Giugno 11th, 2021 Riccardo Fucile
LE STORIE DI MARCO, LETIZIA, ROBERTA, FRANCESCO
C’è un dato emblematico e preoccupante che apre la serie di racconti di cui leggerete a breve: tutte le persone intervistate hanno richiesto l’anonimato.
Non affronteremo né casi di mafia né vicende che coinvolgono servizi segreti o importanti politici, ma parleremo di lavoro, un diritto che dovrebbe essere garantito dalla nostra Costituzione ma che oggi è per molti giovani allo stesso tempo desiderio e paura, aspettative e ricatti.
I titoli dei principali giornali italiani riportano da mesi i virgolettati di imprenditori, soprattutto del settore turismo e ristorazione, che lamentano l’eccesso di assistenzialismo e pigrizia che permea – a loro dire – la società e la conseguente impossibilità di trovare forza lavoro per la stagione.
Una narrazione che probabilmente nasconde anche uno scontro generazionale, fatto di due mondi che fanno sempre più fatica a comprendersi. Ma soprattutto una narrazione funzionale a delegittimare qualsiasi forma di sostegno al reddito e a far digerire l’idea che il lavoro sia un dono calato dall’alto per mezzo della fortuna anziché, come dovrebbe essere, un contratto tra pari firmato da due professionisti.
Abbiamo provato a raccontare la stessa storia, dunque, ma non abbiamo chiesto a Confindustria, a Matteo Salvini o ad un prestigioso economista di farci una fotografia del Paese reale. Ne abbiamo parlato con loro.
L’altra campana, quella sfruttata
Uno dei problemi principali dei lavori stagionali è la percezione di scarsa specializzazione dei suoi operatori, oltre che un’illegalità diffusa nei rapporti di lavoro che, secondo Filcams-Cgil, sfiora il 70% dei casi.
Chi serve ai tavoli e lava i piatti fa inoltre un lavoro considerato umile e di conseguenza, almeno secondo i datori di lavoro, anche lo stipendio deve restare basso.
“Ho fatto il cameriere per oltre dieci anni”, racconta Marco M, 30 anni di Verona. “Ho studiato in Italia e all’estero per migliorare la mia conoscenza di vini, gestione sala e di abbinamenti. Ho lavorato in ristoranti stellati, ho dato il massimo di me e ho sacrificato tanti momenti importanti della mia vita. Agli occhi di molti ristoratori questo non conta, o ti vanno bene le loro condizioni o troveranno manovalanza a basso costo tra chi è più giovane e bisognoso”.
“Stiamo parlando di un lavoro importantissimo. Il cliente valuta l’esperienza anche in merito al servizio che il cameriere è in grado di offrire, ma, nonostante questo, l’impegno non è per nulla valorizzato. Oltre tredici ore di lavoro in piedi, in orari spezzati, sai quando inizi e non sai quando finisci. Tanti hanno gettato la spugna. Tanti altri si sono gettati nell’alcol e nelle droghe, diffusissimi nel nostro settore a causa dello stress e della poca soddisfazione”.
Conti alla mano stipendio nel comparto ristorazione è basso, anzi bassissimo: “Millecento euro al mese senza alloggio significa spenderne due terzi in affitto se lavori in una grande città o in una località turistica”, spiega Letizia, di Bologna.
“L’ho fatto, ma sono arrivata a pensare che non ne valga più la pena. Se sei fortunata hai metà delle ore in busta, il resto in nero. Sindacati e controlli? Non sono attori di questo settore. Non prendo il reddito di cittadinanza, semplicemente non voglio farmi schiacciare per una presunta etica del lavoro in cui non mi riconosco”.
Anche tra chi ha in mano il famoso pezzo di carta le cose non vanno meglio: “Fresco di laurea in comunicazione avrò consegnato qualcosa come centocinquanta curriculum”, spiega Francesco C., di Napoli. “Ho fatto qualche colloquio e non è andata bene: 2,34 euro l’ora con contratto full time co.co.co. Ovvero 2,34 euro lordi, dovrei anche pagarci i contributi. Dicono che serve a fare esperienza, onestamente non ho bisogno di mettere nel curriculum che ho fatto lo schiavo”.
“Per non parlare degli annunci truffa: ti presenti per lavorare in un front office e ti ritrovi a fare porta a porta. Stipendio? Ti dicono ‘Poi vediamo, forse’. Quando ero ragazzino facevo il cameriere, 4 euro all’ora in nero, ora non lo accetterei più, non lo trovo giusto. Ma nessuno sembra volerti pagare per quello che vali”.
C’è poi Roberta M., che lavora in nero in un bar pasticceria in Sicilia. “Ieri volevo chiedere di regolarizzare il mio contratto, non ne ho avuto il coraggio. Faccio questo lavoro perché ne ho bisogno ma non c’è nulla di edificante. Gli orari mi vengono detti il giorno prima e lo stipendio non è dignitoso, 700 euro al mese per un full time, e dato che devo aiutare in casa con le spese anche un piccolo sfizio come un gelato si trasforma in un dilemma”.
“Sento di essere trattata come uno straccio. Se chiedo un permesso me lo fanno pesare, se vado in bagno ed entra un cliente il titolare viene a bussare alla porta per mettermi pressione. Passa la voglia, mi sento quotidianamente umiliata e mi vergogno”.
L’ambizione di leccare il pavimento
C’è un concetto che forse non è chiaro ad alcuni datori (per carità, non a tutti): non si può definire un lavoro dignitoso se è precario. La condizione lavorativa precaria e non tutelata è lesiva della dignità delle persone ed è una delle cause più diffuse di stati di depressione e ansia tra i giovani.
Benché negli anni le istituzioni abbiano edulcorato la precarietà elogiando la flessibilità, la competitività e l’asta al ribasso sulla manodopera, sono sempre più evidenti gli effetti negativi dell’insicurezza occupazionale.
Precarietà significa non avere alcun controllo sulle proprie condizioni di vita e sulle proprie condizioni di reddito. La precarietà, spacciata per lavoro, rende le sfere dell’esistenza più importanti revocabili in ogni momento. L’etimologia di precario significa esattamente questo: qualcosa che può essere tolto in qualsiasi momento perché ottenuto “per mezzo della preghiera” e non grazie ad un diritto.
I costi della precarietà li paga la collettività, non c’è alcun risparmio. La pandemia non ha peggiorato le condizioni di lavoro ma ha evidenziato la spaccatura, anche generazionale, tra i giovani e il mondo del lavoro.
Come diceva il regista Silvano Agosti, è accettabile, con un mitra puntato alla testa, leccare il pavimento. Ma che leccare il pavimento diventi un’ambizione è sbagliato. E certi imprenditori semplicemente non accettano più questo: la corda si è spezzata e c’è chi dice no, c’è chi non ci sta più.
“Mancano lavori dignitosi, non lavoratori o lavoratrici”
Secondo gli intervistati è necessario un ribaltamento concettuale: mancano lavori dignitosi, non lavoratori. Storie come quella di Marco, Letizia, Roberta o Francesco ne esistono a migliaia e forse l’inganno sta proprio nella quantità: sono talmente tanti da essere diventati una normalità.
Come è diventato normale pensare che, dato che il lavoro scarseggia, qualsiasi condizione sia accettabile. E anche tra alcuni lavoratori questa mentalità prende piede. Si chiama solidarietà negativa: dato che io sopporto condizioni di lavoro non dignitose, ritengo che anche gli altri debbano fare lo stesso.
Si tratta di un circolo vizioso perché si traduce in un’asta al ribasso dove chi gode di diritti minimi viene visto come un privilegiato. Ma non funziona, perché c’è un limite sotto al quale alcune persone non sono più disposte ad andare. E qui nasce la frattura.
“Manca un sindacato che rappresenti davvero chi è precario”, lamenta uno degli intervistati. “E manca lo Stato, che dovrebbe vigilare. Siamo stufi di essere dipinti come pigri e svogliati, ci è stato raccontato che il lavoro sarebbe stato lo strumento per vivere una vita dignitosa. E di dignitoso, nel mondo del lavoro, in questo Paese c’è rimasto veramente poco”.
(da TPI)
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Giugno 10th, 2021 Riccardo Fucile
MA COME? SE L’ECONOMIA RIPARTE NON DOVREBBERO AUMENTARE I POSTI DI LAVORO? A CHE SERVONO I LICENZIAMENTI?… LA VOGLIA DI LAVORARE C’E’: LA SAMMONTANA A EMPOLI CERCA 350 STAGIONALI E SI SONO PRESENTATI IN 2.500
Ieri un’altra piccola perla: Repubblica spreme tutta la fantasia che ha per intossicare la narrazione e spara un titolo che è una visione del mondo, raccontandoci che “i posti di lavoro ci sono” ma “mancano i lavoratori” e che quelli che “si sentono” sfruttati rinunciano.
La scelta delle parole è un capolavoro di manipolazione e, oltre alla solita manfrina degli sfruttatori che si lamentano perché non trovano schiavi, ora si aggiunge la novità dello sfruttamento percepito (come avviene per la temperatura).
E il meccanismo è perfetto per vittimizzare gli sfruttati, mica lo sfruttamento.
Matteo Salvini, un fannullone che non ha mai lavorato in vita sua (lo stabilisce un giudice del tribunale di Bergamo) ha avuto l’ardire di dire che i ragazzi non vogliono fare i camerieri quest’estate per 600 euro al mese perché preferiscono prendersi il reddito di cittadinanza e guardarsi gli Europei sdraiati sul divano.
Altra narrazione tossica: un fannullone che guadagna 15mila euro al mese (per molti politici la politica è un reddito di cittadinanza esageratamente ricco) invita i ragazzi a lavorare da stagionali per uno stipendio da fame.
Nessuno slancio su reddito, su tutele, su futuro. Non sia mai.
Del resto, siamo lo stesso Paese che si è reso ridicolo per mesi con la favola dei rider felici e straricchi contrapposti agli sfigati pelandroni che non hanno voglia di lavorare. Peccato che, subito dopo, si sia scoperto che i rider sono schiavi.
Stesso giochetto sullo sblocco dei licenziamenti: Confindustria e pezzi di governo ci ripetono a reti unificate che siamo di fronte a un “miracolo economico” (l’hanno chiamato così, come i piazzisti che in effetti sono) ma aggiungono che per renderlo possibile hanno bisogno di licenziare.
Ma come? Ma se l’economia riparte non dovrebbero aumentare i posti di lavoro? A che servono i licenziamenti?
Poi, volendo essere un po’ perfidi, si potrebbe anche chiedere che senso abbia avuto sostenere le aziende con soldi pubblici (i soldi quando vanno alle aziende, notatelo, non sono più “sussidi” ma magicamente diventano “investimenti”), se poi quelle aziende non garantiscono i propri lavoratori.
“È la crisi”, rispondono. Ma come? E il “miracolo economico”?
Intanto, a Empoli, Sammontana cerca 350 stagionali e si presentano in 2.500. È il vero “miracolo economico” che funziona e che quelli vorrebbero negare: se paghi il giusto, i lavoratori si trovano. Eppure il lamento per gli schiavi che si lamentano di essere schiavi continua.
(da TPI)
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Maggio 23rd, 2021 Riccardo Fucile
REGOLE COMPLESSE, INCERTEZZA DEGLI INCENTIVI E AMBITO RISTRETTO DI APPLICAZIONE: LO STRUMENTO E’ SBAGLIATO
Il Decreto Sostegni bis punta su uno strumento apparentemente molto innovativo e conveniente, il contratto di rioccupazione, per bilanciare gli effetti occupazionali negativi della pandemia e fronteggiare, almeno in parte, gli effetti negativi della prossima scadenza del divieto di licenziamento.
Una finalità molto nobile e meritevole che rischia, tuttavia, di scontrarsi con un problema molto grave: il contratto di rioccupazione, per come è costruito, non è affatto più conveniente rispetto agli strumenti esistenti, e quindi probabilmente sarà ignorato dalla grande maggioranza delle imprese.
Proviamo a vedere per quali motivi giungiamo a questa conclusione.
L’incentivo economico è solo teorico
Il contratto di rioccupazione garantisce, al verificarsi di alcune condizioni, un “esonero contributivo” (non si pagano i contributi a carico dell’azienda) che arriva fino a un massimo di 500 euro mensili, per un periodo di 6 mesi. Uno sconto complessivo di 3.000 euro, che è tuttavia incerto per diversi motivi: spetta solo alle aziende che non hanno raggiunto la soglia massima fissata dalla Commissione Europea per l’utilizzo degli incentivi per l’occupazione. Le aziende che hanno raggiunto il tetto annuo di incentivino 1.8 milioni di euro non possono, quindi, percepire l’incentivo, che resta quindi appannaggio solo delle piccole e medie imprese.
Ma nemmeno per questi soggetti l’esonero contributivo è garantito: se alla fine dei 6 mesi di inserimento il rapporto non prosegue, l’azienda deve restituire quanto ha percepito.
Ma non basta. Anche se il rapporto con il lavoratore continua alla fine dei 6 mesi, l’incentivo deve essere restituito se, nei 6 mesi successivi alla conferma del dipendente, il datore procede a un licenziamento collettivo o individuale per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore impiegato nella medesima unità produttiva e inquadrato con lo stesso livello e categoria legale di inquadramento del lavoratore assunto con il contratto di rioccupazione.
Quale azienda sarà disponibile a investire su un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sulla baee di un importo così contenuto e aleatorio? Probabilmente, si verificherà un fenomeno diverso: le aziende che avrebbero comunque proceduto ad assumere, proveranno ad intercettare questo scontro contributivo, che non svolgerà quindi alcuna funzione di incentivo all’assunzione ma servirà solo come sostegno economico alle imprese. Nulla di scandaloso, a patto di chiamare le cose con il loro nome.
Manca il periodo di prova
Un altro elemento di grande rigidità del contratto di rioccupazione consiste nell’inapplicabilità delle regole che governano, nei rapporti normali, il periodo di prova. Un datore di lavoro che assume un dipendente ha diritto di valutare, per un certo periodo, la sua prestazione, potendo licenziare senza troppe formalità il lavoratore che non supera positivamente tale percorso: una flessibilità assicurata dal c.d. periodo di prova, un istituto molto importante per far partire su basi solide e durature i rapporti di lavoro.
Nel contratto di rioccupazione la libertà di licenziare durante il periodo di prova manca: durante i 6 mesi durante i quali il datore di lavoro percepisce l’incentivo contributivo, l’azienda non può intimare il licenziamento, dovendo portare a termine tutto il semestre. Solo alla fine dei 6 mesi è possibile recedere dal rapporto, con una rigidità maggiore di quanto accade durante il periodo di prova (nel quale non bisogna necessariamente attendere la fine del periodo per licenziare). Siamo sicuri che un datore di lavoro abbia voglia di accettare un irrigidimento di uno dei pochi istituti utilizzabili per valutare liberamente le prestazioni del dipendente?
La platea è molto ridotta
Un altro limite importante del contratto di rioccupazione consiste nella platea molto limitata cui può applicarsi tale strumento: vale solo per i lavorarti che siano in possesso dello “stato di disoccupazione”, e si può utilizzare solo fino al 31 ottobre 2021. E vengono esclude le imprese che nei 6 mesi precedenti hanno intimato licenziamenti per motivi organizzativi o economici. Queste limitazioni riducono in maniera importante l’ambito soggettivo e temporale di applicazione dello strumento, tagliando fuori una fetta importante di aziende.
Il progetto di inserimento: un impegno fumoso
Una condizione essenziale che fissa la legge per l’assunzione con il contratto di rioccupazione è la definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento. Tale progetto dovrebbe essere finalizzato, precisa la nuova normativa, a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo. Quale sia il contenuto concreto che dovrà avere questo piano non è chiaro: le aziende e i lavoratori dovranno ingegnarsi nella definizione di percorsi di addestramento che, di fronte a definizioni così generiche, nella maggior parte dei casi si risolveranno in iniziative fumose e poco concrete. Con il rischio che, se il rapporto non procede per il meglio, questa indeterminatezza diventi un motivo per impugnare il contratto (fenomeno molto frequente nel nostro mercato del lavoro). Quali imprese sono disponibili a gestire senza troppi patemi d’animo questa assoluta incertezza applicativa?
Ci sono alternative più convenienti e meno onerose
I limiti visti finora consentono di fare una valutazione sconfortante: il “contratto di rioccupazione” non è più conveniente di altri strumenti che già esistono, come il contratto di apprendistato professionalizzante. Un rapporto che ha incentivi molto più corposi, impegni formativi più precisi (ma non necessariamente più onerosi), regole di gestione più semplici e maggiore stabilità degli incentivi. Pensare che le imprese assumano personale usando uno strumento come il “contratto di rioccupazione” è, quindi, un atto di grande ottimismo, che rischia di scontrarsi presto con la realtà.
(da Open)
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Maggio 19th, 2021 Riccardo Fucile
FATICA A DECOLLARE IL PIANO DI ASSUNZIONI, UNO DEI MOTIVI IL COSTO DELLA VITA A MILANO
Atm fatica a trovare nuovi dipendenti: nel piano per le nuove assunzioni, l’Azienda ne ha previste seicento e punta soprattutto a una maggiore presenza di donne.
Nonostante questo però sembrerebbe che – a causa del costo di vita elevato per la città di Milano – stiano arrivano ancora poche candidature.
Per questo motivo, Atm sta lavorando a nuovi accordi e misure – come prestiti per ottenere l’abilitazione da autista e intese con le residenze universitarie – nella speranza di incentivare le domande
Per quanto riguarda la presenza di donne, il direttore generale di Atm Arrigo Giana durante la commissione mobilità in Comune, ha spiegato che l’azienda punta a far crescere la presenza femminile dall’8 per cento attuale al 14 per cento.
Nel piano di assunzione c’è quello di “contribuire a migliorare il gender balance – si legge in una nota stampa – incrementando la presenza di genere femminile in un settore che per molto tempo ha avuto una connotazione prettamente maschile”
Accordi con residenze universitarie e prestiti per ottenere abilitazione
Durante la Commissione però il direttore Giana ha fatto presente come sia ancora eseguo il numero di curriculum arrivati da quando è stato lanciato il piano di recruiting: per il direttore, il problema – che riguarda tutti i livelli, dagli autisti alle posizioni più alte – è dovuto probabilmente al rapporto tra il livello retributivo (che non è basso, ma diverso dai privati) rispetto al costo della vita. Questo potrebbe disincentivare chi vive in un’altra città a trasferirsi nel capoluogo meneghino per lavorare in azienda. E proprio per questo motivo Giana ha spiegato che Atm è già a lavoro per ovviare al problema: si sta cercando di puntare sui prestiti per ottenere l’abilitazione a guidare gli autobus e a stipulare accordi con le residenze universitarie per offrire un alloggio temporaneo ai nuovi assunti.
Come candidarsi
Nel piano di assunzioni, l’azienda ricerca 260 conducenti, settanta manutentori, 44 agenti di stazione, 35 ingegneri e 25 professionisti del settore IT. Tutte le posizioni aperte sono disponibili sul sito dell’azienda nella sezione “Lavorare in Atm”. Qui è possibile candidarsi inserendo semplicemente il proprio curriculum.
(da agenzie)
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Maggio 1st, 2021 Riccardo Fucile
“DOPO 4 ANNI PIU’ FATTURATO E DIPENDENTI”… UN ALTRO MODELLO DI IMPRESA E’ POSSIBILE
Da operai a soci. È il percorso dei 63 lavoratori dell’ex fonderia “Ferroli” nel veronese. Un’azienda che nel 2016 era destinata a chiudere a causa della crisi.
“Non avevamo scelta – ricorda Roberto uno degli ex dipendenti – o rimanevamo a casa o ci dovevamo inventare qualcosa di nuovo”. E così, insieme ai sindacati, matura l’idea di fondare una cooperativa e provare a rilevare l’azienda destinata al fallimento. Il 22 luglio 2017 nasce la nuova Cooperativa Fonderia Dante.
Quando la sirena torna a suonare in tanti non riescono a trattenere le lacrime per la commozione.
Non è stata una scommessa a costo zero per i lavoratori. Hanno investito l’anticipo della propria indennità di disoccupazione per creare la base del capitale sociale. Novecentomila euro che però non bastavano.
“Eravamo convinti di poter suscitare un’interesse nelle banche tradizionali ma non è successo – spiega l’amministratore delegato della Cooperativa Fonderia Dante Erasmo D’Onofrio – così ci siamo rivolti al sistema finanziario e creditizio cooperativo”. Legacoop, Coopfond, Cfi, Banca Etica. Sono solo alcune delle realtà e degli strumenti che hanno permesso la rinascita della fonderia.
Oggi, a quattro anni di distanza dalla sua nascita, la scommessa dei 63 soci fondatori è stata vinta. Ora lo stabilimento ha una capacità produttiva di 17mila kg di ghisa all’ora, pari a circa 80mila caldaie e un milione di dischi freno l’anno.
Il fatturato è in crescita e il numero dei dipendenti è salito a 105. “Il valore aggiunto del passaggio da dipendente a socio è che sentiamo quest’azienda come nostra – spiega Fabio uno dei più giovani tra i soci fondatori – quando hai un padrone che ti comanda devi soltanto dargli retta, mentre qui c’è una coesione perché tutti ci sentiamo parte della nostra azienda”.
Un’esperienza che dimostra che “un altro modello di lavoro è possibile” come racconta il presidente della cooperativa Gianluca Pretto e che “può essere d’esempio anche per altre aziende in crisi del territorio”.
Negli ultimi anni, soltanto in Veneto, sono nate altre otto cooperative di “workers buyout”. “Con i Wbo, ancora una volta, è dimostrata la funzione anticrisi svolta dal sistema cooperativo a beneficio del territorio, in termini sia occupazionali che economici e produttivi – spiega in una nota Legacoop Veneto, tra i soggetti più attivi nel sostegno a questo tipo di realtà – in Veneto quello del ‘workers buyout’ sta accreditando come vero strumento di politica industriale”.
(da agenzie)
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Aprile 6th, 2021 Riccardo Fucile
25 ANNI FA ERA DEL 24%… E I GIOVANI SENZA LAVORO CONTINUANO A SCAPPARE
Tante promesse per il Sud, ma l’economia del Mezzogiorno resta con il freno a mano tirato. Una ricerca appena diffusa dall’Ufficio studi di Confcommercio sostiene che negli ultimi venticinque anni la quota di Pil prodotta dalle regioni del Mezzogiorno sul totale nazionale è diminuita, passando da oltre il 24% del 1995 al 22% del 2019, con un livello di occupazione che ha evidenziato una crescita cumulata pari ad appena un quarto della media nazionale (4,1% contro il 16,4%).
Un fenomeno, quest’ultimo, che sconta prevalentemente gli effetti della riduzione della popolazione residente, in particolare quella giovanile, che al Sud si è ridotta di oltre 1,5 milioni nel periodo considerato.
Tra le principali cause di questa disparità, secondo l’Ufficio studi di Confcommercio “difetti strutturali come burocrazia, criminalità e carenze infrastrutturali”.
Se tali difetti “fossero ridotti in modo tale da portarne le dotazioni ai livelli osservati nelle migliori regioni italiane, il prodotto lordo meridionale crescerebbe a fine periodo di oltre il 20%, con la creazione di circa 90 miliardi di euro, rispetto ad uno scenario in assenza di interventi”, afferma la ricerca. Ma le differenze nel frattempo aumentano, almeno a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008 con lo storico default della banca Lahman Brother.
Il rapporto tra prodotto pro capite reale di un abitante del Sud Italia rispetto a quello di un abitante del Nord-ovest scende da 0,55 (55%) a 0,52.
Insomma, poco più della metà, con tendenza a peggiorare.
In termini di popolazione, il peso del Sud sul totale italiano passa dal 36,4% al 33,9% ma è ben più grave la questione della popolazione giovanile: tra il 1995 e il 2019 l’Italia nel complesso ha perso oltre un milione di giovani (da poco più di 11 milioni a poco più di 10 milioni) e tutta questa perdita è dovuta ai giovani meridionali, diminuiti di un milione e mezzo per il calo delle nascite e per un autentico esodo.
(da La Notizia)
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Marzo 11th, 2021 Riccardo Fucile
CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO E CON SALARI INFERIORI
Se mettiamo in ordine le dichiarazioni pubbliche e le interviste rilasciate negli ultimi giorni da Carlo Bonomi e il tam tam del giornale di casa, viene fuori il programma completo della Confindustria sul tema del lavoro.
In sintesi estrema, è questo: nonostante siamo ancora nel pieno della pandemia, alle aziende bisogna permettere di licenziare perchè, dice il leader degli industriali, “il blocco dei licenziamenti si sta trasformando in blocco delle assunzioni”. Quindi togliere il divieto darebbe via libera alla nascita di nuovi posti.
Di che tipo? Intanto quelli con contratti precari, per i quali Bonomi chiede di togliere definitivamente l’obbligo di motivarne il ricorso con la causale e i vincoli imposti dal decreto Dignità che ne ha arginato l’esplosione avviata col decreto Poletti del governo Renzi.
E poi con un misto di sgravi fiscali e “solidarietà espansiva”, riducendo cioè l’orario di lavoro e lo stipendio agli attuali dipendenti, così da usare quei risparmi per far entrare i nuovi.
Come tutelare poi quelli mandati a casa? Riformando gli ammortizzatori sociali, rendendo universale la cassa integrazione, senza però specificare su chi dovrebbero ricadere i costi.
La parola d’ordine, quindi, è lasciare le imprese libere di tagliare gli organici e sostituirli con giovani a tempo determinato e, quindi, con salari inferiori.
È ancora aperta la partita del decreto Sostegno, quello che prima si chiamava Ristori e da settimane viene rimandato. Bonomi si inserisce battendo cassa con il decalogo confindustriale, riproponendo lo strano sillogismo per cui, sbloccando i licenziamenti, le imprese assumerebbero.
Il divieto di mettere alla porta dipendenti per ragioni economiche — in tutti gli altri casi è consentito — è in vigore dal 17 marzo 2020 e scadrà a fine mese. L’idea del governo — a maggior ragione con la terza ondata del Covid — è prorogarlo fino al 30 giugno.
Finora ha funzionato per proteggere quantomeno i posti a tempo indeterminato, come confermano i dati Istat, ma non sono mancati i datori che l’hanno ignorato: tra aprile e settembre, infatti, le tabelle Inps segnano comunque 127.330 licenziamenti economici, aumentati soprattutto a fine estate, quando sono stati permessi per cessazione delle attività o con accordi di incentivi all’esodo.
Un numero lontano dagli oltre 343 mila del 2019, ma comunque alto. E se già la diga ha mostrato di avere qualche crepa, aprirla del tutto provocherebbe una catastrofe occupazionale.
Nel 2020, stima la Banca d’Italia, la moratoria ha evitato 700 mila licenziamenti: ambienti sindacali ne prevedono oltre il milione con la fine del divieto in primavera.
È qui che dovrebbe intervenire la riforma — cara anche alla Confindustria — degli ammortizzatori sociali. Quelli disegnati nel 2015 dal Jobs Act hanno dimostrato di lasciare senza protezione una grossa fetta di lavoratori, tanto da rendere necessaria la cassa in deroga.
L’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo aveva affidato a una commissione di esperti la redazione di un piano e il 25 gennaio era pronta a presentarlo alle parti sociali. La caduta del governo ha bloccato tutto, ma il suo successore Andrea Orlando sembra voler proseguire su quella strada: ha promesso ai sindacati una convocazione nei primi di marzo, che però ancora non è arrivata e non si sa quando arriverà . Il nodo sarà individuare chi dovrà pagare le nuove tutele, più o meno generose che siano.
Bonomi glissa sull’argomento, eppure è fondamentale: se in fase iniziale la riforma potrà infatti essere finanziata con la fiscalità generale, subito dopo bisognerà renderla assicurativa, quindi dovrà comportare aumenti contributivi (difficile sia questa la proposta di Confindustria).
Come detto, in cambio della libertà di licenziare, Bonomi promette una staffetta generazionale nelle aziende, ma solo rivedendo (cioè cancellando) il “meccanismo delle causali” del dl Dignità , in parte sospeso causa Covid fino al 31 marzo.
L’altra richiesta è il permesso per le aziende sotto i 250 dipendenti di usare il contratto di espansione: sistema col quale i lavoratori accettano una riduzione di orario e stipendio per favorire gli ingressi di giovani. Ovviamente accompagnato da sgravi: “Va rafforzato il bonus per giovani e donne”. Soldi pubblici, insomma: d’altronde si finisce in “Sussidistan” solo se vanno nelle tasche di poveri e disoccupati, mentre se a beneficiarne sono le imprese va tutto bene.
(da Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 5th, 2021 Riccardo Fucile
LE INIZIATIVE CHE DOVREBBE PORRE IN ESSERE UN GOVERNO LE REALIZZA UN’AZIENDA PRIVATA
Se da una parte del mondo arrivano accuse di discriminazione razziale e di genere, dall’altra Amazon si impegna a sostenere le imprenditrici italiane che vogliono aprire la loro azienda di consegna.
Amazon Gender Equality, a pochi giorni dalla Festa delle donne (lunedì 8 marzo), mette a disposizione un fondo totale da 500mila euro in favore delle donne. Ovviamente non tutta la cifra sarà messa a disposizione di ogni singola imprenditrice, ma solo una parte.
Si parla di un tetto massimo, a persona, di 15mila euro.
Possono non sembrare molti soldi, ma in realtà questa cifra copre le spese di avviamento dell’attività . Il tutto è riservato solamente alle donne italiane che vogliono lanciarsi nel mondo dell’editoria fondando la propria aziende di consegne.
Il fondo di Amazon Gender Equality è stato lanciato nell’ambito del progetto Delivery Service Partner, per dare spazio al mondo femminile anche nell’imprenditoria strettamente collegata al commercio online, in tutte le sue forme e declinazioni. Come in quella del delivery.
«Le aspiranti imprenditrici potranno fare richiesta per usufruire del contributo di 15.000 € a supporto della creazione e del lancio della propria impresa di servizi di consegne — si legge sul sito della Logistica di Amazon -. Se hai sempre desiderato creare la tua azienda, ami lavorare in contesti dinamici e metti al primo posto la soddisfazione dei clienti, diventare una fornitrice di servizi di consegna Amazon è l’opportunità giusta per te. Potrai avviare la tua attività decidendo di avvalerti del nostro pacchetto di agevolazioni concordate con fornitori di terze parti; inoltre selezionerai e gestirai un team di successo composto dai 30 ai 70 autisti, che opereranno con una flotta dai 20 ai 40 furgoni.
Amazon si occuperà di darti tutta l’assistenza necessaria, dalla formazione professionale al supporto tecnico, per svolgere la tua attività di consegne in modo efficace e continuativo».
«Con questo fondo di 500.000 euro offriremo un supporto ulteriore alle imprenditrici che hanno sempre desiderato avviare una propria azienda e guidare un team — ha dichiarato in una nota il Responsabile di Amazon Italia Logistics, Gabriele Sigismondi -. Nell’ambito del nostro impegno nel contrastare le differenze di genere e promuovere le pari opportunità , siamo davvero felici di offrire questo nuovo incentivo rivolto alle donne che entreranno nel programma e che rappresenta un’ opportunità concreta per la crescita dell’imprenditoria femminile in Italia».
Il fondo messo a disposizione da Amazon si aggiunge a quel pacchetto di agevolazioni e offerte riservato a tutti i partner che lavorano e collaborano in stretta sinergia con il colosso americano fondato da Jeff Bezos.
(da agenzie)
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Febbraio 23rd, 2021 Riccardo Fucile
LA STORIA DI “CERAMICHE NOI”… DA QUEST’ANNO ANCHE GLI AIUTI DEL MISE… “ABBIAMO SCOMMESSO SU NOI STESSI”
“A tutte le aziende medie o piccole che oggi rischiano di chiudere i battenti consiglio di informarsi sugli strumenti del workers buyout. A noi ha cambiato la vita: ci ha permesso di comprare la ditta per la quale lavoravamo rinunciando alla disoccupazione e al TFR”: sono queste le parole di Marco Brozzi, presidente di “Ceramiche Noi”, fabbrica di Città di Castello, acquistata dai dipendenti alla fine del 2019 dopo che la proprietà aveva deciso di delocalizzare in Armenia.
“Abbiamo scommesso su di noi, l’entusiasmo è stato più forte della disperazione”, aggiunge Brozzi che oggi si trova a capo della cooperativa che raggruppa 11 soci e tre dipendenti.
L’avventura di “Ceramiche Noi” non è isolata: la crisi finanziaria ha portato ad un aumento dei casi di società in difficoltà rilevate dai lavoratori. Dal 2021, inoltre, il Mise darà degli aiuti per i problemi di successione.
Ma cos’è il Workers Buyout? Si tratta di un’azione di salvataggio dell’azienda, o di una sua parte, realizzata dai dipendenti che subentrano nella proprietà . Questi interventi sono resi possibili dal sostegno della Legge Marcora (L. 49/1985), efficacie strumento di politica attiva del lavoro, utilizzato per rigenerare un’impresa in crisi economica oppure nei casi in cui bisogna favorire un ricambio generazionale all’azienda senza eredi interessati a dare continuità all’attività imprenditoriale.
I lavoratori investono le loro risorse – dall’anticipo della mobilità (Naspi) al conferimento del TFR – e sostenuti da CFI (la società partecipata del MISE nata nel 1986 proprio per finanziare il workers buyout) possono utilizzare i fondi messi a disposizione della legge Marcora per assumersi la responsabilità della gestione della azienda, scommettendo sul loro futuro
Novità in vista per chi pensa di ricorrere a questo strumento: l’ultima Legge di Bilancio non si è limitata a rifinanziare CFI ma ha anche creato un secondo fondo, utilizzabile quando l’azienda non è in crisi, ma ha problemi di successione familiare o viene messa in vendita.
Inoltre da quest’anno CFI parteciperà ai tavoli di crisi aperti al MISE, nei limiti delle proprie possibilità di intervento, che riguardano le PMI con un tetto di 50 milioni di euro di fatturato e 250 lavoratori. Il fondo agevolato di CFI ha una nuova dotazione di 81 milioni di euro, ma grazie ai prestiti regolarmente restituiti il fondo consta di circa 290 milioni.
La scelta di rilevare l’azienda, in ogni caso, non può essere presa a cuor leggero: i dipendenti devono impegnare il loro Tfr e la loro indennità fino all’ultimo euro. Devono quindi crederci. E tanto. “Di fronte alla possibilità di perdere il nostro lavoro, avevamo due strade da poter percorrere: una, la più semplice almeno nell’apparenza, era quella di arrendersi all’evidenza, accettando la disoccupazione e gli ostacoli della ricerca di un nuovo impiego; l’altra via, quella più tortuosa e ripida, era tentare l’impossibile: scommettere su noi stessi, sulle nostre capacità e acquisire l’azienda – si legge sul sito dell’azienda “Ceramiche Noi” -. Pronti a ripartire, abbiamo deciso di fondare una cooperativa sfruttando gli strumenti del workers buyout. La nostra scelta è stata coraggiosa e precisa: abbiamo rinunciato alla disoccupazione, al TFR e abbiamo investito 180.000 euro per comprare nuovi macchinari. Ed è così che il miracolo è avvenuto. La nostra vita è cambiata in pochi mesi, così come il nostro futuro che sembrava essere incerto e cupo. In breve tempo, siamo riusciti a riconquistare i nostri vecchi clienti, il 90% dei quali negli Stati Uniti. Siamo riusciti a non fermare la produzione e a ripartire di slancio, lavorando anche 14 ore al giorno”.
I finanziamenti servono non solo a permettere ai dipendenti di acquistare l’impresa, ma anche per consentire loro di proseguire l’attività : si entra nel capitale delle imprese sostenute, rimanendoci per dieci anni anni e finanziandolo una seconda o terza volta. Le Regioni, nel frattempo, erogano finanziamenti per sostenere i lavoratori che vogliono costituirsi in cooperativa e acquistare la loro azienda.
Ci sono poi le società che fanno capo a Agci, Confcooperative, Legacoop, le tre organizzazioni che, insieme a Cgil, Cisl e Uil, hanno stipulato un accordo proprio per promuovere il workers buyout. Proprio Legacoop comunica i suoi numeri: “Il nostro fondo mutualistico Coopfond dal 2009 al 2020 ha deliberato 66 partecipazioni di wbo per un totale di 21 milioni, iniziativa che comprende 1800 persone tra soci e lavoratori”.
(da “Huffingtonpost”)
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