione continentale, non certo la coercizione ma i diritti.
Per la maggior parte degli oltre 446 milioni di cittadini europei infatti la politica è limitata al lavoro e alla salute, la cui garanzia resta imprescindibile per il successo dell’Unione europea e in generale di qualsiasi comunità politica.
(da Huffingtonpost)
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Maggio 29th, 2021 Riccardo Fucile
PASSI FALSI SU ALCUNE LEGGI E ALL’ESTERO… NEL 2022 AVRA’ CONTRO L’OPPOSIZIONE UNITA E I SONDAGGI LI DANNO ALLA PARI
Venerdì Viktor Orban ha provato anche ad andare fino a Londra alla ricerca di “nuovi rapporti bilaterali” per la ‘sua’ Ungheria. Ma non deve essergli andata bene.
Fino a sera, il premier Boris Johnson, pur avendolo accolto, non rilascia dichiarazioni, nell’imbarazzo più totale per aver ricevuto un premier che a turno si è distinto per antisemitismo, razzismo, discriminazione per le minoranze e i movimenti Lgbtq e che, poco prima del viaggio in Gran Bretagna, ha parlato di “invasione di musulmani”, tanto per aggiungere carne al fuoco delle polemiche nel Regno.
Stiamo parlando di un Orban in difficoltà? Nonostante fonti qualificate dell’opposizione ungherese invitino alla cautela in vista delle elezioni dell’aprile 2022, stavolta il leader di Fidesz, premier al potere dal 2010, carica che aveva ricoperto anche tra il 1998 e il 2002, non ha davanti a sé una strada liscia per l’ennesimo successo.
Se le elezioni in Germania a settembre sono di fatto elezioni di portata europea, se le presidenziali in Francia del prossimo anno pure ci diranno molto del futuro del continente, per l’ennesima volta col fiato sospeso di fronte ai sondaggi generosi con la nazionalista Marine Le Pen, l’appuntamento elettorale 2022 in Ungheria non è da meno, con le dovute proporzioni.
Una riconferma dell’ultradestra di Orban, membro del Ppe fino all’addio di qualche mese fa, dopo anni di scontri con la parte moderata del centrodestra europeo che pure però lo aveva accolto in squadra, ci direbbe che il vento anti-europeista e sovranista non si è fermato anche dopo la sconfitta di Donald Trump negli Stati Uniti.
Diversamente, se Orban perdesse le elezioni, si chiuderebbe un ciclo non solo per lui, ma anche per la sua creatura Fidesz e per i suoi alleati europei, a cominciare da Matteo Salvini.
Perché in questi anni Orban è stato il punto di riferimento dell’ultradestra europea forse più della francese Le Pen, in quanto al governo nel suo paese e dunque con potere contrattuale nei consessi europei.
E poi per via dell’inquadramento nel Ppe, la più grande famiglia politica europea, fino a quando è durato. Può essere che la sua buona stella abbia intrapreso la fase discendente proprio dopo l’addio ai Popolari? Di fatto, da allora, Orban ri-cerca Salvini con maggiore intensità, parla di nuovi gruppi europei che però non sono ancora nati, accoglie a Budapest Santiago Abascal, leader della destra spagnola Vox dato in ascesa dopo le elezioni a Madrid, va fino a Londra alla ricerca di nuovi ‘amici’.
Cosa è successo?
I sondaggi danno il suo Fidesz più o meno alla pari (49 per cento) con la coalizione di sei partiti che l’anno prossimo vogliono sfidarlo alle elezioni (48 per cento).
Alleanza eterogenea, per carità, che ha annunciato le primarie per decidere la leadership. Figura di spicco il sindaco di Budapest, Gergely Karácsony, leader di Dialogo per l’Ungheria, noto oppositore di Orban, lui più di tutti punta alla candidatura per la premiership. Ma ci sono altri segnali che parlano di un potere con più di qualche problema da risolvere.
Di recente, la maggioranza in Parlamento è stata costretta a rivedere la legge sulle ong voluta da Orban contro i presunti finanziamenti dall’estero, per effetto della sentenza della Corte di giustizia europea che l’ha bocciata lo scorso giugno.
È vero che, secondo la nuova legge, la Corte dei Conti ungherese manterrà il controllo sulle organizzazioni non governative, ma il governo comunque ha dovuto saltare un ostacolo.
Cinque giorni fa, la Corte Costituzionale ungherese ha bocciato la legge voluta da Orban nel 2018 che obbligava di fatto i dipendenti a fare straordinario al lavoro e permetteva ai datori di lavoro di non pagarglielo.
E per citare un’altra circostanza che ha a che fare con la politica estera, lunedì scorso, quando tutti i leader europei riuniti all’Europa building hanno intavolato la discussione sulle sanzioni contro la Bielorussia per il caso del dirottamento aereo e l’arresto del dissidente Roman Protasevich, Orban si è dovuto accomodare senza eccepire alcunché. Pur amico di Lukashenko, non ha esercitato diritti di veto, come ha fatto invece qualche settimana fa sul Medio Oriente per difendere Israele nello scontro con i palestinesi.
C’è che il caso Minsk è indifendibile: se ci avesse provato, sarebbe finito in netta minoranza anche rispetto agli altri Stati dell’est.
Lo scontro sul Medio Oriente invece gli ha offerto l’arma tattica di far leva sulle naturali simpatie per Israele prevalenti in gran parte d’Europa, dalla Germania per motivi storici, fino all’est.
Ad ogni modo, il caso Bielorussia lo ha costretto a nascondersi, togliendogli quel palcoscenico che di solito un leader come lui non si fa mai mancare. Nessuna dichiarazione sulle sanzioni decise in Consiglio, né a favore, né in dissenso.
L’ultima vera levata di scudi di Orban, insieme all’alleato polacco Mateusz Morawiecki, risale alla fine dell’anno scorso, quando Ungheria e Polonia ventilarono il veto contro il Recovery fund per difendere la libertà di declinare lo stato di diritto a loro piacimento. Vinsero, ottenendo una sorta di lasciapassare, impacchettato da Angela Merkel, tanto che poi Budapest e Varsavia si sono pure sbrigate a ratificare in Parlamento e presentare i loro piani nazionali: i soldi di ‘mamma Europa’ non si rifiutano mai.
Ma all’opinione pubblica ungherese evidentemente non basta. O non basta più, nonostante la chiusura di media anti-governativi, come Klubradio, per opera di un sofisticato sistema di incastri burocratici elaborato ad arte da Fidesz.
C’è un’altra questione che potrebbe avere il suo peso, anche se stiamo parlando di elezioni tra un anno e dunque il tutto va considerato ‘cum grano salis’. Trattasi dei viaggi degli ungheresi all’estero quest’estate.
Sembra un tema faceto e invece è molto serio. A metà maggio, metà della popolazione ungherese era già vaccinata, compresi molti ventenni. La campagna vaccinale è stata un fiore all’occhiello per Orban, rispetto alle lentezze europee. Il punto è che il governo di Budapest ha scelto di incentrarla sul vaccino russo Sputnik e il cinese Sinovac, più che su quelli autorizzati dall’Ema.
Lo stesso Orban si è vaccinato con l’anti-Covid di Pechino. Ma il ‘covid pass europeo’ che dovrebbe essere operativo da luglio e dovrebbe consentire a chi è vaccinato di viaggiare nell’Unione, non è valido per chi si è immunizzato con prodotti non autorizzati dall’Ema. A meno che gli Stati membri non decidano diversamente, con appositi provvedimenti nazionali che Bruxelles gli permette di adottare, in caso.
La questione è così cruciale nei consensi di Fidesz che il ministro degli Esteri Péter Szijjártó si è organizzato un tour nelle capitali dei paesi che sono mete di vacanza preferite dagli ungheresi. Mission: implorare il consenso a lasciarli entrare.
In questi giorni, Szijjártó sarà a Lisbona, Madrid, Malaga e Londra, dove si recato lo stesso Orban in persona, a perorare la causa ‘vacanze all’estero’.
È un tema molto considerato anche da Merkel nella campagna elettorale per il voto di settembre: pare che la cancelliera si stia dedicando solo a soddisfare desideri ed esigenze dei tedeschi, per battere la concorrenza dei Verdi.
Orban lo sta curando già da ora, a distanza di un anno dal voto, convinto evidentemente che, quanto avrà fatto per il relax post-pandemico dei suoi elettori, verrà ricordato a lungo. E magari il resto scomparirà?
(da Huffingtonpost)
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Maggio 21st, 2021 Riccardo Fucile
RAGGIUNTO L’ACCORDO, ECCO IN COSA CONSISTE
Dopo lunghe discussioni negoziatori del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo sul certificato vaccinale da usare nell’Unione europea. L’intenzione è iniziare a usarli dal primo luglio, ma non è ancora chiaro quando verrà introdotto in ogni singolo paese.
Gli europarlamentari e i rappresentanti dei governi nazionali erano in disaccordo su una serie di punti.
L’Europarlamento voleva test sul Covid gratuiti per le persone non ancora vaccinate, ma diversi paesi erano contrari.
Altri governi volevano mantenere il diritto di decidere in autonomia l’introduzione di misure aggiuntive, come l’obbligo di quarantena.
Il timore della Commissione era di assistere a un “declassamento” del certificato che lo avrebbe reso inutile. Il negoziato era a rischio, ma alla fine le parti hanno raggiunto un compromesso soddisfacente.
Tuttavia, come spesso accade con le questioni europee, i termini dell’accordo sono formalmente provvisori e vanno ratificati dagli Stati membri, ma l’obiettivo cardine del certificato – salvare la stagione turistica estiva – dovrebbe essere raggiunto. Come richiesto dagli europarlamentari, il green pass perde il nome originario e per ora diventa un più specifico EU Digital Covid Certificate.
Come funziona il Certificato Covid dell’Ue
Nonostante il nome, il certificato sarà disponibile sia in formato digitale che cartaceo, in entrambi i casi dotato di un QR code che attesterà che il possessore è una persona vaccinata, guarita dopo essere stata contagiata o negativa a un tampone.
Lo strumento dovrebbe restare in vigore per 12 mesi ma non costituirà una precondizione per esercitare il diritto alla libera circolazione, né sarà considerato come documento di viaggio.
Il prezzo dei tamponi non sarà garantito
Uno dei nodi del negoziato era il prezzo dei tamponi. Gli europarlamentari volevano test a prezzi calmierati, se non addirittura gratuiti, una cosa che inizialmente non era minimamente prevista. Secondo il compromesso raggiunto, per rendere i test accessibili la Commissione si è impegnata a stanziare «almeno 100 milioni di euro» con cui fornire supporto ai programmi per l’acquisto di tamponi a prezzi calmierati. Nell’Ue i prezzi variano anche di molto da paese a paese, così come all’interno dei singoli stati (come in Italia, da regione a regione). Il fondo dovrebbe permettere di fornire un supporto alle persone economicamente svantaggiate, o che attraversano spesso le frontiere per motivi di lavoro, studio o personali. Se dovesse essere necessario, la Commissione potrà stanziare risorse aggiuntive superiori a 100 milioni stabiliti, ma dovrà chiedere l’approvazione alle autorità responsabili del bilancio Ue. La speranza degli eurodeputati è che grazie a questo fondo i test avranno un prezzo più abbordabile per chi ha bisogno, ma è lecito avere qualche dubbio.
L’introduzione di restrizioni straordinarie
Anche la possibilità per i singoli Stati membri di introdurre ulteriori restrizioni di viaggio come l’obbligo di quarantena, l’auto-isolamento o altri test è stato oggetto di discussioni intense. I governi potranno farlo, ma solo dimostrando alla Commissione che le misure aggiuntive sono necessarie per combattere la diffusione del virus, come la provenienza del viaggiatore da un paese che ha tassi di contagio troppo elevati, o dove si sta diffondendo una nuova variante pericolosa. Le misure andranno notificate agli altri Stati membri e alla Commissione con almeno 48 ore di anticipo, ma almeno durante la stagione estiva non saranno certo i paesi mediterranei a introdurre disincentivi non necessari ai viaggiatori (a meno che non diventi davvero necessario).
Quali vaccini saranno riconosciuti
Il certificato Covid dell’Ue ovviamente riconosce tutti gli vaccini approvati dall’Agenzia europea per il farmaco (EMA) – quindi AstraZeneca, Pfizer/BioNTech, Moderna, Johnson & Johnson. Spetterà agli Stati membri decidere se accettare certificati di vaccinazione di vaccini diversi, rispettando le procedure nazionali di autorizzazione per i vaccini riconosciuti dall’Organizzazione mondiale della sanità per l’uso di emergenza.
Garanzie per la protezione dei dati
Di fronte a uno strumento che serve a facilitare e rendere più veloci i controlli di frontiera, la cosa più importante è impedire frodi e falsificazioni, garantendo l’autenticità dei sigilli elettronici inclusi nel documento e proteggendo i dati personali del possessore. Gli Stati membri non potranno archiviare i dati presenti nei certificati, né sarà istituita una banca dati centrale a livello dell’Ue. Il certificato Ue non dovrebbe essere falsificabile, ma senza adeguate banche dati potrebbe essere soggetto alla falsificazione di tamponi o certificati di vaccinazione. Il certificato covid dell’Ue non è esente da critiche, ma dovrebbe fornire agli Stati membri la regolamentazione comune – e gli strumenti per applicarla – sufficienti a impedire che la stagione del turismo estivo non sia deludente come quella dell’anno scorso, e consentire che dopo l’estate si ritorni a anche a viaggiare nelle città d’arte e e nel resto dell’Europa.
(da Open)
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Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile
“INFORMAZIONI FALLACI NELLA TRASMISSIONE ANNI VENTI”
«Sappiamo che è difficile comunicare le dinamiche politiche europee per la complessità istituzionale, ma preoccupa gravemente l’analfabetismo europeo del servizio pubblico e la mancanza di controllo sulle informazioni date al pubblico. La fallacia di gran parte delle informazioni contenute nel servizio in questione potevano facilmente e rapidamente essere controllate. E lo dovevano».
È quanto hanno scritto i rappresentanti Ue in Italia – il capo ufficio Pe Carlo Corazza e il capo della rappresentanza della Commissione Antonio Parenti – al direttore Rai, di Meo, per «esprimere rammarico per il contrappunto» di ‘Anni Venti’ su Rai2.
«Le deduzioni tratte nel servizio si basano su elementi falsi, tendenziosi, o totalmente travisati”, hanno scritto Corazza e Parenti, chiedendo un «tempestivo intervento soprattutto per evitare futuri scivoloni di questa portata, dovuti a carenza di precisione, che danneggiano prima di tutto i cittadini italiani. Sia ben chiaro che le istituzioni europee e le sue politiche possono e debbono essere criticate, e noi ci battiamo costantemente per assicurare la libertà di espressione dei giornalisti. Ma le critiche per essere utili, devono essere basate su fatti corretti. E’ di particolare importanza che questi elementi siano guida del servizio pubblico sempre, e in special modo quest’anno quando chiediamo ai cittadini di partecipare attivamente alla Conferenza sul futuro dell’Europa. Abbiamo bisogno di un loro contributo e crediamo che il ruolo della Rai sia fondamentale per assicurare che i cittadini siano correttamente informati», hanno scritto Corazza e Parenti nella missiva.
(da agenzie)
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Maggio 14th, 2021 Riccardo Fucile
SERVE LA RATIFICA DI TUTTI I PARLAMENTI UE, MANCANO ANCORA ANCHE UNGHERIA, POLONIA, AUSTRIA, ROMANIA E PAESI BASSI
L’ultima minaccia al Recovery Fund si chiama Cappuccetto Rosso e viene da Helsinki. Dall’inizio di questa settimana la confusione regna sovrana all’interno del Parlamento finlandese chiamato a ratificare il fondo di recupero Ue da 750 miliardi per contrastare il crollo economico causato dalla pandemia.
La discussione sarebbe dovuta terminare mercoledì ma l’ostruzionismo dell’opposizione, e in particolare della destra dei Veri Finlandesi, ha ritardato il dibattito: l’ultima sessione della plenaria si è dilungata per 20 ore di fila, iniziata mercoledì sera e terminata giovedì mattina.
Tra varie interruzioni, riunioni del Comitato di diritto costituzionale e proteste, sono stati ascoltati più di 150 interventi, portati avanti soprattutto dalla destra euroscettica.
I deputati del partito di opposizione Veri finlandesi, contrari ovviamente al Fondo Ue, hanno fatto ricorso a ostruzionismo e tecniche dilatorie, compresa la lettura di lunghi estratti dalle fiabe come Cappuccetto Rosso (come ha fatto il parlamentare Sheikki Laakso) e da testi di inni liturgici, come riferisce l’emittente “Yle”.
Il presidente del Parlamento, Anu Vehvilainen,ha annunciato la sospensione già ieri ma oggi altri contrasti sulle procedure parlamentari da seguire hanno di nuovo fatto slittare l’aula.
Gli equilibri parlamentari sono abbastanza precari. Per dare il via libera al Recovery in Finlandia servirà la maggioranza dei due terzi dell’aula, per motivi costituzionali. Le cinque forze politiche al Governo da sole non hanno i numeri (117 su 200) e si aspettano il contributo dei partiti di opposizione.
Sicuramente non ci sarà la disponibilità del Finns party, ma chi nei giorni scorsi ha aperto al Governo guidato dalla socialdemocratica Sanna Marin è il Partito di Coailzione Nazionale di centrodestra.
Dopo diversi negoziati sia con le forze di maggioranza sia soprattutto con funzionari e rappresentanti politici di Bruxelles, il leader del partito Petteri Orpol ha lasciato libertà di voto, consapevole tuttavia che all’interno del suo gruppo parlamentare ci sono molti favorevoli ma pure molti contrari al fondo Ue .
Dopo il via libera arrivato ieri da Estonia e Irlanda, sono al momento sei gli Stati che ancora devono ratificare la legge nazionale per far partire il Recovery.
Sono l’Austria, la Polonia, i Paesi Bassi, la Romania e l’Ungheria, oltre naturalmente alla Finlandia.
A loro ieri il Commissario Ue al Bilancio Johannes Hahn ha lanciato l’appello per “accelerare il processo per iniziare in tempo con l’attuazione di Next Generation Eu che fornirà i soldi tanto necessari per la ripresa dell’Europa”.
I timori maggiori arrivano però da Helsinki, non tanto per una mancata approvazione della legge che consentirà alla Commissione Europea di indebitarsi sui mercati per finanziare il fondo, quanto per una sua approvazione in ritardo.
Di tempo ne è rimasto poco: serve che il via libera da parte dei Parlamenti nazionali di tutti i Ventisette Paesi Ue arrivi entro fine maggio per non far slittare di un mese l’erogazione della prima tranche di sussidi ai Paesi che li aspettano con ansia, Italia in testa.
Pochi giorni fa la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha ricordato come tutto dipenda “dal mese in cui gli Stati ratificano, noi possiamo andare sui mercati il mese successivo. Se ratificano il 2 giugno, ad esempio, possiamo andare a luglio”.
Il Finns Party non pare intenzionato a desistere nel suo ostruzionismo anche per ragioni politiche dal momento che a breve, il 13 giugno, si terranno le elezioni comunali e il partito euroscettico, tra i favoriti, vuole capitalizzare il suo peso politico.
Ma che la situazione in Finlandia non sia da prendere sotto gamba lo dimostra anche l’inversione a U di due giorni fa del vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis. Parlando in audizione al Parlamento Europeo lunedì scorso, il commissario lettone ha condiviso la disponibilità del collega italiano Paolo Gentiloni ad aprire una riflessione, in futuro, per rendere il Recovery uno strumento permanente dell’Ue: ”È prematuro aprire un dibattito ora, ma più successo avremo nella sua implementazione, più spazio ci sarà per una discussione su uno strumento permanente di natura simile”, aveva detto Dombrovskis agli eurodeputati.
Parole che hanno fatto saltare sullo scranno buona parte dei parlamentari finlandesi che a fatica hanno digerito l’attuale strumento, nato per far fronte solo e soltanto alla pandemia. Non è un caso quindi che, nemmeno 24 ore dopo, il vicepresidente lettone della Commissione sia tornato sui suoi passi e lo abbia fatto ricorrendo alla lingua finlandese su twitter: “Per la Commissione europea è chiaro che il programma Next Generation EU è uno strumento una tantum, non ricorrente e strettamente limitato nel tempo” e rappresenta “la nostra occasione per riprenderci da questa crisi eccezionale”. Tweet subito rilanciato dall’account finlandese di Bruxelles.
(da agenzie)
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Maggio 14th, 2021 Riccardo Fucile
PER LEI DISINFORMAZIONE E’ SOLO “SERVIZIO SARCASTICO”
Ecco, fino a quando scambieremo le offese per battute e la disinformazione per sarcasmo, non potremo mai restituire la giusta dimensione alle vicende storiche che stanno attraversando l’Italia nell’ultimo periodo.
Vi abbiamo parlato già del servizio andato in onda nel corso della trasmissione Anni 20, che – utilizzando luoghi comuni e voli pindarici – gettava discredito sulle decisioni dell’Unione Europea.
Ora, Giorgia Meloni su Anni 20 intende intervenire nella polemica, schierandosi al fianco della trasmissione, nonostante sia stata la stessa Rai ad annunciare provvedimenti nei confronti di chi ha permesso la messa in onda di quel servizio.
Per Giorgia Meloni le critiche a questo servizio altro non sono che un tentativo di imporre la censura e il bavaglio. Come se ci volessero tutti portare in Corea del Nord.
In realtà, la questione è molto più profonda di come è stata impostata dalla leader di Fratelli d’Italia, che ha cercato di buttare la palla in tribuna parlando di «servizio sarcastico».
Cosa fa questo servizio? Informa? Se sì, lo fa nel modo corretto e documentato? La risposta a queste domande è no, visto che – come abbiamo spiegato nel nostro articolo – c’è tanta confusione e disinformazione, con tematiche complesse trattate con superficialità.
Stando a quanto riportato dall’Ansa, inoltre, Fabrizio Salini – amministratore delegato della Rai – sarebbe furioso con la trasmissione e starebbe pensando a prendere provvedimenti.
Non si discute di un pezzo di satira o di un’opinione personale: la satira e l’informazione corretta dovrebbero viaggiare su binari diversi e – soprattutto – nettamente separati.
Rettificare un servizio che contiene informazioni parziali o errate non può essere messo sullo stesso piano della censura alle opinioni.
(da Giornalettismo)
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Aprile 25th, 2021 Riccardo Fucile
SENZA RIFORME NIENTE SOLDI: QUANDO DRAGHI SI SFILERA’ NESSUNO FARA’ LE RIFORME NECESSARIE PERCHE’ L’ITALIA E’ IN BALIA DI UNA MANICA DI SCAPPATI DI CASA
“Garantisco io”. Io, Mario Draghi, l’ex presidente della Bce che nel 2012, con l’Europa in fiamme, ha assicurato che sarebbe stato fatto tutto il necessario (“whatever it takes”) per salvare l’euro.
Con la certezza preventiva che sarebbe stato sufficiente. E la storia gli ha dato ragione: la speculazione non ha travolto la moneta unica. Io, Mario Draghi, l’uomo che ha inventato il quantitive easing, cioè miliardi di titoli di Stato acquistati dalla Bce per immettere una valanga di miliardi nell’economia e abbassare lo spread dei Paesi più vulnerabili.
Lo stabilizzatore politico dell’Europa insieme ad Angela Merkel negli ultimi 15 anni. Nessuno avrebbe mai pensato che fosse necessario ricordarlo, se non in qualche sparuto convegno di anti europeisti incalliti.
E invece a dover rispolverare il peso politico di un curriculum eccezionale è stato Draghi. Al telefono, due volte, con Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea. Per salvare i soldi del Recovery che spettano all’Italia.
Quella di Draghi che chiama Bruxelles, nel mezzo di una trattativa tecnica sul testo del Recovery plan italiano lunga 48 ore, è l’immagine salvifica di un premier che si è speso in prima persona per portare a casa 221,5 miliardi.
Mai come questa volta c’è da chiedersi – e la risposta è ragionevolmente “un disastro” – cosa sarebbe successo se al posto di Draghi ci fosse stato un altro.
Perché se Draghi alla fine ha potuto incassare il disco verde dell’Ue è stato solo perché lui è Mario Draghi.
E quindi quando la trattativa con i tecnici della Commissione europea si è impallata sulla questione dei tempi delle riforme che accompagnano il Recovery, il premier ha detto a von der Leyen che ci avrebbe pensato lui a rimettere le cose in ordine.
La formula è la stessa che ha accompagnato il discorso del “whatever it takes” e cioè “credetemi, sarà sufficiente”.
Questa volta il messaggio politico è: credetemi, il piano italiano è in linea con lo spirito europeo del Recovery, non è il libro dei sogni, soprattutto assicura una discontinuità su quelle riforme che l’Italia ha sempre mal digerito e su cui la vecchia Europa, quella dell’austerità pre pandemia, a volte ha anche marciato, puntando sulla debolezza, anche politica, dell’Italia.
Draghi ha salvato il Recovery, il piano subirà qualche modifica sui tempi delle riforme, ma non sarà riscritto né tantomeno stravolto.
Ma in questa operazione di lifting esplode un’altra questione, l’altra faccia della medaglia delle due telefonate alla presidente della Commissione europea. Quel “garantisco io” contempla il fatto che Draghi ha dovuto ricordare chi è, soprattutto cosa è stato per l’Europa.
E l’ha dovuto fare, a volti con toni accesi, con quell’Europa che lui ha salvato e che lui, non solo da premier del Paese più colpito dalla pandemia, sta salvando nuovamente con la grande operazione del Recovery. Di più.
Lui che sta imponendo il suo ruolo di guida per un’Europa che a maggior ragione dopo il Covid dovrà farsi sempre più coesa, guardare sempre più agli Stati Uniti d’Europa e sempre meno alle diatribe tra falchi e colombe.
Lui che conta già oggi nella riscrittura delle regole europee e quindi nella definizione dei nuovi rapporti di forza tra i diversi Paesi (con il compito gravoso e aggiuntivo di riposizionare l’Italia del debito monstre).
È come un padre che assiste a un figlio che si fida più di un estraneo che di lui. Certo alla fine tutto si è risolto per il meglio perché nessuno in Europa pensa che sia solo ipotizzabile mettere in discussione una figura come quella di Draghi, ma la trattativa nervosa e spigolosa tra Roma e Bruxelles ha esposto il premier a una vulnerabilità inedita.
È la fatica di due giorni in cui i tecnici di palazzo Chigi e del Tesoro hanno dovuto spiegare e rispiegare perché la riforma del fisco era stata scritta in un modo e non in un altro, e via dicendo.
Il terreno si è fatto scivoloso quando invece tutti avevano ipotizzato che la missione al governo di Mario Draghi sarebbe stata lineare, senza intoppi, salvifica. Non scontata, vista anche la rissosità dei partiti, non facile vista la recrudescenza della pandemia.
Ma sul Recovery, il documento economico per eccellenza, nessuno nutriva dubbi sul fatto che tutto sarebbe filato liscio e al primo colpo. Insomma, se il tema lo scrive il primo della classe, l’imbarazzo non è dell’allievo ma del professore che si ritrova tra le mani l’ingrato compito del giudizio.
E invece il testo del Recovery cambierà. Matita blu, non rossa, ma pur sempre matita. Alla fine quel che conta è la garanzia di Draghi, il fatto che i 221,5 miliardi sono salvi. Ma la fatica e il fatto che il Recovery è stato confezionato con Bruxelles, passo dopo passo, non scritto a Roma in autonomia, sono elementi che destabilizzano.
Non oggi che c’è Draghi, ma negli anni a venire. I soldi del Recovery arriveranno pian piano, fino al 2026, e solo se si faranno le riforme.
Draghi ha assicurato che ci penserà lui a farle e farle veramente, ma tutte le riforme – a iniziare dal fisco – sono legate a una sfilza di decreti, a leggi delega, insomma al lavoro anche del Parlamento. Il che in una democrazia parlamentare è un elemento di pregio, ma per come sono andate le cose in Italia negli ultimi anni c’è più di una ragione per nutrire più di un dubbio e più di un timore.
Chi garantirà e chi salverà l’Italia?
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 14th, 2021 Riccardo Fucile
L’UE SI AFFIDA AI VACCINI MRNA: 50 MILIONI DI DOSI AGGIUNTIVE SUBITO, 1,8 MILIARDI NEL PROSSIMO BIENNIO… E L’AZIENDA ALZA I PREZZI
“Voglio ringraziare Biontech-Pfizer: si è dimostrata un partner affidabile. Ha rispettato gli impegni e risponde ai nostri bisogni. Questo va a immediato beneficio dei cittadini Ue”. Ursula von der Leyen parla con più di un respiro di sollievo.
Dopo gli ‘stop and go’ su Astrazeneca che ora interessano anche Johnson&Johnson sospeso negli Usa e di conseguenza in Ue (verdetto dell’Ema la prossima settimana), mentre ancora tarda ad arrivare una spiegazione dall’azienda anglo-svedese sui tagli alle forniture di vaccini, ora Bruxelles sembra aver individuato la strada per il futuro della lotta alla pandemia.
Un solo nome: Biontech-Pfizer, la prima azienda ad aver annunciato a fine 2020 di aver trovato il vaccino contro il covid. La casa americana, gemellata con i tedeschi, si è impegnata ad anticipare la consegna di “50 milioni di fiale a partire da aprile”, annuncia la presidente della Commissione Europea, di cui 6,75 milioni arriveranno in Italia.
Non solo. Von der Leyen ufficializza quanto anticipato da Huffpost venerdì scorso: la Commissione europea ha avviato le trattative con Pfizer per la fornitura di 1,8 miliardi di dosi dal 2021 al 2023. Anche se a un prezzo più alto: da 12 euro a 19,5 euro a fiala.
Andiamo con ordine. L’arrivo di 50 milioni di dosi Pfizer in più già da aprile (avrebbero dovuto essere consegnate nel quarto trimestre 2021) potrebbe compensare i 55 milioni che Johnson&Johnson si era impegnato a fornire per il secondo trimestre, la cui distribuzione potrebbe risentire del blocco deciso negli Usa e adottato anche in Europa, per via dell’indagine in corso su 6 reazioni avverse. Oppure, se il verdetto finale su J&J sarà positivo, le nuove fiale di Pfizer potrebbero essere aggiuntive. Ad ogni modo, “nel secondo trimestre Pfizer consegnerà 250 milioni di dosi – dice la presidente della Commissione – Verranno distribuite pro-quota in rapporto alla popolazione a tutti gli Stati membri”. All’Italia ne dovrebbero spettare 6,75 milioni. La cosa certa è che per l’Ue si tratta di una buona notizia, vista l’affidabilità dell’azienda nelle consegne (anche J&J ha rallentato le forniture). Ma c’è di più.
Con l’annuncio di un terzo contratto con la casa tedesco-americana – “mi auguro si concluda rapidamente”, auspica von der Leyen – l’Ue ha praticamente deciso di affidarsi quasi totalmente a Pfizer. La nuova partita di 1,8 miliardi di fiale (900 milioni + altri 900 milioni opzionali) porta il totale delle forniture di questo vaccino a ‘Rna messaggero’ a 2,4 miliardi (600 milioni sono stati acquistati con i primi due contratti firmati dalla Commissione Ue, sempre a nome degli Stati membri), cui vanno sommati gli altri 2 miliardi di dosi che Bruxelles ha impegnato con Moderna (460 milioni), Curevac (405 milioni), Astrazeneca (400 milioni), Johnson&Johnson (400 milioni), Sanofi (300 milioni).
Insomma, da qui al 2023, l’Ue potrebbe avere un ‘portfolio’ di 4,4 miliardi di fiale anti-covid. Ma anche a voler considerare solo i 2,4 miliardi di Pfizer, la più affidabile nelle consegne e con la maggiore capacità produttiva anche rispetto alla concorrente Moderna che pure produce un vaccino a ‘Rna messaggero’ (Curevac non è ancora in distribuzione in Ue), si tratta di un quantitativo ben superiore alla popolazione europea, che conta circa 750 milioni di abitanti. Il punto è che la strategia europea mette nel conto più vaccinazioni per abitante nei prossimi anni, per via delle varianti del virus.
Per combattere la pandemia di Covid-19, probabilmente ad un certo punto all’Ue serviranno “richiami” per rafforzare la protezione dei vaccinati, spiega von der Leyen. E, se si svilupperanno “varianti resistenti” ai vaccini, “dovremo sviluppare vaccini adattati alle nuove varianti, presto e in quantità sufficienti. Tenendo questo a mente, dobbiamo focalizzarci sulle tecnologie che hanno dimostrato il loro valore: i vaccini a ‘Rna messaggero’ sono un caso chiaro”.
Dunque, Pfizer regna quasi incontrastata nella guerra al covid. Tanto che per questo nuovo terzo contratto con l’Ue, l’azienda americana e tedesca ha alzato il prezzo. Bruxelles pagherà 19,5 euro a dose, invece che 12 euro come nel precedente impegno di spesa. Malgrado i costi delle fiale siano ‘clausola top secret’ dei contratti sottoscritti con Big Pharma, l’aumento è stato spifferato ai media dal premier bulgaro Boyko Borissov. ‘Pfizer regina’ e anche la più costosa tra le aziende produttrici di vaccini. Secondo quanto trapelato a inizio anno, l’Ue spende circa 14,7 euro a dose per Moderna, 10 euro per Curevac, 7,56 euro per Sanofi/Gsk, 8,5 dollari a dose per Johnson & Johnson, Oxford/AstraZeneca è il più economico con 1,78 euro a fiala.
Il primato di Pfizer tra le aziende fornitrici dell’Ue dovrebbe anche limitare i giochi di quei paesi che finora hanno puntato su vaccini più economici, tipo Astrazeneca, ritrovandosi poi particolarmente in difficoltà quando l’azienda anglo-svedese ha tagliato le forniture (da 120 milioni pattuiti a soli 30 milioni di fiale nel primo trimestre 2021). È il caso dell’Austria che, all’ultimo Consiglio Europeo di fine marzo, ha contestato il meccanismo di ripartizione delle dosi in Ue, benché Bruxelles non ne avesse alcuna responsabilità.
Ma ora il cancelliere di Vienna Sebastian Kurz sembra soddisfatto. “L’Austria riceve circa 1 milione di dosi aggiuntive di vaccino dall’Ue – twitta – Le dosi di vaccinazione aggiuntive annunciate da Biontech / Pfizer consentono di accelerare ulteriormente il programma di vaccinazione e di vaccinare altre 500.000 persone nel secondo trimestre”.
Come dire: il primo Pfizer non si scorda mai. Nel frattempo, gli altri vaccini sembrano evaporare. Astrazeneca, per dire, è avvolta nella nube della cattiva sorte da quando ha tagliato le forniture, finendo sotto accusa per l’esportazione in Gran Bretagna delle dosi destinate all’Ue. E ora, per fare una battuta, sembra che al solo nominarla, ci si senta male.
È successo alla direttrice dell’Agenzia del farmaco danese, Tanja Erichsen, svenuta in diretta tv mentre annunciava lo stop definitivo al vaccino di Oxford in Danimarca. Sta meglio, l’hanno portata al pronto soccorso per accertamenti.
(da Huffingtonpost)
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