Gennaio 13th, 2017 Riccardo Fucile
“CI STATE OCCUPANDO COME NEL 1911″…EVACUATI I FUNZIONARI ITALIANI CHE COLLABORANO CON IL GOVERNO… ALTRO CHE “INTESA SUL CONTROLLO DEI BARCONI”, L’ESIBIZIONE MUSCOLARE DEL MINISTRO SERVE SOLO A ILLUDERE I PIRLA INTERNI CHE I PROBLEMI SI RISOLVANO A CHIACCHIERE
Nubi nere si addensano sul governo di Fayez Sarraj.
Durante la notte l’ex premier Khalifa Ghwell, legato al fronte dei movimenti islamici, ha confermato in una conferenza stampa di avere il pieno controllo di almeno cinque ministeri, compreso quello della Difesa.
Ieri sera lo stesso direttore dell’intelligence italiana che si occupa di Esteri (Aise) Alberto Manenti assieme a Paolo Serra, il generale italiano che lavora per la missione Onu in assistenza a Sarraj, hanno dovuto essere evacuati dal Ministero in fretta e furia a causa dell’arrivo in forze dei miliziani di Ghwell.
La notizia è riportata anche dal sito libico Al Marsad, segnalata da Il Foglio e confermata al Corriere da giornalisti tripolini.
«Gli italiani interferiscono»
In Libia le forze contrarie a Sarraj, dalla Cirenaica alla Tripolitania, accusano gli italiani di «interferire pesantemente» nei loro affari interni.
Le milizie legate al Mufti di Tripoli, Sadiq al Ghariani (la massima autorità religiosa e schierata con i Fratelli Musulmani), minacciano di attaccare le truppe speciali italiane, che ora agiscono come guardia del corpo personale di Sarraj e sono tra l’altro asserragliate nella base navale di Abu Sitta, diventata quartier generale del premier.
La gravità di queste notizie era stata ieri largamente annacquata dal nuovo ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone, che ha descritto una situazione di normalità e negato vi fosse stato alcun golpe. Ma fonti locali libiche, pur confermando che in città nelle ultime ore non sono registrate violenze particolari (anche per il fatto che le deboli milizie al servizio di Serraj non reagiscono), continuano a confermare i movimenti di uomini armati agli ordini di Ghwell.
Il ruolo della Russia
Un ruolo crescente nel Paese lo sta avendo tra l’altro la Russia, che continua a sostenere il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che non nasconde la sua aspirazione a controllare anche Tripoli.
Questi in un’intervista al Corriere pochi giorni fa aveva ripetuto che a suo parere l’Italia «dovrebbe evitare di interferire negli affari interni della Libia».
Alla stesso tempo ancora Haftar si è augurato una maggior collaborazione con Roma e ha espresso il desiderio di poter incontrare i «massimi dirigenti dell’Eni».
I maggiori media a Bengasi accusano ora i soldati italiani di avere «invaso» la Tripolitania «come nel 1911». E le milizie di Zintan (alleate di Haftar) dalle alture a sud della capitale ribadiscono la minaccia di attaccare le strutture Eni che fanno capo al terminale di Mellitah non lontano dal confine con la Tunisia.
Tutto ciò non può che favorire l’intervento russo nella regione. Negli ultimi giorni Haftar ha incontrato numerosi militari russi. E adesso Mosca vorrebbe organizzare un incontro tra lui e Sarraj al Cairo. Non a caso Sarraj si trova proprio in questo momento nella capitale egiziana.
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
RECLUTAVA GIOVANI UOMINI E DONNE NELLE SCUOLE, LI FACEVA TORTURARE E ABUSAVA DI LORO TRA VIAGRA, ALCOOL, ABORTI E COCAINA… LA BBC MOSTRA IMMAGINI AGGHIACCIANTI
Violenze sessuali, alcool, viagra, cocaina. Con tanto di immagini e testimonianze dirette. Agghiaccianti.
A più di due anni dalla morte del colonnello libico Gheddafi un documentario della BBC4 mostra per la prima volta “le stanze segrete del sesso” nelle quali il leader di Tripoli violentava giovani uomini e donne, anche minorenni, che sceglieva andando in visita nelle scuole o nelle università .
“Centinaia, forse migliaia di adolescenti furono torturati, violentati e costretti a diventare schiavi sessuali” durante i 42 anni di regime di Gheddafi.
Molti, assicura il documentario del canale britannico che andrà in onda il 3 febbraio, erano vergini quando vennero rapiti.
Prigionieri nelle stanze segrete dell’Università di Tripoli o in vari palazzi del potere, per anni furono alla mercè del colonnello, dei suoi figli e degli affiliati al regime. Senza possibilità alcuna di riscatto perchè chi riusciva a scappare o sopravviveva, il più delle volte era ripudiato dalla sua stessa famiglia: le violenze subite erano considerate un danno all’onore.
Come riferisce in esclusiva il quotidiano Daily Mail, in queste stanze le ragazze venivano costrette a guardare film porno per essere “educate” a quello che dopo veniva richiesto dal raìs.
Una delle camere mostrate dal documentario, in stile anni Settanta con annessa Jacuzzi, ha accanto anche una sorta di “suite ginecologica” completamente attrezzata, dove ragazzi e ragazze venivano controllati per verificare se avessero malattie sessualmente trasmissibili prima che Gheddafi potesse abusare di loro. E dove si praticavano perfino aborti, quando era necessario.
Il quotidiano britannico racconta il “modus operandi” del dittatore per scegliere le sue vittime. Le invitava ad eventi e sceglieva a piacere.
Dopo, i suoi uomini tornavano a sequestrarli. “Alcuni avevano solo 14 anni”, racconta al giornale online un insegnante di una scuola di Tripoli. “Semplicemente prendevano le ragazze che volevano. Non avevano coscienza, morale, pietà , anche se si trattava di una bambina”.
Una madre addirittura denuncia di come la sua famiglia si fosse messa alla ricerca della figlia scomparsa, per poi ritrovarla solo tre mesi dopo, morta, in un campo. E la paura ancora oggi è dilagante, tanto che molte famiglie hanno paura di parlare della questione apertamente, forse timorosi di ripercussioni nei loro confronti.
“Ad abusare delle ragazze per la prima volta era sempre il dittatore che poi le passava, come oggetti usati, a uno dei suoi figli o a qualche alto funzionario”, racconta la psicologa di Bengasi Seham Sergewa, che ha intervistato decine di vittime per il Tribunale Penale Internazionale.
Ma tra le perversioni di Gheddafi, raccontate dalla BBC e riportate sempre dal quotidiano inglese, c’è anche la sua ossessione di essere al centro del mirino dei nemici politici.
Come quando un chirurgo brasiliano venne condotto in segreto, nel cuore della notte, in un bunker di Tripoli per un’operazione di liposuzione alla pancia e un ritocco al viso, tutto senza anestesia generale, per paura di essere avvelenato.
Tra le testimonianze anche quella di “un’amazzone” del Raìs, che ammette di averlo adorato. Fin quando una mattina fu costretta, insieme alle altre donne della guardia, a presenziare e tifare durante una fucilazione di massa di 17 studenti, da parte degli uomini dell’esercito libico.
Altre voci terribili, infine, come quella di una ragazza violentata davanti al padre per punizione.
L’ultima follia poi fa riferimento alle presunte voci secondo le quali Gheddafi amasse far congelare i corpi degli uomini che aveva fatto uccidere, così da poterli esporre come trofeo.
Silvia Ragusa
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 21st, 2013 Riccardo Fucile
“IL SOLE 24 ORE” RACCONTA IL MECCANISMO DI TANGENTI CON CUI BELSITO AVREBBE LUCRATO SULLA VENDITA DI PATTUGLIATORI A GHEDDAFI…MA I CONTATTI CON I GERARCHI LIBICI LI TENEVA MARONI
Le dimissioni di Roberto Maroni dalla segreteria della Lega Nord assumono una prospettiva diversa dopo aver letto “Il Sole 24 Ore”.
L’ottimo inviato Claudio Gatti racconta il meccanismo di tangenti e retropagamenti con cui il tesoriere della Lega, Francesco Belsito, in combutta con degli alti ufficiali libici, avrebbe lucrato sulla vendita al regime di Gheddafi di pattugliatori e corvette prodotte da Fincantieri.
Cioè l’azienda in cui Belsito ricopriva l’incarico di consigliere d’amministrazione per scelta (vergognosa) della Lega.
Basta mettere in fila le date per trarne una deduzione logica: le trattative per un contratto di fornitura di navi militari alla Libia, con tanto di “cresta” per entrambi i contraenti, seguirono di pochi mesi l’accordo siglato fra il governo Berlusconi e il dittatore di Tripoli per il respingimento dei migranti. §
Un trattato indecente, condannato da tutta la comunità internazionale, approvato nell’agosto del 2008 (purtroppo anche con il voto di quasi tutti i parlamentari del centrosinistra).
E’ logico rilevare, alla luce di quanto scrive Claudio Gatti su “Il Sole 24 Ore”, che nella sua duplice veste di tesoriere della Lega e membro del cda Fincantieri, Francesco Belsito sia passato all’incasso, cercando di monetizzare quel patto infame.
Nessuna persona seria può pensare che si sia trattato di un’iniziativa personale di Belsito.
I contatti con i gerarchi libici nel piano anti-immigrati li teneva il ministro degli Interni, Roberto Maroni.
E ne menava gran vanto in pubblico.
Se ora ha lasciato la guida del suo partito, è ragionevole pensare che possa trattarsi di una mossa preventiva.
Fin qui i leghisti se la sono cavata scaricando su Belsito (e Bossi) l’intera colpa delle malversazioni amministrative e delle appropriazioni indebite di denaro pubblico.
Ma riguardo ai legami con i militari libici questa linea difensiva non potrebbe mai reggere.
Gad Lerner
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Giugno 13th, 2013 Riccardo Fucile
LA RIVELAZIONE DI UNA FONTE AUTOREVOLE DELLA SICUREZZA: IL CAVALIERE TEMEVA DI ESSERE CONSIDERATO TROPPO FILO-RAàŒS
Nelmezzo della crisi libica il presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi, fece una richiesta un po’ irrituale ai servizi segreti guidati allora da Gianni De Gennaro: “Non è che potreste far fuori Gheddafi?”.
Il Fatto Quotidiano lo apprende da una fonte diplomatica autorevole vicina agli ambienti della sicurezza.
E l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia) commenta così: “Non venivano certo a raccontarlo a me, ma è possibile. Berlusconi era preoccupato di trovarsi lui stesso in difficoltà perchè considerato troppo vicino al leader libico”. Difficile dire se poi ci sia stato un seguito, le cose dei servizi segreti restano, quasi sempre, segrete
Da quanto si può ricostruire, quello di Berlusconi era un tentativo un po’ naà¯f di risolvere una situazione imbarazzante, visto che nel marzo 2011, quando cominciano i bombardamenti della Nato su Tripoli, i ricordi dei vertici romani (con tanto di tenda nel parco di villa Pamphili) tra il Cavaliere e il Colonnello erano ancora freschissimi. Berlusconi ha sempre vissuto con un certo fastidio la fermezza con cui il suo ministro degli Esteri, Franco Frattini, si è subito schierato nel fronte degli interventisti della Nato.
Ma quando le cose sono precipitate ed è diventato chiaro che il potere di Gheddafi stava crollando, Berlusconi deve aver pensato di risolvere la cosa in modo rapido, cercando di riabilitarsi all’ultimo secondo.
L’Italia aveva da poco firmato anche un compromettente trattato di amicizia italo-libico che impegnava il governo a investimenti in Libia e la Banca centrale del Paese aveva mandato due dei suoi fondi di investimento in soccorso di Unicredit.
Al di là degli affari, però, c’era il rapporto personale, a lungo ostentato, tra Berlusconi e Gheddafi.
Avere un ruolo nella sua eliminazione poteva essere un utile argomento per il Cavaliere che attraversava già una crisi di legittimità a livello internazionale (sopravviverà , politicamente, meno di un mese alla morte del raìs).
Ovviamente le cose non sono così semplici, i servizi segreti tendono a non agire direttamente, preferiscono di solito influenzare, indirizzare, procedere “per proxy”, come si dice in gergo, cioè mandare avanti i soggetti che già operano sul territorio (nel caso specifico i ribelli libici).
Che dietro la morte del leader libico, il 20 ottobre 2011, ci possa essere l’attivismo di spie occidentali però non è un eccesso di complottismo.
Negli ultimi giorni un’inchiesta di Le Monde (integrata da Fausto Biloslavo sul Giornale) ha rivelato un possibile retroscena di quegli eventi: l’allora presidente della Francia, Nicolas Sarkozy, capofila dell’intervento della Nato, era molto preoccupato che emergessero i suoi legami, altrettanto imbarazzanti, con il regime libico.
“Penso che Sarkozy ha un problema di disordine mentale. Ha detto delle cose che possono saltar fuori solo da un pazzo”, disse Gheddafi a Biloslavo del Giornale, che ricorda: “Il Colonnello non riusciva a comprendere come l’ex amico francese, che aveva aiutato con un cospicuo finanziamento (forse 50 milioni di euro) per conquistare l’Eliseo fosse così deciso a pugnalarlo alle spalle”.
Anche Lorenzo Cremonesi, sul Corriere della Sera, ha raccontato a fine 2012 come a Tripoli in tanti sostenessero che dietro la morte di Gheddafi ci fosse un agente francese.
In quei mesi del 2011, complici partite industriali ed economiche (dalle nomine in Bce alla Parmalat al nucleare) i rapporti tra Berlusconi e Sarkozy erano piuttosto stretti.
Chissà se il Cavaliere è poi riuscito ad avere un ruolo nell’eliminazione del Colonnello.
Probabilmente no, visto che alla morte del dittatore invece che rivendicarne l’eliminazione si limitò a liquidarlo con un semplice: “Sic transit glora mundi”.
Stefano Feltri
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
LE TESTIMONIANZE RACCOLTE DALL’AGENZIA HABESHIA DA UN GRUPPO DI 76 PROFUGHI ERITREI INTERCETTATI DA DUE UNITA’ DELLA MARINA ITALIANA E LIBICA CHE AVREBBERO COSTRETTO I RICHIEDENTI ASILO A TORNARE IN LIBIA
“Un gruppo di 76 persone – riferisce l’Agenzia Habeshia, diretta da padre Moses Zerai – sono state intercettate da mezzi navali battenti bandiera Italiana e Libica.
Una delle imbarcazione porta il nome di Napoleone.
I profughi, quasi tutti Eritrei, sono certi di essere stati intercettati da un pattugliamento congiunto italia e libia.
Una volta prese le persone – prosegue il resoconto – sono state riaccompagnate nelle acque libiche, presso una piatta forma petrolifera e consegnati ai militari libici, che hanno riportato il gruppo in Libia, nel porto di Tripoli, e quindi trasferiti in un nuovo centro di detenzione, ancora in fase di costruzione, minacciati dai militari che saranno deportati verso il paese di origine”.
I respingimenti in alto mare.
“Queste 76 persone – si legge ancora nel comunicato dell’agenzia – sono tutti richiedenti asilo. Nel gruppo ci sono donne e bambini, il più piccolo ha due anni. Chiedono aiuto per scongiurare la deportazione verso il paese di origine. Con la testimonianza di queste persone che chiedono aiuto – prosegue il dispaccio – si comprende come siano in atto dei respingimenti di massa in alto mare, senza che nessuno verifichi le reali situazioni e condizioni di chi avrebbe il diritto di asilo”.
L’appello alle autorità italiane.
“Facciamo appello alle autorità italiane – conclude Zerai – in virtù dei loro accordi bilaterali con le autorità libiche, chiedano alle autorità libiche di fermare ogni intenzione di deportazione dei profughi eritrei, per non mettere in pericolo la vita di queste persone, questi richiedenti asilo che vengano consegnate immediatamente nelle mani dell’UNHCR di Tripoli.
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
ALCUNE STORIE RACCONTATE CLANDESTINAMENTE E RACCOLTE DALLA FONDAZIONE “INTEGRA/AZIONE” DI DETENUTI RINCHIUSI NELLE CARCERI LIBICHE… PROVENIENTI DALL’AFRICA SUD SAHARIANA E DAL CORNO D’AFRICA E COSTRETTI IN CONDIZIONI DISUMANI NEI CENTRI DI DETENZIONI COSTRUITI CON SOLDI PUBBLICI ITALIANI
Queste che leggete di seguito sono le storie e le testimonianze raccontate clandestinamente al telefono, e poi trascritte, di detenuti rinchiusi nelle celle delle carceri libiche dove vengono rinchiuse le persone che fuggono dai paesi dell’Africa sud sahariana e del Corno d’Africa.
Vivono in condizioni animalesche nei centri di detenzioni (alcuni dei quali costruiti con soldi pubblici italiani) assiepati come polli da batteria, ma dove in qualche modo riescono a tenere accesi alcuni cellulari, con i quali appena possono chiamano per denunciare quanto sta loro accadendo.
Queste che seguono sono i racconti raccolti dalla Fondazione IntegrA/Azione .
Una speranza che sta svanendo
Debesay, eritreo
“Mi hanno arrestato mentre camminavo in città a Benghazi – racconta Debesay, detenuto da più di due mesi nel carcere di Ganfuda – cercavo una barca insieme ad altri ragazzi per tentare di raggiungere l’Italia dove già è rifugiata mia madre.
Qui in carcere siamo disperati, frustrati, abbiamo provato ad uscire in tutti i modi, ma non ci siamo riusciti, neanche pagando le guardie”.
Debesay è riuscito a far arrivare a un trafficante 400 dollari per corrompere i militari libici per la sua liberazione.
Un pagamento anticipato senza alcuna garanzia, “un tentativo fallito: sono ancora qui. Scappare non è possibile, se provi a evadere vieni punito, picchiato sotto le piante dei piedi, un dolore atroce”.
Le condizioni della detenzione sono disumane, con umiliazioni e vessazioni continue da parte dei libici. “Nella cella di trenta metri quadri siamo accalcati più di 60, dormiamo per terra, non ci sono reti ma solo materassi, sporchi o stuoie sul pavimento. Ci danno da mangiare tre volte al giorno, il più delle volte pane secco e acqua. Per il resto, un’attesa infinita.
Se stai male non ci sono medici e medicine: il tuo destino è l’abbandono e la morte. Non so veramente che dirti – conclude Debesay – non so cosa faccio, non so che pensare, la speranza sta svanendo…”
A 17 anni nell’inferno di Ganfuda
Mogos, eritreo
Mogos viveva ad Asmara in Eritrea, è scappato dal campo di addestramento dell’esercito eritreo di Saua per non trovarsi costretto ad andare al fronte a soli 15 anni. Una fuga lunga, durissima.
Passato il confine è stato quasi due anni in Sudan, per trovare il giusto trafficante di esseri umani e reperire il denaro per riprendere il viaggio sino alle coste libiche, per tentare di raggiungere l’Italia.
Come per tutti passare il deserto è stato un’odissea.
Un lungo viaggio senza ritorno andato “male, molto male. Come ti spiego – dice Mogos al nostro mediatore culturale – tu lo sai bene, hai già passato questo deserto, abbiamo viaggiato per 12 giorni, eravamo 50 persone ammassate su un camion”.
Ad un passo dal mare, quando sembrava finito l’incubo, “mi hanno beccato con i ragazzi che viaggiavano con me. Camminavo verso Tripoli, per trovare il modo per attraversare il mare, sicuro di avercela fatta, quando i militari libici mi hanno preso e arrestato nel corso di una retata.
Per due giorni mi hanno tenuto nel centro di Ijdabiyah, poi mi hanno trasferito qui a Ganfuda. Sono da quattro cinque giorni qui a Gandufa, si sopravvive tirando avanti giorno per giorno.
La cosa più dura è non vedere un futuro, un’uscita da questo viaggio infinito. I pochi che escono dalle prigioni lo fanno per lavorare”.
Alcuni prigionieri vengono scelti per lavorare da ricchi libici, che comprano i detenuti per poi usarli come forza lavoro a costo zero nelle proprie aziende o fattorie nel deserto. Questa uscita dal carcere, per trasformarsi da detenuti a schiavi è possibile solo per le persone con il passaporto, che viene sequestrato in modo da scongiurare la fuga del lavoratore comprato. “Tutti quelli che hanno il passaporto possono uscire, ma anche per questo ci vuole molta fortuna – spiega Magos – noi eritrei siamo tutti senza passaporto, per noi non c’è soluzione, non c’è futuro. A 17 anni sono bloccato qui, all’inferno”.
Io scomparso dal mondo
Samuel, eritreo
Samuel è un ragazzo di 23 anni che viene della periferia di Asmara. “Sono fuggito perchè non volevo fare la guerra, sono scappato in fretta e furia, senza poter neanche salutare la mia famiglia”. Da cinque giorni è anche lui nel carcere libico di Ganfuda: “Ci hanno preso durante il lungo viaggio dal Sudan e dal deserto ci hanno portati qui in questa prigione. Tutte le donne e i bambini che erano con noi – ci spiega Samuel – sono stati presi e trasferiti al centro della Croce Rossa a Benghazi, da allora non ne sappiamo più nulla”.
Le comunicazioni con l’esterno sono difficili, anche per il nostro mediatore è stato molto complicato contattare i detenuti nelle carceri.
“In 60 abbiamo un solo telefono cellulare nascosto in cella, è l’unico contatto con la famiglia, i connazionali, i trafficanti: l’unico contatto con il mondo. Io non sono riuscito ancora a sentire la mia famiglia, non sanno nulla di me e io non so più nulla di loro. Qui la vita è dura e faticosa – racconta Samuel – siamo sempre chiusi in cella, possiamo uscire solo quando ci danno il pane. Siamo frustrati, siamo stanchi della prigione, ma non c’è alcuna possibilità d’uscita, non c’è nessuna speranza”.
Siamo tanti, tantissimi e altri ne arrivano
Aroon, eritreo
Aroon ha 24 anni e viene anche lui dalla periferia di Asmara, ha condiviso il viaggio di fuga dall’Eritrea con Samuel, compreso l’epilogo di prigionia.
“Qui siamo divisi per nazionalità – spiega Samuel – somali, sudanesi ed eritrei, ognuno nella propria cella. Viviamo in ansia continua.
Stiamo resistendo, siamo costretti, per forza. Prima il viaggio nel deserto, ora la prigione, trattati come delinquenti, non ce la facciamo più”. La speranza nel futuro tende ad allontanarsi velocemente. “Non riusciamo a corrompere le guardie per uscire, quando paghiamo qualcuno ruba i soldi e non ci fa uscire,
Evadere è difficile, in pochi ci riescono e se ti prendono ti torturano.
La croce rossa non può fare nulla per noi perchè questo paese non ha un governo, tutto è caotico”.
“Siamo tantissimi detenuti qui – conclude Aroon – e altre persone stanno arrivando attraverso il Sudan verso la Libia, molti miei amici sono partiti. Come faranno a tenerci tutti qui”?
Dalla prigione al mare
Anwar, etiope
Nascosto in una stanza con diversi altri connazionali, Anwar è un giovane etiope dell’etnia Oromo, perseguitata nella propria terra e soggetta a vessazioni di ogni genere.
“Sono uscito dalla prigione di Ganfuda da quasi un mese, mi ha riscattato un libico che aveva bisogno di manodopera. Così poi pagando sono riuscito a continuare il viaggio verso il mare. Ora sto raccogliendo gli ultimi soldi per arrivare a Tripoli e imbarcarmi per l’Italia”.
Nascosto in una casa sulla strada per Tripoli è in balìa del trafficante che dovrebbe condurlo alla costa e che irrompe più volte durante la telefonata con il mediatore della Fondazione IntegrA/Azione.
“Sono stato prigioniero in tante carceri qui in Libia. Prima sono stato a Kufrah poi a Ganfuda – ci spiega Anwar – La prigionia era terribile, bruttissima: ci picchiavano regolarmente e puntualmente ogni sera, non avevamo il cibo, non c’erano medicine nè dottori. Ho passato tutte queste sofferenze e adesso sono diretto finalmente verso il vostro paese. In Libia non ci sono diritti, non c’è un governo. Per loro se tu mangi o non mangi, ti ammali o stai bene non cambia nulla. Voi siete in un paese dove c’è un governo”.
Ai lavori forzati
Meron, eritreo
A gennaio Meron era rinchiuso nel carcere di Kufrah, sotto la supervisione dell’UNHCR 4.
“A marzo la prigione è tornata sotto il controllo dei militari del nuovo governo libico e noi siamo tornati ad essere prigionieri – spiega Meron – ci costringevano ai lavori forzati pulendo carri armati ed armi”.
Poprio da questi lavori forzati ha avuto inizio uno sciopero della fame e una manifestazione repressa duramente dai militari. “Da Kufrah ci hanno portato in aereo a Ganfuda, dove sono rimasto quasi due mesi.
Ora con un po’ di fortuna e molta fatica sono riuscito ad uscire; lavoro in una fattoria di un padrone libico, nell’attesa di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungere mio fratello in Italia”.
Aspettando di salpare verso la speranza.
Salua, somala
“Sono stata in carcere a Ganfuda per due mesi – racconta la giovane Salua – la vita era molto difficile. Finalmente sono uscita, ora mi trovo a Tripoli nascosta in una casa”.
L’appartamento è di un trafficante che sta organizzando la traversate del Mare Nostrum. “Uscire dall’appartamento non è possibile, ci portano ogni giorno beni di prima necessità “.
Così si passa il tempo nell’attesa delle giuste condizioni meteo per la partenza. “Vengo in Italia la prossima settimana, mi sto preparando”. Mentre scriviamo Salua dovrebbe essere in procinto di partire verso l’Italia, non ci resta che augurarle ancora una volta buona fortuna.
Un ringraziamento particolare.
Le interviste sono state realizzate con l’insostituibile aiuto di un mediatore culturale di origine eritrea e collaboratore della Fondazione IntegrA/Azione, Mahamed Aman, cui va il ringraziamento più grande, per aver permesso un’indagine altrimenti impossibile, fornendo chiavi di lettura, informazioni fondamentali nella comprensione del contesto e decodifiche dei messaggi veicolati dai ragazzi intervistati.
Una collaborazione che nasce dalla volontà , da parte di Mahamed, di restituire speranza ai giovani nelle carceri e cercare di far conoscere le loro storie nel nostro Paese, che di quelle vicende è spesso complice.
Mahamed ha un fratello che sta ancora in Libia, nell’attesa dopo mesi di carcere di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungerlo in Italia.
(da “Mondo Solidale”)
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
MOLTI CENTRI DI DETENZIONE SONO SORTI CON RISORSE DISTOLTE DAL BILANCIO ITALIANO A SEGUITO DELL’ASSURDO ACCORDO CON LA LIBIA
In Libia ci sono poco meno di 30 strutture, tra prigioni comuni e centri di detenzione, destinati ai migranti che tentano la traversata dal paese d’origine per arrivare in Europa.
Uomini e donne costretti a seguire rotte prestabilite e controllate da trafficanti e affaristi che sulla loro pelle si arricchiscono.
Sfruttamento, condizioni inumane, viaggi drammatici, detenzioni e deportazioni coatte che sono l’ossatura della cerniera libica all’immigrazione verso il nostro Paese.
Un pezzo nascosto di quegli accordi firmati tra governi e istituzioni per frenare delle persone semplicemente costrette alla fuga da guerre, torture e morte, verso l’unico futuro possibile: l’Europa.
Viaggi senza ritorno.
Viaggi che una volta intrapresi non prevedono possibilità di ritorno e che costringono migliaia di rifugiati a restare anche anni sospesi nell’inferno libico. Un meccanismo di tratta di esseri umani consolidato e ben rodato nella Libia del Colonnello Gheddafi e che il cambiamento non ha scalfito.
La nascita di nuovi attori nella tratta rende anzi più drammatica la situazione per i migranti imprigionati, che devono misurarsi con un moltiplicarsi di intermediatori senza scrupoli, che stanno ricostruendo meccanismi di connivenza e corruzione con le forze militari libiche.
Come questo meccanismo si stia ricostruendo non è ancora dato sapere in maniera compiuta, di certo i migranti hanno ancor meno speranza di potere uscire da questi luoghi infernali.
Fondazione IntegrA/Azione intende verificare e far conoscere i gironi dell’inferno che i migranti vivono sulla loro pelle ogni giorno, anche come conseguenza degli accordi siglati il 3 aprile scorso tra Italia e Libia.
Cellulari nascosti nelle celle sovraffollate.
Le persone che abbiamo contattato direttamente in prigione si trovano nel carcere di Ganfuda, a circa dieci chilometri dalla città di Benghazi.
Il carcere a pieno regime “ospita” 500 detenuti.
Carceri finanziati con risorse italiane.
Molti centri di detenzione sono finanziati con i soldi italiani, come previsto nella legge Finanziaria 2005 a seguito degli accordi con Gheddafi, tramite uno stanziamento speciale di fondi (Articolo 1 – comma 544 – della legge 30 dicembre 2004 n. 311 recante disposizioni in materia di
“Finanziamento programma di cooperazione AENEAS in materia di flussi migratori”).
Di questa ricerca Fondazione IntegrA/Azione pubblica un primo estratto, per far sapere cosa succede in Libia, per ricordare quanto alto sia il prezzo umano degli accordi siglati con la Libia, nella speranza di un Paese che torni a puntare sull’accoglienza e l’integrazione segnando, finalmente, un segno atteso di discontinuità con il precedente governo Berlusconi e con le logiche della Lega Nord.
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Ottobre 23rd, 2011 Riccardo Fucile
IMMENSE RISORSE NASCOSTE ALL’ESTERO: TRIPOLI RIAVRA’ I BENI “CONGELATI” IN OCCIDENTE, NON QUELLI DEI PAESI AFRICANI…IL PATRIMONIO A DISPOSIZIONE DEL RAIS ERA PARI A 30.000 DOLLARI PER OGNI LIBICO
Duecento miliardi di dollari. È questo il “tesoro” che Muammar Gheddafi aveva nascosto nel corso degli anni (e soprattutto degli ultimi mesi) all’estero per garantirsi un futuro.
Le cose sono andate diversamente, il raìs, ucciso a sangue freddo dopo essere stato catturato, non potrà più disporre di quella straordinaria ricchezza accumulata in 42 anni di dittatura.
Ma il “tesoro” rimane e su queste “spoglie” del nemico è iniziata un’altra battaglia.
Che verrà combattuta non con i kalashnikov dei ribelli, ma usando controverse leggi internazionali, avvocati, banche occidentali, regimi africani.
Duecento miliardi di dollari, quasi il doppio di quanto si fosse finora pensato.
A rivelarlo (al Los Angeles Times) è stato un funzionario libico che ha potuto analizzare i documenti finanziari del dittatore: conti bancari, proprietà , azioni, oro, contanti.
Duecento miliardi di dollari che equivalgono a circa trentamila dollari a testa per ogni cittadino libico, depositati all’estero mentre, come ha commentato un leader del governo provvisorio «i libici chiedevano i soldi necessari per scuole ed ospedali».
La primavera scorsa, dopo l’inizio dei bombardamenti Nato su Tripoli, il governo americano aveva “congelato” 37 miliardi di dollari che il Colonnello aveva investito negli Stati Uniti.
A seguire anche Francia, Italia, Germania e Gran Bretagna avevano congelato le ricchezze di Gheddafi in Europa (per altri 30 miliardi di dollari circa).
In Italia il leader libico aveva investito circa cinque miliardi di dollari con partecipazioni in Unicredit (7,5 per cento), Eni (2), Juventus (7,5), Fiat (2) e Finmeccanica (2).
Durante i primi mesi della rivolta armata, che da Bengasi ha condotto i ribelli fino alla conquista di Tripoli, sia i leader del Cnt che quelli occidentali erano convinti che altri trenta/trentadue miliardi di dollari (per un totale di cento) fossero nascosti in paesi del medio oriente, del sudest asiatico e in quei paesi africani (come il Ciad, il Niger e il Mali) che erano di fatto a “libro-paga” del dittatore libico.
Nessuno poteva però immaginare che la cifra reale fosse quasi il doppio.
Gran parte di questa ricchezza si trova sotto la copertura di istituzioni governative, come la Banca centrale di Libia, la Libyan Investment Authority, la Libyan Foreign Bank, la Libyan National Oil Corp e il Libya African Investment Portfolio, ma Gheddafi e la sua famiglia erano in grado di accedere liberamente a questi fondi come e quando volevano.
Inoltre il raìs aveva accumulato in Libia, nascosto negli inattaccabili (allora) bunker di Tripoli, un tesoro in oro e contanti, in buona parte usato in questi mesi di guerra per comprare armi, pagare mercenari, trattenere a Tripoli dignitari tentati dalla fuga all’estero e anche per mantenere quel livello di vita da miliardari che la famiglia Gheddafi non si era fatta mai mancare (fino alla caduta di Tripoli dell’agosto scorso).
“Pecunia non olet”, per le banche e le compagnie occidentali fare affari con Gheddafi non era mai stato un problema, neanche nei momenti di maggior tensione tra il raìs e l’occidente come Lockerbie.
Era lui caso mai che si vendicava nel caso in un paese fosse stato fatto qualche “torto” ai suoi familiari.
È il caso della Svizzera, punita quando uno dei figli di Gheddafi venne arrestato a Ginevra per aver picchiato selvaggiamente due domestici.
Per vendicare l’affronto il leader libico decise di trasferire quasi tutti i suoi “asset” svizzeri in una banca portoghese, la Caixa Geral de Depositos.
Un miliardo e trecento milioni di dollari, che oggi rischiano di far fallire la banca portoghese.
Per la “nuova Libia” e i suoi dirigenti non sarà facile recuperare questo immensa ricchezza che Gheddafi ha depredato al suo popolo in quattro decenni. I regimi africani più legati al dittatore ucciso non hanno finora congelato i suoi beni e sembrano propensi a restituirli alla famiglia (in parte) e ad usarli per la propria economia.
Stati Uniti ed Europa hanno garantito che restituiranno tutto al nuovo legittimo governo, ma per il momento nelle casse esangui del Cnt sono rientrati solo 700 milioni di dollari.
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Ottobre 20th, 2011 Riccardo Fucile
COLPITO ALLE GAMBE DA UN RAID NATO MENTRE ERA IN FUGA DA SIRTE, E’ MORTO DURANTE IL TRASPORTO IN AMBULANZA A MISURATA…CATTURATO IL FIGLIO MUTTASIM
Muammar Gheddafi è morto.
Il leader libico, dato in un primo tempo per ferito dopo la sua cattura a Sirte, è deceduto dopo una corsa in ambulanza.
All’ospedale di Misurata il rais è giunto cadavere. Il colonnello è stato catturato durante la fuga dalla sua città natale, caduta sotto gli ultimi assalti degli insorti dopo un lungo assedio.
Ma sarebbe stato un doppio raid degli elicotteri Nato, a supporto dei ribelli, a bloccare Gheddafi prima e a ferirlo mortalmente in un secondo tempo.
Dopo la caduta di Sirte le notizie sulla sorte di Gheddafi si sono affastellate in maniera caotica, rimbalzando sulle tv libiche e del mondo arabo, oltre che in rete.
«Gheddafi è stato arrestato – aveva detto in un primo momento un comandante delle forze del Cnt – ed è stato gravemente ferito ad entrambe le gambe ma respira ancora».
Altre versioni raccontavano che Gheddafi sarebbe stato catturato in una buca a Sirte e davanti ai combattenti del Cnt avrebbe urlato: «Non sparate, non sparate!».
Con lui arrestato anche il figlio Muttasim, il potente capo dei servizi segreti dell’ex regime Abdallah Senoussi e il capo dei servizi di sicurezza Mansour Daou.
Al Arabiya riferisce anche che a Sirte sono stati fermati anche il ministro dell’Istruzione dell’ex regime Ahmed Ibrahim e uno dei consiglieri di Mutassim.
Il corpo di Muammar Gheddafi viene portato in questi minuti in una località segreta per ragioni di sicurezza ha detto uno dei responsabili del Cnt, Mohamed Abdel Kafi all’agenzia Reuters.
Scene di giubilo, caroselli di auto, suono ininterrotto di clacson, uomini che ballano in strada con i mitra in pugno.
Sono le prime immagini che provengono da Tripoli e da diverse città della Libia, alla notizia della cattura del colonnello.
«È una grande vittoria per il popolo libico», ha dichiarato il ministro dell’informazione, Mahmoud Shammam.
Sirte è caduta in mattinata: la presa della città si può considerare simbolicamente come la fine della guerra di liberazione del Paese.
Al Jazeera ha citato le parole del colonnello Yunus Al Abdali, capo delle operazioni militari in città «Sirte è stata liberata.
Non ci sono più forze di Gheddafi in città . Stiamo dando la caccia ai suoi miliziani che tentano la fuga».
Un altro comandante delle forze del Cnt che ha spiegato come l’attacco finale, iniziato verso le otto del mattino, sia durato circa una novantina di minuti.
Nei giorni scorsi le forze del Cnt avevano espugnato l’altro caposaldo dei gheddafiani, Bani Walid.
Ora si apre la strada alla creazione di un governo definitivo della nuova Libia, governo che potrà definire anche i contratti petroliferi e no con le varie imprese straniere.
Due giorni fa il segretario di Stato Usa Hillary Clinton aveva anche sottolineato la necessità di creare un esercito ufficiale.
Dalla caduta di Tripoli, il 21 agosto, i fedeli al vecchio regime di Gheddafi avevano organizzato la loro resistenza in varie aeree del paese, principalmente proprio Sirte e Bani Walid.
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