Giugno 14th, 2016 Riccardo Fucile
DAI CANCELLI DI MIRAFIORI A CASA AGNELLI
«Piero, cambia faccia!». Al termine del primo confronto televisivo il caloroso invito non gli è arrivato solo dai suoi collaboratori, ma anche da sua moglie.
La presenza della ex deputata Anna Serafini, che salutava uno a uno i giornalisti nello studio di Sky, era un’altra prova del fatto che il momento è delicato.
L’atteggiamento, il linguaggio del corpo mostrato da Piero Fassino in questa volata verso il ballottaggio, è uno degli argomenti più dibattuti, nel suo campo e in quello avversario.
Sembra quasi che non riesca ad accettare di essere messo in discussione, contestato addirittura, da un avversario inedito. «Ne ho una sola, ed è questa», ribatteva arrabbiato agli strateghi elettorali. «E non intendo cambiarla adesso, non ne sono capace»
Sulla faccia dell’attuale sindaco, figlio della Torino antifascista e operaia, progressista e moderata, c’è un bel pezzo di Novecento.
Nessuno più di lui nella politica di oggi è intriso dei fatti e dei valori del secolo scorso. «Le questioni sono tre».
L’altro giorno, guardando il faccia a faccia in onda su Sky in una sezione di Borgo San Paolo, un tempo quartiere operaio, i vecchi compagni si davano di gomito ogni volta che ripeteva questo intercalare, che al pari di «è una priorità », altro suo tormentone, viene dritto dalla scuola di partito, dai «manuali di dibattito nelle assemblee di fabbrica» che venivano redatti in quella Trofarello, un borgo appena fuori Torino, che stava al Piemonte come le Frattocchie al resto del Pci.
Il nonno paterno si chiamava Piero, era socialista e venne bastonato a morte dai fascisti per non aver rivelato dove si trovava il figlio Eugenio, detto Geni, capo partigiano.
I Fassino erano ricchi di famiglia, carburanti e pompe di benzina. Benestante e comunista, in odor di sacrestia, con l’iscrizione al Pci che arriva a vent’anni dopo il collegio dai gesuiti. Da una chiesa all’altra.
Nel suo ufficio c’è una sola foto che gli ricorda quel che è stato.
Un giovane Fassino che accompagna Enrico Berlinguer ai cancelli della Fiat, nel fatidico 1980 dei 35 giorni e della marcia dei quarantamila.
«Pronto? Sono Cesare Annibaldi della Fiat, l’Avvocato vorrebbe conoscerla…».
A trentadue anni diventa il primo comunista a entrare in casa Agnelli. La sua fama di pontiere nasce presto. È il comunista che piace alla grande industria, che tiene i rapporti con il Psi vagheggiando una nuova stagione unitaria, che mette pace tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni, organizzando un loro incontro a due proprio con l’Avvocato.
Cucire, traghettare, come ha fatto con i Ds, ultimo segretario prima dell’approdo al Partito democratico.
Ne ha viste tante, Piero Fassino, l’ex responsabile fabbriche del Pci torinese negli anni bui, uno dei primi a dire che le Brigate rosse giocavano «nella nostra metà campo». Anche per questo, e per una immutabile dedizione al lavoro, i vecchi militanti gliene hanno perdonate altrettante.
Dal «mi sono iscritto al Pci per combattere il comunismo» contenuto nella sua autobiografia fino alla conversione al renzismo, parecchio lontano dalla sua formazione culturale.
Ma non aveva mai visto una sfida di questo genere, portata nella città dove è cresciuto da un movimento nato e cresciuto nel nuovo secolo, che utilizza strumenti moderni e a lui ostici come la Rete, che non gli riconosce alcuna autorità morale, anzi.
Cambiare faccia. Come se fosse facile, con tutta questa vita, con tutto questo passato.
Marco Imarisio
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 29th, 2015 Riccardo Fucile
IL COMPAGNO GRISSINO: IL BERLINGUERIANO CHE AMA I CONDANNATI
Il minimo che si dovrebbe fare, prima di lanciare la candidatura di Tizio o Caio alla più alta carica dello Stato, è informarsi bene sul suo curriculum, i suoi trascorsi e quelli della sua famiglia, onde evitare di ritrovarsi un presidente imbarazzante, o addirittura ricattabile, per i più svariati motivi.
Non solo penali, ma anche morali, politici o semplicemente di inopportunità .
La logica che invece sembra ispirare il caravanserraglio delle consultazioni e delle candidature usa e getta di questi giorni è esattamente quella opposta: non si butta via niente.
Di Amato abbiamo già detto tutto: il fatto che continui a essere tra i favoriti la dice lunga sulla scriteriata superficialità dei politici che contano e che la memoria storica o non ce l’hanno o l’hanno azzerata con un clic sul Reset.
Per la Finocchiaro, a parte tutto il resto, dovrebbe bastare il marito sotto processo per truffa e abuso d’ufficio.
Del giudice costituzionale Sergio Mattarella abbiamo ricordato la fama di persona perbene (come quella del fratello Piersanti, assassinato da Cosa Nostra) e l’assoluzione per finanziamento illecito, ma anche la confessione di aver accettato un contributo elettorale da Filippo Salamone, universalmente noto in Sicilia come il costruttore di Cosa Nostra.
Siccome poi, per il capo dello Stato,conta anche la reputazione della famiglia (ne sa qualcosa la buonanima di Leone), non si possono dimenticare le ombre sul defunto padre Bernardo, ras della Dc siciliana nel Dopoguerra; e neppure quelle più recenti che hanno coinvolto il fratello Antonino, indagato negli anni 90 a Venezia per riciclaggio di denaro sporco e associazione mafiosa col cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti, per una speculazione su una decina di alberghi a Cortina: inchiesta poi archiviata nel 1996 per mancanza di prove sulla provenienza illecita del denaro, con coda di polemiche anche in Parlamento.
Completano il quadretto famigliare il nipote Bernardo, figlio di Piersanti, deputato regionale in Sicilia, ora indagato per peculato sui rimborsi regionali; e il figlio di Sergio, Bernardo Giorgio, allievo di Sabino Cassese, docente di Diritto amministrativo a Siena e alla Luiss nonchè capo dell’ufficio legislativo della Funzione pubblica al ministero della PA, accanto a Marianna Madia: il suo compenso di 125 mila euro l’anno ha sollevato qualche malignità .
La sindrome della memoria corta contagia anche i 5Stelle, che presentano una serie di candidati di prim’ordine alle Quirinarie. Ma portano in palmo di mano Ferdinando Imposimato. Che, per carità , è una persona simpatica e onesta, un ex giudice valoroso, un ex parlamentare Pci-Pds molto vicino anche al Psi, ma anche protagonista di incredibili attacchi contro il pool di Milano ogni volta che metteva le mani su qualche ladro socialista.
Quando Borrelli, il 30-4-1993, annunciò il conflitto d’attribuzioni contro la Camera che aveva negato l’autorizzazione a procedere su Craxi, Imposimato disse che non poteva farlo e tuonò: “Borrelli continui a fare il magistrato, non faccia politica, non interferisca sulla volontà del Parlamento”.
Nel ’96, tornato in Cassazione, difese il pm romano Ciccio Misiani che dava consigli a Renato Squillante poco prima dell’arresto di quest’ultimo (era sul libro paga di Previti): “Ho apprezzato molto Misiani, anch’io avrei dato quei consigli a Squillante, un uomo dal quale ho imparato molto” (Corriere, 14-3-1996).
E nove giorni dopo, non contento, si fece intervistare dal Giornale per chiedere la scarcerazione di Squillante e accusò il pm di violare la legge sulla custodia cautelare: “Di questo passo la gente penserà che le inchieste abbiano scopi politici”.
L’11-7 aggiunse: “Le cose fatte da Di Pietro meritavano il trasferimento per incompatibilità ambientale, ma c’era timore reverenziale verso tutto il pool”.
Poi si ricandidò con gli ex craxiani dello Sdi.
Ma che ci azzecca Imposimato con i 5Stelle e il Quirinale?
A proposito di amnesie selettive, si parla persino di Fassino: 66 anni, deputato per 5 legislature, dirigente del Pci-Pds-Ds, fu sottosegretario agli Esteri nel governo Prodi-1, ministro del Commercio estero nel governo D’Alema e della Giustizia nel governo Amato-2, quando abolisce di fatto i pentiti di mafia e propone la depenalizzazione di tutti i reati finanziari.
Roba che non era venuta in mente nemmeno a B.
Nel 2001 è candidato a vicepremier di Rutelli, tanto vince B.
Lui, per premio, diventa segretario Ds. Fino al 2007, quando nasce il Pd. Non è mai stato indagato, ma il suo nome è comparso spesso in atti giudiziari, anche piuttosto imbarazzanti.
La prima volta nel ’93: il presidente di Euromercato Carlo Orlandini racconta ai pm di Torino di aver incontrato nel 1989 Fassino, allora segretario provinciale del Pds, per parlare del progetto dell’ipermercato Le Gru di Grugliasco (poi finito in uno scandalo di mazzette rosse); e, subito dopo l’interrogatorio, inviò un fax a Fassino per rivelargli quel che aveva dichiarato ai magistrati.
Che bisogno aveva di spedire quel fax, violando il segreto investigativo? E che c’entrava Fassino con un centro commerciale? Mistero.
Nel 2005 l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio racconta al pm Francesco Greco: “A fine 2004-inizio 2005 sono venuti da me Fassino e Bersani a chiedere se si poteva fare una grande fusione Unipol-Bnl-Montepaschi. Io li ho ascoltati”.
A che titolo il segretario Ds si occupava di fusioni bancarie? Mistero.
Nell’estate 2005, il Compagno Grissino (come lo chiamano a Torino) ci ricasca. L’Unipol di Giovanni Consorte, la compagnia assicurativa delle coop rosse, si svena per scalare la Bnl.
Giornalisti, imprenditori e politici della sinistra segnalano i rischi dell’operazione e l’impresentabilità dei compagni di avventura: il banchiere Fiorani, gli immobiliaristi Ricucci e Coppola.
Ma Fassino li difende a spada tratta: “Considero incomprensibile la puzza sotto il naso che li circonda. Bisogna solo capire se un imprenditore fa bene o meno il suo mestiere” (22-6-2005).
“È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia, quanto operare nel mondo finanziario o immobiliare” (7-7-2005).
Quando le telefonate di Fassino, intercettate sulle utenze di Consorte, diventano pubbliche, il conflitto d’interessi tra Unipol e i vertici Ds dà un duro colpo alla credibilità del partito.
Senza contare la figuraccia del segretario tenuto all’oscuro fino all’ultimo momento da Consorte & C., convinti che sia meglio non informarlo perchè “tanto non capisce un cazzo”.
Solo il 18 luglio, vigilia dell’Opa taroccata, Consorte gli svela i retroscena della cordata occulta che rastrella azioni Bnl in barba al mercato e alla legge. Fassino, anzichè fargli notare la scorrettezza dell’operazione, prende appunti ed esulta: “Allora, siamo padroni della banca?… Portiamo a casa tutto… Bravo, bene, congratulazioni, bravo bravo, auguri!”.
La telefonata uscirà il 2 gennaio 2006 sul Giornale di B. e costerà all’Unione di Prodi diversi punti alle elezioni, portando al sostanziale pareggio.
A che titolo il leader Ds sponsorizzava scalate bancario-assicurative? Mistero.
Lui, anzichè spiegare, grida al complotto contro la sinistra e le coop. Denuncia la fuga di notizie, per cui B. sarà condannato in primo grado e prescritto in appello (anche a risarcire subito Fassino con 80 mila euro, che però il buon Piero non ha mai chiesto: non si sa mai…).
E soprattutto si proclama “fedele alla lezione che ci ha lasciato Enrico Berlinguer”. Strano, perchè due anni dopo riabilita Craxi come padre della “sinistra riformista” e addirittura lo issa nel “Pantheon del Pd con De Martino, Lombardi, Pertini e Nenni”. Nel 2011 si candida a sindaco di Torino.
E chi sceglie come coordinatore della sua campagna? Un compagno pregiudicato: Giancarlo Quagliotti. Che, dopo la sua elezione, diventa il suo braccio destro.
Nel 1983 Quagliotti è capogruppo al Comune e viene coinvolto negli scandali Zampini e “semafori intelligenti” (sarà poi prosciolto).
Nel ’93 è di nuovo indagato per una tangente di 260 milioni di lire dalla Fiat al Pds. E stavolta viene condannato in via definitiva a 6 mesi per finanziamento illecito con il suo sodale Primo Greganti.
La mazzetta riguarda l’appalto per il depuratore del consorzio Po-Sangone: è stata versata su due conti cifrati a Lugano, “Idea” e “Sorgente”, aperti rispettivamente da Quagliotti e Greganti.
Quelle vecchie mazzette rosse tornano d’attualità nel 2014, quando nel frattempo Fassino è trasvolato dalla Ditta al fronte renziano.
A Milano viene riarrestato Greganti per le tangenti Expo. Uno degli imprenditori pagatori è Giandomenico Maltauro, anche lui arrestato, che dichiara a verbale: “Greganti si consultava con Bersani e Fassino”.
Bersani smentisce di aver “mai in vita mia incontrato o parlato con Greganti”. Fassino invece smentisce ciò che Maltauro non ha mai detto (“in vita mia non mi sono mai occupato di appalti”), ma non ciò che ha detto sui presunti referenti del Compagno G. Il quale, nel Pd torinese dei fassinian-renziani, ha riottenuto la tessera del partito nonostante le due condanne definitive per Tangentopoli.
Pochi mesi dopo, scandalo del Mose a Venezia. Viene arrestato il sindaco pd Luigi Orsoni e Fassino mette subito la mano sul fuoco: “Chi lo conosce non può dubitare della sua onestà e correttezza. I magistrati appurino presto la sua innocenza per consentirgli di tornare sindaco”.
Poi Orsoni confessa e si dimette.
La scena si ripete con Vasco Errani, condannato in appello per falso, e per Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per abuso.
Fassino li difende entrambi, diventando il santo protettore dei pidini condannati.
Nei secoli “fedele alla lezione di Berlinguer”, ci mancherebbe.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
NEI PIANI DI RENZI, IL PATRIMONIO DOVREBBE SERVIRE A GARANZIA DELLE BANCHE, IN MODO DA COPRIRE I PRESTITI PER IL PARTITO
Ora che Matteo Renzi ha i voti e il controllo pieno sul Partito democratico gli manca solo una cosa: il patrimonio.
Quando è nato il Pd, nel 2007, il grosso dei beni (e dei debiti) sono rimasti alle formazioni che lo avevano fondato, cioè Democratici di Sinistra e Margherita.
Dei post-democristiani abbiamo saputo molto, di come i soldi dei rimborsi elettorali andavano a finanziare singoli dirigenti, il tesoriere Luigi Lusi è è finito in carcere.
I Ds erano ricchi e indebitati, lo storico tesoriere Ugo Sposetti e il presidente Piero Fassino hanno costruito un muro giuridico che ha tenuto il ricco patrimonio (eredità comunista) lontano dal Pd.
Perchè non si sa mai, meglio evitare di mettere in comune i beni in un matrimonio con durata incerta.
In questi anni Sposetti ha amministrato quel tesoro di oltre 2mila immobili (circolano anche leggende su azioni, obbligazioni e opere d’arte di cui si sono perse le tracce, valore da mezzo miliardo di euro) come se il Pd attuale non avesse alcun diritto a toccarlo.
Ma adesso qualcosa è cambiato
I segnali sono due: Renzi che dichiara di voler rilanciare il marchio delle Feste de l’Unità e la nomina a presidente di Matteo Orfini, esponente di una mai rottamata (per resistenze e convenienze reciproche) cultura diessina nel partito.
Dopo aver conquistato ed esposto in assemblea il 40,8 per cento, Renzi pare avere forza per fondere davvero le due anime democratiche.
E mettere le mani sulla cassa. L’attuale tesoriere Francesco Bonifazi ne avrebbe molto bisogno, avendo appena chiuso un bilancio con un rosso di oltre 10 milioni e parecchi dipendenti in cassa integrazione.
L’irriducibile Sposetti oppone resistenza: “So che puntano a questo, conosco le idee di Fassino, se vogliono discutere io sono pronto, ma devono ricordarsi che mi hanno lasciato una montagna di guai quando è nato il Pd”, dice al Fatto.
Ma l’altro erede legale dei Ds, l’ultimo segretario Piero Fassino, è uno dei maggiori sostenitori di Renzi (il premier è anche tentato di indicarlo come commissario europeo). E quindi in queste settimane è stato raggiunto un accordo, ancora segreto, tra il sindaco di Torino e il segretario del partito: gli immobili che furono dei Ds devono entrare nella disponibilità almeno formale del Pd che ha bisogno di usarli come garanzia per ottenere credito dalle banche (prestare soldi ai politici, in un’epoca di rimborsi elettorali in calo, è sempre meno allettante).
Contattato dal Fatto, il sindaco torinese non ha risposto.
Non è facile ma neppure impossibile: gli oltre 2mila immobili sono stati sparpagliati sul territorio, affidati a fondazioni locali imbottite di politici di un’altra epoca, spesso nominati a vita, che su carta tutelano la memoria storica del Pci e nei fatti tengono il suo patrimonio al riparo dai creditori (il metodo Sposetti è perfetto: i debiti in capo ai Ds nazionali e i beni affidati alle federazioni locali).
Fassino, Renzi e Bonifazi hanno una via abbastanza semplice: rifare il trucco di Sposetti in senso inverso.
Accorpare le fondazioni locali in un unico ente che poi possa, in qualche modo, mettere gli immobili nella disponibilità del Pd così da rassicurare le banche creditrici. Un’operazione complessa, ma l’intenzione politica non manca.
Complessa perchè i vecchi creditori tornerebbero alla carica.
A ottobre, per esempio, dovrebbe esserci il nuovo confronto tra presidenza del Consiglio e banche creditrici della vecchia Unità .
La storia è ingarbugliata: il quotidiano di partito, prima della liquidazione, era pieno di debiti.
Nel 1999 una provvidenziale norma del governo D’Alema (guidato, guarda caso, da un ex direttore dell’Unità ) istituisce una parziale garanzia pubblica su quel debito. Risultato: oggi c’è un contenzioso tra le banche creditrici (che vantano spettanze per quasi 200 milioni di euro) e palazzo Chigi.
“Abbiamo ottenuto tre decreti ingiuntivi dal tribunale di Roma, poi ovviamente l’avvocatura di Stato si è opposta”, spiega l’avvocato Girolamo Bongiorno che rappresenta il gruppo di banche. Se ne riparla a ottobre.
Ma nel frattempo potrebbe verificarsi una situazione paradossale: se Renzi riesce a mettere le mani sul patrimonio dei Ds, la presidenza del Consiglio potrà opporsi alle banche con maggiore efficacia suggerendo di rivalersi sugli immobili riemersi dalle nebbie locali.
Viceversa, il premier può cedere agli istituti di credito saldando i debiti pregressi — almeno in parte — con le fideiussioni a spese del contribuente italiano, lasciando intonsa la ricchezza del partito.
Renzi sta facendo leva sull’inchiesta Mose per dare il colpo definitivo all’intreccio tra imprese, coop rosse e lato sinistro del partito.
Grazie al lavoro dei pm, il segretario democratico ha la strada spianata e può puntare anche al tesoro degli ex comunisti, visto che i più autorevoli custodi di quella tradizione sono decaduti o nei guai con la giustizia.
Resta solo un ultimo reduce a difendere la trincea: Ugo Sposetti, col suo baffo sovietico.
E non è un ostacolo da poco.
Stefano Feltri e Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 7th, 2014 Riccardo Fucile
QUANDO MOSTRARE IL DITO MEDIO NON E’ INSULTANTE MA HA QUALCOSA DI GHANDIANO
Qualcuno salvi Piero Fassino da se stesso.
Forse affascinato all’idea di entrare pure lui nel nutritissimo club degli sfollatori di consenso Pd, fianco a fianco alle Picierno e De Micheli, ha così preso a cuore tale intento da sbagliare tutto con precisione chirurgica.
Sinora Fassino era ricordato per tre motivi: i tic facciali che ne tradiscono l’eterna fibrillazione, il sogno diversamente bolscevico di avere una banca e la particolarissima composizione del sangue (“Fassino ha un globulo rosso solo che va su e giù lungo tutto il corpo, quando ha un’erezione sviene”: la battuta è di Beppe Grillo).
Nei giorni scorsi, il sindaco di Torino ha aggiunto al palmares un dito medio sbarazzino mostrato ai contestatori, come un Gasparri o Santanchè qualsiasi.
A differenza loro, Fassino ha inizialmente negato l’evidenza: “Dicono che ho fatto un gestaccio? Ma figuriamoci” .
Già qui, credendo che nessuno avesse fotografato o filmato la scena, Fassino ha dimostrato quella sua capacità prodigiosa di vivere il proprio tempo intuendone i cambiamenti, la stessa capacità che nel luglio 2009 lo portò a minimizzare l’eventuale peso politico del non ancora nato M5S: “Grillo vuole fare politica? Fondi un partito, metta in piedi un’organizzazione, si presenti alle elezioni, vediamo quanti voti prende, perchè non lo fa?”.
Fassino è così: se una cosa accade, lui la avverte col fuso orario delle Galapagos.
Partecipa alla storia collegato via satellite, e il satellite ha gli stessi tempi di reazione di una Duna in salita.
Ovviamente i filmati del “gestaccio” hanno invaso il web ed è stato proprio M5S a cavalcare la notizia.
Fassino avrebbe potuto chiedere scusa subito, ma è ancora convinto che una bugia mal detta possa negare l’evidenza persino in tempi di smartphone e wi-fi.
Non pochi lo hanno difeso, tipo Chiamparino: “Il problema non sono le bugie di Fassino, ma il comportamento degli ultras”.
Anche Massimo Gramellini, pur condannando le bugie puerili, gli ha concesso un alibi: “Forse solo un monaco zen avrebbe diritto di fargli la morale: sfido chiunque a rimanere impassibile mentre ti insultano il parentado stretto”.
Frase condivisibile se a ricevere gli insulti è una persona qualsiasi, non un politico navigato.
La contestazione è una costante: se non sai gestire un po’ di tensione, provocata peraltro da “non più di una decina di persone” come ha ammesso il diretto interessato, hai sbagliato mestiere.
E in effetti, osservando la carriera di Fassino, qualche dubbio viene. Non ancora soddisfatto della quantità di errori già sciorinati, ieri Fassino ha rilasciato a La Stampa un’intervista semplicemente lisergica.
Di nuovo aveva la possibilità di scusarsi e basta, senza cercare altri specchi a cui aggrapparsi goffamente. Macchè.
Quando gli hanno chiesto perchè avesse inizialmente mentito, Fassino ha risposto così: “Ieri, a chi mi chiedeva dell’accaduto, ho solo negato la rappresentazione di un gesto di offesa nei confronti dei tifosi granata verso i quali non ho fatto alcunchè”.
Provando a tradurre in italiano una tale tapioca prematurata, si evince che per Fassino il dito medio non è “la rappresentazione di un gesto di offesa” bensì “un gesto figlio di un clima convulso e concitato”.
Il dito medio, dunque, non solo non è insultante ma ha anzi qualcosa di gandhiano: “(Era) un gesto per dire: ‘Va bene, ma basta, così’. È questo il senso di quella mano alzata (..) Quel gesto era per dire ‘basta!’, “lasciatemi in pace!’. Questo era il senso”.
Ricostruzione inattaccabile: chi, in effetti, non mostra il dito medio quando desidera essere lasciato in pace?
È un po’ un esperanto universale. Fa così anche Obama quando Michelle gli chiede con insistenza se gradisce o meno un muffin; lui la guarda, le mostra il dito medio e lei, rapita, rifila il muffin al cane.
Fassino, nell’intervista, si è definito “aggredito” e non certo “aggressore”. A suo modo ha ragione.
Fassino è stato effettivamente aggredito, ma non dai tifosi: da se stesso, e dalla mancata percezione del senso del ridicolo.
Per non fare altri danni, dovrebbe come minimo osservare un mese di silenzio. Meglio ancora sarebbe uscire definitivamente allo scoperto e gridare: “Sono juventino e il Torino mi sta un po’ sulle palle. L’autocontrollo non è mai stato il mio forte, chi mi conosce lo sa, e non permetto a nessuno di insultare i miei cari”.
Chissà se un giorno ci arriverà perfino Fassino: errore per errore, molto meglio la nevrastenia sincera del politichese fantozziano.
Andrea Scanzi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
IL CASO DELLA DIRIGENTE COMUNALE CHE AVREBBE CONCESSO INCARICHI PUBBLICI SENZA APPALTO ALLA SOCIETA’ DEL FIGLIO
Lo scandalo di «parentopoli» è scoppiato anche a Torino.
Nel giorno in cui avrebbe voluto festeggiare la sua nomina a presidente dell’Anci regionale, il primo cittadino Piero Fassino ha chiesto di intervenire in Sala rossa.
In molti, in consiglio, mettono le mani avanti: «Chi ha sbagliato faccia un passo indietro».
Il caso è scoppiato la scorsa settimana, quando, su pressione del Movimento 5 stelle, un cd con tutti gli affidamenti diretti assegnati dall’amministrazione a società private dal 2006 al 2011 è finito nelle mani dei consiglieri comunali.
INCARICHI COMUNALI AL FIGLIO
L’imbarazzo del sindaco riguarda Anna Martina. Una signora di 61 anni che fa la direttrice delle relazioni internazionali del Comune, «senza mai aver vinto un concorso pubblico per questo», denuncia il Movimento 5 stelle.
E che per anni è stata capo del settore comunicazione strategia, turismo e promozione della città , oltre che di tutta la divisione cultura, sotto la guida dell’ex sindaco Sergio Chiamparino.
Anna Martina ha affidato quasi 50mila euro di lavori alla Punto Rec Studio.
Senza gare, sulla fiducia.
La società , però, è detenuta per quasi il 50 per cento dal figlio Marco Barberis.
Si tratta di sei decisioni prese dall’amministrazione comunale per la «scelta di materiali audiovisivi finalizzati alle attività culturali e di promozione della città ». Marco, che è figlio di Walter Barberis, curatore della mostra Fare gli italiani alle Ogr di Torino, uno degli eventi per cui la Martina ha lavorato per conto della città , ha goduto, in particolare, di alcune migliaia di euro durante le celebrazioni di Italia 150, nel 2011.
In quell’anno Marco Barberis si è sposato con una delle più strette collaboratrici della Martina, Silvia Bertetto.
Una ragazza che prima lavorava presso lo studio Mailander – una delle agenzie che compare più volte nel cd degli appalti, scelta in più di un’occasione dalla Martina per lavori di comunicazione — e che in seguito ha trovato lavoro a Turismo Torino, l’agenzia di promozione della Città .
Proprio a fianco della nuora. Non solo.
FESTIVAL DEL JAZZ
Un video che circola su Youtube mostra il volto sorridente del figlio della Martina durante il festival del Jazz del 2012, che si è svolto a Torino tra aprile e maggio. Intervistato, racconta di lavorare per conto del Comune per fare un «cd ricordo» della manifestazione.
Per quell’evento la Città spese quasi un milione di euro.
Dal 27 aprile al Primo maggio del 2012. Una spesa che costò al sindaco insulti e contestazioni che degenerarono in scontri con la polizia proprio durante il corteo della Festa dei lavoratori. «Fassino, pensi solo al Festival del Jazz e noi non abbiamo lavoro» gli gridavano gli operai in cassa integrazione.
Anche l’assessore a cultura e turismo, Maurizio Braccialarghe, è finito nella bufera. Dalla sua nomina in giunta l’opposizione gli contesta di non aver lasciato il suo posto di dirigente in Rai.
A diventare oggetto di scandalo nei scorsi giorni sono state due determine per un totale di 38.634 euro, che, sempre per promuovere il Festival del Jazz, vennero affidati alla società della Rai per degli spot di promozione radiofonici.
CD DEGLI SCANDALI
«Non avevamo scelta, la Sipra ha l’esclusiva per questo tipo di spot» si è giustificato l’assessore. Il cd degli scandali finora ha fatto venire alla luce casi relativi fino al 2011.
Perchè, spiega Chiara Appendino, consigliere comunale del Movimento 5 stelle, «il dettaglio degli affidamenti diretti del 2012 non ci è ancora stata dato». Ma alcuni episodi curiosi saltano già all’occhio.
C’è una determina del luglio 2012 con cui vengono dati 18.220 euro alla Orange per presentare delle slide show di Torino a Helsinki nel mese di settembre.
L’evento descritto si chiama Helsinki international design house exhibition: every day discoveries.
I grillini con un’interpellanza chiedono se questa spesa sia stata necessaria. E fanno notare come la Orange, una delle aziende «predilette» da Anna Martina, negli ultimi anni abbia ricevuto migliaia di euro per svariati eventi culturali.
Fassino ha promesso che sul caso di Anna Martina incaricherà il city manager Cesare Vaciago «di approfondire la materia, di accertare l’eventuale sussistenza di profili di responsabilità soggettiva e in tal caso, di indicare quali provvedimenti debba adottare l’amministrazione».
E che porterà all’esame della giunta un provvedimento per rivedere le regole sugli incarichi. Ma accusa il Movimento 5 stelle di infangare l’amministrazione.
«Non c’è nessun sistema Torino — ha dichiarato in Sala rossa — e certe dichiarazioni rilasciate in modo demagogico servono solo a infangare una città . Perchè qui non ci sono consiglieri che rubano, e ricordo che la dottoressa Martina in ogni caso ha contribuito al rilancio della città ».
Elisa Sola
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Settembre 10th, 2011 Riccardo Fucile
“SAREBBE LA BOMBA ATOMICA UN SACCO DI GENTE DOVREBBE ANDARE A CASA”… L’INTERVISTA AL PADRE NOBILE DI SINISTRA E LIBERTA’
Vicenda dolorosa, come dice Pier Luigi Bersani?
Certamente sì. Dolorosissima.
Sconvolgente, come dice Massimo D’Alema?
No. Io non sono sorpreso.
Fabio Mussi, 63 anni, padre nobile di Sinistra e Libertà dopo una vita da fratello siamese di Massimo D’Alema ai vertici del Pci prima e nei Ds poi, vive lo scandalo Penati come un dramma collettivo.
“Dico subito che prescindo dal dato giudiziario e dall’esito dell’inchiesta. C’è una grande questione politica. Bersani, con cui ho lavorato a lungo e che stimo, deve affrontare di petto la vicenda, guardare alle sue radici, dare un segno forte a tutta la sinistra, che deve riflettere sulla direzione di marcia”.
Più che direzione di marcia qui si parla di autostrade.
Prego il Signore che non ci sia connessione tra l’acquisto delle azioni della Milano-Serravalle fatta da Penati nel 2005 e la scalata alla Banca nazionale del lavoro lanciata negli stessi mesi dall’Unipol di Gianni Consorte.
E se il Signore non la esaudisce? Verrebbero coinvolti i vertici dei Ds e del Pd?
È un’ipotesi che non contemplo. Sarebbe la bomba atomica. Un sacco di gente dovrebbe andare a casa.
Penati è un mariuolo? O è un pezzo del sistema?
Non è un mariuolo. Karl Schmitt, grande filosofo della destra, disse in un’intervista degli anni ’50 che quando c’è un potere costituito la vera lotta è per la conquista dell’anticamera del sovrano. Eletto Bersani segretario, Penati ha conquistato l’anticamera. Dobbiamo chiederci come sia arrivato così in alto.
Portando tangenti?
Non lo so e non è questo il punto. Questa vicenda ci racconta una dolorosa verità sul neo-riformismo, e sulla deriva culturale che ci ha portato dal Pci ai Ds e al Pd. Mi ha colpito che di fronte allo scandalo dirigenti lombardi del Pd hanno detto con rimpianto che Penati era un modernizzatore. Lui che con i soldi della Provincia di Milano finanziava le ronde e non si vergognava di essere chiamato leghista. Io invece me ne vergognerei, e per questo quando mi propose di fare un comizio con lui per le Regionali del 2010 mi sono chiesto che cosa avessimo in comune e gli ho detto di no.
Penati è anche l’uomo che nel 2001 lascia il Comune di Sesto e diventa segretario della federazione di Milano mentre si infiamma il congresso Ds che porterà Piero Fassino alla segreteria mettendo in minoranza l’anima di sinistra che lei guidava.
Me lo ricordo bene. Ho visto che Bersani ha parlato di una class action degli iscritti contro i giornali ostili. Se per caso viene fuori che in quel congresso sono girati dei soldi per condizionarne l’esito giuro che la class action la faccio io a loro.
Scherza?
Un po’.
C’è un nesso tra lo spostamento a destra che lei ha denunciato per anni, fino ad andarsene alla nascita del Pd, e la questione morale?
Certo che c’è. E non perchè gli uomini di sinistra abbiano un Dna migliore, che è una sciocchezza: le persone non possono vantare un Dna diverso, i partiti devono. È una certa visione della politica che ti vieta comportamenti disonesti.
Una visione dei contenuti o dello stile?
Le due cose non si distinguono più. Lo ha scritto Anthony Giddens, teorico del blairismo: se vuoi capire un’evoluzione politica, guarda allo stile di vita dei leader. Qui, grazie a Berlusconi e a chi ne ha subito il fascino, è passata l’idea che la ricchezza dimostra la tua bravura. Così con lo slogan della modernizzazione ci hanno riportati al Medioevo. Un moderno capitalismo dovrebbe essere l’opposto: per diventare ricco devi dimostrarti bravo. Qui tutt’al più devi dimostrarti furbo.
Anche tra i dirigenti della sinistra?
Bè, io sono convinto che quando Enrico Berlinguer denunciò la questione morale nella famosa intervista a Scalfari del 1981, accusava i partiti di governo, ma cominciava a percepire che qualcosa succedeva anche a casa sua. Berlinguer vedeva il futuro quando diceva che la questione morale si pone quando i partiti diventano macchine di potere. Testuale.
Molti continuano a negare che ci sia una questione morale a sinistra.
Non io. Nel 2005 ho fatto una dura battaglia interna sulla vicenda delle scalate bancarie. Ricordo che Fassino non riusciva a scrivere una mozione su quel caso che ci andasse bene. Alla fine mi disse: scrivila tu. Non volevano il nostro voto contrario. In quei mesi feci anche, con Cesare Salvi, una mozione sulla questione morale dentro il partito, in seguito alle Regionali della Campania. Giorgio Napolitano la lesse e volle essere il terzo firmatario.
Qual è il problema?
Sono tre. Primo, l’idea che per vincere bisogna convergere su tutto e con tutti. Infatti le hanno perse tutte e Milano l’ha riconquistata Pisapia, non Penati. Secondo: il cedimento a un pensiero dominante secondo il quale il capitalismo è ineluttabile, che tutto è inevitabile, che devi subire e adattarti per mostrarti uomo di mondo. Da tutto questo consegue il terzo problema, quello doloroso davvero.
Quale?
La politica, quando non vede la crisi del capitalismo e non se ne occupa, abbassa lo sguardo verso terra e si mischia con gli affari. Non riesce a stare dignitosamente al di sopra, stabilendo le regole del gioco, ma entra in partita, scegliendosi l’imprenditore amico da aiutare e per cui tifare. La chiamano modernità .
Faccia degli esempi a sinistra.
Aspetti, dobbiamo chiarire una cosa. Nella destra vediamo cose molto più gravi, perchè certe distorsioni sono connaturate a quel mondo. Insomma, le differenze ci sono. Però… scalata a Telecom Italia dei ‘capitani coraggiosi’ di Colaninno. Scalata Unipol alla Bnl. E uno stile in costante discesa. Telefonate, incontri segreti, sussurri, strizzate d’occhio. Ma che cosa gli è preso nel cervello a questi qui?
A questi chi?
Ai dirigenti politici che vivono così. Ma anche a tanti militanti che mostrano simpatia per chi non è moralista, per chi sa come va il mondo, per chi sa godersi la vita e fa i soldi, pur rimanendo un leader di sinistra. A quelli che vedono un dirigente cooperativo come Consorte che ha messo da parte 50 miliardi di lire, per consulenze… e non gli si accenda la lampadina.
Quale lampadina?
Quella che si accende in me che ripenso a mio zio dirigente cooperativo per una vita e morto con una pensione da operaio. Io di fronte ai soldi di Consorte mi sento personalmente ingiuriato. Li sento come un’offesa alla storia della mia famiglia, alla memoria della nonna di mia moglie che nel ’44 a Piombino ha fondato con altre donne la cooperativa La Proletaria per resistere al mercato nero. La base del Pd è fatta da milioni di persone ammodo. Meritano molto di più.
Giorgio Meletti
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 2nd, 2011 Riccardo Fucile
LA FOLLE CORSA DEI CANDIDATI, DALLE GRANDI CITTA’ AI PICCOLI COMUNI: A TORINO TUTTI VOGLIONO CHIAMARSI COPPOLA, FASSINO ALLA EASTWOOD, LETIZIA CHE VOLEVA FARE LA BALLERINA, CENTENARIA IN LISTA IN FRIULI…TRASH AL POTERE NEI MANIFESTI ELETTORALI
Da una parte Moratti contro Pisapia, dall’altra il derby degli Invernizzi.
Milano e Morterone, testa e coda dei 1345 comuni italiani che andranno al voto il 15 e 16 maggio (a cui si aggiungono 11 province e a novembre una Regione, il Molise, dati Ancitel).
Se sulla corsa a Palazzo Marino si è detto tanto, la sfida per guidare i 38 cittadini del minuscolo centro in provincia di Lecco (il più piccolo d’Italia) ha senz’altro meno aspetti noti.
Comune da gennaio in amministrazione straordinaria, due aspiranti sindaco con lo stesso cognome: Invernizzi.
Antonella, (il primo cittadino sfiduciato) ci riprova a capo di “Vivere Morterone”.
L’avversario, Riccardo, le lancia la sfida con “Rinnoviamo Morterone” e un programma di 12 punti.
Due liste e 18 candidati (esclusi loro due): un passo indietro rispetto a cinque anni fa quando il numero degli aspiranti superò addirittura quello degli aventi diritto.
Se a Morterone la competizione è targata Invernizzi, a Torino (una delle sfide principali), non ce ne vogliano gli altri candidati, ma è Coppola a farla da padrone.
L’originale è il bel Michele (il candidato del centrodestra), assessore regionale alla Cultura, incoronato dal premier come quello che ci vuole per Torino, “una scopa nuova che scopi meglio”.
Ma sulla scheda i torinesi troveranno anche la “Lista Coppola per una Torino più rosa”, che appoggia il candidato del Terzo Polo, Alberto Musy (provocando le ire di Pdl e Lega), e ancora l’aspirante sindaco Domenico Coppola (sei liste per lui, tra cui una che si chiama Forza Toro ma nessun sito ufficiale).
E dove non arriva l’anagrafe ci pensa la fantasia.
Solo la commissione elettorale ha stoppato la lista CoPoLa (Comitato Polo Latinoamerica), esclusa come le altre quattro a sostegno di Marco Di Nunzio, tra cui la lista “Bunga Bunga – Più pilo per tutti”.
Un cartello elettorale di cui fa parte anche “Forza Juve” e che sul suo sito dal nome esotico (www.intrigatropical.eu 1) annuncia ricorsi, facendo proselitismo senza andarci troppo per il sottile: “Vuoi candidarti e percepire uno stipendio? Clicca qui”.
Ben altra molla dovrà aver spinto a cimentarsi nell’agone politico Marcella Beltrame, 100 anni appena compiuti, in corsa per la lista civica a sostegno di Silvano De Bortoli, nel comune di S. Quirino (Pordenone).
Si aspettava il via libera ufficiale dopo la presentazione delle liste. Candidatura ammessa e come riporta il sito della Regione Friuli, la signora, nata il 1° aprile 1911, sarà regolarmente ai nastri di partenza.
Il Trentino Alto Adige, invece, è l’unica regione dove non sono previste votazioni.
Succede così che programma presentato nel 2005 da Renzo Anderle, ex sindaco di Pergine Valsugana (Trento), possa tornare buono per la corsa di Emanuele Cassano (Pd), in lizza nel comune barese di Palo del Colle, a 17 Km da Bari.
Plagio autorizzato dall’autore (anche lui nell’area del centrosinistra) all’insegna della circolazione delle buone idee.
A patto di fare le dovute modifiche, tagliando in primis i riferimenti alle piste da sci. Viva il fair play.
Qualcosa di simile, ma senza avvisare l’autore, aveva provato a fare Gianni Lettieri nei suoi 72 punti programmatici “copiati” in parte dai 100 di Matteo Renzi.
Scoperto, si è difeso ammettendo di aver preso il buono anche da “De Luca, Tosi e Chiamparino”.
Mentre restando sempre a Napoli salta fuori in rete come “il Futuro è mo’” slogan del candidato Pd, Mario Morcone riecheggi in dialetto napoletano “Il Futuro è adesso” di Renata PolverinI.
Ancora nel capoluogo partenopeo, 48 consiglieri dell’ultima legislatura (l’80%) hanno scelto di ricandidarsi.
Se fossero tutti eletti (con il numero tagliato da 60 a 48), non si vedrebbe nessuna faccia nuova a palazzo S. Giacomo.
Neanche il cognome del leader tanto amato dai leghisti aiuta, invece, Massimo Bossi nella sua corsa a sindaco di Gallarate (Varese).
E’ arrivato il sostegno del Pdl, ma il Carroccio gli ha messo contro un suo candidato di punta, Giovanna Bianchi Clerici.
Colpa, dicono, di alcuni manifesti con la scritta “Vota Bossi” e il simbolo dell’odiata Lega Padana lombarda, che avrebbero mandato su tutte le furie il Senatùr.
Orgoglio indipendista ma in salsa sarda per Claudia Zuncheddu, già “consigliera” regionale e tra i candidati per la poltrona di primo cittadino a Cagliari.
Nome noto, come spiega lei stessa sul suo blog, a livello nazionale e internazionale come pilota di rally.
Nel suo palmares Parigi-Dakar, Rally dei Faraoni, Parigi-Città del Capo, Rally di Tunisia, Parigi-Pechino. Nel 1986, prima donna di sempre ad entrare nelle selezioni del durissimo Camel Trophy.
Questo per i meno noti.
Ma anche i big si attrezzano per fare breccia nell’immaginario degli elettori. Piero Fassino per la sua corsa rispolvera uno degli ultimi Clint Easwood e battezza la Gran Torino.
E sul sito ufficiale salta fuori una locandina con l’ex segretario dei Ds in versione Walt Kowalski.
Si provano anche a demistificare alcuni luoghi comuni: “Contrariamente da quanto si possa supporre dal mio fisico”, scrive il candidato del centrosinistra, “mi piace mangiare e bere bene”.
Si abbandona alle confidenze anche la donna di ferro dell’amministrazione milanese, Letizia Moratti.
Tra la grana Lassini e il mantra alla “Ok il prezzo è giusto” delle 100 cose già fatte e le 100 da fare, c’è tempo anche per guardarsi indietro: “Da bambina sognavo di fare la ballerina alla Scala o l’architetto, ma la vita mi ha riservato altro”.
E nella casa di vetro del “mondo di Letizia” salta fuori una Moratti in versione Karen Blixen/Meryl Streep in “La mia Africa”, con una citazione, quasi obbligata, tra le canzoni del cuore per Ornella Vanoni.
Proprio la cantante milanese, infatti, inaugura la breve carrellata dei nomi noti in corsa in questa tornata.
Nel capoluogo lombardo, trova posto come aspirante consigliere assieme all’ex nazionale di rugby, Marcello Cutitta nella lista “Milano al Centro”. Conferma per Carmine Abagnale nel listino Pdl.
In lizza anche Gianni Rivera e Marco Predolin nella lista “Librandi per Milano”. Non si trova traccia, almeno in rete, dell’annunciata candidatura in Veneto di Debora Caprioglio, nelle fila dell’Alleanza di Centro di Pionati.
Altro derby sportivo a Siena, dove l’ex pilota Alessandro Nannini corre come aspirante sindaco per il centrodestra.
Tra i suoi sfidanti per il Terzo Polo, Gabriele Corradi, papà del calciatore dell’Udinese Bernardo.
Assessorato annunciato a Napoli per Fabio Cannavaro.
Parola del candidato del centrodestra, Gianni Lettieri, che molto ammicca al calcio e agli azzurri di Mazzarri nella campagna “Far vincere Napoli”.
“Solo uno spot”, ha replicato il candidato Idv, Luigi De Magistris: “noi preferiamo Cavani e Lavezzi che rappresentano il futuro”.
Diecimila euro contro venti milioni (stando alle ultime cifre accreditate).
E’ la distanza che separa la campagna low cost della stella ventenne dei grillini, Mattia Calise, da quella di Letizia Moratti (che si era fermata a 6 cinque anni fa).
Fatica ad arrivare a 1 milione il candidato del centrosinistra Giuliano Pisapia. Più equilibrata la volata bolognese, dove Virgilio Merola mette in preventivo 160 mila euro (a cui andrà sommato il conto del Pd), contro i 140mila di Daniele Corticelli, candidato civico di Bologna Capitale, i 100 mila del leghista Manes Bernardini, appaiato a Stefano Aldrovandi del Terzo Polo.
Dove non arrivano le risorse finanziarie possono, però, i social network.
Chi sarà il più bravo sul web?
Ecco una classifica in tempo reale 4 dei candidati su Twitter, che tiene conto di tweets pubblicati, presenza, followers e rapporto friends/followers). I risultati: sul podio salgono Luigi De Magistris, Virginio Merola e Manes Bernardini.
Rimandati, almeno per il momento, Guido Baldrati (Fli per la provincia di Ravenna), Franco Ceccuzzi (Pd per Siena) e Claudio (Pd per Pordenone).
E per i più nostalgici restano i tradizionali manifesti elettorali.
Tre citazioni per le trovate più audaci di questa tornata.
A Milano non fa difetto il celodurismo all’aspirante consigliere della Lega Nord Massimiliano Bastoni, che si fa ritrarre sorridente accanto alla carta napoletana da cui nasce il suo slogan: “Cala l’asso… Vota bastoni”.
Non teme di sfigurare, nonostante i 63 anni appena compiuti, Alberto Astolfi detto Bertino, in canottiera e costume come ogni bagnino che si rispetti della riviera romagnola.
Sguardo fiero verso l’orizzonte e mare Adriatico sullo sfondo, lo slogan dell’aspirante consigliere comunale di Rimini è “Senza se, senza ma, ho sempre remato per la mia città “.
Chiude il tris Gianluigi Marra detto Giangi in corsa come sindaco per la lista Azzurri Italiani a Torino: “Scopiamo?… via la vecchia politica”, si chiede sorridente con tanto di ramazza tricolore.
Due idee dal suo programma: trasformare i campi nomadi in campeggi per turisti e usare le guardie giurate per pattugliare il territorio.
Con queste premesse qualcuno potrebbe invidiare gli elettori di Gubbio: loro votano una settimana più tardi.
Tutto rimandato per la corsa dei ceri.
Pasquale Notargiacomo
(da “La Repubblica“)
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Aprile 27th, 2011 Riccardo Fucile
DAL SONDAGGIO DI “TERMOMETRO” EMERGE CHE L’EX MINISTRO PD E’ PIU’ FORTE DELLA SUA COALIZIONE….INDECISI AL 15%, GRILLINI AL 3,5%… RISPETTO ALLE REGIONALI DI UN ANNO FA CALANO PDL E IDV, TIENE LA LEGA
Piero Fassino non ne ha mai fatto mistero: l’importante è vincere, ovvio, ma l’ex ministro vorrebbe tanto chiudere la pratica il 16 maggio, forte del risultato delle primarie e dell’appoggio incondizionato di Sergio Chiamparino, senza dover ricorrere al ballottaggio.
Nessuno dei sondaggi finora pubblicati ha messo in dubbio le sue possibilità di farcela, e anche se si votasse oggi il risultato sarebbe alla sua portata, ma forse non così granitico come lo era fino a qualche settimana fa, quando i contendenti in campo erano pochi e la campagna elettorale non ancora decollata.
A venti giorni dal voto, infatti, le possibilità di approdare al secondo turno non sono poi così remote.
Il primo sondaggio reso noto dopo la presentazione delle liste, che mette perciò in gioco tutti i dieci candidati, fotografa un vantaggio netto per il candidato del centrosinistra.
Secondo «Termometro Politico», Fassino vincerebbe con il 51 per cento, quasi di venti punti sopra Michele Coppola, stimato al 32.
Distanti gli altri contendenti: Alberto Musy al 7 per cento, Vittorio Bertola al 3,5, Juri Bossuto al 2,5 e Giacinto Marra all’uno.
Tutti gli altri competitor, insieme, non raccoglierebbero oltre il 3 per cento.
La frammentazione – dieci candidati e trentasei liste, un record – sembra giocare a favore di una dispersione del voto.
E penalizzare i candidati più noti, a cominciare da Fassino, che mantiene un margine solido ma è vicino alla soglia del 50 per cento, sotto la quale sarebbe costretto al ballottaggio del 29 e 30 maggio.
L’ultimo segretario dei Ds mantiene comunque un forte consenso personale: è l’unico candidato a intercettare più voti potenziali rispetto alla coalizione che lo sostiene.
Con l’avvicinarsi delle urne si riduce anche la percentuale di indecisi: precedenti rilevazioni indicavano gli incerti intorno al 25 per cento; ora siamo al 15.
Numeri che danno corpo alle speranze di un centrodestra che sarà sì in affanno – la coalizione non riesce a varcare la soglia del 35 per cento e il candidato fa anche peggio -, ma intravede la possibilità di arrivare al secondo turno.
Pdl e Lega non l’hanno mai negato: in una città che il centrosinistra governa da diciotto anni, e in cui il sindaco uscente conclude il mandato con un livello di popolarità superiore al 70 per cento, riuscire ad agguantare il ballottaggio sarebbe già una mezza vittoria.
Oltretutto in un quadro di flessione: secondo la rilevazione se si votasse oggi l’accoppiata Pdl-Lega perderebbe consensi rispetto alle regionali di un anno fa.
Con una differenza: il Carroccio tiene, passando dal 10,1 al 10,5 per cento; il Pdl arretra dal 21,8 al 20, scontando la fuoriuscita dei finiani e la nascita di Futuro e libertà .
Le speranze degli avversari di Fassino, a giudicare dai dati, sembrano però finire qui.
Secondo Termometro politico, in caso di ballottaggio tra l’ex leader dei Ds e Coppola, il primo la spunterebbe di slancio, raggiungendo il 64 per cento e intercettando buona parte dei voti assegnati al primo turno sia a Musy che a Bossuto.
Ininfluente, invece, l’apporto dei grillini, tentati dall’astensione in massa.
Proprio i grillini potrebbero bissare l’exploit delle regionali.
Il candidato sindaco Vittorio Bertola e il Movimento 5 stelle viaggiano intorno al 3,5 per cento, proprio come un anno fa, risultato che consentirebbe loro di entrare in Consiglio comunale a scapito della Federazione della sinistra.
Tra i partiti, rispetto alle regionali, crescono Pd, Sel e Moderati.
I democratici viaggiano al 28,5 per cento, i vendoliani e il movimento di Portas al 5,5.
In flessione l’Italia dei valori: dal 9,5 per cento del marzo scorso al 7 di oggi. La sfida del Nuovo Polo, invece, si ferma sotto la soglia del 10 per cento.
I centristi pescano in ugual misura tra gli ex elettori di Chiamparino e quelli di Buttiglione nel 2006, ma non sembrano poter essere determinanti, nemmeno in caso di secondo turno.
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Dicembre 2nd, 2010 Riccardo Fucile
DOPO LA RINUNCIA DEL RETTORE PROFUMO, STRADA IN APPARENZA SPIANATA PER L’EX LEADER DS… MA VENDOLIANI E ROTTAMATORI NON GRADISCONO NE’ IL NOME, NE’ IL METODO… PRIMARIE SI’ O NO?
Il Pd torinese stringe i tempi per trovare il candidato a succedere a Sergio Chiamparino.
Dopo il no del rettore del Politecnico Francesco Profumo, la segretaria provinciale Paola Bragantini ha incontrato Fassino, torinese doc, che ora pare avere conquistato la pole position tra i papabili e che avrebbe già il via libera da parte del segretario nazionale, Pierluigi Bersani.
L’ex segretario dei Ds si è preso qualche giorno di riflessione.
«Per rispetto della società torinese e dei suoi cittadini, – spiega Fassino – valuterò nei prossimi giorni quale sia il mio contributo più utile per offrire a Torino una candidatura a sindaco in grado di raccogliere quell’ampio consenso che ha reso efficaci ed autorevoli le amministrazioni di centrosinistra di questi anni».
Tra gli sponsor di Fassino c’è il sindaco Chiamparino che, in un’intervista a La Stampa, si è detto favorevole alla candidatura di Fassino.
Nessuno dei candidati del Pd che si erano fatti avanti per partecipare alle primarie ha fatto per ora alcun passo indietro.
Si sentono in lizza sia Davide Gariglio, ex presidente del consiglio regionale, Roberto Tricarico, assessore comunale all’Ambiente, l’ex segretario del Pci Giorgio Ardito.
Lo stesso consigliere Roberto Placido è pronto a scendere in campo.
Resta un’incognita, infatti, l’atteggiamento di Nichi Vendola: sembra molto difficile infatti che Sinistra Ecologia e Libertà appoggi l’ex segretario Ds.
Nel partito torinese c’è chi preme per schierare un proprio candidato. Il tema verrà proposto domani alla segreteria nazionale da Monica Cerutti, consigliere regionale e comunale a Torino e membro della segreteria di Sel.
«Il candidato – ha detto – lo dobbiamo ancora scegliere, ma riteniamo giusto che si facciano le primarie di coalizione». E anche Paolo Ferrero ha ribadito che serve un nome legato al mondo del lavoro.
Nel Pd torinese c’è chi si dice convinto che la questione verrà risolta «in una decina di giorni», in tempo cioè per l’assemblea provinciale convocata il 9 dicembre.
Ma sul nome di Fassino, che ha 61 anni, uno in meno di Chiamparino, c’è un’area di perplessità se non proprio di pollice verso: gli scettici o contrari non discutono le qualità politiche, ma temono uno scarso gradimento tra l’elettorato più giovane.
Il vicesegretario del Pd Enrico Letta, invita a guardare alle primarie con serenità , «anche perchè – dice – Torino non è Milano e nel capoluogo piemontese ci sono le condizioni per ottenere un risultato molto migliore. Non fare le primarie sarebbe un errore, decideranno i Democratici torinesi sapendo che per noi sono uno strumento naturale di selezione dei candidati».
Per il deputato del Pd Giorgio Merlo, «l’unico scenario che il Pd deve evitare è quello del recente caso milanese.
E cioè una valanga di autocandidature».
Dall’Api parte un appello al rettore Profumo a ripensarci, e dal Pdl la proposta di guidare una lista civica «delle intelligenze, trasversale ai partiti, per un grande progetto per la Torino del 2020, in modo – spiega il vice coordinatore regionale Agostino Ghiglia – da garantire alla città il futuro che merita».
E nel giorno del via libera dei vertici democratici a Fassino si apre anche una nuova grana tutta interna al Pd.
Il movimennto dei “rottamatori”, guidati da Renzi e Civati, accolgono infatti con freddezza la candidatura di Fassino.
Proprio Civati, interpellato dall’agenzia Ansa, è stato piuttosto netto: «Non è giusto» che l’attuale sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, che ieri sera aveva auspicato si creassero le condizioni per la candidatura di Piero Fassino, proponga un nome.
«Il nome – ha spiegato Civati, riferendosi al rettore del Policlinico, Francesco Profumo – Chiamparino l’aveva fatto, e poi ha detto che non andava più bene». «Ora c’è chi preferisce un politico di lungo corso – ha aggiunto Civati, riferendosi a Fassino – e chi invece pensa che magari sia il momento di lanciare un amministratore locale, di quelli che hanno lavorato con Chiamparino». L’importante, per i rottamatori, è che «le primarie siano libere. A nessuno – ha concluso Civati – salti in mente di non farle più».
Insomma se Atene piange, Sparta non ride.
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