Gennaio 21st, 2021 Riccardo Fucile
13 ARRESTI E 45 DOMICILIARI, IN CARCERE ANCHE IMPRENDITORI E POLITICI, MOVIMENTI ILLEGALI DI DENARO PER 300 MILIONI… AI DOMICILIARI L’ASSESSORE REGIONALE UDC AL BILANCIO (OTTIMA SCELTA DEL CENTRODESTRA, COME SEMPRE)
Politici, imprenditori, boss di primo livello. E fra gli indagati anche il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, la cui casa romana è stata perquisita e passata al setaccio questa mattina dagli uomini della Dia di Maurizio Vallone.
L’accusa, secondo indiscrezioni, sarebbe di concorso esterno in associazione mafiosa. Ai domiciliari è finito anche un suo braccio destro in Calabria, Francesco Talarico dell’Udc, assessore al bilancio.
“Ho ricevuto un avviso di garanzia su fatti risalenti al 2017” conferma il politico con una nota. “Mi ritengo totalmente estraneo, chiederò attraverso i miei legali di essere ascoltato quanto prima dalla procura competente. Come sempre ho piena e totale fiducia nell’operato della magistratura. E data la particolare fase in cui vive il nostro Paese rassegno le mie dimissioni da segretario nazionale come effetto immediato” annuncia.
È una maxi-operazione da decine di arresti quella eseguita oggi su tutto il territorio nazionale su richiesta della procura antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri e per ordine del giudice.
In manette sono finiti maggiori esponenti delle ‘ndrine tra le più importanti di Crotone, Isola Capo Rizzuto e Cutro come “Bonaventura” “Aracri”, “Arena” e “Grande Aracri”, nonchè di imprenditori di spessore ed esponenti della pubblica amministrazione collusi con le organizzazioni criminali.
Tredici persone sono finite in carcere e 35 ai domiciliari, tutte accusate a vario titolo di riciclaggio, turbativa d’asta, intestazione fittizia di beni ed associazione mafiosa. Fra loro, nomi noti della politica, dell’imprenditoria e delle professioni di Catanzaro, ma anche funzionari, dipendenti pubblici e politici. Quarantanove gli indagati.
L’indagine “basso profilo” ha accertato movimenti illegali di denaro per oltre trecento milioni di euro. Oltre alle misure cautelari, la Procura della Repubblica di Catanzaro ha disposto l’esecuzione di numerosi sequestri di beni aziendali, immobili, autoveicoli, conti correnti bancari e postali per un valore che è stato definito “ingente”.
Il patrimonio sequestrato “torna nelle casse dello Stato ed è un reale recovery fund che deve essere sempre attivo” dice il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. “Un plauso sincero a questo immane sforzo investigativo che, la Commissione Antimafia ha potuto seguire grazie al lavoro del suo ufficiale di collegamento DIA colonello Luigi Grasso” spiega in una nota. “Questi arresti dimostrano che lo Stato non solo è presente ma è anche più forte e tenace”.
Ci sarebbe un patto consistente in una promessa di appoggio elettorale fra gli uomini dell’Udc ed esponenti della ‘ndrangheta all’origine del coinvolgimento di Lorenzo Cesa nell’indagine della Dda di Catanzaro in cui il segretario dello Scudo crociato dimissionario è indagato per associazione a delinquere. In particolare, la consorteria ‘ndranghetista, nelle persone di Antonio Gallo, del consigliere comunale di Catanzaro Tommaso Brutto e del figlio Saverio, Antonino Pirrello e Natale Errigo, sarebbe entrata in scena in occasione delle elezioni politiche del marzo 2018, per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato. In quella circostanza, secondo gli inquirenti, sarebbe stato stipulato un “patto di scambio” con il Francesco Talarico, assessore regionale al Bilancio finito agli arresti domiciliari, consistente nella promessa di “entrature” per l’ottenimento di appalti per la fornitura di prodotti antinfortunistici erogati dalla sua impresa e banditi da enti pubblici economici e società in house, “attraverso – scrivono gli inquirenti -la mediazione dell’europarlamentare Lorenzo Cesa in cambio della promessa di un “pacchetto” di voti”.
(da agenzie)
argomento: mafia | Commenta »
Gennaio 6th, 2021 Riccardo Fucile
ERA SCOMPARSA DA TRE ANNI… UN BOSS AVEVA MESSO GLI OCCHI SUI SUOI TERRENI
Uccisa e data in pasto ai maiali o fatta a pezzi con un trattore per far sparire ogni traccia del suo corpo.
Secondo il pentito Antonio Cossidente, sarebbe stata questa la tragica fine di Maria Chindamo, imprenditrice di Laureana di Borrello, nel reggino. Ufficialmente è scomparsa da tre anni, ma investigatori e familiari da tempo ne sono certi. È una delle tante vittime di lupara bianca, “gli spariti”, ammazzati e sepolti in tombe senza nome, privando i familiari anche di spoglie su cui piangere.
A condannarla ad una fine senza storia — ha rivelato il pentito Cossidente — sarebbe stato Salvatore Ascone “U pinnularu”, narcotrafficante nell’orbita del clan Mancuso e vicino di casa di Chindamo, qualche anno fa arrestato per aver manomesso il sistema di videosorveglianza nella proprietà della donna proprio la sera prima della sua sparizione.
Per lui, inquirenti e investigatori avevano ipotizzato un ruolo — ma non da protagonista — in quella scomparsa, che più probabilmente ritenevano legata ad una vendetta della famiglia dell’ex compagno della donna, morto suicida dopo essere stato lasciato.
Adesso però emergono altre motivazioni che potrebbero aver armato la mano del killer. Sui terreni della vittima — ha rivelato Cossidente nel corso di un interrogatorio del 7 gennaio 2020 anticipato dalla testata “Il Vibonese” – Ascone aveva da tempo messo gli occhi. Ma l’imprenditrice non aveva mai avuto l’intenzione di cederglieli, alle sue pretese avrebbe sempre detto no. E quel rifiuto lo avrebbe pagato con la vita.
Tutti dettagli che il pentito ha appreso da Emanuele Mancuso, primo collaboratore di giustizia del potente casato mafioso di Limbadi, che con lui era entrato in confidenza in uno dei momenti più delicati del suo percorso.
Da mesi i familiari facevano pressione perchè facesse un passo indietro, “lo minacciavano sulla bambina — spiega Cossidente – dicendogli che doveva ritrattare altrimenti non gliela avrebbero più fatta vedere”. I tentacoli del clan, che in quei mesi tentava di mettersi al riparo dalle rivelazioni della sua prima “gola profonda”, si erano allungati fin dentro al carcere, dove anche alcuni detenuti avevano avvicinato Mancuso per convincerlo ad un passo indietro.
Incontri — racconta Cossidente — che lo lasciavano estremamente turbato. “Ricordo che io gli preparavo il caffè, fumava come un turco perchè lui non voleva collaborare più, perchè diceva: “Non mi fanno vedere la bambina, mi minacciano, mettono in mezzo la bambina che non c’entra niente, per me è la cosa più bella della mia vita”. E toccava a lui, pentito da oltre dieci anni, convincerlo a resistere a quelle pressioni, armi fra le più comuni usate dai clan per minare i percorsi di collaborazione di chi decide di saltare il fosso. Ed è nel corso di una di queste lunghe chiacchierate che Mancuso gli avrebbe rivelato nuovi particolari sulla morte dell’imprenditrice.
“Mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c’era di mezzo questo Pinnolaro che voleva acquistare i terreni della donna, in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà ”. Per Ascone era un ostacolo e avrebbe ordito un vero e proprio piano per rimuoverlo, facendo per di più ricadere i sospetti su altri. “Emanuele — si legge nei verbali di interrogatorio di Cossidente – mi ha detto che in virtù di questo l’ha fatta scomparire lui, ben sapendo che se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe certamente ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poichè l’uomo dopo che si erano lasciati, si era suicidato”. L’obiettivo era uno: “entrare in possesso di quei terreni”. I metodi per distruggere ogni traccia, barbari. “Mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali” riferisce il pentito.
Dichiarazioni che in parte coincidono con quelle di Mancuso, che con i magistrati a lungo ha parlato dell’ingordigia di Ascone. “Lui — ha raccontato – aveva interesse ad acquisire i terreni di proprietà dei vicini e, per timori circa possibili misure di prevenzione nei suoi confronti, era solito pagarli prima in contanti, per evitare la tracciabilità dei pagamenti, lasciarli formalmente intestati agli originari proprietari, per acquisirli successivamente attraverso l’usucapione”.
Se in quelle dichiarazioni ci fossero riferimenti alla tragica fine di Maria Chindamo, non è dato sapere. I verbali del pentito sono ancora coperti da larghi omissis. Ma quanto anticipato da Cossidente di certo apre nuove piste utili forse per fare luce sulla fine dell’imprenditrice e permettere ai familiari di trovare pace e perchè.
(da agenzie)
argomento: mafia | Commenta »
Gennaio 4th, 2021 Riccardo Fucile
LA RIVELAZIONE IN UN VIDEO: LA DECISIONE DA PARTE DEL CLAN MADONIA, MA SI OPPOSE MESSINA DENARO
La rivelazione è di quelle pesanti. Se si considera che ad ascoltarla, poi, è il diretto interessato, si comprende quanto possa essere stato difficile.
La mafia voleva ammazzare Ranucci, giornalista d’inchiesta e conduttore di Report. Il video della rivelazione di Francesco Pennino che — in carcere — incontrò esponenti della famiglia Madonia che gli hanno comunicato questa informazione è stato pubblicato dall’account Twitter di Report.
Francesco Pennino, intorno all’autunno del 2010, si trovava in carcere come cuciniere. Dice di aver preparato anche delle portate speciali per i detenuti al 41-bis (cosa vietata) e che, in occasioni come quelle, aveva avuto modo di parlare con alcuni esponenti del clan Madonia.
Questi ultimi avevano fatto capire in siciliano che volevano ammazzare Sigfrido Ranucci. «Ti volevano fare del male» — ha detto Pennino mimando, in maniera eloquente, il gesto tipico della morte.
Ma perchè questa decisione nei confronti del giornalista di Report?
Nel 2010, Sigfrido Ranucci insieme a Nicola Biondo, aveva pubblicato il libro Il Patto. Si trattava di un’inchiesta sull’accordo Stato-mafia che partiva da alcune considerazioni di Luigi Ilardo, un infiltrato dello stato ai massimi livelli di Cosa Nostra che, con il libro di 10 anni fa, cercava di offrire un’immagine diversa di sè, rendendo pubblici alcuni aspetti della stessa trattativa.
I Madonia, però, non andarono fino in fondo. La decisione, infatti, era stata presa in carcere ma — come detto da Pennino — la scelta definitiva doveva essere confermata o respinta da chi stava fuori.
E, in quel periodo, la persona più influente per la mafia che ancora non si trovava (e non si trova ancora) in carcere era Matteo Messina Denaro.
Fu quest’ultimo a stoppare l’operazione, in base a quanto rilevato da Pennino nel video in cui, parlando con Ranucci, fa la rivelazione scioccante.
Queste parole tracciano un quadro preoccupante dello stato della libertà dell’informazione in Italia. Quest’ultima, soprattutto quando affronta determinati argomenti, delle ferite mai rimarginate della storia del Paese, è in serio pericolo. Se alle minacce mafiose si aggiungono, poi, quelle recapitate a mezzo social (per quanto riguarda Report, ne sono arrivate tante, sempre sullo stesso argomento), il quadro appare completo. E mostra, con urgenza, che bisogna fare qualcosa.
(da agenzie)
argomento: mafia | Commenta »
Novembre 27th, 2020 Riccardo Fucile
UN IMPRENDITORE COME TERMINALE FINANZIARIO: INDAGATO PER RICICLAGGIO PER CONTO DELLE MAFIE
Un’operazione di maxiriciclaggio da 136 miliardi di euro, di cui “36 miliardi già pronti, cash”. È l’affare a cui stava lavorando Roberto Recordare, imprenditore indagato per riciclaggio dalla procura antimafia di Reggio Calabria.
Per i magistrati è lui la mente economico-finanziaria di un cartello di clan calabresi, siciliani e campani, che grazie a lui avrebbe riciclato miliardi.
A svelarlo un’informativa depositata agli atti del processo “Euphemos”, nel febbraio scorso è costato i domiciliari al consigliere regionale appena eletto Domenico Creazzo, riportata oggi dal quotidiano Domani.
Ma le carte dell’inchiesta che Repubblica ha avuto modo di leggere vanno oltre, svelano che Recordare per i clan aveva gestito fondi per 500 miliardi e si poteva permettere il lusso di “buttare nel cestino un bond da 100 miliardi”.
Numeri da capogiro, superiori alla somma delle manovre finanziarie annuali degli Stati di mezza Unione Europea.
Non è la prima volta che Recordare inciampa in un’inchiesta della procura antimafia di Reggio Calabria.
In passato, la sua voce era stata intercettata dagli investigatori che lavoravano sui contatti del clan Gullace fra Calabria e Liguria, dove il consulente viene pizzicato – emerge dalle intercettazioni – mentre organizza un incontro d’affari con Sofio, arrestato come braccio destro di Carmelo Gullace nell’operazione Alchemia, ma assolto nel processo che ne è scaturito.
Da quell’inchiesta, apparentemente Recordare non è stato neanche sfiorato, sebbene dalle intercettazioni pare si sia prodigato per tentare di “aggiustare” la posizione processuale di Candeloro Gagliostro, che contro l’arresto ha fatto ricorso fino in Cassazione.
Ma la procura evidentemente su di lui ha continuato a lavorare. Ufficialmente imprenditore attivo nel settore dell’informatica, in realtà – spiegano le indagini – è un professionista che i soldi sa farli girare fino a far perdere qualsiasi traccia della loro reale origine, muovendosi con disinvoltura fra Germania, Turchia, Malesia, Afghanistan, Dubai, Tagikistan. E che si muove in mondo di professionisti che fanno abitualmente la medesima cosa.
“Riferiva – annotano gli investigatori – di avere conosciuto un soggetto, senza specificare la sua identità , il quale aveva aperto un conto corrente in ‘”Liechtenstein” a favore di Matteo Renzi, proprio il giorno successivo alla sua (di Renzi) nomina a Presidente del Consiglio”. Uno dei suoi più stretti collaboratori, Giovanni D’Urso invece raccontava “che dieci giorni prima si era recato all’Hotel Nettuno (ndr. di Catania) per incontrare Roberto Lagalla (ex assessore regionale alla sanità per Cuffaro) il quale si doveva candidare insieme a Musumeci salvo poi cambiare idea
Giovanni D’Urso aggiungeva che era presente anche un Ministro e che nella stessa circostanza erano presenti anche Cesa (si potrebbe trattare di Lorenzo Cesa attuale segretario del partito “Unione di Centro”) e un tale di nome Muccini” non identificato.
Nel portafoglio clienti di Recordare, per quel che fino adesso è stato rivelato, non c’erano politici, ma un cartello mafioso che mette insieme il clan Parrello-Gagliostro di Palmi e lo storico casato degli Alvaro di Sinopoli, imprenditori catanesi in passato finiti tra le maglie di un’operazione antimafia e i camorristi del clan Iarunese di Casal di Principe, tutti rappresentati da 12 faccendieri, metà italiani e metà stranieri.
Una rete finanziaria mondiale al servizio delle mafie, secondo gli investigatori, in grado di far fondi per 500 miliardi di euro, tutti nascosti su conti fantasma perchè privi di iban, ma “rientranti nel patrimonio degli istituti bancari”, accessibili e monetizzabili tramite chiavi elettroniche in mano a Recordare e tutti intestati a prestanome, alcuni dei quali deceduti. Uno si chiamava Dimitri Verchtl, nato in Russia e deceduto nell’87 a Oslo, ma fino a qualche tempo fa attivissimo nello spostare soldi da un conto all’altro in tutto il mondo. In realtà era proprio Recordare a vestire identità fittizie per far girare il denaro nel labirinto finanziario che aveva strutturato.
Alla base della rete, un conto madre alla Banca nazionale di Danimarca. Ad alimentarli, soldi sporchi – ipotizzano gli investigatori – “riciclati nel tempo, presumibilmente provento di traffici illeciti quali il traffico di armi e stupefacenti, senza escludere i proventi di estorsioni, usura e altre condotte delittuose”.
E che si trattasse di affari illeciti, Recordare lo sapeva perfettamente. Lo “confessa” lui stesso, intercettato, quando racconta di aver dovuto buttare in un cestino dell’aeroporto di Roma la busta contenente i codici di accesso, certificati bancari e documenti relativi a prodotti finanziari del valore di cento miliardi di euro. “Ho detto ‘va, dopo che mi lasciano torno e la prendo’. Se la prendevano diventava… perchè avevo il bond da trentasei miliardi”. Un’atra intercettazione, captata in ambientale, mostra l’assoluta nonchalance dell’imprenditore, che senza mezzi termini chiede ad un ingegnere, considerato di fiducia, di far passare sui propri conti un bonifico da 30milioni di euro e la disponibilità a farli sparire subito dopo.
A Recordare però piace giocare con il fuoco. Ha capito di avere il fiato sul collo degli investigatori, anzi che ci sono addirittura “tre servizi segreti che ci stanno addosso”.
Ma si sentiva convinto di poterne uscire indenne, anche grazie ad una rete di contatti e relazioni che andavano dal “governo della Malesia e la Banca Centrale” a tecnici di grandi istituti bancari come la Deutsche bank, disponibili ad operazioni delicatissime e che in pochi al mondo hanno chiavi e competenze per fare.
Uno “specializzato abilitato a operare nel dodicesimo livello”, dunque in grado di far arrivare un flusso di capitali su una banca malese, per poi girarli su un conto del Tagikistan. Giravolte finanziarie di cui Recordare era esperto e che sperava di aver reso invisibili. Ma non lo sono state per la procura antimafia di Reggio Calabria.
(da agenzie)
argomento: mafia | Commenta »
Novembre 24th, 2020 Riccardo Fucile
SI DOVREBBE DIMETTERE MORRA CHE LO AVEVA INDICATO COME “IMPRESENTABILE” O I LEADER DEL CENTRODESTRA CHE HANNO NOMINATO PRESIDENTE UN SOGGETTO DEL GENERE?
La vicenda giudiziaria che tocca l’ormai ex presidente del Consiglio regionale della Calabria e vicecoordinatore regionale di Forza Italia Domenico Tallini, consigliere comunale a Catanzaro per oltre 25 anni (prima tra le file del MSI passando poi per poli civici centristi, l’Udeur di Mastella e poi Pdl e Forza Italia), è narrata nelle 357 pagine dell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva firmata dal giudice per le indagini preliminari Giulio De Gregorio su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri.
Per il super magistrato (che, ospite di Lilli Gruber su La7 , si è autodefinito “un semplice pm di campagna”), nell’inchiesta denominata Farmabusiness, “grazie all’operato dell’onorevole Tallini, il gruppo criminale Grande Aracri ha potuto ottenere queste facilitazioni, contatti e incontri con funzionari della Regione per ottenere agevolazione”. Per questo motivo gli viene contestato il “concorso esterno” e viene considerato “la cerniera tra i clan e la Pubblica Amministrazione”.
Ma oltre al concorso esterno per associazione mafiosa, a Tallini viene contestato il reato di voto di scambio politico mafioso previsto dall’articolo 416 ter del Codice penale (punito con una pena da dieci a quindici anni di carcere).
Tallini, secondo l’accusa, nella campagna elettorale 2014 accettò dagli esponenti della cosca riconducibile a Nicolino Grande Aracri (boss di Cutro al 41bis nel carcere Opera di Milano, condannato a due ergastoli) la promessa di procurare voti mediante modalità mafiose in cambio della promessa di compiere in ambito politico e amministrativo azioni a vantaggio degli interessi economici del sodalizio mafioso.
Le mosse di Tallini per non essere intercettato
Il Gip De Gregorio ritiene fondamentale evidenziare “il carattere particolarmente accorto e scaltro del Tallini nel prevenire i rischi di essere intercettato”.
Di questo timore parlano al telefono Domenico Scozzafava, l’antennista considerato trait-d’union tra i mondi comunicanti di mafia, Pubblica Amministrazione ed economia, ed il suo riferimento politico, Michele Paolo Galli, marito dell’ex senatrice del Pdl ora leghista Anna Mancuso (questi ultimi entrambi non indagati).
La conversazione è datata 11 settembre 2013. Scozzafava dice: “Perchè lui mi ha detto tramite telefono lui…forse sicuramente ha il telefono sotto… sai com’è…non parlare…mi ha detto lui…Mimmo”.
Inoltre, Tallini, come documentato, non salirà mai nell’auto di Scozzafava, sottoposta a monitoraggio da parte della Procura.
In un episodio, datato 27 dicembre 2013, Tallini impone di utilizzare la sua auto (e non quella di Scozzafava) per andare a prendere il commercialista Paolo De Sole (oggi indagato per associazione mafiosa, in quanto considerato uomo a disposizione della cosca Grande Aracri) e poi andare insieme a Crotone.
Nell’intercettazione telefonica tra Scozzafava e Tallini, quest’ultimo dice: “Dove devi andarlo a prendere…a Lamezia? Andiamo con la macchina mia …”.
E Scozzafava risponde: “E va bene dai…allora…aspetta che vado a lasciare la macchina Mi… la lascio qua al negozio o a casa mia..”; Tallini: “La puoi lasciare sai dove? Lasciala a via Muraglia…via Lombardo…dove c’è ETR”; Scozzafava: “Ah va bene…va bene dai…e andiamo da la direttamente”; e Tallini conclude: “Vengo da là io”.
Per il Gip quella di Tallini più che una proposta, è una affermazione. A suffragio di ciò il giudice scrive: “Si potrebbe pensare, ancora una volta, ad un caso, ma la ‘storia’ si ripete dieci mesi dopo”.
Il riferimento è all’incontro del 28 ottobre 2014, in cui, davanti al Benny Hotel di Catanzaro, nell’auto in sosta di Pancrazio Opipari (indagato anche lui per associazione mafiosa e ritenuto dalla Procura “personaggio di indubbio spessore criminale”) salgono Domenico Scozzafava e Paolo De Sole, ma non Tallini, che rimane all’esterno.
Per il Gip “è ragionevole concludere che Tallini si fosse volontariamente sottratto a rischi di intercettazione ed a frequentazioni imbarazzanti, pienamente consapevole come era della reale composizione del gruppo imprenditoriale che si stava profilando”.
Le ambizioni politiche ed elettorali: “Quello che gli dico io deve fare Mimmo”
In un’altra conversazione tra Paolo Galli e Domenico Scozzafava del 13 novembre del 2013 il marito dell’ex senatrice Mancuso dice: “Il presidente Berlusconi è incasinato, ha 100 cose… cioè per cui non siamo ancora riusciti ad organizzargli un incontro con Mimmo… però cioè ci siamo ancora… è in pole position… appena si sblocca tutto… No? Appena riesce ad incontrare tutti… uno dei primi sarà Mimmo”. E aggiunge: “Stiamo lavorando perchè lui possa scindere Forza Italia da Pdl… lui possa essere il coordinatore regionale di Forza Italia… No?”.
In ogni caso, senza l’aiuto di Galli (che dalle carte dell’inchiesta esce presto di scena insieme alla moglie), Tallini divenne nell’ottobre 2015 coordinatore di Forza Italia per la provincia di Catanzaro e nel maggio del 2018 vicecoordinatore regionale, ma la “scalata” politica che lo ha portato ad essere assessore regionale al Personale nella giunta di Peppe Scopelliti fino al 2014, segretario questore del Consiglio regionale durante il governo di centrosinistra (in cui per oltre un anno ha fatto da stampella alla Giunta Oliverio) e poi a ricoprire la seconda massima carica regionale, quella di presidente del Consiglio regionale, è passata dai suoi exploit elettorali.
In una conversazione telefonica datata 19 gennaio 2014 Scozzafava dice a Tallini: “Infatti volevo vederti per quella cosa là … che abbiamo chiuso là a Sellia”. E Tallini risponde: “E con chi l’avete fatta la lista?”; Scozzafava: “Praticamente abbiamo chiuso con lui… con… con Francesco Mauro”… ”naturalmente mi ha detto che quando ti cerchiamo qualcosa… e non ti preoccupare che poi con Mimmo glielo dico io”…” io penso che…non esagero…ma un 180/150… pure a 200 arriviamo…di voti”.
Alle elezioni regionali calabresi del 23 novembre 2014, la previsione di Scozzafava si avverò: Tallini a Sellia Marina ottenne 141 preferenze personali, si desume tramite l’intercessione tra Scozzafava con il sindaco (rieletto l’anno scorso) Francesco Mauro (non indagato), ritenuto fedelissimo dell’ex governatore Mario Oliverio (già coordinatore delle liste Orgoglio Calabria e Comuni protagonisti a sostegno della ricandidatura alle Regionali del gennaio 2020 del governatore uscente del Pd).
Il tutto, però, ha un prezzo. In una conversazione telefonica del 10 dicembre 2013 Scozzafava dice ad una sua amica: “No, non hai capito che quello che gli dico io deve fare Mimmo”.
Scozzafava “l’uomo della pioggia” ed il sostegno elettorale a Tallini del clan dei Gaglianesi
Il Gip nell’ordinanza si chiede: “Ma chi è Scozzafava? L’antennista così vicino ai Gaglianesi che andava in giro a piazzare bottigliette incendiarie e girava in auto insieme all’Opipari con una pistola con la matricola abrasa, per poter avere così tanta considerazione da un assessore regionale (ed attuale presidente del Consiglio regionale?”.
Beh, l’antennista calabrese dalla “smisurata ambizione” si vanta a più riprese al telefono della prontezza con la quale Tallini si muoveva per soddisfare le sue più disparate richieste. Questo perchè Scozzafava è “l’uomo della pioggia”, un formidabile portatore di voti ma, secondo le accuse, dal chiaro spessore criminale: un “’ndranghetista sino al midollo”, si legge nelle carte.
In una conversazione del 9 ottobre 2014 tra il personaggio di spicco del clan dei Gaglianesi di Catanzaro (locale di ‘ndrangheta legato ai Grande Aracri di Cutro), il citato Pancrazio Opipari e la moglie Elisabetta Colicchia, quest’ultima dice: “Se apri un’azienda… con tutta la burocrazia che c’è dietro… anzi… loro sono avvantaggiati”. E il marito risponde: “Come no… ma perchè… ma perchè abbiamo a Mimmo Tallini”.
In un’altra conversazione telefonica, datata 11 settembre 2013, Domenico Scozzafava parla con Walter Manfredi, faccendiere romano al seguito dell’ex senatrice Mancuso (suicidatosi il 5 novembre 2016) e paragona le capacità di risolvere le situazioni di Tallini a quelle di Gennaro Mellea, boss dei Gaglianesi. “Si mette a disposizione”, dice Scozzafava su Tallini.
Su Mellea, invece, in un’altra conversazione, sempre con Manfredi, del 7 settembre 2013, Scozzafava dice che qualora il marito della senatrice Mancuso gli avesse dato un contributo per la festa patronale del quartiere Siano di Catanzaro, “quando torno e glieli do ed è più contento e gira ancora di più per i voti”. Manfredi risponde: “Questo è bene ‘tenerselo da conto’”.
In una conversazione telefonica del 19 novembre 2014 (quattro giorni prima delle elezioni regionali) tra Scozzafava ed il cugino vigile del fuoco Giuseppe De Santis, Scozzafava dice: “A domani vado a Cutro domani… che devo andare a Cutro che devo fare un lavoro…”. E De Santis risponde: “Un lavoro? E per i voti pure… un poco di voti gliel’ho trovati la pure… Ma a chi state portando? A Sergio?”; Scozzafava: “No a Mimmo… E ma infatti… e ma io questo ti volevo chiedere… ma facciamo una figura… ma pure che poi non sono effettivi… segnami dieci… quindici nomi di Sellia.. pure che dopo sono tre… quattro tanto prendere.. li prende i voti… così pare che gli porto un po’ di nomi di Sellia.. hai capito?”; De Santis: “Ce li raccolgo non ti preoccupare… E vedi tu che e sempre grazie a lui se partiamo.. Dobbiamo ringraziare…eh…la verità … Al momento e forte e probabilmente sarà sempre il numero uno a Catanzaro Mimmo.. e non c’è niente … pure che non sale ma sempre la minoranza…”; Scozzafava: “Li porta.. li porta… perchè ora pure li prende a Crotone…Vibo…e ne prende… hai capito? Ora gliene ho trovato anche io a Crotone..A Vibo gliene ho trovato… e domani vado a Cutro Domani”.
In una conversazione telefonica tra Paolo De Sole e Domenico Scozzafava del 22 novembre 2014 (il giorno prima delle elezioni regionali), De Sole dice: “A Scandale 50 voti…A Capo Rizzuto un altra”. E Scozzafava: “Un centinaio li prende pure lì”; De Sole: “No…gli ho detto di non esagerare…se no poi…”, tirando in ballo Pasquale Arena (nipote del capoclan Nicola Arena). Conclude De Sole dicendo: ”Una trentina…A Mesoraca…A Mesoraca un’altra trentina..su Crotone un centinaio..Un centinaio”.
In realtà le previsioni si realizzarono solo a Crotone e a Isola Capo Rizzuto, dove Tallini ottenne rispettivamente 94 e 91 voti di preferenza.
Ombre sulle regionali del 26 gennaio 2020
Per il Gip “l’attività di Scozzafava a favore del Tallini si protrarrà anche in occasione delle elezioni amministrative per il rinnovo del Consiglio comunale e l’elezione del sindaco di Catanzaro 11-25 giugno 2017 e soprattutto in occasione delle elezioni regionali del 26/1/2020 e delle elezioni politiche nazionali del 4 marzo 2018” (secondo la nota del Servizio centrale Carabinieri Ros del luglio 2020).
Il Gip conclude scrivendo: “Benchè la condotta tipica del reato non esiga la prova che la promessa è stata mantenuta, vale la pena di rilevare che, secondo quanto riferiscono i Carabinieri nella nota nr. 559/23-2 di prot. 2014 del 13 luglio 2020 (nella quale sono riportati i risultati del crotonese, Comune per Comune, anche alle ultime regionali il Tallini ha ottenuto 1093 voti a Crotone; 153 voti a Cutro, 166 voti a Isola Capo Rizzuto, 119 voti a Mesoraca, 158 voti a Petilia Policastro e 103 voti a Cirò Marina”
Sarà un caso che nella sua struttura politica, quale “collaboratore esperto al 50%” Tallini assunse dopo le ultime regionali anche Denise Razionale, moglie di Salvatore Gaetano, ex consigliere comunale di Crotone e parente dei Grande Aracri. Sta di fatto, che anche lo scorso gennaio, Tallini ottenne più di 8.000 voti di preferenza compensando mancati appoggi (e minor impegno) da parte di persone del suo gruppo di Catanzaro, proprio con i voti del crotonese.
(da TPI)
argomento: mafia | Commenta »
Novembre 19th, 2020 Riccardo Fucile
OGGI E’ FINITO AI DOMICILIARI PER CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA
L’accusa è quella di concorso esterno in associazione mafiosa e scambio elettorale politico mafioso. Domenico Tallini è il presidente del Consiglio Regionale in Calabria ed è stato posto agli arresti domiciliari.
In quota Forza Italia, la sua vicenda aggiunge altre preoccupazioni a una regione che — in piena emergenza sanitaria — sta già affrontando numerosi problemi legati al commissariamento di quel settore del servizio pubblico. Per Domenico Tallini si sospettano intrecci con la cosca Grande Aracri della ‘Ndrangheta.
Eppure, sulla carta, Domenico Tallini diceva di combattere la criminalità organizzata e pubblicizzava — soprattutto attraverso i siti di news locali — le sue iniziative in tal senso.Tutti ricorderanno la visita di Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno, a San Luca.
La ricorderanno principalmente perchè il leghista titolare del Viminale vi si recò il giorno dopo la tragedia del Ponte Morandi. Il 15 agosto 2018, l’ex ministro dell’Interno era nel paese calabrese simbolo — nell’immaginario collettivo — degli intrecci della ‘Ndrangheta.
Ad accogliere Matteo Salvini, anzi, a «stringergli la mano» — come riportato in una nota stampa diffusa in quelle ore dallo stesso Mimmo Tallini — c’era proprio l’allora consigliere regionale, in rappresentanza dell’ex presidente del consiglio regionale (la stessa carica che Tallini ricopre nell’attuale legislatura) della Calabria Nicola Irto. Due anni e mezzo fa diceva: «A San Luca ho stretto la mano al ministro dell’Interno Salvini dicendogli semplicemente: ‘il Consiglio regionale della Calabria è qui, presente’. Ho voluto essere accanto al ministro — ha spiegato -, in rappresentanza dell’assemblea regionale, proprio perchè credo che una battaglia così delicata e difficile come quella contro la ‘ndrangheta possa essere vinta solo con una collegialità di sforzi».
Sosteneva che il Ferragosto di San Luca potesse essere una tappa indispensabile per la lotta alla criminalità organizzata, una causa da mettere in cima alle priorità nazionali: «La lotta alle mafie — diceva Tallini — non è soltanto una questione di polizia, pure fondamentale, ma è soprattutto una battaglia culturale che deve coinvolgere tutti coloro che hanno un ruolo nella nostra società ».
Parole che risultano essere particolarmente stonate oggi, quando il presidente del Consiglio regionale calabrese risulta ai domiciliari. Di quella «stretta di mano», oggi, resta soltanto la nota che Tallini aveva inviato alle testate locali il giorno dopo l’evento.
(da agenzie)
argomento: mafia | Commenta »
Novembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
E’ IL REGGENTE DELLA COSCA DI ROSARNO… BLITZ IN UN CASOLARE ISOLATO DEL VIBONESE
Fine della latitanza per Domenico Bellocco, secondo i pentiti attuale reggente dell’omonimo casato di ‘Ndrangheta di Rosarno e stella nascente nel mondo del narcotraffico.
È proprio seguendo le tracce di una rete di narcos, che dall’Argentina faceva arrivare container e container di “bianca” al porto di Gioia Tauro, che la procura antimafia di Reggio Calabria era riuscita a individuarlo.
Ma nel novembre del 2019, quando il blitz è scattato di Bellocco carabinieri e finanzieri non hanno trovato traccia.
Per mesi, è diventato un’ombra. O almeno tale è stato fino ad oggi.
“Lo cercavamo da tempo, ma negli ultimi giorni – spiega il capo della Distrettuale antimafia, Giovanni Bombardieri – più di un indizio ci ha detto che eravamo molto molto vicini”. Qualche ora fa, il Gico ha scovato quelli decisivi, che hanno permesso di individuare il covo. E in poche ore è scattato il blitz congiunto degli agenti della Finanza di Reggio Calabria e Vibo Valentia e dei Carabinieri del comando provinciale di Reggio e della compagnia di Serra San Bruno, con il supporto dello Squadrone “Cacciatori di Calabria”.
Bellocco si nascondeva in un casolare isolato nella zona di Mongiana, comune montuoso del vibonese, ma vicinissimo alla Piana di Gioia Tauro in cui il clan ha il proprio regno. “È un dato da non sottovalutare – ci tiene a sottolineare il procuratore Bombardieri – per noi è la conferma dell’omogeneità criminale fra la ‘Ndrangheta della Piana di Gioia Tauro e quella del vibonese”.
Terra di casati storici, come i Piromalli di Gioia Tauro, i Bellocco di Rosarno, i Mancuso di Limbadi. “Le punte della stella” ha spiegato in verbali recentissimi il pentito Salvatore Di Giacomo.
Su eventuali appoggi e coperture dei clan di zona adesso si dovrà indagare, così come sulla rete che ha permesso a Bellocco di continuare a gestire il clan pur rimanendo nell’ombra. Un punto di partenza c’è. Il latitante si muoveva agevolmente anche grazie ad una carta d’identità contraffatta, ma corrispondente ad un soggetto realmente esistente. E gli investigatori adesso vogliono capire se quell’originale proprietario abbia avuto un ruolo nella latitanza del reggente del clan della Piana, o sia stato solo vittima inconsapevole della rete di protezione che attorno a lui è stata stesa.
Inseguito da un ordine di esecuzione per associazione mafiosa, adesso Bellocco dovrà rispondere anche di narcotraffico. Per gli inquirenti, era lui a coordinare le operazioni che per lungo tempo hanno permesso al clan di importare tonnellate di cocaina dall’Argentina, dove potevano contare anche su “colletti bianchi” in grado di avere soffiate e informazioni sulle indagini dei magistrati di Buenos Aires.
In Italia, la droga arrivava e veniva “consegnata” con la tecnica del rip-off. Ignaro di essere intercettato, era stato proprio uno dei trafficanti a spiegarlo. “A Gioia Tauro non arriva al porto viene buttata in mare. Hai capito? Viene buttata in mare prima del porto, ci sono i pescatori la?, i pescherecci, e poi con una cosa, ti prendono e ti tirano”. Dalla Calabria, ha svelato l’inchiesta, la cocaina veniva poi distribuita in mezza Italia, soprattutto fra Roma, Toscana, Lombardia e Veneto, dove gli uomini del clan avevano iniziato a reclutare anche imprenditori disponibili a riciclare il denaro guadagnato grazie ai fiumi di cocaina che lì sfociavano.
(da agenzie)
argomento: mafia | Commenta »
Ottobre 15th, 2020 Riccardo Fucile
19 ARRESTI PER GLI UOMINI DEL CLAN SERRAINO
Da Cardeto, piccolo centro pre-aspromontano della periferia di Reggio Calabria, gli uomini del clan Serraino avevano messo le mani su Trento e stavano estendendo il proprio potere a tutta la regione.
Per questo motivo questa mattina all’alba 19 persone, tutte a vario ritenute affiliate o vicine alla costola del clan che da tempo si era radicata a Lona Lases in Trentino, sono state arrestate a Trento dai carabinieri del Ros, mentre a Reggio Calabria, per ordine della procura antimafia diretta da Giovanni Bombardieri, 5 persone sono state fermate con l’accusa di associazione mafiosa.
Fra loro, c’è anche l’ex assessore e consigliere comunale Sebastiano Vecchio. Di professione poliziotto, attualmente sospeso dal servizio per motivi disciplinari, per lungo tempo ha preferito la politica alla divisa.
Consigliere comunale, quindi assessore dell’ex sindaco di An, Giuseppe Scopelliti, secondo le accuse Vecchio nelle istituzioni rispondeva ad un unico padrone, i Serraino.
Lo hanno svelato le indagini, confermando le dichiarazioni di otto diversi collaboratori di giustizia, che non hanno avuto dubbio alcuno nell’identificarlo come referente politico del clan. “L’abbiamo fatto salire noi, lui è salito grazie a noi” spiega il pentito Vittorio Fregona, che tanto impegno dei Serraino lo riconduce ad un unico obiettivo: “C’era il discorso di mangiare”.
Cioè approfittare della politica e degli appalti, finanziamenti, lavori e assunzioni che un uomo di fiducia infiltrato nelle istituzioni avrebbe potuto procurare.
Ma non era l’unico servizio che, secondo gli inquirenti, il poliziotto prestato alla politica offriva al clan.
Più volte avrebbe aiutato boss e gregari latitanti dei Serraino a sottrarsi a indagini o catture e si sarebbe perfino prestato a fare da prestanome delle attività commerciali dei clan.
In più, all’epoca Vecchio vestiva la divisa, era in servizio a Reggio Calabria, aveva accesso a fascicoli e informative, sapeva di indagini e accertamenti in corso. E secondo gli inquirenti metteva sull’avviso il clan, a cui era legato da rapporti strettissimi che non ha mai esitato a mostrare.
A dispetto del ruolo istituzionale e professionale, l’allora assessore comunale Vecchio si è presentato al funerale di don Mico Serraino, boss dell’omonima famiglia e fratello del “re della montagna” Francesco, per lungo tempo detenuto al 41bis.
“Non sfugga quale simbolica rilevanza possa assumere un simile gesto — sottolineano i magistrati Sara Amerio, Stefano Musolino e Walter Ignazzitto nel fermo – esso vale, coram populo, quale espressione di un legame indissolubile, tanto forte da prevalere persino sul rischio di un probabile coinvolgimento nel monitoraggio”.
Motivo di vanto per il clan, la sua presenza a quel funerale, vietato in forma pubblica e solenne dal questore, per gli inquirenti ha rappresentato anche “una sfida, ancora più sferzante e plateale, da parte di chi, pur di omaggiare il boss deceduto, si mostrava indifferente al provvedimento della massima autorità locale di pubblica sicurezza”.
Ma anche a Trento, gli uomini del clan Serraino erano stati in grado di attrarre nella propria tela politici e rappresentanti istituzionali. Fra gli indagati, ma non destinatari di misure cautelari, ci sono anche l’ex parlamentare autonomista Mauro Ottobre, che nel 2018 si era candidato a presidente della Provincia (mancando però l’elezione) con il movimento Autonomia dinamica, l’ex sindaco di Frassilongo Bruno Groff, e Roberto Dalmonego eletto sindaco di Lona Lases nel 2018. Ai domiciliari invece è finito l’appuntato dei carabinieri Fabrizio De Santis, accusato di essersi messo stabilmente a disposizione della costola trentina del clan, che da Nord stava estendendo i propri interessi anche nella Capitale, dove lui era in servizio.
A capi e sodali, spesso avrebbe fornito informazioni su operazioni delle forze dell’ordine in corso, situazioni giudiziarie di amici e non, “servendosi abusivamente delle banche dati delle forze di polizia”. In cambio, sempre secondo gli investigatori, De Santis sarebbe stato ricompensato anche con un lavoro in nero alle dipendenze di una delle imprese controllate dai Serraino.
(da agenzie)
argomento: mafia | Commenta »
Ottobre 13th, 2020 Riccardo Fucile
IL RACKET SULLE SERATE E IL CONSIGLIO AL CANTANTE
Dopo anni di pizzo, silenzio e umiliazioni, qualcuno ha deciso di ribellarsi al sistema criminale che vessava sulle attività commerciali della zona e ha deciso di denunciare. L’atto di ribellione alla mafia dei negozianti del quartiere Borgo Vecchio di Palermo ha portato al fermo di 20 persone. Si tratta di boss, gregari ed esattori che, a vario titolo, sono accusati di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, ai furti e alla ricettazione, tentato omicidio aggravato, estorsioni e danneggiamenti.
Le denunce spontanee delle vittime riguardavano 13 uomini del clan. L’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia, sotto la guida del procuratore Francesco Lo Voi, ha portato all’individuazione di almeno altre sette persone del mandamento mafioso di Porta Nuova. In cinque casi, i commercianti hanno ammesso di pagare il pizzo solo dopo essere stati convocati dagli inquirenti. Nell’ambito dell’inchiesta, è stato fermato anche il boss Angelo Monti, scarcerato soltanto tre anni fa
L’organigramma della “famiglia”
Monti aveva ripreso le redini della cosca ed è ritenuto dai magistrati il reggente della “famiglia” del Borgo Vecchio. «Ti vuole conoscere una persona che comanda il Borgo, un pezzo da novanta, non un pezzo di quaranta, un pezzo da novanta. Ti dico solo il nome: Angelo. Il cognome non te lo dico non è giusto», si sente in un’intercettazione finita nelle carte dell’inchiesta. I “colonnelli” del capo sarebbero stati suo fratello, Girolamo Monti, anche lui arrestato nel 2007, e Giuseppe Gambino, con precedenti di mafia, secondo le indagini il tesoriere dell’organizzazione.
Dal racket allo show business locale
Le persone delegate a riscuotere il pizzo erano Giovanni Zimmardi, Vincenzo Vullo e Filippo Leto. Le altre aree di competenza del clan, come il traffico di stupefacenti, erano gestite da Jari Massimiliano Ingrao, nipote del boss, e dai sue due fratelli. Le attività di questa costola di Cosa nostra si estendevano fino al controllo delle celebrazioni religiose in alcuni quartieri di Palermo. Dai fogli dell’inchiesta emerge, ad esempio, un monopolio nell’organizzazione delle serate della fasta della patrona del Borgo Vecchio, Madre Sant’Anna.
I mafiosi agenti degli artisti
Il clan reclutava i cantanti neomelodici che si dovevano esibire e, attraverso il racket, raccoglieva i fondi necessari, le “riffe”, per mettere in scena lo spettacolo e pagare i proventi degli artisti. Anche il sistema delle sponsorizzazioni di questi eventi era gestito da Cosa nostra. Parte dei soldi derivanti dal business era utilizzata per il mantenimento delle famiglie dei mafiosi detenuti e per investimenti illegali.
Il tatuaggio di Falcone e Borsellino
Nelle carte in mano ai magistrati compare anche il nome di Niko Pandetta, famoso cantante neomelodico palermitano che era solito dedicare i suoi concerti «a chi purtroppo sta al 41-bis». Pandetta, anche durante le interviste, mostrava un certo affetto nei confronti dei boss, cosa che a lungo andare gli avrebbe causato un allontanamento dalle scene. Per risolvere il problema, in un’intercettazione finita agli atti, un mafioso suggerisce: «Fatti un tatuaggio, ti scrivi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e si risolvono i problemi».
Il mondo del calcio
Le diramazioni del clan avrebbero raggiunto anche gli ambienti vicini alla squadra di calcio del Palermo. «Le indagini — scrivono gli investigatori — hanno delineato un significativo quadro di rapporti fra le tifoserie calcistiche palermitane e Cosa nostra». I vertici criminali controllavano gli ultras all’interno dello stadio al fine di tutelare uno storico capo dei tifosi rosanero, elemento di raccordo tra il tifo organizzato e gli uomini della cosa. La società sportiva, invece, non risulta coinvolta nell’inchiesta.
(da agenzie)
argomento: mafia | Commenta »