Agosto 29th, 2016 Riccardo Fucile
VERSO UN DOCUMENTO COMUNE CONFINDUSTRIA-SINDACATI SUL WELFARE
C’è una sorpresa nella riforma delle pensioni allo studio del governo. Torna l’ipotesi di aumento degli
assegni al minimo, 500 euro al mese, che non compariva nel menù delle misure possibili concordato a fine luglio fra governo e sindacati.
Cosa è successo? Finora, per aiutare chi è già in pensione, le idee sul tavolo erano due: l’estensione della 14esima, l’assegno in più incassato dai pensionati a basso reddito, e l’innalzamento della no tax area, la soglia al di sotto della quale non si pagano tasse.
Il punto è che il presidente del Consiglio Matteo Renzi considera i due interventi un po’ macchinosi. E ha chiesto di fare un sondaggio sull’aumento delle minime, suo vecchio pallino, alla ripresa degli incontri con i sindacati, la settimana prossima.
La strada, però non è semplice.
Oggi la pensione minima viene incassata da 3,5 milioni di italiani. Anche un piccolo aumento finirebbe per pesare molto sulle casse dello Stato.
Estendere a tutti il bonus da 80 euro, come Renzi aveva detto all’inizio dell’anno, costerebbe 3,5 miliardi di euro.
Troppo, visto che il pacchetto pensioni non dovrebbe superare i due miliardi e deve contenere uscita anticipata e ricongiunzioni gratuite.
Ma ci sono diversi correttivi possibili.
Il numero delle persone coinvolte scende a 2,3 milioni, se si escludono i pensionati che prendono la minima ma poi hanno altre entrate previdenziali, come la reversibilità .
E diminuirebbe ancora usando l’Isee, l’indicatore della situazione economica, che taglierebbe fuori i pensionati al minimo che però hanno un certo patrimonio immobiliare oppure un coniuge con un reddito alto.
In questo modo il numero delle persone coinvolte potrebbe scendere intorno al milione, e la spesa intorno al miliardo: numeri simili a quelli dell’intervento sulla 14esima.
Forse non a caso un intervento sulle minime e non sulla 14esima, che «in 7 casi su 10 va a persone che povere non sono» viene suggerito anche dal presidente dell’Inps Tito Boeri, intervistato dal Sole 24 ore.
Altre due novità arrivano dall’Ape, che consentirà di andare in pensione tre anni prima ai nati fra il ’51 e il ’53.
La penalizzazione dell’assegno dovrebbe essere tra lo 0 e il 2,9% l’anno per chi è rimasto senza lavoro oppure è disabile o ne ha uno a carico.
Mentre sarà più pesante, tra il 4,5% e il 6,9%, per chi sceglie volontariamente di lasciare il lavoro in anticipo.
Prima della legge di Bilancio dovrebbe arrivare un decreto ministeriale per far partire gli accordi con banche e assicurazioni.
Giovedì ci sarà un incontro fra Confindustria e sindacati: verrà firmato un documento che chiede un intervento per i 30 mila lavoratori delle aree di crisi.
Dal primo gennaio non avranno più cassa integrazione in deroga e mobilità .
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 16th, 2016 Riccardo Fucile
PESA IL TASSO DI INTERESSE APPLICATO AL PRESTITO… IL NODO DELLA POLIZZA ASSICURATIVA
Quasi un quarto di pensione in meno.
Lasciare il posto di lavoro tre anni prima significa rinunciare almeno per vent’anni a 400 euro al mese. E recuperarne, dal ventunesimo in poi, la metà . A quasi 87 anni suonati. Ma con tre anni di riposo aggiuntivi alle spalle.
È tutto qui lo scenario base dell’Ape, l’anticipo pensionistico pensato dal governo come risposta all’esigenza di flessibilità in uscita, seppur sperimentale nel triennio 2017-19, poi si vedrà .
Un dipendente pubblico o privato, nato tra il 1951 e il 1953, dal prossimo anno potrà chiedere di andare in pensione fino a tre anni prima rispetto al requisito di vecchiaia pari a 66 anni e 7 mesi.
Ottenendo così un anticipo sull’assegno futuro, in pratica un prestito dalle banche (ma erogato tramite Inps), garantito da un’assicurazione in caso di morte, che poi restituirà in vent’anni, a un tasso di interesse da fissare, finendo così di pagare a 86 anni e 7 mesi.
La pensione anticipata subirà per forza di cose una penalizzazione: non esplicita, da norma ad hoc, ma implicita (e logica) perchè nel calcolo verranno a mancare da uno a tre anni di versamenti contributivi
Nel caso base descritto da Progetica, società indipendente di consulenza, si ipotizza un tasso di interesse (il costo pagato alla banca per il prestito) all’1,5%, considerato ragionevole dagli esperti di Palazzo Chigi.
Altre elaborazioni, come quelle diffuse ieri dalla Uil – Servizio politiche previdenziali, azzardano addirittura un 3%.
In questo caso, per il segretario confederale Domenico Proietti, il pensionato da 2.500 euro netti mensili rischia “un taglio dell’assegno fino al 20%” per l’anticipo di tre anni. Una rata di restituzione cioè pari a un quinto della sua pensione netta e al 15% di quella lorda, tetto massimo fissato dal governo. “Se così fosse, l’anticipo non sarebbe conveniente per il lavoratore “, conclude il sindacato.
Ma non sarà per tutti così. Esodati, bassi redditi, vittime di ristrutturazioni aziendali potranno contare su detrazioni fiscali selettive e graduate “in base al reddito”, ipotizza Palazzo Chigi, per un costo pubblico entro il miliardo di euro.
In grado di coprire in tutto o in parte la quota interessi del prestito e in alcuni casi anche un pezzetto della quota capitale, così da alleggerire la rata.
Ma è chiaro sin da ora che la nonna desiderosa di trastullarsi col nipotino (l’esempio fatto da Renzi) – e tutti gli altri pensionati che scelgono di uscire prima non perchè costretti – dovranno mettere in conto di pagare l’Ape come fosse un piccolo mutuo, interessi compresi. Soprattutto se benestanti.
Il calcolo di Progetica è illuminante.
Un lavoratore nato il primo giugno 1953, con reddito netto mensile da 2 mila euro, può contare su una pensione di vecchiaia di circa 1.703 euro (ipotizzando una carriera tranquilla e senza salti, con inizio a 25 anni, retribuzione cresciuta dell’1,5% nel corso del tempo).
Se sceglie però l’Ape e anticipa l’uscita di tre anni (il primo gennaio 2017 anzichè nel maggio 2020), si assicura un assegno decurtato del 10%, pari a 1.542 euro.
Finito il triennio di anticipo della pensione, inizia a restituire il prestito, con rate pari a 240 euro.
Il suo assegno scivola così a 1.301 euro per vent’anni. Dopo risale a 1.542.
Rispetto ai 1.703 euro di pensione “potenziale”, per due decenni incassa il 24% in meno, ma con tre anni in più di pensione.
Se anticipasse solo di due anni, il taglio sarebbe del 15%. Se preferisse uscire giusto un anno prima, rinuncerebbe al 7% di pensione.
Troppo? Giusto? Accettabile? Lo decideranno i lavoratori, almeno 30-40 mila interessati, secondo le prime stime.
Specie i nati nel 1953, visto che le classi ’51-’52 sono state già aiutate con diversi interventi correttivi della Fornero.
Quali i nodi sul tappeto? La questione dell’assicurazione in caso di morte, su tutti. Il governo ipotizza un periodo di 20 anni per restituire l’Ape.
Ma la speranza di vita, calcolata dall’Istat, è ora ferma a 19 anni (media ponderata tra i 17,3 anni degli uomini e i 20,6 delle donne). Questo significa che le assicurazioni dovranno coprire almeno un anno in media.
E chi paga il premio? Lo Stato? Altra questione, il tasso applicato dalle banche (del cui intervento non si può fare a meno, dice il governo, se non si vuole spendere 10 miliardi l’anno). Un tasso troppo alto rende l’Ape meno appetibile. O troppo impegnativa la copertura pubblica.
Valentina Conte
(da “La Repubblica”)
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Giugno 14th, 2016 Riccardo Fucile
LA PROPOSTA DEL GOVERNO SULLA FLESSIBILITA’
I lavoratori over 63, progressivamente quelli nati tra il 1951 e il 1955, potranno andare in pensione con tre anni di anticipo grazie a un prestito, da restituire a banche e fondi pensioni con gli interessi nell’arco di 20 anni, senza “penalizzazioni previdenziali” ma con taglio sull’assegno che potrebbe arrivare fino al 15%.
Così Tommaso Nannicini e il ministro Giuliano Poletti hanno presentato l’Ape, ovvero il meccanismo di flessibilità in uscita, nell’incontro con i sindacati che si è tenuto al ministero del Lavoro.
Un racconto che sembra aver convinto Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo.
La rassicurazione del braccio destro di Renzi che il meccanismo pensato dal governo non preveda “penalizzazioni” sulle pensioni viene vissuta come una prima vittoria Cgil, Cisl e Uil.
Una risposta a una delle loro rivendicazioni. “Non possiamo trascurare — ha detto ad esempio Camusso al termine dell’incontro al ministero, durato quasi quattro ore – che ci siano delle novità positive, ovvero il fatto che non ci siano penalizzazioni. Ma è ancora troppo poco per dire che siamo in una fase di conclusione delle nostre valutazioni. Speriamo che il confronto continui e produca dei risultati”.
Analizzando quanto illustrato dal governo, in realtà chi sceglierà di lasciare il lavoro prima del tempo avrà una penalizzazione sull’assegno pensionistico.
Nannicini sottolinea che non si tratta di una “penalizzazione previdenziale” ma comunque la rata di ammortamento, ovvero la rata che si dovrà restituire a banche, assicurazioni o fondi pensioni che presteranno al lavoratore i soldi per andare in pensione con tre anni di anticipo, sarà essa stessa una penalizzazione.
Che potrà arrivare a incidere sull’assegno pensionistico fino al 15% del totale.
Su un assegno da 1.500 euro al mese, ad esempio, la decurtazione per venti anni sarebbe di 225 euro.
Un taglio che non sarà uguale per tutti però, perchè degli sgravi fiscali potranno far aumentare l’assegno ad esempio al disoccupato di lunga durata o a chi ha redditi bassi, riducendolo invece per “chi sceglie individualmente” e per motivi personale di andare in pensione in anticipo.
Questo meccanismo delle detrazioni, ha spiegato Nannicini, avrà una fase sperimentale di tre anni per i nati dal 1951 al 1955.
Come funzionerà nel concreto l’Ape?
Mario, che ha 63 anni, potrà richiedere di andare subito in pensione, fino a tre anni di anticipo, accendendo un prestito, erogato da banche, assicurazioni e fondi pensioni e garantito dall’Inps.
Un prestito da restituire in 20 anni con rate (comprensive di capitale e interessi) che potranno arrivare fino al 15% dell’assegno pensionistico: dovrebbe essere la stessa Inps a trattenere i soldi dall’assegno e girarli poi agli istituti.
Se Mario avrà scelto volontariamente per motivi personali di abbandonare il lavoro, probabilmente avrà un assegno per 20 anni decurtato del 15%.
Se invece è un disoccupato di lungo corso, o con un reddito basso avrà accesso a detrazioni fiscali che porteranno al quasi azzeramento della decurtazione.
L’anticipo pensionistico sarà gestito dall’Inps cui – nell’ipotesi di Palazzo Chigi – spetterà l’onere di creare il rapporto con gli enti finanziari che erogheranno l’anticipo netto della pensione ai lavoratori che certificheranno la richiesta di pensionamento anticipato.
Se altre misure sulla flessibilità in uscita sarebbero costate 10 miliardi, ha spiegato Nannicini, l’Ape permetterà al governo di dare una risposta a sindacati e lavoratori spendendo meno di un decimo delle risorse. Visto che i soldi ce li metteranno banche e fondi pensioni.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 5th, 2016 Riccardo Fucile
“OGGI 260 ONOREVOLI RICEVONO 150 MILIONI PIU’ DI QUANTO HANNO VERSATO”
Applicando le regole del sistema contributivo – oggi in vigore per tutti gli altri lavoratori italiani – all’intera carriera contributiva dei parlamentari, la spesa per vitalizi si ridurrebbe del 40%. In altre parole «i vitalizi dei parlamentari sono quasi il doppio di quanto sarebbe giustificato alla luce dei contributi versati». Lo afferma il presidente dell’Inps, Tito Boeri, in audizione nella commissione Affari costituzionali della Camera.
Tradotto: il sistema non regge più.
760 MILIONI DI RISPARMIO
Portando le prestazioni parlamentari ai valori normali, ragiona il presidente Inps, la spesa scenderebbe a 118 milioni, con un risparmio, dunque, di circa 76 milioni di euro all’anno (760 milioni nei prossimi 10 anni).
«I correttivi apportati più di recente alla normativa, pur avendo arrestato quella che sembrava una inarrestabile crescita della spesa – ha osservato Boeri – non sono in grado di evitare, come si vedrà , forti disavanzi anche nei prossimi 10 anni». «Oggi – ha continuato – ci sono circa 2.600 vitalizi in pagamento per cariche elettive alla Camera o al Senato per un costo stimato intorno a 193 milioni di euro, circa 150 milioni superiore rispetto ai contributi versati», ha spiegato Boeri.
SPESA MAGGIORE DEI CONTRIBUTI
Il numero uno dell’Inps ha poi sottolineato come la spesa negli ultimi 40 anni sia stata «sempre più alta dei contributi.
Normalmente un sistema a ripartizione (in cui i contributi pagano le pensioni in essere) alimenta inizialmente forti surplus perchè ci sono molti più contribuenti che percettori di rendite vitalizie.
Nel caso di deputati e senatori, invece, il disavanzo è stato cospicuo fin dal 1978, quando ancora i percettori di vitalizi erano poco più di 500, prova evidente di un sistema insostenibile».
(da agenzie)
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Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
UN MILIONE DI NEOPENSIONATI METTERANNO IN PERICOLO I CONTI INPS… GLI IMMIGRATI LASCIANO UN TESORETTO DI 16 MILIARDI ALL’INPS
Nel 2030 il sistema pensionistico italiano potrebbe implodere. 
È uno scenario realistico, secondo le proiezioni che La Stampa ha analizzato assieme a diversi esperti, incrociando previsioni demografiche e studi sulla spesa previdenziale.
Il 2030 non è una data a caso: è l’anno in cui andranno in pensione i figli del baby boom, cioè i nati nel meraviglioso biennio 1964-65, quando l’Italia nel pieno miracolo economico partorì oltre un milione di bambini.
Quei bambini, al compimento dei 66-67 anni, busseranno alla porta dell’Inps. Un picco di richieste che si tradurrà in uno choc, soprattutto se la crescita economica rimarrà modesta. Il periodo più critico arriva fino al 2035.
Poi, se le casse dell’Inps reggeranno, anno dopo anno la situazione dovrebbe migliorare per stabilizzarsi tra il 2048 e il 2060.
IL GIALLO DEI NUMERI
Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, fa professione di ottimismo e snocciola diagrammi che non vedono schizzare all’insù la spesa pensionistica in rapporto al Pil.
Una risalita ci sarà , dopo anni di curva verso il basso, esattamente attorno al 2030. All’Inps, infatti, ammettono che «qualche problema potrebbe esserci fino al 2032, quando il sistema sarà tutto contributivo».
Una fotografia che alimenta l’ansia se si pensa che è tra pochi anni e che stiamo ragionando in un sistema che è stato già stravolto dalla tanto detestata legge Fornero del 2011. Adesso che di pensioni si è tornato a parlare quotidianamente, con varie ipotesi di modifica per alleggerire la Fornero, c’è chi alza gli scudi e anzi dice che quella legge potrebbe non bastare.
Raffaele Marmo, collaboratore di Maurizio Sacconi e della stessa Fornero al ministero del Welfare, poi inventore della start up Miowelfare.it, racconta l’urgenza in cui maturò quella riforma e avverte: «Con la disoccupazione che abbiamo e la mancata crescita economica, in un’Italia sempre più anziana, l’Inps rischia di saltare entro 15 anni».
Marmo è poco convinto anche delle previsioni di Boeri che sono alla base della Busta arancione, il prospetto che consente ai lavoratori di calcolare la pensione futura: «L’Inps presuppone il canonico 1,5% di crescita del Pil, ma chi l’ha detto che sarà così?». Nel 2015 l’Italia è rimasta inchiodata allo 0,8%, le recenti stime sul 2016 sono all’1,2% e il 2030, in un certo senso, è dopodomani. Servirebbe un nuovo miracolo.
IL PROBLEMA DEMOGRAFICO
Gian Carlo Blangiardo è ordinario di Demografia all’Università Bicocca di Milano. Ha appena rielaborato i dati Istat in uno scenario che svela un processo di invecchiamento inarrestabile con tutte le conseguenze che questo comporta sulla spesa previdenziale e le inevitabili ricadute sulle nuove generazioni.
«Il rapporto tra la popolazione attiva (20-65 anni) e i pensionati si raddoppierà nel giro di una generazione. La percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi al 65% nel 2040 (da 1 su 3 a 2 su 3)».
Questo significa: il doppio del carico previdenziale. A parità di condizioni, in pratica, servirebbe raddoppiare la produttività . I 16 milioni di pensionati di oggi aumenteranno fino a 20 milioni, in meno di 25 anni.
«Tra i nuovi pensionati e chi muore, cioè tra chi entra e chi esce dal sistema previdenziale, c’è uno sbilancio che oggi è nell’ordine delle 150 mila unità . Nel 2030 salirà a 300 mila e resterà tale fino a circa il 2038».
Poi comincerà a scendere il numero dei nuovi pensionati e ad aumentare quello dei morti. Magicamente, attorno al 2048, i due gruppi si equivarranno, finchè, da lì a poco, non avverrà il sorpasso.
La spiegazione è semplice. Dopo gli anni del boom demografico del 1964-65, l’Italia ha fatto sempre meno figli e nel 2015 ha toccato il nuovo minimo storico dall’Unità : 488 mila nati. Sono i pensionati del futuro, la metà di quelli che ci andranno tra 14 anni.
Il problema della sostenibilità delle pensioni si potrebbe risolvere demograficamente: «Sì – spiega Blangiardo – sempre che prima del 2050 l’Inps non scoppi». Una catastrofe nella quale l’Italia sarebbe già sprofondata se, come dice la Corte dei Conti, non ci fossero state le riforme dal 2007 al 2011: la spesa per le pensioni sarebbe stata superiore di ben 2 punti di Pil, cioè 30 miliardi di euro l’anno per altri 15 anni.
Le statistiche però devono anche fare i conti con la vita quotidiana e le sempre minori certezze di chi in pensione andrà nel 2030, come Sergio Bucciarelli, baby boomer, oggi 51enne, impiegato a Fabriano in una ditta di cappe aspiranti.
«Lavoro ininterrottamente dal marzo 1989 e guadagno 2 mila euro al mese – racconta -. La mia pensione sarà il 60% dello stipendio quindi da vecchio stringerò la cinghia. Non potrò aiutare i miei figli e se avrò problemi di salute non potrò curarmi al meglio». Già oggi, secondo l’Inps il 63% degli assegni è fermo sotto i 750 euro al mese.
Sui numeri complessivi del sistema, che è ancora misto (retributivo e contributivo), e sulla sua tenuta ci sono letture divergenti.
Chi, come gli artigiani di Mestre (Cgia) dice che nonostante gli sforzi la spesa pensionistica è sfuggita alla spending review ed è salita solo nell’ultimo anno di 3,1 miliardi. E chi propone invece di allentare le rigidità della Fornero attraverso varie ricette.
Per esempio, la flessibilità in uscita: è il cuore di due proposte, una di Boeri, l’altra del presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, Pd, ex ministro autore della riforma del 2007.
La prima prevede fino al 9% di decurtazione e un’uscita dal lavoro dai 63 anni e 7 mesi in poi con disincentivi. Applicandosi solo alla quota retributiva, se quest’ultima scende la penalizzazione è minore (4,5%).
Per le coperture, Boeri ha pensato a un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte. Damiano, invece, propone di uscire anche un anno prima (62 anni e 7 mesi) con un taglio del 2% l’anno fino a un massimo dell’8%.
Entrambe le soluzioni si basano sul presupposto che i costi a breve saranno compensati dai risparmi futuri. Ma nessuna delle due convince Giuliano Cazzola, economista, tra i massimi esperti di previdenza, strenuo difensore della Fornero: «Ci vorrebbero 50 anni per ammortizzare queste operazioni. Non peggiorerei le cose e comincerei a pensare ai giovani e agli occupati, che sono la classe contributiva, purtroppo ancora debole, del futuro».
Il conflitto tra generazioni è già in corso. Se n’è accorto Ivan Pedretti, segretario generale dei 3 milioni di pensionati della Spi-Cgil che di fronte all’inevitabilità della Fornero è convinto che la soluzione non sia la sua totale abrogazione, ma correttivi precisi.
Come sui lavori usuranti e ancor di più sui requisiti anagrafici agganciati alla speranza di vita: «Se il contributivo nasce con la logica del “prendo quanto verso”, non spetta allo Stato decidere quando mandare in pensione il lavoratore. Permettete che lo decida lui?». In effetti è un paradosso.
Però Pedretti fa anche mea culpa: «Anche noi abbiamo permesso una transizione troppo lungo dal retributivo al contributivo». Il tabù Fornero deve essere affrontato senza ideologismi. Anche secondo Cazzola è necessaria una rivalutazione dei requisiti anagrafici legati all’aspettativa di vita. «Altrimenti, si arriverà a 45 anni di contributi». L’Italia è già in cima alla classifica Ue delle soglie stabilite per la pensione, però è di ben 5 anni sotto la media europea per la permanenza sul mercato del lavoro (10 in meno rispetto all’Olanda). Un divario che per le donne è inequivocabile: la durata media è sotto i 25,5 anni.
Il Paese sconta una storia nota, di privilegi e pensioni usate come arma politica, che ancora pesa sui conti e trasferisce sui più giovani un carico insopportabile.
«Sì, ma bisogna stare attenti – continua Cazzola – siamo l’unico Paese che usa il sistema pensionistico per fare politiche occupazionali».
Il riferimento è a uno studio di Boeri presentato alla Bocconi a gennaio che lega la riduzione delle assunzioni al forte aumento dell’età pensionabile imposto dalla Fornero.
«Se la quota di posti bloccati è al 5% – sostiene Boeri – il tasso di assunzioni scende al 6%». E così via. In una situazione di crisi economica, la convinzione del presidente dell’Inps è che il turnover potrà far crescere occupazione e produttività .
FISCO E IMMIGRATI
Una delle proposte alternative che si sta facendo largo ribalta l’impostazione sulle pensioni. Da un sistema previdenziale a uno più assistenziale finanziato in parte dalla fiscalità generale.
In commissione Lavoro alla Camera giace una proposta di legge a firma Marialuisa Gnecchi (Pd) che prevede una pensione di base di 442 euro, a cui si aggiunge quella maturata dal lavoratore con il contributivo.
Sarebbe un salto culturale verso un sistema che tiene conto del mercato del lavoro di oggi e di domani. È uno sforzo che chiedono anche i fiscalisti italiani.
Tra loro, Raffaello Lupi, docente di diritto Tributario: «Bisogna inventarsi un nuovo welfare. La gestione della terza età si deve trasformare in una delle tante funzioni pubbliche, come sanità e istruzione».
Gli over 95 passeranno dai 150 mila di oggi a quasi 1,3 milioni del 2063. Alla flessibilità in uscita vanno affiancate formule di pensionamento attivo.
Il demografo Blangiardo ha calcolato che se fossero valorizzate le persone tra i 65 e i 75 anni, con un attività light capace di essere monetizzata in 5 mila euro l’anno di media, avremmo tra il 2016 e il 2020 33 miliardi di euro in più ogni anno, tra il 2021 e il 2040, 40 miliardi.
C’è chi guarda con speranza anche a chi arriva da fuori.
È il fattore immigrazione che spacca l’opinione pubblica e anche gli studiosi. È un’ancora di salvezza o un’ulteriore zavorra? Blangiardo lo chiama «invecchiamento importato» convinto che i giovani immigrati diano solo una boccata di ossigeno ai conti dell’Inps con i loro contributi, ma che non siano una soluzione definitiva al calo della popolazione attiva, «perchè anche loro invecchieranno e riceveranno in cambio la pensione».
Boeri invece sostiene che il loro aiuto sia determinante. In futuro, quando varrà solo il sistema contributivo, il riequilibrio coinvolgerà anche gli stranieri che prenderanno quanto versato.
Intanto, l’Inps calcola che il 21% degli immigrati già in pensione secondo le regole italiane, e che in gran parte tornato nei Paesi d’origine, non ha ricevuto gli assegni previdenziali.
Un tesoretto di contributi lasciati all’Italia di 16 miliardi di euro.
In vista del 2030, non si butta via nulla.
Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo
(da “La Stampa”)
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Aprile 6th, 2016 Riccardo Fucile
L’OPERAZIONE COSTEREBBE 3,8 MILIARDI E RIGUARDEREBBE 3,8 MILIONI DI PENSIONATI
Una volta si diceva: chi tocca le pensioni muore.
Il tema è sensibile, soprattutto per i governi, e calamita l’attenzione. Da qui la lentezza dei cambiamenti degli ultimi 20-30 anni, mentre la legge Fornero frantumando gli ostacoli si è visto come è andata a finire.
Ora la proposta del presidente del Consiglio come «una voce dal sen fuggita» riapre un cantiere e conferma il coraggio dell’azzardo
Rispondendo via Twitter e Facebook alle domande da Palazzo Chigi il messaggio è deflagrante: «Allo studio c’è allargare gli 80 euro a chi prende la pensione minima. Vedremo se saremo in grado di farlo», spiega.
E il balletto ricomincia. Arte dello spiazzamento o ballon d’essai per vedere l’effetto che fa?
Le pensioni minime, o meglio, integrate al minimo, sono 3,3 milioni (3.318.021 per l’esattezza).
Se a queste si aggiungono le pensioni a maggiorazione sociale si arriva a 3,8 milioni. Seguendo il dizionario dell’Inps ci sono minime parzialmente integrate, cristallizzate o totalmente integrate.
E appartengono a tre famiglie, che hanno generato filiazioni oggi sotto i riflettori: vecchiaia, invalidità e superstiti.
Le più numerose si trovano nell’alveo della vecchiaia (1.808.641), ad indicare sia la fatica di avere contributi sia il frutto di redditi non dichiarati.
Il secondo gruppo è quello delle pensioni ai superstiti, dette anche di reversibilità (1.017.427), entrate a giorni alterni nel mirino dei governi dell’austerità ma subito abbandonate per il rischio di creare bombe sociali che nessun governo vorrebbe veder deflagrare.
Resta infine un gruppo di 500 mila pensioni di invalidità (491.953 per l’esattezza). Nella media le minime oggi valgono 492,42 euro, un valore che è sotto l’importo di 501,89 euro fissato dall’Inps per il 2016 che fa scattare l’integrazione.
Andrebbero quindi integrate, in particolare le cristallizzate, ferme a 372,87 euro.
La metà delle minime è già oggi sopra il minimo Inps, per cui si tratterebbe di alzare le altre
Ma un astuto contabile potrebbe scovare il colpo da maestro: dare a tutte le minime 80 euro al mese, sospendendo l’integrazione.
C’è poi la scoperta che integrate e minime sociali rendono gli 80 euro esentasse, ma non si può darli al nero.
Morale finale, l’operazione fa tremare i polsi: costerebbe 3,8 miliardi, euro più, euro meno, che non sono impossibili, ma che con i tempi che corrono sono difficili da trovare e metterebbero a rischio il già fragile bilancio del Paese.
Walter Passerini
(da “La Stampa”)
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Aprile 2nd, 2016 Riccardo Fucile
“I GRILLINI ANIMATI DA PASSIONE SINCERA”
Che impressione le fanno quegli energumeni sotto la sua casa, a San Carlo Canavese?
“Di una cosa sono sicura: alla fine tra me e Salvini vincerò io, perchè ho dentro una forza morale che lui non ha”.
Anche il buonumore, mi pare. Lui ride spesso, lei invece sorride. E la gente non lo sa, ma lei non si sente così fragile e così emotiva come dicono.
“Quando vado in bicicletta, proprio a San Carlo, il paese che Salvini sta rendendo famoso, mi passano accanto persone che mi salutano, ma anche persone che mi mandano maledizioni. E sono imprecazioni forti, anche se meno gravi di quelle che mi sono arrivate per altre vie. Io non mi arrabbio, sorrido e spesso li invito a fermarsi: “Se vuole, le spiego”. E gli amici mi dicono: ma Elsa, come fai a sopportarli? “.
Ieri hanno manifestato sotto la pioggia davanti a una casa vuota.
“È una casa a due piani, nulla che fare con l’idea della villa. Era la casa dei miei genitori, che noi abbiamo un po’ ristrutturato. Il pianterreno è mio, il primo piano di una mia sorella. Io ci vado nel weekend, lei soprattutto l’estate. Ci sono le mie radici, ritrovo le mie piante” .
San Carlo è un paese industriale. Come atlante delle emozioni non è il natio borgo selvaggio. Oltre la siepe …
“C’è Torino, a venti chilometri. La gente si svegliava la mattina e andava a lavorare alla Fiat. E molti erano immigrati: veneti, calabresi. Appena fuori c’è anche il poligono militare dove mio padre faceva la guardia. E poi comincia la Vaulda”.
La brughiera
“Mario Soldati diceva che non si conosce il Piemonte se non si conosce la brughiera”.
Lei è tutta piemontese? Non c’è il Meridione nella sue origini? Lo stereotipo dice: distaccato e gentile, guardingo e a sangue ghiaccio. Questo le manca.
“Sono tutta piemontese. E non sono una donna fragile”.
È vero che a San Carlo ci sono altri Fornero e che anche loro ricevono lettere di insulti? Nell’Italia dominata dalla logica del cognome questa sua storia è molto singolare.
“Fornero è un nome molto diffuso dalle mie parti. Sono davvero tanti i casi di omonimia. Ma ci sono anche cugini lontani. Tutti hanno avuto la loro razione” .
Oltre ai cugini lontani, chi vive lì della sua famiglia d’origine?
“Papà e mamma sono morti. C’è una mia sorella. E due vecchie zie, una di 90 e l’altra di 87 anni” .
Immagino che siano in pensione. Che le dicono? Avrebbero mai immaginato che Fornero sarebbe diventato il nome della riforma più controversa della storia d’Italia, dopo quella agraria?
“Prima non capivano bene. E ovviamente erano molto protettive. Ora si sono abituate a tutto”.
In famiglia discutete di pensioni? C’è qualcuno che la critica?
“Certo che discutiamo. Ma il problema non sono le critiche, che arricchiscono la vita. ”
Dove sono arrivate le minacce?
“Ne ho subite di ogni genere”.
L’augurio di ammalarsi?
“Sì”.
Promesse di botte? Di morte? La più odiosa?
“Gli attacchi a mia figlia. Hanno scritto e detto che nella sua carriera era favorita dal cognome. Purtroppo è vero il contrario”.
Lei ha due figli, uno maschio che fa il documentarista e appunto Silvia, l’oncologa. Immagino che anche il cognome del padre, Deaglio, pesi molto su di loro.
“Certo, ma è un peso diciamo così più naturale ” .
C’è un sito che si chiama ‘Corriere della Pera’ che ha scritto che sua figlia a 39 era già in pensione. Ebbene, questa bufala sui social è diventata notizia, poi indignazione, infine insulto: decine di migliaia di condivisioni, rabbia, violenza.
” Inutilmente qualcuno ogni tanto ha fatto notare che non è vero e non è neppure verosimile. Ci credono lo stesso. Ma come fa uno a difendersi da questo fango? Devo mandare una lettera di smentita al Corriere delle Pera? Proprio a San Carlo mi ha fermato un signore, un uomo colto e gentile, che mi ha chiesto, anche lui!, se è vero che mia figlia è in pensione” .
Ha mai fatto analisi, va in Chiesa?
“Dalla psicanalisi mi hanno salvato la solidità dei miei valori e la mia famiglia. Per quanto riguarda la Chiesa sono cattolica, ma imperfetta”.
Come la sua riforma?
“Più imperfetta”.
C’è una certa Italia con il brutto ceffo dei bravi manzoniani che purtroppo non impara mai e non cambia mai.
“E però anche in Europa non è facile fare le riforme. Fanno impressione gli scontri di piazza in Francia, lo sciopero, gli aeroporti chiusi. Alla fine Hollande dovrà modificare la sua riforma del lavoro”.
Certo, ma la lotta di classe è ancora politica, non è squadrismo ad personam.
“In Italia si imbocca sempre la scorciatoia, e la dialettica diventa turpiloquio, l’opposizione insulto. In questo senso mi piace la voglia di Renzi di cambiare il Paese con le riforme, magari anche sbagliando”.
Visto che spiegare è rimasta la sua cifra, stavo per dire la sua ossessione, proviamo a capire perchè Fornero non è più un cognome ma un aggettivo negativo. Io penso che c’entri molti l’associazione del duro con il fragile: la riforma delle pensioni e le lacrime. È insomma passata l’idea della doppiezza: Machiavelli e il melodramma.
“Lo so. E mi dispiace perchè non è per niente così. Davvero quelle furono due lacrimucce di emozione. Avevo scritto la riforma in venti giorni, accumulando una tensione terribile. E bisogna ricordare che erano momenti drammatici per l’Italia. Ovviamente sapevo di avere pensato una riforma che toccava punti molto vulnerabili. E sapevo anche che la fatica accumulata era nulla rispetto a quella che mi attendeva. Infatti spiegare la riforma fu più difficile che scriverla”.
C’è riuscita?
“Non ancora. Ed è su questo che i vari Salvini si avventano rendendo tutto ancora più torbido. Ma io ce la farò. Adesso, per esempio, sto organizzando la Giornata della Previdenza, sicuramente a maggio, spero il 7. Chiederò un’aula al mio rettore e mi metterò a disposizione di chiunque voglia capire. Per disarmare i Salvini non ho altro che la Ragione e le mie ragioni ” .
Ma perchè non manifestano davanti all’Inps o davanti al Parlamento? Quando ho letto che Salvini sotto casa sua ha detto “meno male che la Fornero non c’è perchè mi prudono le mani” ho pensato che persino un disarmato gli avrebbe mollato due schiaffoni.
“È quel che cerca: la reazione, il duello, lo scontro. Ai carabinieri che mi chiedevano io ho detto che era meglio non intervenire “.
Chissà quanti conduttori televisivi le propongono il duello.
“In genere una volta la settimana. In certi periodi ogni giorno. Adesso anche due volte al giorno. Ma il duello richiede un codice comune”.
Già . Il nemico legittimato, si sa, è il proprio doppio, come la luce e il buio, il caldo e il freddo. Qui …
“Niente di tutto questo. Non c’è alcun duello possibile. Guardi che nella volgarità che in questi anni mi è arrivata addosso c’è anche il maschilismo italiano, che non è solo uno spettro ideologico”.
Vuole dire che se lei fosse stato il professor Fornero, alto, grande e con due mani nodose …
“Penso che non solo Salvini mi avrebbe insultato in un altro modo. Vedo infatti molta meschinità d’animo” .
Anche Grillo non le ha risparmiato ruvidezze.
“Usò un linguaggio ancora più brutto del solito” .
E lei ricordò di averlo visto in Ferrari.
“Ero in Liguria e arrivò lui come Mangiafuoco in mezzo al fumo e al chiasso della sua Testarossa. Devo dirle però che i grillini sono spesso animati da una passione sincera. Ne ricordo uno che mi accolse con espressioni durissime come ‘killer degli italiani’ e via di seguito. Gli dissi: ‘Se mi permette, cerco di spiegarmi’. Mi ascoltò con attenzione e, poi alla fine mi sorrise e mi augurò buon lavoro. Le persone sincere sentono subito la sincerità degli altri” .
E la sinistra? L’hanno lasciata sola?
“Spiegare la riforma è il lavoro che avrebbe dovuto fare la politica. Me l’aspettavo in particolare dal Pd. Mi immaginavo che, una volta fatto il lavoro, il mio partito di riferimento sarebbe intervenuto, magari anche per correggere, ma sicuramente per far capire”
È iscritta?
“Mai stata iscritta, ma sono di sinistra e, se la parola avesse ancora un senso, direi di sinistra moderata”.
Voterebbe ancora Pd?
“Questo non lo so, vedremo”.
Ma dal Pd qualcuno le avrà pure telefonato. Non le hanno espresso solidarietà ?
“No. E mi ferisce molto questa solitudine” .
Alcuni dicono che anche Mario Monti ha scaricato tutto su di lei. È vero?
“No. Sino a ieri sera tardi mi ha telefonato “.
Il sindacato si è mobilitato contro la riforma. Oggi anche la Cgil scende in piazza.
“Certo, sono diversi da Salvini. Ma proprio per questo più deludenti. Se guardi una foto di Salvini capisci subito che è un imbroglia popolo. Il sindacato invece …”.
Forse l’idea del lavoro in Italia è più “olio e grasso” che “perle e libri”?
“Sono figlia di un operaio. Lui mi ha insegnato l’importanza dello studio e del decoro. I suoi valori sono i miei. Ricordo che vennero in più di mille ad un incontro in un hangar dell’aeroporto di Caselle. Parlai e mi capirono. E, andando via, in tanti vollero stringermi la mano. Guardi, io penso che le riforme siano organismi vivi, che possono e che debbono cambiare, ma di sicuro quella riforma è stata fatta al servizio del Paese, dell’equilibro tra le generazioni, nell’interesse degli italiani” .
Anche nel linguaggio del sindacato c’è stata inciviltà ?
“La parola è forte, ma non completamente inappropriata” .
Sapeva da ministra che le pensioni dei sindacalisti, dei distaccati, si formano grazie a una doppia contribuzione?
“No. E non capisco come Bonanni possa difendere la sua pensione” .
Un’ingiustizia?
“Un privilegio. Ma i sindacalisti nascono per combattere i privilegi”
Mi hanno detto che lei ha rifiutato il trattamento pensionistico dovutole come ministro. Dunque si accontenterà della pensione che le spetta come professore. È circa la metà .
“Preferirei che non scrivesse di questo. Glielo chiedo con forza”.
Lei non ha mai avuto rapporti facili con la stampa.
“No. Devo dirle che spesso i giornalisti hanno travisato il mio pensiero. Credo di aver capito che solo la polemica vi attira. Un suo giovane collega mi ha detto: ci pagano dieci euro a pezzo, e accettano l’articolo solo se è polemico “.
La sua reputazione per 10 euro?
“Non dico questo, e magari ho commesso errori anche io. Ma certo è un campo minato “.
Ho letto che in Inghilterra vogliono alzare di molto l’età pensionabile
“E anche in America, vogliono superare i 67 anni. Si va verso la flessibilità . E non solo perchè cresce l’aspettativa di vita, ma anche perchè aumenta il numero di chi ama lavorare. È già così per molti professori, forse pure per i giornalisti, ma il lavoro alienato esiste eccome, provi a chiedere ad un metalmeccanico quanto si sente realizzato” .
Dovremmo privarci del lavoro di Scalfari, oppure impedire a Morricone di comporre e a Muti di dirigere? Ci sono bellissime vite di lavoro che a sessant’anni rifioriscono.
” Io insegnerei anche gratis. Adesso però mi deve promettere che faremo un’altra intervista solo sulle pensioni”.
Sicuro. Ma con un altro giornalista. È una materia in cui mi perdo.
“Ragione di più per farla. Spiegare è il mio piacere”.
Francesco Merlo
(da “la Repubblica”)
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Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile
SCATTANO GLI SCAGLIONI CHE PENALIZZERANNO LE NATE NEL 1953
Ventidue mesi di lavoro in più per le donne impiegate nel settore privato, per agguantare la sospirata pensione di vecchiaia.
Quattro mesi in più per tutti, come adeguamento alla speranza di vita: si vive più a lungo e allora bisogna anche lavorare più a lungo.
E poi, arriva la revisione dei coefficienti necessari per determinare la quota contributiva della pensione: quello che si apre fra pochi giorni è un anno di novità non esattamente piacevoli per quanto riguarda il ritiro dal lavoro.
Per tradurre in esempi la fredda contabilità delle leggi, lo scalino in più che, in base alla legge Fornero, scatterà dal 2016 per le donne lavoratrici del privato, fa sì che potranno lasciare il lavoro per vecchiaia a 65 anni e sette mesi (63 anni e nove mesi sono stati sufficienti nel 2015); per le autonome non prima di 66 anni e un mese, mentre sono già equiparate agli uomini le dipendenti pubbliche.
Cioè all’età di 66 anni e sette mesi: gli uomini potranno altrimenti andare in pensione anticipata se hanno versato 42 anni e dieci mesi di contributi; 41 anni e dieci mesi le donne.
Chi sarà particolarmente penalizzato dal meccanismo messo in piedi dalla legge sono le signore nate nel 1953: nel 2018, quando avranno raggiunto il traguardo dei 65 anni e sette mesi, sarà scattato un nuovo scaglione per spostare in avanti l’età pensionabile (salvo revisioni della legge) e nel 2019 l’asticella dell’età sarà spostata ancora più in alto da un nuovo adeguamento alle aspettative di vita. Morale, queste lavoratrici rischiano di potersi mettere a riposo solo nel 2020.
Ma questo 2016 è anche l’anno scelto per far scattare i nuovi coefficienti di trasformazione, ossia quelli che servono per trasformare i contributi versati in assegno: nemmeno questa è una notizia allegra, se si considera che tra 2009 e 2016 l’importo calcolato col contributivo, prendendo a riferimento come età di uscita i 65 anni, è diminuito del 13 per cento. E nel 2016, secondo i calcoli di Antonietta Mundo, già coordinatore generale statistico attuariale dell’Inps, riportati dall’Ansa, gli uomini perderanno sulla quota contributiva circa l’1 per cento.
E se queste sono le (fosche) previsioni per le pensioni nel 2016, a tracciare un bilancio degli anni passati, per quanto riguarda invece il lavoro e la crisi, ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro, partendo da dati Istat: 656.911 sono i posti persi nel periodo 2008-2015, di cui 486mila andati in fumo al sud e nelle isole e 249mila a nord, mentre il centro ha fatto segnare un sorprendente più 78mila, tanto che il Lazio è, insieme al Trentino Alto Adige, l’unica regione che ha visto in questi anni di crisi aumentare gli occupati.
Una crisi che, però, secondo la ricerca di ImpresaLavoro, sta forse finalmente allentando la presa: nel terzo trimestre del 2015, sottolinea, c’è stato un aumento di 154mila occupati su base annua.
Nello stesso periodo, 2008-2014, rivela uno studio dell’Istat diffuso ieri, tra gli stranieri, che per il 57 per cento arrivano in Italia per cercare un impiego e per il 29,9 per cento ritengono di svolgere mansioni poco qualificate rispetto al proprio titolo di studio, il tasso di occupazione ha subito un calo molto più accentuato rispetto agli italiani (6,3 punti contro 3,3).
E la disoccupazione tra loro è quasi raddoppiata in quei sei anni, facendo registrare un più 7,1 contro il più 5,2 degli italiani.
Francesca Schianchi
(da “La Stampa”)
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Dicembre 6th, 2015 Riccardo Fucile
LA PROVOCATORIA PROTESTA DI UN CENTINAIO DI GIOVANI DAVANTI ALLA SEDE INPS PER AVERE UN ASSEGNO DIGNITOSO
Giacomo ha 27 anni e una grande paura: lavorare fino a 75 anni e avere una pensione da 300 euro al mese.
O, ancora peggio, trascorrere la vecchiaia senza un euro in tasca.
Lui non ci sta e insieme a tanti altri coetanei ha portato la sua protesta davanti alla sede dell’Inps, a Roma, dove si sono raccolti i giovani delle Acli, le associazioni cristiane dei lavoratori italiani.
Dopo lo scenario delineato dal presidente dell’Istituto, Tito Boeri, in tanti, da tutta Italia, hanno deciso di manifestare contro “una situazione che, per colpa di scelte fatte in passato, ci vedrà costretti a lavorare tutta una vita per poi ritrovarci poveri da anziani”, spiega Giacomo.
Lui, un contratto da precario, è il simbolo di due generazioni, quelle degli anni Ottanta e Novanta, che ora chiedono al Governo di trovare una soluzione. Il messaggio è chiaro: i giovani non possono essere destinati a diventare poveri già dai trent’anni.
Ecco perchè il simbolo della protesta sono le tante barbe di carta che vengono indossate. “Abbiamo le barbe perchè questa è una generazione che è già qui, mentre viene disegnata tra 45 anni con 300 euro di pensione”, spiega il coordinatore nazionale dei giovani delle Acli, Matteo Bracciali.
L’indignazione risuona nelle parole di studenti e lavoratori precari.
I cori intonati davanti all’Inps chiedono “una pensione giusta”. Spunta anche un fac-simile di un assegno pensionistico dall’importo di 350 euro destinato alla “generazione 80/90”.
Se la protesta monta sulla scia di una previsione catastrofica, la proposta è già in campo: il Governo deve mettere mano alla sostenibilità sociale del sistema pensionistico e dare vita a un’operazione di equilibrio generazionale.
Il problema, tuttavia, non è solo la pensione, ma anche il lavoro.
La maggior parte dei manifestanti ha un’occupazione ballerina, in tanti ancora studiano ma non nutrono speranze sul loro futuro. Ecco perchè la protesta delle Acli andrà avanti e ha già in cantiere altre iniziative sui temi della stabilizzazione del lavoro e dell’estensione dei diritti.
Non è usuale vedere le Acli in ‘piazza’, segno che le previsioni di Boeri hanno spaventato tutti, al di là delle appartenenze a movimenti o partiti.
Qualcuno non risparmia critiche alla riforma Fornero, “che ha creato squilibri ed è da cancellare”.
Parole lontanissime dagli auspici dell’ex titolare del ministero del Lavoro, che in un’intervista all’Huffpost, aveva difeso la sua creatura affermando: “Possono dire tutto quello che vogliono, ma che la mia riforma non abbia favorito i giovani, togliendo loro un po’ di peso, questo lo respingo nel modo più assoluto”.
Il cantiere del pressing sulle pensioni è in fermento: le Acli sono solo l’ultimo dei tanti soggetti che chiedono un intervento all’esecutivo.
I sindacati, in primis, ai quali non è andata giù l’esclusione del tema della flessibilità in uscita nella legge di stabilità , ma i malumori arrivano anche dal palazzo scelto dalle Acli per la loro protesta, quello dell’Inps.
Boeri aveva presentato un documento a palazzo Chigi con 16 proposte, dal reddito minimo per gli over 55 all’uscita anticipata a 63 anni e 7 mesi, ma il Governo non ha recepito le sue indicazioni nella manovra e non sembra intenzionato a farlo.
Giacomo viene da una terra difficile, la Sardegna. Ora è davanti al portone chiuso della sede dell’Inps.
È domenica, ma non è tempo di riposare. Ha una grande paura sì, che si chiama futuro, ma anche una grande speranza: togliersi quella barba di carta dal volto il prima possibile.
(da “Huffingtonpost”)
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