Agosto 27th, 2014 Riccardo Fucile
SMASCHERATA LA PALLA LEGHISTA CHE CI HANNO PROPINATO PER UN DECENNIO: I TRIBUTI CENTRALI AUMENTATI DEL 42%
Il federalismo “ha fallito”, tanto che dal 1997 c’è stato un boom delle tasse locali (+190,9%), mentre quelle centrali sono aumentate “solo” del 42,4%.
Lo annuncia la Cgia, precisando in una nota che “quest’anno verseremo 698,6 miliardi tasse e contributi, contro una spesa al netto degli interessi di 726,6 miliardi di euro”
Tra il 1997 e la fine del 2014, le entrate fiscali – ha calcolato l’associazione – aumenteranno del 52,7%: in termini assoluti, la crescita sarà di circa 241 miliardi di euro.
Per contro, la spesa pubblica al netto degli interessi crescerà in misura maggiore: in termini percentuali del 68,7% e in valore assoluto di 295,9 miliardi di euro.
“Il decentramento di parte delle Funzioni pubbliche dallo stato centrale alla periferia, avviato alla fine degli anni ’90 – segnala il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi – non è riuscito a frenare la spesa pubblica, che invece ha continuato a crescere in misura superiore alle entrate. Nonostante gli sforzi e l’impegno profuso, possiamo dire che, allo stato attuale, il federalismo all’italiana abbia fallito. Mentre nei paesi federali consolidati come Spagna, Germania e Austria, il costo complessivo della macchina pubblica è circa la metà dei paesi unitari, da noi, che siamo ancora a metà del guado, le uscite sono in costante crescita ed hanno spinto all’insù anche le entrate. Il risultato è che abbiamo continuato a spendere sempre di più, sia al centro sia in periferia, e per far quadrare i conti siamo stati costretti a subire un progressivo aumento del prelievo fiscale”.
Sempre tra il 1997 e il 2014, i tributi centrali (che attualmente corrispondono al 78% del gettito totale) sono aumentati del 42,4% (in termini assoluti pari a 112 miliardi) per toccare alla fine di quest’anno quota 376,4 miliardi.
I tributi locali, invece, sono praticamente “esplosi”: +190,9% (pari, in termini assoluti, a +69,5 miliardi di euro), con un gettito che nel 2014 sfiorerà i 106 miliardi di euro.
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Luglio 6th, 2014 Riccardo Fucile
BOOM DELLE IMPOSTE LOCALI CON IL TAGLIO DEI TRASFERIMENTI…E IL DECENTRAMENTO FA CRESCERE GLI SQUILIBRI
Un piccolo imprenditore milanese quest’anno smetterà di lavorare per pagare le tasse il 27 agosto.
Un torinese tre giorni prima, il 24.
A quel punto avrà poco più di quattro mesi per occuparsi di se stesso e del proprio profitto.
Se però la sua attività fosse insediata altrove, potrebbe chiudere i suoi conti con il Fisco anche un mese prima.
A Cuneo, il suo «tax free day», il giorno in cui si libera dalla morsa dello Stato, sarebbe addirittura il 25 luglio, a Gorizia e Sondrio il 28.
In fondo, è meglio che non si lamenti. Potrebbe andare peggio: ad esempio, i suoi colleghi romani o bolognesi annasperanno fino al 29 settembre, come i fiorentini e i reggini; i cremonesi fino al 17, i biellesi all’11.
Il più grande prestigiatore di questi ultimi anni è stato il Fisco: tra i 2007 e il 2014 lo Stato ha eliminato ai Comuni trasferimenti per 7,5 miliardi.
E i sindaci si sono rivalsi su cittadini e imprese, aumentando le imposte locali. Ovviamente per 7,5 miliardi.
I presidenti di Regione, poi, ci hanno messo del loro, facendo lievitare le addizionali Irpef di 2,4 miliardi.
Risultato: non solo il macigno fiscale sulle imprese si è appesantito (la pressione sui profitti delle aziende è passata dal 59,1% del 2011 al 63,1 del 2014), ma soprattutto si è diversificato da regione a regione e, ancor di più, da città a città , producendo grossolani squilibri anche a distanza di pochi chilometri, realtà dove mantenere un’attività è diventato un atto d’eroismo più che una scommessa.
L’osservatorio permanente degli artigiani di Cna sulla tassazione delle piccole e medie imprese mostra un’Italia formato ottovolante, dove un artigiano romano perde per strada (lasciandoli a Stato, regione e comune) il 74,4% dei suoi profitti, un milanese il 65,1%, un cuneese il 56,2%.
Fino al 2011 il quadro era molto più uniforme. Poi è arrivata l’Imu. Dopo ancora la Tares, che oggi si chiama Tari. Infine la Tasi.
E una quota sempre più consistente della leva fiscale è passata nelle mani dei sindaci. Doveva essere il principio base del federalismo: il risultato, per ora, è un feroce e diffuso aumento della pressione fiscale. Ma non dappertutto. O, almeno, non con le stesse dimensioni.
Ad esempio, a Roma, il Comune fa pagare alle aziende 8 mila euro di Imu (o Tasi) e 6 mila di tassa rifiuti, Bologna tartassa i fabbricati (10.700 euro) ma è meno esosa sull’immondizia (2.700).
Sommando le imposte, parliamo comunque di 13-14 mila euro, mentre Cuneo si accontenta di 2.600 euro in tutto, Arezzo di nemmeno 4 mila.
Reggere la concorrenza, con disparità così macroscopiche, diventa una chimera.
Tre anni fa non c’era poi tutta questa differenza: il carico fiscale su un’azienda romana era il 65,7%; per una partita iva cuneese, all’opposto della classifica, era il 55,3%.
La situazione del cuneese non è cambiata granchè – anche se di certo non è migliorata -, in compenso i romani sono rimasti strangolati: per loro la pressione del Fisco è cresciuta del 10%.
E il gap con i territori che meno s’accaniscono sui contribuenti è raddoppiato.
In un certo senso chi fa impresa là dove i tributi locali sono fortemente aumentati è penalizzato due volte: dall’eccessivo peso fiscale che grava su tutte le aziende italiane, e dalla particolare condizione del suo comune.
Gli basterebbe, ad esempio, trasferirsi da Firenze ad Arezzo per intascare 700 euro in più al mese. O, se volete, per pagare 700 euro in meno di tasse.
Oppure potrebbe migrare da Genova a Imperia e risparmiare 5 mila euro l’anno, lasciare Biella per Cuneo e poter contare su 6 mila euro in più l’anno.
L’esito del federalismo all’italiana su chi fa impresa, alla fine, è questo: l’imprenditore romano quest’anno lascerà sul campo oltre 37 mila euro (mille in più dei suoi colleghi fiorentini), contro i 29 mila di un concorrente di Udine, i 32.500 di un milanese, per non parlare dei 28 mila del solito “fortunato” cuneese.
Ciascuno, quando tira le somme a fine anno deve guardarsi in casa, in tutti i sensi: non conta solo la bontà del lavoro, le intuizioni, la capacità d’innovare e scoprire nuovi mercati, ma anche – molto più banalmente – le decisioni del sindaco di turno.
O, direbbero i sindaci, le scelte dei governi che, tagliando i trasferimenti, li obbligano a inasprire le tasse.
Il rapporto causa-effetto è comunque impietoso: là dove le imposte comunali sono cresciute molto, dal 2011 a oggi gli imprenditori sono stati fortemente penalizzati rispetto ai loro concorrenti che lavorano altrove, dove si è comunque calcato la mano ma senza strangolarli.
Andrea Rossi
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
IRPEF COMUNALE SALITA DELL’8,5%, SEI VOLTE PIU’ DEL CAROVITA… NEL 2014 ALTRI 141 EURO IN PIU’…LA MAPPA CITTA’ PER CITTA’
Un federalismo fiscale sgangherato presenta il conto.
Per l’addizionale Irpef comunale gli italiani pagheranno quest’anno in media 140 euro a testa contro i 129 del 2012, l’8,5% in più: quasi sei volte l’aumento dei prezzi stimato per il 2013.
Se poi si aggiunge la più corposa addizionale Irpef regionale, che è salita “solo” dell’1,1%, e pesa in media per 363 euro, il conto pro capite sale a 503 euro.
Sommate, le due addizionali hanno subito un incremento del 3,1% rispetto all’anno scorso, il doppio dell’inflazione.
In cinque anni, dal 2009 al 2013, il gettito delle addizionali comunali e regionali è aumentato del 36%, passando in media da 391 a 503 euro, appunto.
Nello stesso quinquennio i prezzi sono aumentati di circa l’11%.
Una bella stangata, dunque. Che l’anno prossimo potrebbe ripetersi.
Per il 2014, infatti, le Regioni potranno decidere ulteriori incrementi del balzello Irpef di loro competenza fino a 0,6 punti, portando l’aliquota al 2,33%, che significherebbe altri 141 euro in più a testa, che diventerebbero 153 calcolando anche 12 euro aggiuntivi di addizionale comunale se i municipi che ancora non l’hanno fatto decidessero di deliberare l’aliquota massima dello 0,8%.
Corsa agli aument
I calcoli li ha fatti il dipartimento Politiche territoriali della Uil, che ha preso in esame le aliquote deliberate dalle Regioni e dai Comuni e le ha rapportate all’imponibile medio ai fini delle addizionali, che risulta, secondo i dati del ministero dell’Ecomimia, di 23mila euro lordi pro capite.
I risultati sono allarmanti, dice il segretario confederale Guglielmo Loy, che osserva: «I comuni si stanno affrettando a disporre aumenti generalizzati delle aliquote. Ciò accade anche per effetto dell’incertezza che domina sulle risorse, sopratutto per quanto riguarda l’Imu».
I sindaci, insomma, non sapendo bene come andrà a finire la partita sulla seconda rata dell’Imu, sfruttano i margini di aumento delle addizionali 2013, benchè l’anno sia quasi finito.
Hanno ancora tre settimane di tempo per farlo e chiudere i bilanci.
Ma il sistema è talmente assurdo che quello che i comuni devono approvare entro il 30 novembre è il bilancio preventivo (sic!) 2013.
Comunque sia, il gettito delle addizionali vale ormai quasi 15 miliardi e mezzo (11,5 quello delle regionali e 4 quello delle comunali), con un aumento di oltre 4 miliardi sul 2009.
Da Gorizia a Roma
Certo, i numeri illustrati finora descrivono aumenti medi. Non tutte le amministrazioni si comportano allo stesso modo e le differenze sono forti.
Per esempio, tra i capoluoghi di provincia, Gorizia non ha l’addizionale comunale Irpef, abolita nel 2012 dal sindaco di centrodestra Ettore Romoli.
A Roma invece l’aliquota è addirittura allo 0,9% (già in deroga al tetto dello 0,8%) con un costo medio pro capite di 207 euro. E un recente decreto del governo autorizza il comune ad arrivare fino all’1,2% (il sindaco di centrosinistra Ignazio Marino ha promesso che non lo farà ) per coprire il buco di 867 milioni nel bilancio.
A Milano, in seguito alla rimodulazione dell’aliquota e della soglia di esenzione, quest’anno un contribuente medio pagherà 184 euro mentre l’anno scorso non aveva versato nulla perchè erano esenti i redditi fino a 33.500 euro, mentre ora il tetto è sceso a 21mila.
Anche a Napoli si verseranno in media 184 euro, contro i 115 euro dello scorso anno, con un aumento quindi del 60%.
Centottanquattro euro pure a Venezia, a fronte dei 138 del 2012 (+33,3%), a Brescia (+44,9%), a Cremona (+22,7%).
In media, dice lo studio della Uil, l’aliquota dell’addizionale comunale Irpef è passata dallo 0,56% del 2012 allo 0,61% del 2013.
«Aumenti molto dolorosi – dice Loy – perchè le addizionali si pagano sull’intero imponibile e non tengono conto delle detrazioni per la produzione del reddito. Per questo uno 0,5% di addizionale vale quanto un punto dell’Irpef nazionale».
La carica delle Regioni
A livello regionale quest’anno l’aliquota Irpef aumenta in Toscana (1,43% fino a 15mila euro, 1,73% oltre) e Abruzzo (1,73%).
Ma le aliquote massime restano nelle tre Regioni con i peggiori bilanci sanitari: Campania, Calabria e Molise, dove siamo al 2,03%.
Sono invece solo 5 le aree che applicano l’aliquota di base dell’1,23%: Val d’Aosta, Bolzano, Trento, Veneto e Sardegna. Sommando addizionali regionali e comunali, la classifica dei più tartassati vede in testa Campobasso, Napoli e Salerno con 651 euro, seguite da Roma con 605 euro e da Chieti, Genova, Imperia, Messina, Palermo e Teramo con 582.
E adesso la Tasi
Le addizionali comunali Irpef furono istituite dal governo Prodi nel 1997 e si pagano dal 1999.
L’idea era che a fronte del gettito dovesse esservi un corrispettivo in termini di servizi, secondo un principio di responsabilità e verifica, per evitare quanto aveva denunciato la Corte dei Conti, cioè che dal 1991 al 1996 le imposte comunali fossero aumentate del 124% senza che si capisse il perchè. Una corsa che non si è fermata. Nel 2003 il gettito delle addizionali Irpef regionale e comunale fu di 6,8 miliardi. Dieci anni dopo siamo a 15 milardi e mezzo. E non è finita.
L’anno prossimo dovrebbe arrivare la Tasi, la nuova tassa sui servizi indivisibili: illuminazione pubblica, polizia locale, strade, ecc. Come se finora i contribuenti non fossero stati spremuti anche per finanziare questi servizi.
Della serie «non basta mai».
(da “Il Corriere della Sera”)
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Ottobre 7th, 2013 Riccardo Fucile
DOPO LE REGIONI, ORA SONO MOLTI GRANDI COMUNI A CHIEDERE AIUTO PER TAPPARE LE VORAGINI DEI LORO CONTI
Il nostro curioso federalismo alla rovescia non smette di presentare conti salatissimi ai contribuenti.
Dopo le Regioni alle prese con deficit sanitari allucinanti, tocca ora ad alcuni grandi Comuni battere cassa per tappare le voragini dei loro conti.
Succede a Roma dove il sindaco appena arrivato chiede aiuto per sanare il passivo ereditato: 867 milioni.
Ma arriva dopo, Ignazio Marino, rispetto ai suoi colleghi di Napoli e Catania.
Senza poter escludere che altri ne seguiranno l’esempio. La galleria degli orrori che ieri ha pubblicato Il Sole 24 Ore passa da Palermo e Genova, sfociando in una Milano che deve reperire circa 500 milioni entro fine anno.
I Comuni incolpano il taglio dei trasferimenti, sostenendo di aver sborsato il prezzo più caro per risanare le finanze pubbliche. Vero.
Anche se poi questo prezzo finisce ribaltato in buona parte sullo Stato centrale. Il che dovrebbe indurre certi amministratori a un serio esame di coscienza.
Chi rivendica autonomia avrebbe l’obbligo di ricordare che questa implica responsabilità .
Il federalismo da molti invocato dovrebbe basarsi su tale principio basilare. È diventata invece una parola vuota, comodo paravento per gestioni sconsiderate e clientelari senza essere chiamati a risponderne.
Peggio ancora: scaricando pure gli effetti sull’intera collettività .
Valga per tutti il caso di Roma, scossa negli ultimi anni dalla Parentopoli di migliaia di assunzioni nelle municipalizzate.
Il Campidoglio ha 25 mila dipendenti, numero cui si deve aggiungere quello del personale delle partecipate, che il sito Internet indica in 37 mila.
La sola azienda di trasporto locale, l’Atac, paga circa 12 mila stipendi e dal 2008 ha accumulato 600 milioni di perdite. Per offrire un servizio che certo non può essere considerato degno della capitale d’Italia.
Sappiamo che è un problema di ogni città , piccola e grande. Senza contributi pubblici nessuna azienda di trasporto locale avrebbe conti in equilibrio.
Chi sale su un autobus, un tram o una metropolitana paga infatti un prezzo politico che copre una frazione del costo effettivo. Il fatto è che non di rado quella frazione, per come sono gestite moltissime aziende, è infinitesima.
Il resto viene così caricato sulle spalle di tutti gli italiani: chiamati quindi a sopportare non solo il peso legittimo del servizio universale, ma anche quello illegittimo di sprechi, inefficienze e clientele locali.
Al riguardo, i dati della Confartigianato parlano chiaro.
Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali sono cresciute in Italia del 54,2 per cento, il doppio dell’inflazione e ben 24 punti in più rispetto alla media europea: nel periodo dal 2003 al 2013 la sola tassa sui rifiuti è lievitata del 56,6 per cento, contro il 32,2 per cento dell’eurozona. E ciascuno può giudicare se la qualità sia migliorata in proporzione
Una tassa occulta gigantesca non più accettabile.
Da spazzare via obbligando tutti i Comuni alla trasparenza assoluta dei costi dei servizi, affinchè i cittadini possano regolarsi di conseguenza quando sarà l’ora del voto, e approvando senza indugio la norma che imporrebbe la liquidazione delle municipalizzate in dissesto. Se si vuole restituire alla parola «federalismo» il suo vero significato, è il minimo che si possa fare.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 22nd, 2013 Riccardo Fucile
IN 12 ANNI IL GETTITO PER I COMUNI E’ PASSATO DA ZERO A QUATTRO MILIARDI… DALL’IRPEF ALL’IRAP, ALLE TARIFFE, ECCO IL CONTO DEL FEDERALISMO TANTO DECANTATO
L’ultima arrivata è Genova. L’Imu sulla prima abitazione passa dal 5 al 5,8 per mille, quella sulle seconde case affittate a canone concordato dal 7,6 al 9,5 per mille.
«Senza l’aumento dell’Imu avremmo dovuto fare tagli dolorosi e insostenibili» ha spiegato il sindaco Marco Doria giovedì scorso, proprio mentre governo e maggioranza, riuniti a Palazzo Chigi, avviavano la discussione sulla riduzione della tassa sugli immobili.
Ma che federalismo imbroglione è mai questo?
I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali.
Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione.
E invece è successo proprio così: negli ultimi vent’anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte.
Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
«È un sistema ingestibile» ammette Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e oggi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, con il ministro Gaetano Quagliariello.
Federalismo ingestibile.
«Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio, ndr ) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c’è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato» aggiunge Antonini.
Prendiamo l’Imu. Negli ultimi due anni è cambiata tre volte, e presto ci sarà la quarta versione. Con il risultato che i Comuni faranno i bilanci preventivi del 2013 a settembre.
E per far quadrare i conti, considerate le spese fisse e che tre quarti dell’anno sono già passati, non potranno che tagliare gli investimenti, gran parte dei quali sono stati decentrati agli enti locali.
E pazienza se sono proprio gli investimenti che servirebbero per rilanciare la crescita economica.
Il problema viene da lontano, da una riforma costituzionale che invece di fare ordine ha fatto esplodere il conflitto di competenze tra i vari livelli di governo e che oggi il nuovo esecutivo vuol correggere.
Dai tagli lineari degli ultimi anni, che come dice Antonini «hanno colpito senza criterio, finendo per penalizzare gli amministratori virtuosi e premiare gli incapaci. Facendo crescere irresponsabilità ed inefficienza».
E anche dal federalismo fiscale, avviato e lasciato a metà del guado, tanto che gli stessi saggi del presidente della Repubblica, Giorno Napolitano, hanno inserito il completamento del processo tra le priorità assolute dell’agenda di governo.
Che punta dritto alla revisione della Costituzione, con il riordino delle competenze tra i vari livelli di governo.
Policentrismo anarchico.
Del resto, in questo federalismo non si sa chi fa che cosa, e la confusione regna sovrana.
«Sono dieci anni che deve essere approvata la Carta delle Autonomie – sottolinea Antonini -, sono vent’anni che devono essere costituite le città metropolitane. Il decentramento significa avvicinare il più possibile ai cittadini la porta cui bussare quando le cose non vanno più. Ma invece del federalismo fiscale, invece del decentramento, abbiamo creato un policentrismo anarchico». Dove ognuno fa quello che gli pare. Pensiamo alle opere pubbliche: ogni ente locale mette un veto, e ogni veto costa. Tanto, tantissimo.
Un esempio? «Costruire un chilometro di linea ferroviaria – racconta ancora Antonini – costa 13 milioni di euro in Francia, 15 in Spagna e 50 in Italia».
Sarà il Titolo V, la mancanza di coordinamento, saranno i tagli lineari o la confusione istituzionale, resta il fatto che agli italiani il federalismo riserva soltanto dolori.
Tanto per dire.
L’anno scorso, primo anno di vita della nuova Imu, il 25% dei Comuni ha aumentato l’aliquota di base (per un totale di 3,8 miliardi di maggiore incasso).
Quest’anno, oltre a Genova, già a inizio di maggio il 17,6% dei Comuni italiani aveva deliberato l’aumento per quest’anno delle tasse sugli immobili.
Tra il 2011 ed il 2013 l’80% delle Province ha provveduto ad elevare al livello massimo, il 16%, l’imposta sulle assicurazioni. Secondo uno studio della Uil, poi, dopo l’impennata degli anni scorsi è molto probabile per il 2014 un nuovo incremento delle addizionali Irpef regionali: quasi 5 miliardi in più, altri 140 euro l’anno da pagare per ogni contribuente.
Tra il 2000 ed il 2012 il gettito delle addizionali regionali è passato da 2,5 a 10,6 miliardi, quello delle sovrattasse comunali da 500 milioni a 4 miliardi, l’Ici/Imu da 8,4 a 22,6 miliardi, l’Irap da 27 a 33 miliardi.
Senza contare le tariffe dei servizi pubblici come la raccolta rifiuti, gli asili nido, il trasporto locale.
150 miliardi di tagli. Un salasso. Che tuttavia non è difficile spiegare, perchè in questi venti anni che hanno visto crescere la spesa e le tasse a livelli esponenziali, sia al centro che in periferia, l’unica cosa rimasta al palo sono i trasferimenti dello Stato agli enti locali.
Erano 72 miliardi nel 1992, e 86 miliardi l’anno scorso.
Un 20% in più, a fronte di una spesa lievitata nel frattempo del 125%, da 90 a 205 miliardi.
Al giro di vite sui trasferimenti, negli ultimi anni, si è sommata la stretta sul patto di Stabilità interno.
Tra il 2009 ed il 2015, per effetto di misure già prese, i tagli su Comuni, Province e Regioni ammonteranno a 149,9 miliardi: 61,6 miliardi di trasferimenti in meno e 88,3 miliardi sul patto di Stabilità interno. Logico che poi i sindaci ed i governatori aumentino le tasse.
Detroit fallisce, Napoli vive.
Tanto più che nel federalismo all’italiana non c’è neanche il rischio di dover pagare cara una simile scelta di fronte ai propri elettori. Anzi.
Il sacrosanto principio del «fallimento politico» introdotto dai decreti del federalismo, che ad esempio portavano all’ineleggibilità per dieci anni dei governatori responsabili del dissesto della sanità regionale, è stato prima edulcorato in Parlamento, poi cassato dalla Corte Costituzionale appena tre giorni fa.
Siamo al paradosso che, nel caso i conti della sanità andassero a rotoli, gli stessi governatori regionali che magari hanno causato il disastro, in base alla legge attuale vengono nominati Commissari.
Saltando a piè pari pure il ruolo del consiglio regionale.
Ancor peggiore è stata la sorte delle sanzioni politiche immaginate per i sindaci incapaci. Che come i governatori, invece di essere puniti per la cattiva gestione, oggi vengono premiati.
Merito di un emendamento passato in Parlamento alla fine dell’anno scorso nell’indifferenza generale.
Il dissesto guidato, la procedura che portava i Comuni ad una sorta di concordato preventivo, ed i sindaci verso l’addio alla vita politica, è stato rivoluzionato.
Sbagli e ti cacciano? Ma quando mai: se il Comune è con l’acqua alla gola il sindaco va a bussare cassa a Roma.
E lo Stato gli dà un bel prestito decennale (a carico della fiscalità generale) e la garanzia che a lui non succederà proprio niente.
Detroit fallisce e porta i libri in tribunale. Napoli e Reggio Calabria galleggiano.
Mario Sensini
(da “il Corriere della Sera“)
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Marzo 26th, 2013 Riccardo Fucile
IN DIECI ANNI LE IMPOSTE TRIBUTARIE DI REGIONI, PROVINCE E COMUNI SONO CRESCIUTE DEL 32,2%
Regionali, comuni e province puntano sui contribuenti, per far quadrare i conti dei bilanci.
In un anno le imposte delle amministrazioni sono aumentate di 9,2 miliardi, arrivando a un totale di 182,9 mld (+5%).
E dire che sembrava iniziato un trend positivo, di riduzione delle tasse locali, partito nel 2008 e proseguito l’anno successivo.
Ma già nel 2010 l’imposizione è tornata a salire e l’anno successivo la tendenza è stata confermata con ulteriori incrementi.
Proprio nel periodo della crisi, quando cresce il numero delle famiglie in difficoltà , gli enti hanno deciso alzare l’asticella delle entrate fiscali, con incrementi annuali che superano anche il 10%.
I dati, contenuti nelle tabelle dell’Istat ed elaborati dall’Adnkronos, mostrano che rispetto a 10 anni prima le entrate fiscali, tra imposte dirette e indirette, sono aumentate di 44,5 mld (+32,2%).
Tornando al confronto annuale, secondo i dati più aggiornati dell’istituto di statistica, le imposte comunali dal 2010 al 2011 sono cresciute di 4,8 mld arrivando a 100,8 mld (+5%).
Seguono a breve distanza le regioni, che hanno portato il gettito complessivo a 77,5 mld con un incremento di 4 mld (+5,4%).
Mentre le province hanno aumentato gli incassi di quasi mezzo miliardo, arrivando a 4,7 mld (+11,1%).
Confrontando le entrate fiscali del 2001 con quelle del 2011 emerge che l’aumento è stato pari a 23,9 miliardi per i comuni (+31,1%); mentre per le regioni il gettito risulta di 19,3 miliardi in più (+33,1%).
Ma sono le province le strutture che in 10 anni sono riusciti a ottenere i risultati più elevati, con un gettito che è aumentato del 41,3% (+1,4 mld).
Nonostante l’aumento del peso fiscale le entrate complessive degli enti locali e territoriali si riducono, a causa del taglio dei trasferimenti.
Così cresce la quota fiscale sul totale delle risorse a disposizione di comuni e regioni, passando rispettivamente dal 39,7% del 2010 al 42,3% del 2011 e dal 44,9% al 48,2%. Tornando indietro di altri 10 anni si scopre che nel 1991 le entrate fiscali ammontavano a solo il 14,2% del totale per i comuni e al 15,2% per le regioni.
La differenza è da attribuire soprattutto al livello di imposizione molto più contenuto: i comuni si limitavano a una tassazione totale di 15,5 mld mentre le regioni si fermavano a 10,1 mld.
Le tasse, da allora, sono aumentate del 548,8% nel caso degli enti locali e del 665,7% nel caso degli enti territoriali.
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
RESPINTO L’EMENDAMENTO DELLA LEGA PER TRASFORMARE PALAZZO MADAMA IN UNA CAMERA DELLE REGIONI.. DOMANI LA PROPOSTA PASSERA’ IN AULA E IL CARROCCIO PRESENTERA’ LA PROPOSTA DI MODIFICA LEGATA AL SEMI-PRESIDENZIALISMO VOLUTO DAL PDL
Aveva avuto la precedenza sull’emendamento per il taglio dei deputati, ma il Senato federale, almeno per ora, non ci sarà .
La commissione Affari costituzionali del Senato ha infatti respinto l’emendamento della Lega per trasformare Palazzo Madama in una Camera delle Regioni.
Il voto è finito 13-13 e, visto che il pareggio nella votazione comporta il respingimento della proposta, il testo non è passato.
In favore hanno votato, oltre al Carroccio, anche Pdl e Coesione nazionale.
Contrari invece Pd, Terzo polo, Idv e Alberto Tedesco, l’ex Pd ora al Misto.
Si è astenuto il presidente della commissione e relatore, Carlo Vizzini.
Prima della votazione è stato respinto anche un sub-emendamento al testo della Lega a firma Benedetti Valentini (Pdl) che proponeva di togliere ai ‘senatori regionali’ (eletti dai consigli regionali e che nella proposta Calderoli possono partecipare alle sedute del Senato con diritto di voto sulle materie concorrenti) le prerogative parlamentari, compresa la diaria.
Sono stati invece ritirati tutti i sub-emendamenti del Pdl che puntavano a ‘mitigare’ il testo della Lega perchè il Carroccio ha fatto sapere che non li avrebbe appoggiati.
Ora la battaglia si sposta in Aula dove domani la Lega ripresenterà la proposta di modifica e in assemblea ha i numeri favorevoli.
Dall’esito della votazione dipenderà anche il via libera alla riduzione del numero dei senatori, dopo il taglio della composizione della Camera (da 630 a 508 deputati).
Se passasse l’emendamento della Lega si avrebbe sì una riduzione, ma di appena 4 componenti.
Una proposta legata a filo doppio con il semi-presidenzialismo voluto dal Pdl e che verrà messo in votazione in commissione solo dopo che sarà stato votato in Aula il Senato federale.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 15th, 2012 Riccardo Fucile
IL TESORETTO ACCUMULATO DAL 1994 E BLINDATO IN UN FONDO PATRIMONIALE
Ville, appartamenti, terreni, cascine: una girandola di investimenti immobiliari iniziata nel ’94, prima volta della Lega al governo.
E continuata fino a ieri.
Con tanto di fondo patrimoniale per scudare i beni dei Bossi.
Un’inarrestabile corsa nel segno dell’affarismo padano.
Fino all’ultimo colpo: una cascina più terreni acquistati dieci mesi fa per il “contadino” Roberto Libertà Bossi, uno dei rampolli della family.
C’è una Lega del Mattone che in questi anni ha fatto affari all’ombra della Lega di Famiglia, meglio nota come «cerchio magico».
UN ACQUISTO OGNI ANNO
Il perno è lei, Manuela Marrone, first sciura leghista, un mix di ritrosia siciliana e concretezza lombarda.
E’ soprattutto grazie al suo fiuto che, da quando 18 anni fa il Carroccio ha iniziato a salire ai piani alti del Palazzo di «Roma ladrona», è lievitato il patrimonio immobiliare dei Bossi.
Si tratta di un tesoro consistente: diciotto unità registrate al catasto con il nome della moglie del Senatur. In media: un’acquisizione all’anno (dal ’94 a oggi).
Sette in più rispetto agli «undici immobili» che – stando a una telefonata intercettata dalla Dia di Reggio Calabria tra l’imprenditore Stefano Bonet e la dipendente della Lega Lubiana Restaini – sarebbero «intestati» alla moglie del Senatùr (gli «acquisti» non lasciavano tranquillo l’ex tesoriere leghista Francesco Belsito).
Di qui il dubbio dei magistrati: con quali soldi sono stati comprati case (2), fabbricati (2) e terreni (14)?
LO SCUDO PATRIMONIALE
Se per gli investimenti finanziari la Lega andava a parare in Tanzania e a Cipro, meno globali sono le avventure immobiliari della family.
Gemonio non è un paradiso fiscale: ma quando si tratta di rogitare la scelta dei Bossi cade sempre qui.
Il valzer del mattone inizia il 30 aprile del ’94.
A Roma il Carroccio piazza 180 parlamentari (primo governo Berlusconi-Lega), a Gemonio i coniugi Bossi acquistano un terreno e dividono la proprietà (al 50%).
Lo stesso giorno Umberto cede alla moglie altri tre terreni e un appartamento. Passano quattro anni: è il ’98. Periodo difficile per il partito padano. Berlusconi è il «mafioso di Arcore», Bossi è travolto da un valanga di querele (poi in buona parte rientrate).
Il 6 febbraio il Senatur e la moglie bussano al notaio di fiducia, Rodolfo Brezzi, studio a Samarate (Varese).
Costituiscono un fondo patrimoniale per blindare gli immobili di famiglia da eventuali pignoramenti.
DALLE TERRE AL CASTELLETTO
Eretto lo “scudo” di Gemonio, protetti i beni dalle possibili rivalse dei creditori, dalla fine degli anni ’90 la Lega del Mattone viaggia a gonfie vele.
Mettendo le mani sul paesotto culla del federalismo.
Il 12 gennaio 2001 Manuela si aggiudica un fabbricato e altri tre terreni.
Uno glielo vende Emilia Rosaspina, gli altri la Gestione Santa Chiara sas. 13 luglio 2002: altra terra, altro atto notarile. Un anno dopo – è il 19 giugno 2003 – i Bossi acquistano (in comproprietà ) il “castelletto” di via Verbano, residenza ufficiale della famiglia.
La villa ora è sotto la lente della magistratura.
E’ la segretaria amministrativa Nadia Dagrada a rivelare come la Lega Nord avesse pagato alcune spese di ristrutturazione, in particolare il rifacimento della terrazza (con tanto di fattura dell’architetto).
Ma aprendo la cartellina “The Family” i pm scoprono di più: il 10 dicembre 2010 la Vittoria Assicurazioni scrive alla Lega per sollecitare il pagamento di 779,38 euro relativo alla polizza della casa. Dodici giorni dopo parte il bonifico: ordinante, è Lega Nord.
CASCINA E ATTICO
L’ultimo affare i Bossi lo fanno il 24 giugno 2011.
Il secondogenito Roberto Libertà , quello del gavettone alla candeggina, ama l’agricoltura.
A Brenta, vicino a Gemonio, una signora milanese vende un lotto composto da: una casa, un fabbricato per uso agricolo e cinque terreni. Lady Bossi compra, e si intesta.
Diciottesima proprietà in 18 anni.
Ignoto, come in tutti gli altri casi, il valore della transazione.
Quel che è certo è che il primo febbraio, cinque mesi prima, il marito Umberto si mette in tasca 480mila euro rivendendo una casa ricevuta in eredità – lo stesso giorno – dall’anziana militante leghista Caterina Trufelli (a parlarne per primo è “Libero”).
Il Senatur avrebbe dovuto girare il lascito alla Lega e comunicarlo alla Camera dei Deputati. E invece no.
Dove sono finiti i soldi? E’ la domanda che si fanno i pm.
Un dubbio che accresce altri sospetti.
Come quello acceso da una telefonata intercettata tra la Dagrada e Belsito nella quale si parla di «500 mila euro da giustificare solo per il 2011… nel gioco tra le due signore (Marrone e Rosy Mauro)».
Gioco immobiliare col denaro della Lega?
Acquisti, ma non solo. Un’altra voce riguarda gli affitti. Quello dell’attico romano del Senatur, per esempio (in via Nomentana, 5mila euro di canone). E poi i due appartamenti milanesi nella disponibilità di Renzo Bossi.
Si favoleggia che uno gli sia stato addirittura offerto da Berlusconi.
A ogni modo: chi ha pagato?
Paolo Berizzi
(da “La Repubblica”)
argomento: Bossi, Costume, denuncia, federalismo | Commenta »
Aprile 3rd, 2012 Riccardo Fucile
LA NUOVA IMU GRAVERA’ IN MEDIA PER UN 60% IN PIU’…SOLO BOLOGNA, FIRENZE E PALERMO PAGHERANNO IN MENO, TORINO E GENOVA INVECE IL DOPPIO
Rispetto alla vecchia Ici, che dall’ultimo governo Prodi in poi sulla prima casa non si pagava più, la nuova Imu sarà molto più pesante.
Perchè, aliquote a parte, è la base di calcolo della nuova «Imposta municipale unica» ad essere molto più alta visto che oltre all’Ici incorpora tassa rifiuti ed imposte sui servizi erogati dal Comune.
In media il 60% in più per quasi tutte le tipologie di fabbricati, abitazioni o immobili commerciali che siano.
Poi le singole amministrazioni, che possono calibrare a loro piacere le aliquote (partendo dai minimi previsti dal governo, il 4 per mille sulla prima casa ed il 7,6 per mille per le seconde case) ci mettono del loro e la stangata, fatte salve alcune eccezioni, può essere anche molto più pesante.
In base alle elaborazioni fatte per La Stampa dal Sunia, il sindacato inquilini della Cgil, si può arrivare anche ad un raddoppio rispetto alla vecchia imposta, come nel caso di Torino, sino ad un +239% (casa sfitta a Milano) e addirittura un +7-800% per gli alloggi affittati con canoni concordati a Genova.
Tra le grandi città , anche per effetto della detrazione base di 200 euro (che sale poi a 400 per le famiglie più numerose), solo Bologna e Firenze ed in parte Palermo riescono a far pagare meno dell’imposta precedente.
Per tutti gli altri son dolori.
Anche questi sono aumenti un poco «rozzi», per usare la definizione dell’altro giorno del presidente del Consiglio.
Che però ancora una volta segnalano lo stato, o meglio il cattivo stato, delle nostre finanze.
Sia quelle nazionali, visto che lo Stato centrale incamererà più o meno la metà del gettito, sia quelle locali, visto che tanto più i Comuni sono in difficoltà a far quadrare i loro bilanci tanto più sono indotti a tassare le case.
Certo questo è un modo sbagliato di far partire sul serio il federalismo fiscale.
Perchè è chiaro che se i sindaci ci devono mettere la faccia fissando loro le aliquote e poi il grosso degli incassi finisce a Roma cade il primo presupposto del principio di un sistema federale, quello del legame tra tassazione, qualità e quantità dei servizi erogati e responsabilità delle scelte.
Sostengono non a torto i sindaci che siccome una buona parte dell’imposta la incasserà lo Stato e non i Comuni, le amministrazioni locali per ottenere lo stesso gettito fiscale che avevano in precedenza non potranno che aumentare le aliquote.
E questo al solo scopo di assicurarsi le stesse risorse impiegate fino ad oggi per erogare i servizi fondamentali.
Col paradosso che qualora decidessero di spingere ancor di più il pedale sull’acceleratore, comunque una fetta dei maggior introiti finirebbe sempre allo Stato.
E’ evidente che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona. E che forse anche prima della fine dell’emergenza finanziaria, occorrerà in qualche modo riequilibrare.
Altri problemi in vista sono quelli pratici, operativi.
Come pagare? E soprattutto quando?
Qui per i cittadini-contribuenti si profilano altri guai, visto che i tempi tendono a slittare (i Comuni hanno tempo sino al 30 giugno per approvare i loro bilanci e quindi fissare le aliquote, ma c’è il rischio che passi anche uno slittamento al 30 settembre), mentre la scadenza della prima rata resta ferma al 16 giugno (il 16 dicembre si pagherà il saldo).
E’ evidente non solo che la definizione delle pratiche e soprattutto i conteggi non potranno essere fatti contestualmente all’ elaborazione dei 730 come avveniva in passato, ma che si rischia il caos.
Proprio ieri la Consulta dei Caf, i centri di assistenza fiscale, hanno sollevato la questione segnalando che inevitabilmente i contribuenti dovranno duplicare file e pratiche, e chiedendo al governo che almeno la prima rata venga calcolata sulle aliquote minime.
Se c’è da pagare, e tanto si dovrà pagare, almeno che al cittadino venga eliminato questa ulteriore ragione di stress e di perdita di tempo.
Paolo Baroni
(da “La Stampa“)
argomento: emergenza, federalismo | Commenta »