Maggio 8th, 2019 Riccardo Fucile
COMUNE E REGIONE HANNO FORMALIZZATO LA RICHIESTA AGLI ORGANIZZATORI DI RESCINDERE IL CONTRATTO
La Città di Torino e la Regione Piemonte, soci fondatori del Salone del Libro, hanno chiesto alla associazione “Torino, la città del libro”, al Circolo dei Lettori e al Comitato di indirizzo del Salone del Libro che organizzano la manifestazione, di rescindere il contratto con la casa editrice AltaForte.
Questo, dicono, alla luce della situazione che si è venuta a creare, che rende impossibile lo svolgimento della prevista lezione agli studenti di Halina Birenbaum, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti, e alla forti criticità e preoccupazioni espresse dagli espositori in relazione alla presenza e al posizionamento dello stand di AltaForte.
“E’ necessario tutelare il Salone del Libro, la sua immagine, la sua impronta democratica e il sereno svolgimento di una manifestazione seguita da molte decine di migliaia di persone”.
(da agenzie)
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Dicembre 27th, 2017 Riccardo Fucile
IN CALO LA PERCENTUALE DEI GIOVANI… AUMENTANO LE COPIE DIGITALI E I COSTI
Gli italiani amano sempre di meno leggere, se non lo devono fare per lavoro o per studio. La tendenza registrata negli ultimi anni, nello specifico dal 2010, si conferma anche per il 2016.
Sette anni fa, infatti, è stato registrato il picco massimo dei lettori con il 46,8%, in crescita rispetto al 2000, quando la percentuale era stimata al 38,6%.
Dal 2010, però, c’è stata una costante flessione e l’anno scorso il dato registrato degli individui dai 6 anni in su che hanno letto almeno un libro nell’ultimo anno, per motivi non strettamente scolastici o professionali, è stato del 40,5%, lo stesso del 2001.
La fotografia è stata scattata dall’Istat, nell’indagine Produzione e lettura di libri in Italia, dalla quale emerge che la flessione ha interessato in modo particolare i più giovani.
La quota di lettori tra i 15 e i 17 anni è diminuita dal 53,9% del 2015 al 47,1% del 2016. Anche tra i 20 e i 24 anni si passa dal 48,9% di lettori al 44,7%.
Il divario tra uomini e donne nella propensione alla lettura si manifesta fin dal 1988, anno in cui si dichiaravano lettori il 39,3% delle donne rispetto al 33,7% degli uomini.
Nel 1998 la distanza aumenta: legge il 46,4% delle donne e il 36,7% degli uomini; infine nel 2016 la percentuale di lettrici sale al 47,1% e quella dei lettori scende al 33,5%.
In assoluto, il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze tra gli 11 e i 19 anni (il 58,7% ha letto almeno un libro).
La quota di lettrici scende al di sotto del 50% dopo i 60 anni, per i maschi è sempre inferiore a tale valore in tutte le classi di età
NORD-SUD
Persistono i divari territoriali: legge meno di una persona su tre nelle regioni del Sud (27,5%) mentre in quelle del Nord-est si raggiunge la percentuale più elevata (48,7%). L’effetto della familiarità , inoltre, è forte nell’abitudine alla lettura. Il 66,9% dei ragazzi tra i 6 e i 18 anni con entrambi i genitori lettori, infatti, legge libri contro il 30,8% tra i figli di genitori che non leggono.
Nell’opinione degli editori, infine, i principali fattori che determinano la modesta propensione alla lettura in Italia sono il basso livello culturale della popolazione (39,7% delle risposte) e la mancanza di efficaci politiche scolastiche di educazione alla lettura (37,7%).
SEMPRE PIU’ LIBRI DIGITALI
Comunque negli ultimi anni si sta lentamente diffondendo il consumo di prodotti editoriali digitali. Nel 2016, circa 4,2 milioni di persone hanno letto e-book (7,3% della popolazione).
Se si aggiungono anche coloro che hanno scaricato libri online il numero sale a 6,3 milioni ossia l’11,1% della popolazione di 6 anni e più, in decisa crescita rispetto all’8,2% del 2015. L’attività di lettura di questi prodotti riguarda una quota di persone che oscilla tra il 14,0% del Nord-ovest e l’8,1% del Sud.
Si confermano le differenze legate alla dimensione comunale: le attività online di lettura e download di libri ed e-book risultano più diffuse nei comuni centro di aree metropolitane (15,3%), rispetto ai piccoli centri (8,7% nei comuni da 2001 a 10 mila abitanti).
POCHI VOLUMI IN CASA
L’aumento della lettura in formato digitale è forse una delle cause della riduzione dei volumi in casa: nel 2016 circa una famiglia su dieci non ha alcun libro, dato ormai costante da quasi un ventennio. Anche nei casi in cui è presente una libreria domestica, il numero di libri disponibili è molto contenuto: il 28,2% delle famiglie possiede non più di 25 libri e il 63,2% ha una libreria con al massimo 100 titoli. Poco più del 25%, invece, possiede più di 100 volumi nella propria libreria.
Tra le persone che dichiarano di disporre di oltre 400 libri in casa, circa una su cinque (21,4%) non ne ha letto nemmeno uno e una quota equivalente (19,8%) ha dichiarato di leggere non più di tre libri all’anno; nel 36,0% dei casi si tratta invece di “lettori forti”. Sembra più evidente il legame tra l’abitudine alla lettura e altre forme di partecipazione
culturale.
Suddividendo la popolazione tra lettori e non lettori emerge che ben il 68,9% dei primi si è recato al cinema rispetto al 41,7% dei non lettori; il 34,7% dei lettori ha visto almeno uno spettacolo teatrale nell’anno rispetto al 10,2% di coloro che non leggono, così come la frequentazione di musei o mostre che è praticata dal 54,1% del primo gruppo rispetto al 15,8% del secondo.
PIU’ TITOLI, MENO COPIE
Tra tanti segni meno, ce n’è uno positivo: nel 2016 si rileva un lieve segnale di ripresa della produzione editoriale. I titoli pubblicati aumentano del 3,7% rispetto all’anno precedente; persiste invece la tendenza alla riduzione delle tirature (-7,1%). Le librerie indipendenti e gli store online sono considerati dagli editori i canali di distribuzione su cui puntare per accrescere la domanda e il pubblico dei lettori.
Nel 2016 oltre l’86% dei circa 1.500 editori attivi pubblica non più di 50 titoli all’anno – scrive l’Istat – e oltre la metà (54,8%) sono “piccoli editori”, che producono al più 10 opere in un anno, e il 31,6% sono “medi” editori, che producono in un anno da 11 a 50 opere. I ‘grandi editori’, con una produzione libraria superiore alle 50 opere annue, rappresentano il 13,6% degli operatori attivi nel settore e pubblicano più di tre quarti (76,1%) dei titoli sul mercato, producendo quasi l’86% delle copie stampate.
Oltre il 50% degli editori attivi nel 2016 ha sede nel nord del Paese; la città di Milano da sola ospita più di un quarto dei grandi marchi. L’editoria per ragazzi è in crescita rispetto al 2015: +4,5% i titoli e +6,6% le tirature; per l’editoria educativo-scolastica, a fronte di un aumento del numero di opere del 14,6%, si registra un forte decremento delle copie stampate (-19,6%).
PREZZI IN SALITA
Leggera crescita dei prezzi rispetto al 2015: nel complesso, i libri pubblicati nel 2016 hanno un prezzo di copertina pari a 20,21 euro, contro i 18,91 dell’anno precedente. L’aumento maggiore riguarda i titoli pubblicati dai piccoli editori (25,31 euro nel 2016 contro i 18,88 dell’anno precedente), mentre le opere pubblicate dai grandi editori presentano l’incremento di prezzo più contenuto (da 18,98 euro a 19,38).
Oltre un quarto dei titoli pubblicati nel 2016 (28,4%) ha un prezzo compreso tra 10 e 15 euro; in termini di tiratura, invece, oltre due terzi delle copie stampate (36,8%) hanno un prezzo non superiore a 10 euro.
Come per gli anni precedenti, anche nel 2016 più della metà della produzione libraria è costituita da opere con un prezzo di copertina non superiore ai 15 euro: si tratta del 51,4% dei titoli e del 59,0% delle copie stampate (51,8% e 59,8% rispettivamente nel 2015). I prezzi dei testi scolastici sono relativamente più elevati: meno di un quarto (23,5%) ha un prezzo contenuto entro i 10 euro, quasi la metà (48%) comporta una spesa superiore ai 20 euro
(da “La Repubblica”)
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Settembre 25th, 2016 Riccardo Fucile
IL ROMANZO DI FLAVIA PERINA RACCONTA LA STORIA DI UNA MADRE ALLA QUALE VIENE UCCISO UN FIGLIO DALLA POLIZIA: EVENTO CHE RIACCENDE PASSIONE POLITICA E RABBIA GIOVANILE
Quando le ammazzano il figlio, Flaminia, la protagonista del romanzo Le lupe (Baldini&Castoldi) di Flavia Perina, inaugura la sua quarta vita, quella più tragica, atroce, cruenta, dolorosa.
La prima vita era quella di lei giovanissima negli anni Settanta, spesa in una destra spesso tentata dall’avventura sconsiderata dell’illegalità violenta (anche armata nelle sue propaggini più estreme) e che si è conclusa con la rottura di affetti e legami all’arrivo del destino.
La seconda era una vita che cancellava le tempeste di quella precedente attraverso i riti e il cloroformio di un matrimonio, la routine coniugale, il benessere benpensante, le comodità , il tepore del focolare, la fine delle ambizioni annegate nello stagno brodoso della casalinghitudine.
La terza, seguita alla morte del non amatissimo coniuge in un incidente automobilistico, era l’autonomia riscoperta, l’amicizia paritaria con i figli fuori dai vincoli propri di una retorica matrimoniale, la solitudine non subita come una maledizione, la quotidianità non esaltante ma libera.
La quarta è quella che ti piomba addosso, ti squassa, ti annienta quando tuo figlio diciottenne, amante del rugby, viene fermato da una pattuglia di poliziotti reduci dagli scontri attorno allo stadio Olimpico, reagisce malamente, ma viene ricambiato con una violenza sproporzionata, smisurata, vendicativa da parte di un uomo in divisa che schiaccia un ragazzo sicuro della propria impunità , certo della protezione che le istituzioni gli riserveranno, nell’omertà di corpo, con l’insabbiamento della verità .
Il romanzo di Flavia Perina ci dice che queste quattro vite non finiranno di intrecciarsi, che il passato non cesserà di riaffiorare o addirittura di irrompere prepotentemente nel presente e che il destino non si presenta mai una sola volta: la vita è un labirinto dove non sai mai una volta per tutte qual è la direzione giusta da imboccare.
I movimenti della protagonista delle Lupe traggono forza da una motivazione profonda che risale ai primordi della psiche, del mito.
Dello «ctonio» come avrebbe detto Camille Paglia: chi si vendica con rabbia implacabile su chi ha ucciso il figlio è una donna, una madre ferita a morte, una grande madre che non può contenere il suo dolore nei binari freddi della giustizia ordinaria, ma deve annichilire chi ti ha strappato la carne della tua carne.
È difficile per un uomo cogliere la materialità terrestre di questo sentimento ancestrale, dove ogni razionalizzazione viene soppiantata da una dimensione di ferinità .
E dove l’esercizio della giustizia non può placare la sete di una Giustizia primaria impossibile da realizzare nelle procedure fredde di un procedimento giudiziario, tanto più quando sai, come è accaduto tante volte in Italia, che i colpevoli in divisa di pestaggi, rappresaglie, maltrattamenti non saranno perseguiti mai.
C’è poi, nella trama del racconto della Perina, il rapporto sempre aperto e mai risolto che l’autrice intrattiene con gli anni Settanta, l’epoca della militanza, della passione politica.
Un passato che la protagonista, alter ego dell’autrice in questo caso, ha narcotizzato, ricondotto a una dimensione di accettabile moderazione istituzionale, o forse abbandonato in favore di una vita definitivamente normalizzata, rientrata stabilmente nei ranghi.
Eppure è un passato che ritorna con il suo volto invecchiato ma pur sempre sovraccarico di un valore emozionale che non avrà eguali in nessuna tappa della vita della post-militanza.
E che anzi riesploderà quando Flaminia sarà brutalmente ricacciata all’indietro da un trauma insanabile: quando un dolore inimmaginabile, la morte di un figlio massacrato di botte da un uomo in divisa che sta già architettando il percorso della propria impunità , manipolando prove e testimonianze, la scaraventa nella dimensione rimossa dei vent’anni in cui si passava il tempo a fare politica.
A destra, nel suo caso.
Ecco, per Flavia Perina, lo si percepisce da ogni riga di questo romanzo che non ammicca al lettore con il miele dei buoni sentimenti ma che parla di vendetta e morte, quel passato non è solo vissuto come il momento in cui la vita si fa ardente e colma di passione, ma è un passato che ha una dimestichezza con le emozioni della violenza, delle armi, persino delle rapine con cui l’estremismo armato si finanziava, che la Perina, beninteso, non condivide affatto nella sua deriva oltranzista e apertamente militare, ma che pure esercita su di lei il fascino dell’autentico contro la menzogna della vita adulta, dell’appassionato contro lo scialbo, dei colori vivi contro il pallore esistenziale della vita imprigionata nei ranghi stabiliti dalla convenzione.
Per Flavia Perina gli anni Settanta sono la sua vera Patria morale, il momento della verità .
E quando la tragedia, inaspettata ma feroce, deflagra, allora le risorse per sopravvivere vanno ricercate lì, nel mondo delle pistole, dell’esistenza semiclandestina, al confine tra legalità e spirito eversivo.
È una scelta coraggiosa, questa della Perina.
Perchè, anche se non la si condivide, questa fedeltà allo spirito autentico che lei immagina sia rimasto attaccato ai ricordi degli anni Settanta, ha qualcosa di temerario. E poi perchè l’esperienza politica di Flavia Perina, che qui riaffiora senza più nessuna complicazione ideologica ma in un atto di pura sfiducia nei confronti della giustizia gestita dallo Stato, è stata vissuta in un enclave minoritaria e addirittura dannata («i fascisti») che rende ancora più aspro il legame emotivo con un mondo scomparso eppure ancora vivo nelle sue oramai del tutto impolitiche, o depoliticizzate, implicazioni esistenziali.
I lupi, le lupe, il bosco ai margini della metropoli scintillante: ecco il sottosuolo che riemerge e che lascia affiorare in modo ancor più doloroso la percezione di un’ingiustizia rimasta impunita, di un sentirsi, ancora oggi, sul confine di una marginalità psicologica, anche dentro l’agio di una vita borghese.
Un romanzo che non riconcilia, ma che rivendica la durezza di una scelta, esempio riuscito di come la letteratura perderebbe molto di sè se volesse investirsi di una missione consolatoria o, peggio, pedagogica.
Pierluigi Battista
(da “il Corriere della Sera”)
«Le Lupe» (Baldini&Castoldi, pagine 194, euro 15)
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Luglio 28th, 2016 Riccardo Fucile
DA INCONTRO INTERNAZIONALE DI ALTO LIVELLO CULTURALE A SUPERMARKET DEL LIBRO CON PURI SCOPI MERCANTILISTICI
E’ sicuramente una sconfitta per Torino, ma, altrettanto sicuramente, non è una vittoria per Milano. Soprattutto quando miopie imprenditoriali si coniugano con modeste e provinciali visioni strategiche delle classi politiche, nazionali e locali.
‘effetto è quello di un pessimo segnale non solo per la cultura italiana, ma per le ambizioni e il futuro di un Paese come il nostro.
Proprio per sfuggire a una disputa campanilistica che, in un mondo come quello d’oggi, sarebbe davvero ridicola, la decisione della maggioranza degli editori italiani di abbandonare un incontro internazionale di alto livello culturale come è stato, per quasi 30 anni, il Salone di Torino, per costruire una specie di supermarket del libro, a puri scopi mercantilistici, va additata come un amaro esempio di un collettivo gioco al ribasso.
Una tentazione che purtroppo, ormai da tempo, contrassegna la nostra classe dirigente.
Gioco al ribasso degli editori, innanzi tutto. I quali, sull’onda di un ostinato risentimento personale del loro presidente, sentitosi non sufficientemente considerato dai passati organizzatori della manifestazione, hanno voluto gabellare la partecipazione a una vetrina della cultura con una fiera del mercato del libro.
Scelta la cui visione e strategia imprenditoriale si commenta da sola, se pensiamo, appunto, che proviene da quel mondo, ma che è stata pure penosamente giustificata con un divario di spesa di 400 mila euro, tanta era la differenza fra gli affitti dei locali tra Torino e Rho.
Al gioco al ribasso degli editori si è aggiunto quello della classe politica milanese.
La capitale lombarda si autodefinisce, non senza ragioni, l’unica città europea d’Italia; ma la responsabilità di coloro che la guidano è di dimostrarlo nei fatti e non solo nelle ambizioni.
Se la pretesa di giocare un ruolo significativo in ambito almeno continentale si riduce alla volontà di «scippare» il Salone del libro a Torino, contrapponendo due manifestazioni sullo stesso tema a meno di 150 chilometri di distanza, tale speranza sembra pura illusione, proprio per la mediocrità degli obiettivi.
Con la scelta della Brexit, per Milano, si dovrebbero aprire ben altre prospettive in campo europeo.
Sindaco e amministratori locali dovrebbero alzare lo sguardo e cercare di inserire la loro città nel flusso di attività finanziarie ed economiche che, da Londra, si appresta a dirigersi verso Francoforte o Berlino.
Sarà sul quel terreno che si giocherà davvero l’ambizione, da parte milanese, di esercitare un ruolo non marginale in Europa.
Proprio in questa direzione dovrebbe spingerla pure una classe politica nazionale, consapevole dei ridotti limiti e delle modeste forze che l’Italia può mettere in campo per competere in ambito continentale e, perciò, decisa a sostenere, con fermezza, i pochi patrimoni nazionali e individuare, con sagacia, terreni e giocatori più adatti per sperare di vincere almeno qualche partita.
Da questi ultimi protagonisti, infine, si è condotto il terzo gioco al ribasso su questa vicenda del Salone del Libro.
Il governo, infatti, si è mosso con sconcertanti incertezze, tiepidezze incomprensibili e maldestre ritirate, tutt’altro che strategiche.
I ministri Franceschini e Giannini erano così convinti della difesa del Salone a Torino, riconoscendone l’importanza come unica manifestazione italiana con la trentennale esperienza di un grande incontro tra editori, lettori e uomini di cultura di tutto il mondo, da impegnare i loro ministeri come soci della Fondazione che organizza tale Salone.
Ora, non si capisce la saldezza di questa fiducia, nè la coerenza dei successivi comportamenti, se il risultato finale è quello di una loro clamorosa sconfessione e, quindi, di scelte che appaiono in totale contraddizione rispetto alle loro (presunte?) intenzioni.
La gravità di quanto è avvenuto sulle sorti del Salone del Libro è accentuata proprio dal valore che alla cultura italiana è ancora riconosciuto in ambito internazionale.
E’ questo il campo sul quale possiamo vantare un’eccellenza indiscutibile. E’ questo il campo sul quale possiamo pensare di competere con grande successo.
Ma se questi sono i protagonisti, se queste sono le decisioni di una classe politica e dirigente che dovrebbe tirare fuori l’Italia dalle miserie di corporativismi imprenditoriali, di campanilismi provinciali, della ricerca equilibristica di consensi politici ed elettorali, sono proprio poche le speranze che, in futuro, il nostro Paese conti ancora qualcosa nel mondo.
Luigi La Spina
(da “La Stampa“)
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Giugno 22nd, 2016 Riccardo Fucile
IL CASO FERRANTE E ALTRE STORIE DI SUCCESSO
Forse bastava solo provarci, corteggiarli un po’. Da qualche tempo sembra che gli stranieri stiano riscoprendo i libri italiani.
Non che ci abbiano mai snobbato, ma a volte sono stati tiepidi.
Amano Umberto Eco, Andrea Camilleri e Alessandro Baricco. Hanno adorato Italo Calvino e ora sono tutti impazziti per Elena Ferrante.
Non è però solo un fatto di nomi, di titoli forti che si fanno strada in terra straniera. Sono i numeri a dirci che il mercato editoriale del Bel Paese va acquistando credibilità .
L’Associazione italiana editori ha da poco realizzato per conto dell’Ice un ebook, “Mercanti di storie. Rapporto sull’import/export di diritti 2016”, che mette in fila una serie di dati incoraggianti.
Ma andiamo per ordine. Lo scorso anno le case editrici italiane hanno venduto all’estero complessivamente 5.914 diritti di edizione ai loro colleghi stranieri.
Sono naturalmente sempre meno dei libri comprati (10.685 titoli).
Ma in termini percentuali le vendite sono cresciute dell’11,7%, gli acquisti del 2%.
Perchè? Cosa è intervenuto?
Giovanni Peresson, responsabile dell’ufficio studi statistici dell’Aie, che insieme all’Ice-Agenzia per la promozione all’estero ha seguito rilevazioni e indagini, ha idee chiare in proposito.
È sicuramente cambiata la strategia editoriale: “Le case editrici italiane mostrano più competenze nell’affrontare i mercati stranieri. Ormai hanno tutte un proprio ufficio diritti e curano in modo professionale i rapporti con i possibili acquirenti”.
“La crisi ci ha fatto scoprire i nostri talenti, per questo esportiamo più libri”
Se guardiamo al lungo periodo e consideriamo l’andamento del mercato negli ultimi quindici anni la curva è ancora più favorevole: le vendite dei diritti nel 2001 riguardavano 1.800 titoli.
Per arrivare agli oltre 5.900 di oggi si calcola un incremento del 228,6% (un +16,3% di crescita media annua).
All’inizio del millennio era solo il 3,2% dei titoli pubblicati ad aver incontrato il favore delle case editrici straniere, mentre lo scorso anno quel valore è salito al 9,5%. Forse però non sono solo le strategie di marketing ad essere cambiate.
“Molti scrittori italiani hanno iniziato a lavorare meglio sui generi. Alcuni hanno imparato a modellare la scrittura sui gusti del mercato anglosassone”, dice Peresson.
È evidente che Michael Connelly, Ken Follett, Joe R. Lansdale o maestri del thriller come Stephen King fanno scuola, creano proseliti: “Si prendano i gialli di Donato Carrisi, sono congegnati con un ritmo, una struttura e una scrittura consapevolmente molto ‘americani'”..
Èd’accordo con Peresson uno dei più importanti agenti letterari italiani, Marco Vigevani: “Il noir italiano è molto ricercato, soprattutto in Francia e in Germania. Fatica di più la letteratura non di genere e che non è di intrattenimento. Il romanzo letterario puro è più difficile che venga tradotto”.
Quali sono dunque i libri che vendiamo di più?
Soprattutto i romanzi, la narrativa fa ancora la parte del leone: rappresenta oltre un terzo della vendita di diritti alle case editrici straniere (il 36,2%), con un incremento del 251,9% (nel 2007 era il 17,2%).
Un altro terzo è in mano alla letteratura per l’infanzia (36,1%), mentre la saggistica negli ultimi anni ha perso terreno: da quasi il 28% del 2007 a poco più del 16% attuale.
Trend negativo anche per gli illustrati (-32,6%).
Ma chi vendiamo i nostri libri? La maggior parte agli europei.
Gli spagnoli ad esempio hanno comprato l’anno scorso 879 titoli italiani. E i francesi si mostrano caldi verso la nostra narrativa, come spiega Marina Valensise, alla guida dell’Istituto italiano di cultura di Parigi: “Qui sono molto apprezzati i romanzi che raccontano l’Italia profonda, nella sue essenza: classicità , bellezza, spontaneità della vita, sono gli aspetti che colpiscono di più della nostra produzione. E’ questa una delle ragioni per cui Andrea Camilleri è un autore molto amato”.
A Parigi sarà ospitato Marco Missiroli, il cui romanzo Atti osceni in luogo privato è fresco di traduzione per le edizioni Rivages: “Missiroli è stato scelto da Emmanuel Carrere come ospite delle nostre ‘residenze d’artista’, un progetto lanciato dall’Istituto per far conoscere le Promesse dell’arte italiana”, dice Valensise.
In Inghilterra si parla addirittura di boom della letteratura italiana.
All’ultima London Book Fair si sono aperte trattative per La scuola cattolica di Edoardo Albinati, tra i favoriti a conquistare quest’anno il podio del Premio Strega, e per Marcello Fois, autore molto amato.
Ed è appena stato tradotto My italians di Roberto Saviano: sottotitolo “True stories of crime and courage, edizioni Penguin. Marco Delogu, fotografo e direttore dell’Istituto italiano di cultura di Londra, però non crede si tratti di predilezioni legate all’argomento o al genere: “A pagare — spiega Delogu — è sempre la qualità . Con l’Istituto cerchiamo di promuovere le traduzioni dando cinque contributi ogni anno, dai 1500 ai 5mila euro. Quest’anno abbiamo scelto, tra gli altri, La strada che va in città di Natalia Ginzburg, che uscirà con Twins Editions”.
La vecchia Europa ha acquistato più della metà (il 50,8%) dei nostri diritti di edizione. Meno di qualche anno fa, ma comunque tantissimi.
La novità non è questa ma è semmai il fatto che si stanno aprendo nuovi mercati: l’area asiatica fino a qualche anno fa era off limits per noi, oggi finalmente esiste, assorbendo il 14,3% del mercato: dal 2007 al 2015 l’export verso est è cresciuto di oltre il 111%, soprattutto grazie alla Cina. Quello verso il Medio Oriente addirittura del 321,2% (oggi è un mercato valutato intorno al 3,7%) e gli editori turchi sono sempre più attratti dai nostri scrittori.
“Camilleri, Carofiglio e Carlotto: ai tedeschi piacciono i gialli italiani”
Che siano le fiere internazionali ad aver reso permeabili i confini? L’ultima parte del rapporto Aie è dedicata proprio a questo: le fiere all’estero, dalla Beijng Book Fair a quelle di Budapest e Bucarest, da quella di Istanbul alla Book Expo America, fanno vendere il 192% in più di diritti d’autore sui libri.
L’altra notizia positiva è che stiamo erodendo la diffidenza del mercato nord americano verso gli scrittori italiani. Per anni il nostro amore per la letteratura americana non sembrava ricambiato con altrettanto trasporto.
La verità è che gli statunitensi in genere leggono poca letteratura tradotta. Le vendite nel Nord America sono cresciute del 145,5% tra il 2007 e il 2015 e nell’ultimo anno del 14,3%, attestandosi al 6,4%
Giorgio Van Straten, direttore dell’Istituto italiano di cultura di New York, racconta della grande attenzione ricevuta dalla recente edizione integrale dell’opera di Primo Levi e dell’impegno dell’Istituto a pubblicare un volume con le conferenze e le interviste di Giorgio Bassani.
L’ultimo fenomeno si chiama Elena Ferrante, la scrittrice misteriosa che sta conquistando gente comune e addetti ai lavori, pubblicata da Europa Editions, versione americana della casa editrice E/O.
Sandro Ferri, che ne è alla guida insieme alla moglie Sandra Ozzola, ha voluto rischiare ed è stato ripagato. Dice Van Straten: “L’ambientazione napoletana ha certamente pesato molto sul successo della Ferrante. Alte volte si preferisce lo stereotipo dell’Italia, più che la sua modernità e contemporaneità ”.
Forse oltre al ruolo delle fiere bisognerebbe calcolare anche il peso dei bestseller sul mercato straniero.
Qualche anno fa era Il nome della rosa, ora è l’Amica geniale.
(da “La Repubblica”)
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Maggio 17th, 2016 Riccardo Fucile
GIORNALISTA, SCRITTORE, GENIALE INVENTORE DI AFORISMI CINICI E VERITIERI: “TUTTE LE RIVOLUZIONI COMINCIANO PER STRADA E FINISCONO A TAVOLA”
Per chi aveva vent’anni in Sicilia a cavallo degli Ottanta, lo scrittore di riferimento era Leonardo Sciascia, con la sua passione razionale per i diritti e per la giustizia, la sua prosa corrosiva del regime politico democristiano e di quello culturale comunista. Invece Buttafuoco, di una generazione più giovane, riscopre in una sua personalissima antologia (Il mio Leo Longanesi) il giornalista, scrittore, disegnatore, pittore, editore, ma soprattutto il geniale inventore di aforismi cinici e veritieri, che ancor oggi mettono a nudo un certo intramontabile carattere degli italiani.
«La rivoluzione in Italia non si può fare perchè ci conosciamo tutti», scriveva il grande Leo.
Oppure: «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola»
Romagnolo di Bagnacavallo radicato a Bologna e poi a Roma e a Milano, nato nel 1905, cresciuto durante il fascismo e morto giovane, a soli 52 anni, nell’Italia anti e post-fascista, Longanesi viene scoperto da un Buttafuoco adolescente nella soffitta della paterna casa familiare siciliana, dov’è custodita una collezione de «Il Borghese», uno dei giornali che aveva fondato e diretto e gli era sopravvissuto.
Nasce di lì l’idea di una scelta del meglio delle varie stagioni longanesiane, con due obiettivi
Il primo è dimostrare l’assoluta superiorità della «fronda», cioè quella particolare forma di presa in giro dall’interno del regime, che consentì a Longanesi di essere il più acuto canzonatore del fascismo e insieme il più strategico collaboratore di Mussolini nella comunicazione (suoi slogan come «Taci, il nemico ti ascolta» o «Veterani si nasce»), rispetto a qualsiasi tipo di critica e opposizione seria, ragionata o trombonesca: tra l’altro, secondo Buttafuoco, le tre categorie non si elidono, ed anzi molto spesso convivono.
Il fondamento di ciò sta nell’affermazione di Longanesi secondo cui i regimi «non consentono la battuta di spirito, ma hanno il merito di provocarla»
Il secondo obiettivo è riconoscere l’assoluta insufficienza, per non dire l’inconsistenza, della borghesia italiana di qualsiasi epoca e di qualsiasi ordine e grado – piccola, media o grande -, di fronte ai compiti che le competono e che gran parte delle borghesie del mondo sono in grado di svolgere decentemente o con qualche limite, ma mai precipitando tanto spesso nel ridicolo com’è accaduto e continua ad accadere alla nostra.
E qui l’antologia di Buttafuoco tocca l’apice del divertimento con la raccolta delle migliori descrizioni dello scrittore dell’Italietta dei tempi della «battaglia del grano», della «bonifica culturale» (tra l’altro Longanesi era convinto che molto più dell’abolizione della libertà di stampa da parte del fascismo, sulla qualità dell’informazione di quegli anni, avesse giocato l’inveterata tendenza all’autocensura e alla «versione ufficiale» dei giornalisti italiani), della retorica sull’Antica Roma, per arrivare alle pagine deliziose sulla campagna d’Africa e sulla nascita dell’Impero, seguita all’esagerata enfatizzazione dello storico incidente di Ual Ual.
L’Italia del «posto al sole» e degli italiani che sognano «di sposarsi con le negre», delle canzonette che celebrano i fidanzati che partono per l’Africa Orientale, di quelli che fanno i conti delle convenienze che ci saranno a diventare «reduci», e «se l’Africa si piglia si fa tutta una famiglia».
Poi c’è il Longanesi giornalista, amico di Montanelli, Moravia, Flaiano, Brancati, Pannunzio, Benedetti, inventore di un settimanale come «Omnibus» che sarà la fucina del nuovo modo di informare attraverso le immagini, la scoperta delle foto, che i quotidiani impiegheranno altri vent’anni prima di saper usare, e che il nostro trasforma in un ingrandimento dei tic e tabù di uno Strapaese, l’Italia, diventata nel frattempo «una democrazia in cui un terzo dei cittadini rimpiange la passata dittatura, l’altro attende quella sovietica e l’ultimo è disposto ad adattarsi alla prossima dei democristiani»
Alla fine di una breve vita, Longanesi morì circondato da pochi amici, tra cui lo stesso Montanelli con cui era andato in giro nel ’48 con una macchina e un altoparlante a fare comizi volanti anticomunisti contro il Fronte popolare.
Fu proprio Indro a ricordare che la figlia Virginia, per ricordarlo, al funerale disse una frase che sarebbe piaciuta molto al padre: «E dire che gli orfani mi sono sempre stati così antipatici!».
Marcello Sorgi
(da “La Stampa”)
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Maggio 11th, 2016 Riccardo Fucile
CINQUE GIORNI DEDICATI AI LIBRI E ALLA CULTURA CON 1200 CONVEGNI NEI PADIGLIONI DEL LINGOTTO
“Quella del 2016 sarà un’edizione più interessante ed invogliante del solito con un programma culturale infinito”.
Parole di Ernesto Ferrero e Giovanna Milella, rispettivamente, direttore e presidente del Salone del Libro di Torino che, dopo il concerto inaugurale previsto per questa sera e trasmesso anche in eurovisione, domani mattina daranno il via a questa 29esima edizione in programma fino al 16 maggio prossimo.
Saranno cinque giorni dedicati ai libri e alla cultura, con 1200 tra convegni, presentazioni e dibattiti nei vari padiglioni del Lingotto che per l’occasione sarà occupato da più di mille espositori e da settanta nuovi editori.
Un’intera città in festa, a cominciare dal suo simbolo, la Mole Antonelliana, illuminata di blu, per un Salone che quest’anno, più che mai, vuole guardare lontano, dimenticando tutte le polemiche che ci sono state nei mesi passati, dai buchi di bilancio alle dimissioni a sorpresa, per spingersi oltre e dedicarsi alle ‘Visioni’, come recita il titolo scelto per questa edizione, con un’immagine-simbolo realizzata dall’artista campano Mimmo Paladino dove un libro alato azzurro sembra galleggiare all’infinito.
E sarà proprio quel simbolo — che John Wallis utilizzò per primo nel 1655 — ad accogliervi una volta dentro il Padiglione 5, nello spazio del Bookstock Village: una grande installazione in forma di ‘Terzo Paradiso’ (un infinito con tre occhi) costruita con diecimila libri e realizzata da un altro grande artista italiano, Michelangelo Pistoletto. Migliaia di libri che lunedì prossimo, giorno di chiusura, dalle ore 18, saranno regalati al pubblico presente.
Tra le novità di quest’anno, la scelta di non avere un Paese ospite, ma una cultura, quella araba, dal Maghreb all’Iraq dando una particolare attenzione a temi attuali come le migrazioni, il dialogo, la ribellione contro i regimi brutali, il confronto, la letteratura come rifugio e l’integrazione.
Tra gli ospiti più attesi, Thar Ben Jelloun — con il suo nuovo libro, Matrimonio di piacere (La Nave di Teseo edizioni) — il poeta siriano/libanese Adonis che parlerà del vero messaggio del Corano presentando il suo libro, Violenza e Islam (Guanda), il direttore del Museo del Bardo di Tunisi, Moncef Ben Moussa, il giovane esordiente Saleem Haddad (con Ultimo giro a Guapa, e/o edizioni) e la prima donna musulmana a ricevere il Premio Nobel per la Pace, Shirin Ebadi, che presenterà Finchè non saremo liberi (Bompiani).
Domenica, invece, un altro incontro da non perdere è quello con il giornalista Antoine Leiris (ore 15,30, Arena Bookstock) che ha perso la moglie nell’attentato al Bataclan di Parigi, ma che ha scritto un libro emblematico sin dal titolo, Non avrete il mio odio, pubblicato da Corbaccio.
Il concerto inaugurale
Saranno le note della suite sinfonica dalla “Lady Macbeth del distretto di Msensk” di Sostakovic, interpretata dall’Orchestra Sinfonica della Rai, a salutare questa ventinovesima edizione.
L’appuntamento è previsto alle ore 20 e 50 di oggi in diretta per la prima volta su Rai5, Radio3, Euroradio e in streaming. Sul podio, l’americano James Conlon – attuale direttore musicale della Los Angeles Opera e nuovo direttore principale dell’Orchestra Rai dal prossimo ottobre — alla sua prima esibizione torinese.
L’apertura con Franceschini. L’inizio con Napolitano
Venerdì mattina, dalle 10 e 30, l’apertura ufficiale con il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Dario Franceschini che visiterà gli stand, mentre nel pomeriggio il presidente emerito Giorgio Napolitano presenterà (Sala Gialla ore 17) il suo libro, Europa, Politica e Passione (Feltrinelli). Si continua, poi, con l’incontro con Francesco Guccini, un ricordo di Gianmaria Testa e le letture di Giuseppe Battiston.
Gli autori stranieri
Nello stesso giorno del già citato Jelloun, ci sarà anche l’indiano Amitav Ghosh, che proprio 13 maggio alle 18 presenterà l’ultimo volume della sua Trilogia della Ibis, Diluvio di fuoco (Neri Pozza).
Il premio Pulitzer Michael Cunningham, presenterà Un cigno selvatico (La nave di Teseo) di cui vi abbiamo parlato in anteprima poche settimane fa e altri autori come Muriel Barbèry, Saleem Haddad, Clara Sà¡nchez, Bernard Quiriny, Tommy Wieringa, e Jeffrey Deaver.
Gli autori italiani. Scalfari grande assente
Tanti, troppi, da elencare tutti. Vi consigliamo di visitare il sito ufficiale per avere una panoramica molto più dettagliata. Vi possiamo dire chi non ci sarà : il giornalista e fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, assente per motivi di salute. Avrebbe dovuto presentare sabato Il Labirinto, un libro che scrisse per la prima volta diciotto anni fa e che in questi giorni Einaudi ha ripubblicato con contenuti inediti.
Due premi Nobel al Salone 2016
Oltre alla già citata Shirin Ebadi, avvocato iraniano molto attenta alla difesa di donne e bambini, torna al Lingotto anche il Premio Nobel per la Letteratura Dario Fo con il suo nuovo libro-intervista, Dario e Dio (Guanda), scritto assieme a Giuseppina Manin.
Il lato ‘pop’ del Salone 2016 con Zalone e Ligabue
È la Puglia la regione ospite scelta per il questa edizione e tra i suoi rappresentanti avrà anche il comico Checco Zalone, il cui incontro pubblico è previsto per venerdì 13 alle 15.
Un altro artista molto amato è il musicista Ligabue, che presenterà il suo libro sabato 14 alle 21 in Auditorium. Si intitola Scusate il disordine ed è in uscita per Einaudi. Domenica, inoltre, ci saranno anche altri big storici della musica italiana nelle vesti più o meno inedite di scrittori: Roberto Vecchioni, Francesco De Gregori e Antonello Venditti.
Un Salone Gay Friendly
Nella città in cui da trentuno anni si svolge il Gay e Lesbian Film Festival ci sarà per la prima volta anche uno spazio al Salone dedicato interamente ai diritti Lgtb. Nell’Arena Piemonte sarà ospitato uno spazio dedicato ai diritti, gestito dal Coordinamento Torino Pride. L’inaugurazione è prevista per domani alle 12 alla presenza del presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino, del sindaco di Torino Piero Fassino.
Il Salone e il Vaticano
Anche quest’anno sarà presente il Vaticano con l’enorme stand della Libreria Editrice Vaticana: dai colori onirici dove spiccano i colori ‘pontifici’ giallo e bianco, vi sorprenderà per le dimensioni.
Al centro c’è una grande struttura che ruota per centodieci metri quadrati attorno a una barca a vela, evocatrice tanto della barca di Pietro come delle tante barche che da alcuni anni solcano i mari alla ricerca di patria e sicurezza.
Le mostre
Il Salone del Libro quest’anno ospita due importanti mostre.
Una è l’esposizione dei manoscritti autografi dei 33 Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, scritti fra il febbraio 1929 e l’agosto 1935; l’altra è La Guerra di Piero, che ricostruisce invece lo studio-biblioteca di Piero Melograni (1930-2012), storico e divulgatore. La mostra prende le mosse dalla sua Storia politica della grande guerra (1915-1918) e offre una particolare attenzione ai documenti, come la prima edizione dell’Alcova d’Acciaio di Filippo Tommaso Marinetti, alle foto e ai carteggi privati, come quelli fra Gabriele d’Annunzio e Arturo Toscanini.
Il Salone e i fumetti
Tra i più attesi, quello di sabato 14 maggio, alle 17, con Leo Ortolani presenterà una raccolta delle sue recensioni cinematografiche a fumetti, intitolata Il buio in sala (BAO Publishing) e quello con Zerocalcare, previsto per domenica 14 maggio, alle 16 e 30,.
Parlerà del suo ultimo fumetto, Kobane Calling, in cui racconta tre viaggi per lui molto importanti che lo hanno portato a toccare la Turchia, la Siria e l’ Iraq. Sempre domenica, alle 17 e 30, Paolo Bacilieri parlerà di more FUN (Coconino Press/Fandango).
Anniversari e celebrazioni
70 anni per tre. Per la Festa della Repubblica, anticipando così il due giugno, e per due case editrici: la Neri Pozza e la Longanesi. Dieci sono invece gli anni passati dall’uscita di Gomorra, il super bestseller di Roberto Saviano che torna in libreria con un suo testo inedito nei Nuovi Oscar Mondadori.
Lo scrittore napoletano parteciperà ad un incontro sabato 14 assieme a Marco D’Amore, attore della fortunata serie tv la cui seconda stagione è iniziata ieri in su Sky.
Tra gli altri anniversari, saranno ricordati i 500 anni della prima pubblicazione dell’Orlando Furioso, di scrittori come Miguel Cervantes e William Shakespeare (che morirono a un giorno di distanza nell’aprile del 1616), e i cento anni dalla scomparsa di Guido Gozzano e dalla nascita di Natalia Ginzburg.
Costi e biglietti
Tra le novità di quest’anno, il biglietto ridotto che da 9 euro scende a 8, mentre rimane invariato l’intero, 10 euro. Tutti i biglietti possono essere acquistati in prevendita online su salonelibro.it. Ci sarà anche il biglietto ridotto preserale a 5 euro e sarà valido dopo le ore 18.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 9th, 2016 Riccardo Fucile
KARIM FRANCESCHI E’ L’UNICO ITALIANO CHE HA PARTECIPATO ALLA LIBERAZIONE DI KOBANE… NON E’ UNO DI QUELLI CHE COMBATTE L’ISIS TWITTANDO STRONZATE DAL SALOTTO DI CASA
Karim Franceschi, nato nel 1989 a Senigallia da padre italiano e madre marocchina, nel gennaio 2015 decide di raggiungere Kobane e unirsi alle milizie curde che contrastano l’avanzata dell’Is in Siria.
Nel libro di Karim Franceschi che esce oggi, “Il combattente”, il giovane militante ripercorre la sua storia.
La storia di Karim Franceschi è una storia che sembra arrivare da lontanissimo.
Un giovane che vede un popolo violato da una forza feroce e oscurantista e non vuole essere solo un osservatore.
Non ha alcuna qualifica militare, ma parte lo stesso. Vuole combattere.
Non sa sparare, non conosce il curdo, l’inglese gli è inutile. Non ha idea di cosa farà : ma vuole andare. Essere giovani e trovare disgustosa l’immobilità , codardo il continuare a vivere comodamente la propria vita mentre non molto lontano avvengono scempi e barbarie: l’odore di questa storia è identico a quello che assapori in decine di libri di giovani volontari che si scelgono una causa e vanno a combattere.
“Avevo un po’ di spirito di avventura, questo credo sia naturale – dice Karim – ma non ho fatto per quello la scelta di andare a combattere. La vera motivazione era partecipare alla resistenza di Kobane che stava per crollare: l’ho visto con i miei occhi”.
Gli parlo via Skype mentre è in Iraq.
È calmo, ha molto più controllo di quello che ti immagini possa avere un ragazzo di 26 anni sbattuto da mesi su un fronte di guerra.
Karim si è fatto l’addestramento assieme a gruppi di ragazzine di sedici anni. È diventato un cecchino, un soldato dell’Ypg, la milizia curda di Kobane. Nome di battaglia: Marcello.
Mi fa sorridere, ha un candore da ragazzino ma una determinazione molto matura.
Non sta giocando alla guerra, è un soldato consapevole di ogni singolo passaggio di questa sua nuova vita: “Potevo combattere con l’Fsa (Free Syrian Army) ma ho scelto l’Ypg, le Unità di protezione del popolo. Perchè ha i valori della Costituzione italiana, ha ideali di giustizia in cui mi riconosco, combatto con i compagni che difendono la democrazia, il secolarismo, il femminismo. Con l’Is alle porte si sono organizzati non solo per difendersi ma anche per costruire una società diversa”.
ESTRATTO DEL LIBRO
“Marcello…”.
Mi sveglio con una scossa. E automaticamente guardo l’orologio, come faccio sempre quando un compagno mi avverte che è venuto il momento del mio turno. Le tre e cinque minuti. Ne mancano venticinque al cambio, e già questo mi irrita. Mi giro di scatto verso Hawer con l’intenzione di protestare per la sveglia anticipata, ma il suo volto pallido come uno straccio mi blocca. Col dito davanti al naso mi fa segno di non fiatare
“Daesh…” sussurra con un filo di voce.
Afferro il Kalashnikov e mi metto a guardare con lui dalla finestrella della trincea. Ha smesso di nevicare, e una luna non ancora piena fa capolino tra le nuvole basse e grigiastre, rischiarando il paesaggio imbiancato. Non vedo niente. Però, nel silenzio ovattato della valle, sentiamo distintamente un rumore provenire da dietro il dosso innevato. Forse il motore di un veicolo, o comunque qualcosa di meccanico. Nell’altra trincea, nessuno si muove.
Allungo un braccio e raccolgo un sassolino. Lo tiro verso la buca di Ali e Delsoz, mancando però il bersaglio. Provo ancora, e stavolta li colpisco. Così anche loro si accorgono che qualcosa non va. Ali solleva il telo e striscia in avanti, senza fucile, fino a un punto da cui riesce a vedere cosa c’è dietro il dosso. Steso sulla neve, si ferma un secondo a osservare, poi indietreggia al doppio della velocità , strisciando come un serpente e spostando con le mani la neve in modo da coprire la traccia lasciata dal suo corpo.
Cosa cazzo sta succedendo? Hawer mi fissa, ammutolito. Ali non ci ha fatto alcun cenno, prima di rintanarsi nella sua buca. Basta, ho bisogno di sapere. Da qui al punto dov’è arrivato Ali saranno trenta metri, una sessantina di passi al massimo. Alzo il telo e sguscio fuori, camminando basso ma senza strisciare, perchè non mi voglio bagnare più di quanto non lo sia già . Nascosto dietro un masso, osservo. A non più di centocinquanta metri dalle nostre piccole trincee, scorgo una ventina di miliziani di Daesh, un carrarmato T-72 e un Hummer, con i fanali accesi e un enorme mitragliatore montato sopra. Ne ho già visto uno uguale, una volta: Giano allora mi spiegò che spara proiettili in grado di sbriciolare le pietre e trapassare i sacchi di sabbia. Il comitato di accoglienza del califfo al-Baghdadi sta venendo verso di noi, eppure io resto calmo, irragionevolmente calmo. Torno indietro con lentezza, prendendomi il tempo per coprire le impronte lasciate dai miei scarponi sulla neve fresca. Entro nella buca con un mezzo sorriso stampato in faccia, guardo negli occhi il mio compagno. Glielo dico in curdo che sta per morire, così che non ci siano fraintendimenti.
Em sahiden, heval Hawer..
Nella sua lingua, em sahiden significa “siamo martiri”. Se quelli si accorgono della nostra presenza non abbiamo scampo. Non è nemmeno il numero dei miliziani, venti o giù di lì, a rendere assurda qualsiasi ipotesi di scontro a fuoco. È il tank a chiudere la questione. Per non parlare poi di quel mitragliatore montato sull’Hummer: basterebbe da solo a farci fuori tutti. Mentre cerco di spiegare a gesti cosa c’è dall’altra parte del dosso, vengo colto da un attacco di ridarella isterica. Eh, cazzo, ho scelto proprio la notte sbagliata per lasciare il Pkm all’accampamento. Hawer mi fissa con un’espressione tra il terrorizzato e il rassegnato, fatica anche a deglutire la saliva. La fuga non è nemmeno immaginabile, perchè per scappare dovremmo correre per un bel pezzo in campo aperto, davanti a loro; a quel punto basterebbe una sventagliata di mitragliatore per ammazzarci tutti e quattro. Dunque facciamo l’unica cosa che resta da fare: il tentativo della disperazione. Raccogliamo quanta più neve possibile e la spargiamo sopra il telo e nella buca, per mimetizzarla al meglio. Usiamo anche qualche sasso, così da confonderla ancora di più con il resto del paesaggio. Poi ci infiliamo dentro, senza lasciare nessuno spiraglio. Siamo completamente al buio, sotterrati tra mucchi umidi di neve e pietre. Sono steso supino accanto al mio Kalashnikov e al compagno Hawer. Entrambi sappiamo bene cosa dobbiamo fare, non c’è bisogno di dircelo. Con la mano sinistra sfilo dal gilet tattico una granata e me la appoggio sul petto, stringendola con forza. Faccio passare il dito medio della mano destra nell’anello metallico che ferma l’innesco della bomba, e lì mi blocco. L’ultima immagine che vedrà chi alzerà questo telo sarà Karim Franceschi che gli mostra il medio, un attimo prima di esplodere.
Si stanno avvicinando, lo sento. Il rumore dei cingoli del carrarmato si è fatto più forte, e mi pare persino di avvertirne la vibrazione nel terreno. In fondo lo sapevo che sarebbe andata a finire così, in quest’impresa disperata. Lo sapevo. Il cuore martella dentro al petto; delle vampate mi partono dalle spalle e dal collo in tensione, ma non riescono a scaldarmi veramente, e la sensazione è più quella di essere intrappolato in una cella frigorifera. Ho paura, come non ne ho mai avuta in vita mia. Ho sempre immaginato la mia morte attraverso gli occhi di quelli che amo di più e anche adesso, con la mente, torno nella casa di Senigallia. Immagino il volto affranto di mia madre, che piange disperata. Il suo dolore è come una lama che si pianta lentamente nel mio cuore. Il pensiero corre a Leila, mentre sento la fine avvicinarsi. Alle sue labbra piene, ai suoi occhi di giada, alla promessa di ritornare in Italia che non manterrò. Passano i secondi, non riesco a staccarmi dal ricordo della donna che amo. Non voglio morire prima di averla rivista un’ultima volta…
Eccoli, sono vicinissimi. A trenta o quaranta metri da noi, non di più. Il rumore del motore diesel del tank sovrasta le voci dei miliziani. Trattengo il respiro e percepisco che anche Hawer sta facendo lo stesso. Il collo e la mascella sono contratti da far male. Fuori la colonna si è fermata, il carrarmato non avanza più. È finita. Ne sono sicuro: qualcuno ci ha scoperti e, per come si sono messe le cose, mi pare anche l’unico destino possibile. È inevitabile, è ormai solo una questione di secondi. Tirerò l’anello, sì. Non mi farò prendere prigioniero da questi invasati, per finire tagliato a pezzi e trasformato in un mucchio di arti con la mia testa in cima, come è capitato agli sfortunati compagni che ho visto a Kobane.
Se è scritto che stanotte devo morire, morirò da partigiano, come avrebbe fatto mio padre Primo: con orgoglio, portandomi qualcuno dei nemici con me. Con il pollice della mano sinistra sfioro la tasca della giacca, a tastare il mio talismano. Stringo la bomba ancor più forte, e faccio una leggera pressione sull’anello; la spoletta si sposta di qualche millimetro. Strizzo gli occhi, in preda all’angoscia. Ho perso la cognizione del tempo. Papà , mamma… datemi il coraggio di farlo. Vi voglio bene.
Due ruggiti consecutivi del motore del T-72, seguiti dallo stridio di ingranaggi meccanici che riprendono a girare, mi fanno spalancare gli occhi. Il cingolato si muove, spero seguito dall’Hummer e dal gruppo dei miliziani. Resto immobile, concentrando tutta la mia capacità di percezione nelle orecchie. Non ci penso proprio a dare una sbirciatina fuori dal telo, non ho nessuna intenzione di provocare la fortuna. Sì, se ne stanno andando! Però si stanno spostando in direzione del nostro accampamento e, se Ali non è riuscito a dare l’allarme via radio, Zardesh e gli altri del tabur rischiano grosso.
Un secondo dopo l’altro sento la speranza rinascermi dentro, anche se non siamo ancora fuori pericolo: mi pare che la colonna si sia fermata di nuovo. Un caccia militare passa sopra di noi. Potrebbe essere un raid notturno, visto che i piloti degli aerei possono sfruttare sensori termici con i quali colpire anche nell’oscurità , quando dal comando hanno l’ok a volare e le condizioni meteo non sono del tutto proibitive. Passano i minuti, il rombo del jet va e viene, ora sembra vicinissimo ora lontano chilometri, ma non si sentono nè esplosioni nè sparatorie. Controllo l’orologio: le quattro in punto. Non è passata neanche un’ora, eppure mi sembra una settimana fa. Dobbiamo decidere cosa fare. I jihadisti sono ancora nelle vicinanze, sicuro, e se usciamo ora rischiamo di essere scoperti. Magari sono appostati proprio qui di fronte, in una trincea tipo la nostra, pronti a falciarci con i loro Ak-47 appena mettiamo il naso fuori. Non ci resta che aspettare ancora.
Roberto Saviano
(da “La Repubblica“)
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
DALLA TIMIDA SECCHIONA A FRONT-WOMAN IN TACCO 12
Da “Papa girl” timida e secchiona, “paffutella e un po’ goffa” frequentatrice della parrocchia di paese, perfetta per interpretare il ruolo della “Madonna” nel presepe vivente, a front-woman in tacco 12 del governo Renzi, vicepremier de facto, regina delle copertine, l’incarnazione femminile del potere renziano.
Dalla sua scrivania passano i dossier più scottanti dell’esecutivo, ha dato il nome alla riforma più controversa della legislatura sotto il governo Renzi, quella che modifica alcuni pilastri della Costituzione (in primis il bicameralismo perfetto).
E non solo: tutte le leggi sulle quali il premier si gioca la faccia sono sotto la sua supervisione, attraverso l’ufficio che guida e che monitora l’attuazione del programma di governo.
E’ lei che fa il punto delle riforme all’inizio di ogni Consiglio dei ministri.
E’ lei che prova a rimediare quando qualcuno del governo incappa in qualche pasticcio.
Il libro “Una tosta. Chi è e dove arriverà Maria Elena Boschi”, scritto da Alberto Ferrarese e Silvia Ognibene ed edito da Giunti (128 pp.), è un ritratto del volto sorridente del renzismo: quel volto che raramente si incupisce davanti alle telecamere e che risponde agli attacchi politici sfoderando sorrisi senza cedere alla tentazione di reagire con violenza (politica) alla violenza (politica), come a volte succede al suo superiore. Anche se non le vengono risparmiate critiche, e in certi casi allusioni.
Dove arriverà Maria Elena Boschi?, è la domanda che in tanti si pongono.
I maligni ipotizzano una sua corsa per Palazzo Chigi quando Matteo Renzi deciderà di passare il testimone.
Due mandati, secondo le previsioni del premier, e poi chissà forse toccherà a lei. Ma per capire dove vuole arrivare “la Mari” è opportuno approfondire le origini del “fenomeno” Boschi.
Nata il 24 gennaio 1981 a Montevarchi in Valdarno, è cresciuta a Laterina, paese dell’aretino di 3500 anime.
E’ figlia d’arte: anche sua madre Stefania Agresti, scrivono Ferrarese e Ognibene, ha lavorato in politica, quella locale, ed è stata vicesindaco di Laterina.
“Stefania parla molto, interviene, è presenzialista. È orgogliosa della figlia, che ha realizzato il suo sogno di una carriera politica importante”.
Il padre invece ha lavorato prima come dirigente della Coldiretti provinciale ed è poi diventato vicepresidente della Banca Etruria, commissariata da Bankitalia perchè sull’orlo del crack.
Proprio il ruolo di suo padre è stata la causa di una accesa polemica politica, quando si registrarono presunte operazioni anomale in Borsa alla vigilia dell’annuncio della riforma delle banche popolari.
Polemiche che investirono suo fratello Emanuele, anche lui con un ruolo di rilievo nella banca, che successivamente lasciò per fare il commercialista e revisore dei conti presso lo studio Bl di Firenze.
Tornando alla “Mari”, da giovane ha frequentato la scuola della borghesia aretina, il liceo classico Francesca Petrarca, dove pare che tutti le volessero bene.
Lei era una studente irreprensibile, racconta il libro, “sempre preparatissima, il giorno della prova scritta di latino alla maturità , nel 2000, dimenticò il vocabolario e un compagno che abitava vicino a scuola corse a casa per procurargliene uno. Una “disavventura” che non le impedì di diplomarsi con 100/100”.
Di vita sociale, a quei tempi, quasi non si conserva traccia, anche se oggi la “leggenda” parla di una passione per la discoteca.
«All’epoca di vita di paese ne faceva poca» ricorda un’amica «e non usciva molto. Una volta al mese riuscivamo a portarla in discoteca, al Mirage o al Grace», i locali preferiti dai “fighetti” aretini.
La carriera del ministro procede spedita: si laurea in Giurisprudenza “sempre con il massimo dei voti, 110 e lode”, poi un master in Diritto societario.
“Forte di questo curriculum”, approda nel più importante studio di diritto societario di Firenze, quello di Umberto Tombari, dove all’epoca “lavorava il suo ex fidanzato”, oggi tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi.
Tombari, avvocato civilista, professore ordinario di Diritto civile all’università , dal maggio 2014 è presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, lo “scrigno” della finanza fiorentina, che detiene il 3,2 per cento delle azioni di Intesa Sanpaolo.
Attuale vicepresidente dell’Acri, l’associazione delle Fondazioni bancarie, in passato è stato (nominato da Renzi) presidente della partecipata del Comune “Firenze mobilità ”, nel 2001 è stato membro della commissione ministeriale per la riforma del diritto societario voluta dall’allora ministro della Giustizia Michele Vietti ed è stato chiamato dal ministro Corrado Passera (governo Monti) a collaborare alla stesura del decreto “Sviluppo Italia”.
Il primo incontro con il renzismo non lascia alcun segno nella “Mari”.
Non c’è il colpo di fulmine con il futuro leader del Pd di Rignano: alle primarie per il sindaco di Firenze, Boschi e Bonifazi appoggiano il dalemiano Michele Ventura.
Non si spese molto, ammetterà , nella campagna elettorale che vide Ventura uscire sconfitto: “In verità l’impegno fu molto limitato, perchè in quel periodo stavo studiando per l’esame da avvocato ed ero praticamente in clausura”. Eppure Renzi, diventato sindaco, la notò, “pare, per una dettagliata relazione sulla privatizzazione dell’Ataf, l’azienda fiorentina dei trasporti pubblici”.
Così venne nominata nel Cda di Publiacqua.
Boschi, che visitava i cantieri indossando scarpe tacco 12, venne subito bollata come la “quota panda”. (…) Per Maria Elena la strada è subito in salita. Diffidenza, invidia, gelosie, pregiudizi sessisti che i colleghi del Cda e gli interlocutori con cui era chiamata a confrontarsi manifestavano con frasi beffarde come: «Suvvia, non si possono mettere le cose serie in mano ai ragazzini!».
Pregiudizi che non fermeranno la sua ascesa. L’approccio alla politica, quella vera, avviene però alla terza edizione della Leopolda, nel 2011.
A Publiacqua Boschi si fa le ossa, fa esperienza da manager.
Non si affaccia alla politica fino al 2011. Alla terza edizione della Leopolda, prende la parola dal palco. Pantaloni verdi attillati, camicetta e tacchi alti, un po’ impacciata, nei cinque minuti a sua disposizione affronta un tema che conosce bene: «Se fossi presidente del Consiglio, cercherei di riformare la «giustizia civile», che è il vero problema della giustizia «e non certo il legittimo impedimento e le intercettazioni telefoniche che meritano una risposta ma non interessano tutti i cittadini».
Nel 2012 fa parte del “dream team” tutto al femminile che accompagna Matteo Renzi in camper per l’Italia nella sfida (che perderà ) contro Pierluigi Bersani alle primarie, insieme a Sara Biagiotti e Simona Bonafè.
E sarà l’organizzatrice della Leopolda che precede la scalata di Renzi al partito, prima della competizione con Gianni Cuperlo e Pippo Civati.
Qui si lascerà alle spalle il suo passato da secchiona timida e devota, in virtù del tacco 12 leopardato che sfoggia sul palco della stazione fiorentina.
Prepara l’evento a puntino, passa da una telecamera all’altra, ribatte colpo su colpo agli attacchi degli avversari, dal palco fa la co-dj insieme a Renzi… e stupisce con i suoi abiti: giacca rosa shocking e jeans, ma anche tacco 12 leopardato che le vale il soprannome di “giaguara” della sinistra.
Uno dei segni con cui la si comincia a identificare: sulle scarpe come sui suoi frequenti sorrisi, siti come Dagospia ci sguazzano. La liceale goffa di Laterina è definitivamente archiviata.
Infine diventa ministro per le Riforme e i Rapporti con il Parlamento.
Un ruolo fino a ieri considerato di serie B, ma che con la “Mari” assume una posizione di primo piano, vista anche l’agenda del Governo che è già intervenuto sulla legge elettorale e sta portando avanti la riforma costituzionale.
Da ministro si ritaglia il suo ruolo da front-woman con lo stile che oramai tutti le riconoscono (tranne in pochi casi, come quando si lasciò andare alle critiche nei confronti dei “professoroni” che mettevano in dubbio la bontà delle sue riforme):
Boschi è pacata nella mimica e nell’eloquio, esprime gli stessi concetti del premier ma con un linguaggio più orientato al dialogo («Siamo disposti al confronto, ascoltiamo tutti, però poi decidiamo»).
Da lei è raro sentire battute fulminanti (la più riuscita è stata: «Giudicatemi per le riforme, non per le forme», rivolta a chi parlava solo della sua bellezza). Piuttosto, ci si aspetta una pacata determinazione.
Vederla sbottare in pubblico è un fatto più unico che raro, ma anche negli incontri riservati si dice mantenga sempre la calma. Dunque Renzi e Boschi si completano a vicenda e a vicenda si rafforzano, hanno ruoli diversi ma del tutto complementari.
Il suo look è diventato oggetto delle più accese diatribe politiche, perchè la politica è prima di tutto immagine politica.
Così si va dal “tubino nero corto e scarpe fucsia per l’incontro in ambasciata” al “tailleur ghiaccio e tacchi rossi per gli appuntamenti più istituzionali”.
Non solo scarpe e vestiti, anche i capelli della Boschi sono oggetto di venerazione.
A proposito, pare che i capelli di Boschi siano scolpiti nel marmo di Carrara: chi la segue da vicino giura che non porta mai il pettine nella borsetta e non se li aggiusta durante le trasferte in auto da un posto all’altro.
Eppure all’ennesimo appuntamento serale, magari a un’afosa festa dell’Unità , appare perfettamente truccata e pettinata come quando esce di casa al mattino.
Il ritratto del volto femminile del renzismo è fatto di sorrisi e riforme, che caricano di attese e di aspettative il futuro dell’attuale ministro Boschi. La celebrazione della stella più luminosa del firmamento renziano è servita.
Maria Elena Boschi, invece, ha una tempra incrollabile. Sorriso gentile e carattere di ferro.
Chi pensava al fiorellino messo lì per decorare il governo, alla “quota panda”, si è dovuto ricredere: la neoministra esercita la sua carica con piglio marziale, recitando senza battere ciglio le formule istituzionali davanti al Senato e alla Camera, senza fare una piega neppure davanti agli insulti personali e diretti.
Carattere volitivo e attitudine al comando.
Insomma, una tosta.
(da “Huffingtonpost”)
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