Giugno 7th, 2021 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA AL CORRIERE DELLA SERA
Giuseppe Conte a tutto campo nella prima intervista da quando, a febbraio, ha lasciato Palazzo Chigi.
Lo stato d’animo con cui torna in politica?
«Molto motivato — risponde l’ex premier via Zoom —. Pronto a continuare a lavorare per il bene dei cittadini».
Lei crede al «Conticidio» per mano di un complotto internazionale?
«Nessuno ha mai pensato a un complotto internazionale. Il mio governo ha sempre ricevuto forte sostegno dalle cancellerie europee, anche perché, se non lo avesse avuto, l’Italia non avrebbe ottenuto l’affidamento per i 209 miliardi del Recovery»
Che volto avrà il nuovo Movimento?
«Avrà un respiro più ampio e internazionale, sarà in costante dialogo con la società civile e con tutte le componenti sane del Paese. Allargheremo il nostro raggio di azione a tutti i ceti produttivi, anche a quelli a cui in passato non abbiamo guardato con la dovuta attenzione. Penso a tutta la filiera dei servizi, al commercio, alle piccole e medie imprese, ai lavoratori autonomi, ai professionisti».
Il grido «onestà, onestà» andrà in soffitta?
«Saremo ancora più impegnati a combattere mafie e corruzione, concentrati a favorire le innovazioni tecnologiche, la sostenibilità ambientale ed energetica e gli interventi mirati a rendere il nostro Paese più vivibile ed equo per i giovani, le donne e le persone non autosufficienti. E non ci saranno più “no” pregiudiziali».
Quando vedrà Draghi?
«Ci siamo sentiti, ci incontreremo presto. Questo periodo non ha giovato al M5S, ma con la nuova leadership tornerà a far sentire la sua voce in modo chiaro e forte e lavoreremo, come sempre, per il bene del Paese».
Continuerete a sostenere il governo, o prevarrà la spinta di chi vuole uscire?
«Alcune decisioni hanno scontentato i cittadini e suscitato perplessità, penso al sostegno alle imprese, ad alcuni indirizzi in materia di tutela dell’occupazione e di transizione ecologica. Disorientamento hanno provocato anche il condono fiscale e adesso l’emarginazione dell’Autorità anticorruzione. È normale che il disagio dei cittadini si ripercuota anche sulla forza che conserva la maggioranza relativa in Parlamento. Ma noi che abbiamo lavorato per la tenuta del Paese durante le fasi più acute della pandemia vogliamo essere protagonisti anche della ripartenza. Lo saremo in modo leale e costruttivo senza rinunciare ai nostri valori e alle nostre battaglie»
La prescrizione sembra destinata a cambiare.
«Con Bonafede abbiamo programmato massicci investimenti per accelerare i processi, per una giustizia più efficiente ed equa. Siamo invece contrari a meccanismi che alimentino la denegata giustizia. Ci confronteremo in modo chiaro e trasparente con le altre forze politiche».
Il dualismo tra lei e Di Maio tornerà a galla, o il ministro degli Esteri farà parte della sua squadra?
«Sono tre anni che questo presunto dualismo scompare e riappare sui giornali, in realtà abbiamo sempre lavorato proficuamente fianco a fianco e siate certi che Luigi darà il suo contributo fondamentale anche al nuovo Movimento».
Draghi lo vede meglio a Palazzo Chigi o al Quirinale?
«In questo momento è importante che il governo possa proseguire il suo percorso e dobbiamo evitare che il toto-Quirinale diventi un elemento di confusione»
Le dispiace che Draghi abbia segnato la discontinuità dal suo governo dando subito la delega ai Servizi a Gabrielli e sostituendo, al Dis, Vecchione con Belloni?
«Sono scelte che rientrano nelle prerogative del premier. Durante la scorsa esperienza di governo altri sembravano averlo dimenticato e si stracciavano le vesti ogni giorno, perché esercitavo queste prerogative di legge. Il dibattito su continuità e discontinuità non mi appassiona, non vivo la politica sulla base di personalismi».
Figliuolo invece di Arcuri?
«Sono situazioni incomparabili. Arcuri ha fatto un lavoro straordinario nonostante critiche ingenerose e spesso strumentali, ha permesso all’Italia di partire con il piede giusto nella fase in cui dovevamo fare i conti con la mancanza dei vaccini e comunque anche allora eravamo tra i primi in Europa. La situazione oggi è molto diversa, Figliuolo e le Regioni stanno efficacemente completando la campagna vaccinale».
Coprifuoco, sì o no?
«Vista la calda stagione mi preoccuperei meno di mantenere il coprifuoco e più di far ripartire tutte le imprese, soprattutto quelle che soffrono per la concorrenza dei giganti del commercio online, quelle della filiera turistica, della cultura e dello spettacolo».
Che leader sarà, Conte?
«Un leader eletto democraticamente e chiamato a operare la sintesi in modo da orientare la rotta e tenere la barra dritta. Non avremo un uomo solo al comando, ma nuove figure e ruoli con numerosi organi che si occuperanno di rapporti col territorio, rapporti internazionali, iniziative legislative, scuola di formazione…»
Cambierà nome al M5S?
«Dopo che i tecnici avranno verificato i dati degli iscritti annunceremo le tappe, lanceremo il cronoprogramma e anche la manifestazione a cui stiamo lavorando. Ho assunto con grande entusiasmo l’impegno a elaborare il nuovo progetto e portare il nuovo statuto, che sarà votato prima delle cariche elettive. Il leader sarà eletto dagli iscritti. Li consulteremo ancor più di prima, attraverso una piattaforma telematica che rimarrà lo strumento principale».
Cadrà il limite del secondo mandato?
«La questione non è nel nuovo statuto, sarà risolta in seguito con il nuovo codice etico e la discussione sarà fatta in modo trasparente coinvolgendo anche gli iscritti».
Grillo resterà garante?
«Nel nuovo Movimento sarà ben chiara la figura del garante e questa figura non può non essere Grillo, presenza insostituibile»
Davide Casaleggio sbatte la porta e se ne va. Lei proverà a impedire che faccia un movimento alternativo?
«Le strade si sono divise, ma io e tutto il Movimento abbiamo grande rispetto per Casaleggio, padre e figlio. Bisogna avere rispetto per la propria storia, non ci può essere futuro senza radici. Partiremo dai valori fondativi come trasparenza, partecipazione, condivisione e saremo ancora più innovativi sulla lotta alle diseguaglianze sociali, l’attenzione ai bisogni delle famiglie e delle imprese. Sulla base di questi principi costruiremo una struttura leggera, ma efficiente, con un linguaggio e un metodo di lavoro rinnovati».
Come rimettere insieme i cocci, dopo l’uscita di nomi pesanti come Di Battista, Lezzi, Morra, Trenta?
«L’appoggio a Draghi è stato una scelta difficile e io ho rispetto per chi si è allontanato. Ma non potevamo volgere le spalle alla sofferenza degli italiani, quella scelta andava compiuta e io ho subito posto le condizioni perché partisse il nuovo governo e si completassero campagna vaccinale e Pnrr. Di Battista è un ragazzo leale e appassionato, adesso è in partenza per l’America Latina ma quando tornerà ci confronteremo e valuteremo le ragioni per camminare ancora insieme».
Si candiderà alle suppletive di Roma?
«Io non ho mai pensato di correre per il seggio di Roma. Mi farebbe davvero molto piacere restituire quello che Roma mi ha dato, ma non posso assumere impegni con i romani che non potrei mantenere. Devo dedicarmi a tempo pieno alla ripartenza del Movimento. Un seggio in Parlamento è un onore ma sarebbe un disonore lasciarlo sistematicamente vuoto».
Le Amministrative sono la prova che l’alleanza col Pd è un fallimento?
«Io non do affatto un giudizio negativo del dialogo che stiamo coltivando col Pd e le altre forze di sinistra, su alcuni territori abbiamo già trovato delle intese e continuiamo a lavorare per siglare accordi in altri Comuni. Come già a Napoli, stiamo lavorando insieme per costruire un solido patto anche per le Regionali calabresi. La direzione di marcia è chiara e la nostra identità sarà così forte che ci consentirà di dialogare anche con l’elettorato moderato».
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 5th, 2021 Riccardo Fucile
“NON SI PUO’ IMMAGINARE CHE IL CONTROLLORE SIA GERARCHICAMENTE SUBORDINATO AL CONTROLLATO”
Con l’ultimo decreto legge approvato venerdì sera dal Consiglio dei ministri il governo di Mario Draghi fa “preoccupanti passi indietro in materia di anticorruzione“.
L’accusa arriva direttamente del presidente dell’Anac, Giovanni Busia, che denuncia il rischio che la competenza in materia venga trasferita dalla sua autorità agli uffici del ministero della Pubblica amministrazione.
“Preoccupano le scelte effettuate con l’ultimo decreto legge in tema di anticorruzione, proprio in un momento in cui massima dovrebbe essere l’attenzione verso la gestione trasparente delle risorse, anche per il rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata e delle mafie”, afferma Busia, facendo riferimento alla gestione delle risorse che arriveranno con il Recovery Fund.
“Se le bozze circolate venissero confermate, si rischia di aprire la strada al passaggio di competenze in materia anticorruzione da un’autorità indipendente a uffici governativi“, denuncia infatti il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
Il riferimento è alle disposizioni contenute all’articolo 6 del decreto Reclutamento, che regola il “Piano integrato di attività e organizzazione”. Le pubbliche amministrazioni lo devono adottare entro fine anno “per assicurare la qualità e la trasparenza dell’attività amministrativa e migliorare la qualità dei servizi”, si legge nell’ultima bozza del decreto. Il piano, stando al testo, tra le varie cose definisce anche “gli strumenti e le fasi per giungere alla piena trasparenza dell’attività e dell’organizzazione amministrativa nonché per raggiungere gli obiettivi in materia di anticorruzione“.
Stando alla bozza dell’articolo 6, spiega Busia, i piani e la verifica degli adempimenti in materia di trasparenza e anticorruzione rischiano di spostarsi dall’Anac agli uffici del ministro della Funzione Pubblica, in mano a Renato Brunetta.
“Si avrebbe un deciso passo indietro sulla credibilità del nostro sistema anticorruzione: non si può immaginare che il controllore sia gerarchicamente subordinato al controllato, invece che indipendente dallo stesso”, sottolinea il presidente dell’Anac.
“Non meno preoccupanti – continua Busia, che lavorò insieme a Draghi quando questi era capo dipartimento del Tesoro – le scelte in materia di reclutamento. Non si dota l’Anac delle risorse necessarie per rafforzare i presidi di legalità, potenziando ancora una volta per tali fini solo le strutture ministeriali della Ragioneria dello Stato”, come previsto dall’art. 8 del decreto legge.
“Tutto questo, mentre vengono addirittura raddoppiate le quote di dirigenti esterni e di nomina politica, invece di valorizzare le risorse già assunte tramite concorso. Confido nella sensibilità del governo – conclude Busia, che peraltro ha sempre lavorato e collaborato con il governo Draghi – per porre rimedio a tali evidenti errori“.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2021 Riccardo Fucile
“GG”. NELLE CHAT ORMAI LO CHIAMANO COSÌ: “RISPONDE AL PREMIER, NON AL CAPITANO”
Sulle nomine nelle partecipate di Stato decide il premier Mario Draghi, dando ascolto solo ai suoi più stretti collaboratori Francesco Giavazzi, Roberto Garofoli e, in seconda battuta, a Daniele Franco e al dg del Tesoro Alessandro Rivera.
I partiti, come sul caso della nomina di Dario Scannapieco ai vertici di Cassa Depositi e Prestiti e di Luigi Ferraris alle Ferrovie, vengono informati solo a cose fatte. Con grande irritazione dei ministri che scoprono tutto dai giornali. Tranne uno: Giancarlo Giorgetti.
Il titolare dello Sviluppo Economico e vicesegretario della Lega è l’unico ministro a cui Draghi dà del tu – i due si conoscono da quando il giovane bossiano di Cazzago Brabbia (Varese) era presidente della commissione Bilancio e Draghi direttore generale del Tesoro – ed è l’uomo delle nomine nel Carroccio, almeno dai tempi del governo gialloverde quando, da potente sottosegretario a Palazzo Chigi, smistava i suoi fedelissimi nei ministeri e, appunto, nelle partecipate.
Se a questo si aggiunge la fitta rete di relazioni che Giorgetti nel tempo ha tessuto tra Vaticano, alti burocrati fino ai Servizi, non è difficile capire perché nelle ultime settimane il titolare del Mise sia stato invitato più volte a Palazzo Chigi per partecipare alla grande abbuffata delle nomine di Stato.
Giorgetti nei giorni scorsi ne ha parlato con Giavazzi, consigliere economico del premier, e con Garofoli, sottosegretario a Chigi, indicando anche le sue preferenze su alcune pedine chiave.
Tra queste la nomina di Scannapieco in Cdp, fortemente sponsorizzato dal consulente di Giorgetti al Mise Giovanni Tria che già lo voleva nel 2018 contro il volere del M5S che la spuntò con Fabrizio Palermo, ma anche la richiesta di rimuovere Alessandro Profumo da Leonardo (un dossier da cui per ora Draghi si tiene lontano perché Profumo non è in scadenza) e un nome per la Rai: dopo aver chiesto a Giorgetti un rapporto sullo stato dei conti della tv pubblica, il titolare del Mise avrebbe indicato al premier Raffaele Agrusti per prendere il posto di Fabrizio Salini come Ad.
Agrusti, ex manager di Generali e di Rai Way, potrebbe essere quel tecnico che sta cercando il premier, modello Luigi Gubitosi, per mettere in ordine i conti di viale Mazzini e non scontentare i partiti. Non è detto che la palla di Giorgetti vada in buca ma chi lo conosce bene ricorda che a febbraio era stato proprio lui a tifare per la nomina di Luigi Signorini a Dg di Bankitalia per sostituire il ministro Franco.
L’attivismo sulle nomine della testa d’uovo del Carroccio però ha fatto molto arrabbiare il leader della Lega Matteo Salvini. Era stato proprio lui a chiedere a Draghi di essere coinvolto nelle nomine e, in uno dei tanti momenti di scontro col suo numero due, gli aveva fatto sapere: “Decido io”. Non è andata così e adesso Salvini, informato solo a cose fatte, non nasconde coi suoi la sua irritazione.
Giorgetti, “GG” come viene chiamato nelle chat leghiste quasi a non volerlo nominare, ormai viene considerato un corpo estraneo alla cerchia ristretta del segretario: “Risponde più a Draghi che a Salvini…” è la sentenza di un salviniano di ferro.
Tant’è che giovedì non è passata inosservata l’uscita di Giorgetti agli europarlamentari sulla collocazione del partito in Ue: “Io ho le mie idee, ma mi risulta che Salvini stia lavorando verso nuove prospettive”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 29th, 2021 Riccardo Fucile
DETTA ANCHE DEL MARCHESE DEL GRILLO
Contravvenendo all’impegno preso ieri, ho letto i giornali. E – sorpresa! – nessuno di quelli che attaccavano Conte perché voleva assumere 300 tecnici nella task force a Palazzo Chigi per controllare gli appalti del Recovery ha attaccato Draghi perché vuole assumere 350 tecnici nella task force a Palazzo Chigi per controllare gli appalti del Recovery (salvo cambiare idea ieri).
Strano, vero?
Ora immaginate che sarebbe accaduto se Domenico Arcuri, quand’era commissario, fosse stato fotografato mentre chiacchiera al chiuso con altri a distanza ravvicinata e senza mascherina e pranza in piedi in un locale chiuso (cose vietate a tutti gli altri italiani), per giunta in un buffet senza distanze di sicurezza in un assembramento di decine di persone (mentre i buffet, a noi comuni mortali, sono consentiti solo a distanza di 1 o 2 metri e senz’assembramenti).
Tutti ne avrebbero preteso le immediate dimissioni, come peraltro hanno fatto anche se Arcuri non faceva nulla del genere.
L’ha fatto ieri a Perugia, come ha documentato Tpi con le foto qui accanto, il generalissimo Figliuolo. Possiamo anticiparvi in esclusiva mondiale che nessuno chiederà la sua testa, anche per l’oggettiva difficoltà di trovarla.
Un ultimo esercizio. Sentite queste parole, riportate dall’Ansa: sul prossimo via libera dell’Ema al vaccino dai 12 anni in su, “speriamo domani ci sia il via, speriamo a immunizzare tutti i nostri ragazzi, è fondamentale non solo per essere a scuola ma anche dal prima e il dopo: si devono incontrare è giusto lo facciano, la scuola è già sicura”. E ancora: “Abbiamo predisposto tutto per un esame di maturità che sia tale: quest’anno abbiamo introdotto il fatto che da marzo i Consigli di istituto hanno predisposto un elaborato. Non è un esame a caso ma un esame che parte da uno scritto pensato, ragionato, discusso. È importante sapere scrivere, altrimenti non si sa parlare”.
Sante parole, almeno le ultime nove. Il resto appartiene a un idioma finora sconosciuto, probabilmente di ceppo non indoeuropeo.
Immaginate se a parlare così fosse stata Lucia Azzolina: apriti cielo. Invece per fortuna è il suo successore Patrizio Bianchi, non nuovo alle licenze poetiche, o prosaiche. Al giuramento, gli domandarono quando avesse saputo della nomina e lui rispose sicuro: “L’ho imparato ieri… Speriamo che faremo tutti bene”.
Inezie, rispetto agli annunci sulla scuola che “sarà la prima a riaprire” e invece è stata la prima a richiudere”; o sulla fine dell’anno scolastico spostata “a fine giugno per recuperare le ore perse” e poi addirittura anticipata di una settimana. Ma nessuno dice niente.
È la legge dei Migliori, detta anche del marchese del Grillo: io so’ io e voi nun siete un cazzo.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Maggio 29th, 2021 Riccardo Fucile
UNA STRATEGIA CHE PORTERA’ SOLO ALLA SCONFITTA ANNUNCIATA
Prima legge dei governi tecnici: la sinistra sostenendoli si svena, e dona sempre il suo sangue alla Causa. Poi – subito dopo, quando si vota – rimane, quasi immancabilmente, fregata nelle urne.
Questo meccanismo vizioso si sta ripetendo anche adesso, per effetto della continua e logorante guerriglia della Lega nella maggioranza.
Sta accadendo, soprattutto, con il braccio di ferro sui provvedimenti economico-sociali, dove – per la prima volta in assoluto – si introduce un’altra novità: quella della Confindustria che detta i provvedimenti che predilige direttamente ad un pezzo della maggioranza (e indovinate quale? Sempre la Lega di Matteo Salvini, ovvio) con il silenzioso silenzio assenso di Mario Draghi.
Per certi versi questo ricorso storico ha dell’incredibile: cambiano le stagioni, i leader, i partiti coinvolti nel gioco politico, ma questa amara regola non sembra mutare mai. La sinistra è sempre quella che porta la croce. Come se questo copione fosse in realtà un comandamento non scritto della politica italiana.
È accaduto con il governo di Carlo Azeglio Ciampi, che portò l’ex governatore della Banca d’Italia al Quirinale, ma che poi fu seguito dalla vittoria di Silvio Berlusconi alle politiche del 1994.
È accaduto con il governo di Mario Monti, che fu seguito dalla celebre “non vittoria” del Pd di Pierluigi Bersani, nel 2013, malgrado tutti i sondaggi favorevoli della vigilia. La coalizione del bene comune (pagando il prezzo delle riforme più impopolari) non ottenne la maggioranza, come noto, e il centrodestra tornò subito protagonista, con le stagioni delle alleanze obbligate del Nazareno.
Oggi, il governo tecnico di Draghi, e la difficile convivenza tra il Pd di Enrico Letta e la Lega di Salvini ripropone questo tema del sacrificio unilaterale. Il nodo è: il centrodestra vive il governo istituzionale come un’opportunità di conflitto, con cui accrescere i propri consensi, mentre il centrosinistra è sempre gravato dal mito della responsabilità e del senso del dovere, a cui sacrificare le proprie bandiere.
Ed ecco il paradosso più curioso: questa volta il governo tecnico non era obbligato. Esistevano teoricamente, infatti, sia una maggioranza giallorossa a quattro partiti sia una maggioranza Ursula con la sola Forza Italia. La prima, come è noto, è stata uccisa dal veto di Matteo Renzi. La seconda – in modo meno clamoroso – dal veto dello stesso Draghi e (dietro di lui) di Sergio Mattarella.
Ma attenzione: il centrodestra, per di più privo di Giorgia Meloni, non avrebbe avuto i voti per governare. E anche il governo Draghi non potrebbe stare in piedi senza i voti di Pd e M5S. Per questo incredibile congegno, dunque, chi garantisce la maggioranza paga anche il conto, e i padroni di casa si ritrovano curiosamente sul banco degli imputati, additati come reprobi dai loro principali beneficiati.
Quindi Maria Stella Gelmini presenta i provvedimenti di tutto il governo, ma poi fa le interviste in cui li ascrive al merito del suo partito.
Giancarlo Giorgetti si accorda per votare un decreto, ma poi in Consiglio dei Ministri, giunto al momento del voto, dice a sorpresa che gli ha telefonato Salvini e che non lo può più approvare (scena teatrale e memorabile).
Il ministro Speranza viene attaccato da un partito della sua stessa maggioranza. Il ministro Giorgetti (ancora lui!) spiega con una pubblica intervista, il giorno dopo aver votato il provvedimento sul coprifuoco, che la Lega è contraria alle norme che ha appena votato.
E poi ovviamente sempre gli ineffabili ministri della Lega (e poi anche quelli di Forza Italia) accusano un altro ministro di sinistra, Andrea Orlando niente meno di aver “taroccato” i provvedimenti sul lavoro e sui licenziamenti, per inserire a tradimento una norma di maggiore protezione dei lavoratori a rischio.
La cosa davvero grottesca, in questo gioco al massacro, è che (secondo tutte le indagini demoscopiche) in questi mesi il partito di Salvini non sta traendo beneficio dalla sua linea di lotta e di governo. E che l’unica formazione che veramente sta capitalizzando la conflittualità interna alla maggioranza è il partito della Meloni, Fratelli d’Italia.
La seconda cosa curiosa è la constatazione che questo logorio è un gioco a senso unico: non ci sono dirigenti della parte sinistra della maggioranza che attaccano i loro colleghi di centrodestra con la stessa metodica pervicacia.
Ed ecco che cosa significa portare la croce: sei tu che garantisci la sopravvivenza della maggioranza, con i tuoi voti determinanti, ma sei sempre tu che devi fare da bersaglio al tirassegno dei tuoi oppositori interni.
Al termine di questo percorso c’è persino un altro elemento di scenario che complica il quadro (di cui abbiamo già parlato su TPI): la partita del Quirinale. Ovvero il progetto di smarcamento che Salvini coltiva, nell’imminenza del voto per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Se la Lega riuscisse a scongiurare un Mattarella bis ed eleggere al Colle Mario Draghi (diventando determinante nel voto), potrebbe persino comodamente concludere a un anno dal voto la sua esperienza di governo, smarcarsi, mettersi all’opposizione del nuovo inquilino di Palazzo Chigi chiunque fosse, e rifarsi una verginità in vista delle elezioni, ritornando con le mani libere.
Salvini non vede l’ora di tornare a battere i cari vecchi toni duri dell’indimenticabile stagione del Papeete. La domanda che bisogna farsi, e che probabilmente molti elettori di centrosinistra in queste ore si fanno è: conviene portare sempre la croce? E offrire sempre un sostegno incondizionato?
È giusto che Draghi non abbia mai strigliato gli esponenti del suo governo che stanno sulle barricate contro i loro stessi colleghi? Il ruolo di un presidente del Consiglio tecnico è davvero l’equidistanza a prescindere dal merito, da chi attacca e chi si difende?
Tuttavia negli ultimi giorni, partendo dal dibattito sull’agenda politica, agli elettori giallorossi è venuto persino il sospetto che l’equidistanza teorica sia in realtà una benevolenza pratica verso alcune posizioni leghiste. E il tema su cui questo sospetto è diventato più che concreto è stato senza dubbio la vicenda della tassa di successione, con Draghi che nel merito ha di fatto stroncato la proposta del leader del Pd Letta, con la frase secondo cui “non è il momento di prendere, ma di dare”.
Una teoria abbastanza singolare, dal momento che la successione sui grandi patrimoni immaginata da Letta, di fatto, dava ai più giovani togliendo ai più ricchi. Questo sospetto è diventato un timore, nelle ultimissime ore. Quelle in cui, di fronte all’asse tra Confindustria e Lega, il premier non ha dato la minima impressione di voler riequilibrare i rapporti di forza, e nemmeno ha speso (al contrario di quanto era accaduto per le polemiche su Speranza) il suo peso politico per difendere l’operato di Orlando.
Anche anche qui, il fantasma delle Quirinarie ha il suo peso: se Draghi vuole essere eletto al Colle, da questo Parlamento, in questa legislatura, è evidente che i voti di Salvini diventano preziosi, soprattutto sapendo di avere già in tasca quelli di Forza Italia, quelli del Pd e considerando anche che il Movimento Cinque Stelle è attraversato da divisioni profonde.
Nel partito più forte del Parlamento si combattono tra loro idee più governiste e oppositori dichiarati del governatore come Alessandro Di Battista (che non è parlamentare ma ha un forte ascendente sulle viscere dei gruppi grillini). Insomma, se i giallorossi vogliono uscire dal tritacarne hanno una sola possibilità: far capire – e presto – che il loro consenso non è scontato. E che la loro pazienza non può essere infinita.
(da TPI)
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Maggio 26th, 2021 Riccardo Fucile
POI DRAGHI L’HA RISCRITTA SECONDO I DESIDERATA DEGLI INDUSTRIALI… DI FRONTE A QUESTO E AI SUBAPPALTI LIBERI CHE FAVORISCONO LA MAFIA UN PARTITO SERIO AVREBBE DETTO: “BUON PROSEGUIMENTO, CI VEDIAMO ALLE URNE”
Per nulla pago di aver provocato lo stralcio della proroga al 28 agosto del blocco dei licenziamenti dal decreto Sostegni bis, il numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi, confermandosi socio di maggioranza del governo dei migliori, riparte all’attacco del ministro del Lavoro, Andrea Orlando. E pretende di dettare le sue condizioni. “Il Paese deve uscire da un periodo di crisi drammatica, una crisi sanitaria, una crisi sociale ed economica, e se non ci sono le fondamenta di un rapporto di lealtà istituzionale sarà molto difficile”, sentenzia.
Nel frattempo il premier Mario Draghi difende il compromesso raggiunto. “La mediazione ha retto, è un miglioramento considerevole sia rispetto all’eliminazione pura e semplice del blocco sia al suo mantenimento tout court. L’intervento è in linea con quanto accade nei paesi Ue: garantire la Cig gratuita anche dopo il primo luglio in cambio dell’impegno di non licenziare. Un’azienda che non vuole chiedere la Cig è libera di licenziare, ma c’è un forte incentivo a non farlo…”.
Tutto ciò – spiega, ribadendo quanto aveva recitato già una nota diffusa da Palazzo Chigi in tarda mattinata – vale solo per industria e edilizia, mentre per i servizi il blocco per tutti, sia che usino o meno la Cig, dura fino a fine ottobre e la Cig è gratuita fino a fine anno.
“Mi pare una mediazione che certamente scontenta quanti avrebbero voluto continuare con il blocco ma non scontenta, almeno così mi pare, quelli che avrebbero voluto sbloccare tutto immediatamente”, ammette il premier. Che conclude con un auspicio: “Spero che sindacati e imprese si ritrovino nella mediazione”.
Peccato che il compromesso, come lui stesso ha riconosciuto, sia gradito solo alle imprese. “Il messaggio che viene dato, avendo ascoltato un po’ troppo Confindustria, è che i problemi si risolverebbero con la libertà di licenziare: un messaggio sbagliato. Noi continueremo a chiedere che ci sia una proroga del blocco”, avverte il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini.
Con l’uscita dal blocco dei licenziamenti “ci sono fonti del governo e Bankitalia che indicano in quasi 577 mila i posti di lavoro a rischio dal primo luglio”, lancia l’sos il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, ribadendo che “la soluzione adottata è assolutamente debole e non riuscirà ad arginare lo tsunami sociale e occupazionale”.
Mentre la Uil propone di prorogare il divieto fino alla fine dell’anno.
Sul tema si spacca il governo. Orlando, a dispetto di quanto sostenuto da Confindustria che ha parlato di imboscata da parte del ministro, continua a difendere la sua norma che prevedeva la proroga al 28 agosto del blocco. Su tale disposizione, dice, c’è stata “una polemica ingiustificata e priva di fondamento. Non voglio cadere nelle polemiche, sono solo preoccupato di dare quanti più strumenti possibili per evitare effetti negativi sui lavoratori. La norma è stata trasmessa nelle forme dovute al Consiglio dei ministri, illustrata in una conferenza stampa. Si tratta di una norma ispirata esclusivamente dal buon senso”.
Tesi confermata dal ministro pentastellato Stefano Patuanelli: “La proposta del ministro Orlando, che ha ben spiegato durante il Consiglio dei ministri le ragioni delle sue scelte, è chiara e condivisibile”.
Con Orlando è schierato tutto il fronte giallorosso dal Pd, ovviamente, al M5S e a Leu. “E’ molto inquietante la decisione del Governo di ritirare una parte della norma anti licenziamenti dal decreto Sostegni, già approvato dal Cdm, in seguito alle pressioni di Confindustria. E’ necessario prorogare il blocco dei licenziamenti per tutti fino ad ottobre”, attacca LeU con Loredana De Petris. Ma Draghi ha deciso.
(da La Notizia)
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Maggio 26th, 2021 Riccardo Fucile
LA CONFINDUSTRIA FA E DISFA SUI LICENZIAMENTI
Carlo Bonomi vive in una sua dimensione parallela, uno dei quegli universi che coesisterebbero con il nostro, ma in cui le vicende sono diverse.
In questo universo distopico lui pensa di essere il ministro del Lavoro e non il Presidente di Confindustria. Ed eccolo lì che si raffigura nel sogno a distruggere quel che resta del già distrutto stato sociale.
Ed allora il fantaministro si immagina a dare libertà di licenziamento immediato, totale e definitivo. Immagina che i capi sindacali gli sventolino le foglie di palma nei caldi giorni d’estate, mentre lui, il faraone di Crema, gongola pacioso suonando l’arpa mentre l’odiata Roma governativa brucia. Deve essersi sentito così, diciamo strano, il presidente di Confindustria quando è partito di intervista a La Stampa di ieri.
Ricordiamo i fatti. Venerdì scorso, all’ultimo consiglio dei Ministri, Andrea Orlando che occupa il dicastero del Lavoro presenta la proposta di far slittare la fine del blocco dei licenziamenti al 28 agosto.
Secondo Bonomi che queste cose le sa, Draghi non sarebbe stato d’accordo per questa birichinata ministeriale e il premier avrebbe espresso il suo disappunto per l’intemerata non concordata del suo ministro. Sabato, Bonomi lo passa di cattivo umore. È agitato. I primi caldi lo straniano ulteriormente, suda, alcune zanzare irriguardose lo mordicchiano impietose.
Qualche gocciolina malvagia di sudore gli cola sugli occhi ed è lì che deve aver perso il controllo. Ratto e lesto chiama il suo giornale giallo, Il Sole 24 Ore, è dà l’ordine di sparare ad alzo zero e così la domenica mattina, mentre i buoni cristiani vanno a messa e gli altri al mare, si legge in prima a caratteri cubitali: “Licenziamenti, l’inganno di Orlando”.
È il segnale che i confindustriali attendevano. “O capitano! Mio capitano!”, scriveva il poeta americano. Tutti intorno al Re di via dell’Astronomia, pronti all’assalto contro i cattivoni, quelli che hanno letto da giovani quel libraccio scritto da un filosofo ebreo con la barbaccia incolta, che, ironia della sorte, si chiamava proprio come il duce astronomo.
E da allora i mugugni e le lamentele dei ricchi industriali hanno scadenzato le agenzie. Ieri si leggevano proclami guerreschi rivolti alle armate di produttori di bulloni, merendine, salse e pelati, pizze e verdure, macchine e carrarmati: “Licenziamenti, intese tradite, così non si fanno le riforme” e poi, “Licenziamenti, calpestate le intese”.
Insomma il popolo dei produttori in arme assediava Palazzo Chigi peggio di un esercito di sciamani no vax incazzati contro il povero Speranza. E a questo punto, Draghi che è uomo liberale, uomo di dollaro e sterlina che fu prima uomo di marco si fa due conti, valuta e soppesa le scelte e le conseguenze e poi agisce cercando di mediare.
Il blocco dei licenziamenti rimane, ma vale solo per chi utilizzerà da primo di luglio la Cassa integrazione ordinaria però poi le aziende potranno non versare le addizionali sulla Cig fino al 31 dicembre. Ma non basta.
Draghi, che fu uomo di euro e marco, promette ancor di più e promette a via dell’Astronomia che a brevissimo rivedrà anche gli ammortizzatori sociali.
Il Partito democratico però non ci sta e difende il suo ministro e lo fa come ai vecchi tempi, quelli del Partito comunista e lo fa con una sorta di centralismo democratico che picchia duro e Letta difende a spada tratta il suo ministro, cose che non si vedevano dai tempi della falce e martello, prima che quello stesso partito abolisse, grazie alla Quinta Colonna Matteo Renzi il baluardo stesso dei lavoratori e cioè l’articolo 18.
Nel contempo Maurizio Landini, capo della Cgil, attacca direttamente: “Licenziamenti, la partita non è chiusa”. E ancora: “Il governo ha ascoltato un po’ troppo Confindustria “ e “i problemi non si risolvono con la libertà di licenziare”.
Mario Draghi capisce improvvisamente che è più facile manovrare con euro e dollari che con questi scalmanati della politica e si ricorda degli insegnamenti dei buoni frati gesuiti dell’Istituto Massimo di Roma, che frequentò da giovinetto e se ne esce democristianamente con una “mediazione in cui spero si ritrovino tutti”.
Ecco, ci mancava il generale Francesco Paolo Figliuolo, che ha un cognome così ecclesiastico, e il quadro sarebbe piaciuto anche a Papa Francesco che dal Vaticano se la ride con questi mattacchioni di italiani che sono capaci di superare pure gli argentini, che di golpe se ne intendono. Ma dopo tutto il Papa perdonerà visto che il “golpe” invocato da Bonomi e attuato – a suo dire – da Orlando è a fin di bene
(da La Notizia)
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Maggio 25th, 2021 Riccardo Fucile
TASSA DI SUCCESSIONE E LICENZIAMENTI, IL PD CHINA IL CAPO E RINUNCIA A ESSERE MOTORE DEL GOVERNO
C’è uno spettro che si aggira per il Nazareno. Ed è lo spettro di Mario Monti, esperienza che, in nome della responsabilità, si rivelò una donazione di sangue per il Pd.
Mario Draghi non è Monti, per agenda nient’affatto rigorista e per sensibilità politica. Però come allora il “forgotten man”, il ceto medio spezzato dalla crisi, si affidò alla rivolta populista, oggi il “licenziato Covid” è un soggetto che prefigura una nuova possibile bomba sociale, in un contesto in cui ci vuole tempo per riattivare la crescita e non è ancora stato predisposto un sistema di ammortizzatori sociali dopo la fase dei “tamponi” emergenziali.
Anche i sindacati e in particolare la Cgil che per prima si era fatta promotrice di una soluzione di emergenza, mentre la sinistra politica era ancora intenta a elaborare il lutto di Conte, hanno cominciato a rialzare i decibel della protesta sociale.
Insomma, aleggia una certa inquietudine, per quel che sta accadendo e per quel che accadrà, e per chi ne pagherà il prezzo più impegnativo.
Il partito delle vedove del governo precedente vede in questo contesto la conferma delle proprie funeste previsioni. E cioè che, in fondo, questo governo di emergenza è solo l’incubatore di una svolta a destra, nel modello di sviluppo prefigurato dal Recovery e negli effetti sociali che produce.
A conferma di questa tesi si dice che proprio la struttura di comando del Recovery ne rappresenta la prova più lampante, perché il grosso dei capitoli di spesa è nelle mani dei ministri “tecnici” da Cingolani a Colao che, per dirne una, sta smontando l’operazione sulla rete unica provando a parcellizzare gli interventi sui territori.
Poi ci sono quelli dei centrodestra, da Brunetta a Giorgetti e poi, da ultimo, quelli del Pd, titolari di ministeri meno coinvolti. Il risultato è che alcune parole d’ordine come “pubblico” sono avvolte da una nuvola di ambiguità: vale per l’efficientamento energetico delle scuole, su cui non è sciolto il nodo delle private, come per la sanità.
Nello spazio di pochi giorni poi sono successi un paio di fatti di non banale rilevanza. La proposta del segretario del Pd di una tassa di successione sui grandi patrimoni, misura spot dal sapore dal sapore “di sinistra”, è stata liquidata dal premier con una battuta.
E l’ipotesi di una norma anche di buon senso, predisposta del ministro Orlando, di prolungare di fatto per un paio di mesi il blocco dei licenziamenti è stata respinta dall’offensiva di Lega e di Confindustria, anche con una certa aggressività.
Tutto il racconto ruota attorno a una situazione subita e di disagio, in cui la buona volontà si infrange contro il muro di una situazione oggettiva proibitiva, quasi di un destino cinico e baro.
In fondo, era prevedibile che il “cambio pagina” dall’emergenza sanitaria a quella economico sociale avrebbe reso il gioco duro. Il punto è come a questo cambio pagina si è arrivati, se per destino o per scelte compiute.
E la sensazione è che il nodo della collocazione del Pd nel governo sia ancora irrisolto. Resta cioè quel paradosso che ne ha accompagnato la nascita, mal gestita e mal digerita, con la conseguente rinuncia a esserne il “motore” politico – perché chi avrebbe potuto esserlo, forse i partiti populisti o i Cinque Stelle al collasso o Forza Italia all’estinzione? – in nome di un grande progetto di ricostruzione nazionale. E invece è difficile trovare un terreno di iniziativa politica del Pd in grado di influenzare l’azione del governo: le riaperture lasciate a Draghi, la pubblica amministrazione a Brunetta, il codice degli appalti a Landini.
In assenza di questa discussione mai svolta, il segretario, che ha ereditato una situazione storta nel manico, ha affidato il recupero identitario alla polemica con Salvini ma, nonostante la sua cultura politica e l’affinità di linguaggio con l’attuale inquilino di palazzo Chigi, si è ritagliato il ruolo di motore del prossimo, con proposte buone per la legislatura che verrà.
Caratterizzano ma incidono poco, mentre nel presente, in fondo, si accetta tutto. Da che mondo è mondo, un grande partito, garante del progetto di ricostruzione dell’Italia, non si espone a una bocciatura delle sue proposte, su temi così delicati, redistribuzione e licenziamenti, se ci crede davvero.
Se li ritiene cruciali, magari non fa cadere il governo, ma quantomeno lo fa ballare, ci fa una battaglia, insomma mica molla così. Invece sono già archiviati. E l’impressione è che il posizionamento a sinistra, così concepito, rende poco credibile l’azione nel governo, e l’azione del governo rende poco credibile il posizionamento a sinistra.
(da Huffingtonpost)
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Maggio 25th, 2021 Riccardo Fucile
LICENZIAMENTI E APPALTI, GOVERNO SEMPRE PIU’ VICINO AGLI INTERESSI DEI POTERI FORTI
Appare sempre più evidente che nel “governo arcobaleno” del premier Mario Draghi si sia creato – e nel tempo fortificato – un asse strategico tra la Lega e Confindustria.
E certamente una chiave interpretativa di questo è che il ministro dello Sviluppo Economico sia Giancarlo Giorgetti che rappresenta l’ala economicista e liberale del partito e che infatti soffrì non poco ai tempi del populismo gialloverde del Conte I, quando Salvini era al potere non a caso in un ministero “ideologico”, come quello dell’Interno che gli permetteva di controllare uno dei punti chiave del programma del suo partito, il contrasto all’immigrazione.
La nomina di Giorgetti è il segno questo di uno spostamento di potere del baricentro leghista.
Questa riflessione è dettata da fatti concreti. Il decreto semplificazioni contiene due proposte – i subappalti senza limite e al massimo ribasso -, che sono due misure che hanno provocato immediate prese di posizione da parte anche degli stessi costruttori. “Buttare il codice e usare quello europeo vorrebbe dire bloccare la macchina operativa – taglia corto il presidente dell’Ance Gabriele Buia -. Adesso non si può fare, è l’ora delle misure strategiche. Azzerare tutto non è la via d’uscita”.
E non è tutto. “Il piano Next Generation Ue porterà all’Italia tantissime risorse in tempi molto stretti e ciò ovviamente aumenterà anche eventuali appetiti criminali sulla spesa pubblica – gli fa eco il presidente dell’Anac, Giuseppe Busia -. Quindi, è necessario adottare dei contrappesi che non rallentino la spesa, visto che la stessa deve essere strumento di innovazione e sviluppo. Dobbiamo però dare massima trasparenza agli appalti e garantire che le istituzioni competenti e tutti i cittadini li possano controllare. Inoltre, e soprattutto, abbiamo bisogno di una Pubblica amministrazione più forte e competente: è la migliore misura anticorruzione”.
Il primo punto contestato – e cioè quello dell’abolizione del limite del 40% sui subappalti – è infatti visto come un chiaro esempio di aperture alla criminalità.
E Busia lo dice chiaro: “Se la paura legata all’abolizione di un limite fisso si giustifica con il timore dell’infiltrazione criminale o mafiosa – che costituisce effettivamente un rischio legato ai subappalti incontrollati – dobbiamo anche riconoscere che anche il precedente limite del 30%, come pure quello del 40% non vanno bene. Non possiamo essere così ipocriti da dire: accetto la presenza delle mafie negli appalti, purché rimanga nel limite del 40% o del 30%”.
Insomma non si può dire che l’Anac abbia usato il fioretto quanto piuttosto la spada, anzi lo spadone. Poi c’è il secondo punto, quello del massimo ribasso.
Contro si sono espressi già il Partito democratico e i sindacati, mentre Lega e buona parte di Forza Italia sono favorevoli.
Dietro c’è una partita essenziale e cioè quella della sicurezza e la vicenda del ponte Morandi crollato a Genova qualcosa dovrebbe insegnare e cioè che il privato è bravissimo ad analizzare e trovare immediatamente il punto debole di una legge per curvarla a suo favore.
Nel frattempo Salvini, da bravo soldato di Giorgetti, rilancia, chiedendo addirittura l’abolizione del Codice sugli appalti, tanto per far capire quanto la Lega sia determinata ad aiutare i suoi elettori imprenditori che hanno annusato l’oceano di denaro che si sta per riversare da Bruxelles e non vogliono certo farsi trovare impreparati.
E qui qualche osservazione politica è d’obbligo. Cosa vuole fare da grande Draghi? Lo spirito che lo anima è solo quello liberal sviluppista, senza alcuna considerazione per l’etica?
Se così fosse rischierebbe di creare rapide condizioni di instabilità della sua maggioranza nella componente M5S-Pd ed abbiamo visto che poi certe instabilità possono aumentare fino a diventare un grosso problema per la tenuta del governo. Sottovalutare questo aspetto sarebbe un grave errore per l’ “ex uomo di Francoforte”.
Qui infatti non si tratta più di economia, ma di politica. E Draghi non può pensare di fare come gli pare per due motivi che gli dovrebbero essere molto chiari.
Il primo è che l’ombrello protettivo del Quirinale su di lui ha cominciato a ritirarsi anche con la dichiarazione da parte di Sergio Mattarella di non volere ricandidarsi al Colle. E il secondo è sempre lo stesso, ma declinato diversamente: se il premier volesse puntare, come è più che plausibile, alla Presidenza della Repubblica dovrebbe avere il supporto di tutti e non solo di Salvini che prima faceva di professione il “mangia-Draghi”, una sorta di San Giorgio laico che odiava i banchieri e l’Ue e che ora è stato fulminato sulla via di Bruxelles.
Una conversione che sa molto di tattica e di do ut des. Ma così facendo Draghi perderebbe il supporto di tutti gli altri, a cominciare da Pd e M5S e il Colle lo vedrebbe col binocolo.
(da agenzie)
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