Settembre 21st, 2015 Riccardo Fucile
FLESSIBILITA’ A COSTO ZERO… FORTI PENALIZZAZIONI SE SI ESCE A 62 ANNI
L’avvertimento è arrivato nell’intervista a «Repubblica» del ministro dell’Economia Pier Carlo
Padoan: attenti ad intervenire sulle pensioni perchè «l’equilibrio di finanza pubblica va mantenuto » e non possiamo far saltare i conti.
Ma il presidente del Consiglio Matteo Renzi sembra intenzionato ad andare avanti: flessibilità in uscita in cambio di riduzione dell’assegno per chi vuole andare in pensione passando attraverso le maglie rigide della legge Fornero. Renzi lo ha scritto l’altro giorno nella sua rubrica sull’«Unità », ma il suo progetto non è nuovo.
Già nel maggio scorso, anche dopo il «siluro» della Corte costituzionale che ha ripristinato l’indicizzazione delle pensioni con il costo di un paio di miliardi sul conto-previdenza dello Stato, aveva annunciato per la legge di Stabilità del 2016 un intervento.
«Libertà e disponibilità per la nonna che si vuole godere il nipotino», aveva detto con la solita efficace immagine.
Per la soluzione flessibilità del resto pressano sindacati e minoranza interna del Pd. Senza contare che una delle proposte di legge più discusse nelle ultime settimane porta due firme di peso: del presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano e del sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta.
Il problema sono i costi: il testo prevede di poter anticipare a 62 anni, invece che agli attuali 66 anni e tre mesi (66 e sette mesi nel 2016) l’uscita in pensione.
L’opzione per la flessibilità costerebbe il 2 per cento per ogni anno e dunque qualora fosse esercitata per quattro anni comporterebbe una penalizzazione dell’8 per cento. Su costo si discute, ma si dovrebbe andare, secondo i proponenti, sotto i 4 miliardi (tenendo conto solo dei pensionati che aderiranno)
Un po’ troppo, e allora si guarda all’altro progetto sul campo, nato dagli ambienti tecnici e che viene definita proposta-Boeri.
Si tratterebbe, nella versione che circola, di estendere a chi va in pensione anticipata un calcolo interamente contributivo invece che il più generoso retributivo anche se mitigato dal sistema pro-rata.
In questo caso il taglio dell’assegno potrebbe arrivare complessivamente fino al 30 per cento. Il costo sarebbe vicino allo zero.
L’impatto immediato tuttavia non sarebbe indolore: il primo anno potrebbero essere molti coloro che potrebbero approfittare della opportunità e il peso per le finanze pubbliche si farebbe sentire
La coperta è corta, tant’è che il Def non fa cenno alla questione della flessibilità in uscita: tanto più che già la lista della spesa arriva a 27 miliardi, il cantiere della spending review è ancora aperto e la flessibilità attende un via libera da Bruxelles. Tuttavia i tecnici del governo sono al lavoro per una soluzione di compromesso che potrebbe conciliare l’esigenza di «costo zero», sulla quale sembra siano attestati Palazzo Chigi e Via Venti Settembre, accontentando al tempo stesso la nonna che si vuole godere i nipotini.
L’idea è quella di lavorare sulla percentuale di penalizzazione: dal 2 per cento di cui si è parlato fino ad oggi si potrebbe salire il 3-4 per cento l’anno raggiungendo una penalizzazione massima su quattro anni del 12-15 per cento.
L’età rimarrebbe a 62 anni e in questo modo — ma si stanno facendo i conti — si potrebbe raggiungere un punto di equilibrio tra costi e risparmi.
Roberto Petrini
(da “la Repubblica“)
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Agosto 24th, 2015 Riccardo Fucile
PENSIONE IN ANTICIPO CON PENALITA’ E PRESTITO: LO STUDIO DEL GOVERNO PER CAMBIARE LA LEGGE FORNERO
Andare in pensione già a 63 anni, ma con una penalizzazione sull’assegno compensata in parte da un
anticipo sul proprio futuro trattamento, da rimborsare a rate una volta maturati i requisiti anagrafici standard.
Sarebbe questa una delle soluzioni allo studio per dare ai lavoratori un’opzione di flessibilità in uscita dal lavoro, consentendo di andare in pensione prima rispetto ai requisiti oggi fissati, senza che però il taglio applicato sia troppo sostanzioso, in modo da rendere poco conveniente il ritiro anticipato. Ne scrive oggi Il Sole 24 ore.
La riduzione del trattamento sarebbe sempre più alta per ogni anno di anticipo in più partendo da un “taglio” del 3% ma il lavoratore avrebbe la possibilità di integrare il trattamento utilizzando il “prestito” in una versione leggermente corretta rispetto a quella studiata a suo tempo dal ex ministro Enrico Giovannini.
Per calibrare la riduzione dell’assegno resta sul tavolo l’opzione inserita nella proposta consegnata a Palazzo Chigi dal presidente dell’Inps, Tito Boeri: spalmare il montante contributivo accumulato nel corso di tutta la vita lavorativa in relazione all’età di uscita e alla speranza di vita residua.
Con il risultato di ridurre l’assegno per chi lo incassa prima con un taglio di circa il 3% per ogni anno di mancata contribuzione.
In altre parole a parità di montante ogni anno di lavoro in meno farebbe scattare una sempre maggiore riduzione del trattament
L’opzione piace al governo perchè assicurerebbe ai lavoratori che hanno visto allontanarsi improvvisamente di molti il traguardo della pensione con la riforma Fornero, di ritirarsi alcuni anni prima senza vedere eccessivamente decurtato il proprio assegno senza però pesare eccessivamete sui conti pubblici.
Secondo il quotidiano economico, il mix allo studio del governo costerebbe alle casse pubbliche poco più di un miliardo.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 30th, 2015 Riccardo Fucile
I PARASUBORDINATI SONO LA CATEGORIA PIU’ POVERA
Chi sta peggio dei lavoratori atipici? Gli atipici in pensione. 
Stando ai calcoli dell’Inps percepiscono un assegno medio da 160 euro al mese.
Loro sono quelli che, per almeno 20 anni di lavoro e stipendi striminziti, hanno versato i contributi alla gestione separata dell’ente previdenziale italiano, nella cassa dei parasubordinati perchè erano inquadrati come co.co.co, contrattualizzati a progetto, parasubordinati o collaboratori esterni.
Finalmente sono andati in pensione, ma avranno davvero poco tempo per rilassarsi, perchè con un assegno da 160 euro dovranno darsi (ancora) da fare per arrivare a fine mese.
A rivelare gli importi in questione è Tito Boeri, presidente dell’Inps, che ha deciso di pubblicare sul sito www.inps.it il monitoraggio dei flussi di pensionamento relativo al 2014 e al primo semestre di quest’anno.
Come prevedibile, i parasubordinati sono la categoria più povera.
Complessivamente il traguardo del buen retiro è stato raggiunto da 326mila ex lavoratori parasubordinati e nel 2014 la pensione è stata raggiunta da 26.294 di loro, altri 13.531 ci sono arrivati nei primi sei mesi di quest’anno.
Tutte pensioni di vecchiaia, guadagnata cioè per raggiunti limiti di età , mentre nessuno ha ottenuto una pensione di anzianità , quella che si conquista sgobbando per 41 e mezzo per le donne e 42 anni e mezzo per gli uomini.
L’età dei pensionati atipici è piuttosto alta, 68 anni, sono per lo più uomini (73 per cento) e la metà di loro proviene dal Nord Italia, mentre solo un decimo risiede al Sud o nelle isole.
Quanto prenderanno di pensione i precari? L’Inps ha elaborato per l’Espresso online un’analisi puntale della previsione pensionistica di due lavoratori.
I problemi dei futuri pensionati atipici sono due e hanno origini storiche.
Innanzitutto l’aliquota versata dai precari nella loro cassa previdenziale è inferiore rispetto a quella pagata dai colleghi che un contratto vero e proprio ce l’hanno.
Nel 1996, quando è nata la gestione separata, i primi co.co.co versavano all’Inps il 10 per cento del loro stipendio lordo, poi il 27 per cento ed entro il 2016 l’aliquota sarà alzata al 30 per cento. Comunque meno rispetto al 33 per cento versato dai lavoratori dipendenti.
Per i collaboratori il calcolo della pensione si fa esclusivamente con il metodo contributivo (cioè dividendo il totale dei contributi versati per un coefficiente di aspettativa di vita) e se nei primi anni di lavoro i soldi accantonati nel fondo Inps sono pochi si finirà per scontare questa carenza quando si andrà in pensione.
Ecco perchè Tito Boeri sarebbe favorevole all’introduzione di un contributo di solidarietà da parte dei pensionati di oggi a quelli di domani, che nel frattempo devono fare i conti con un secondo problema.
Infatti quando l’atipico perde il lavoro smette anche di versare la quota previdenziale all’Inps e rischia così assegno pensionistico groviera, con un sacco di buchi contributivi.
La nostra previdenza è strutturata in modo che pochi abbiano tanto e, negli ultimi anni, la spesa per le pensioni sta ingessando sempre di più l’economia, penalizzando chi ancora non ha raggiunto l’età .
Mentre sul fronte dell’invalidità , il divario Nord-Sud è abissale
In autunno Tito Boeri invierà ai lavoratori dipendenti la busta arancione con all’interno un calcolo di quando si potrà andare in pensione e a quanto ammonterà l’assegno.
Dal 2016 sarà inviata anche ai parasubordinati. Ma farsi un’idea della pensione a dimensione di precario è già possibile usando il calcolatore online elaborato da Itinerari Previdenziali, comitato scientifico dell’economista Alberto Brambilla, in collaborazione con la società informatica Epheso e il Mefop, la società del ministero dell’Economia per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione.
Ad esempio, un collaboratore a progetto quarantunenne, con alle spalle 13 anni di contributi e un reddito che si aggira attorno ai 15 mila euro lordi all’anno, andrà in pensione a 69 anni e 3 mesi.
Ponendo che la sua carriera sia già piuttosto assestata e dunque non preveda particolari aumenti di retribuzione (al punto che l’ultima busta paga si assesterà intorno ai 19.500 euro), nella peggiore delle ipotesi (cioè con una crescita del pil nazionale dello 0,5 per cento) percepirà un assegno di 13 mila euro.
Gloria Riva
(da “L’Espresso”)
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Luglio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
IL CONFRONTO TRA 31 PAESI DA PARTE DEL SERVIZIO STUDI DI MONTECITORIO
Un cantiere sempre aperto. Con continue varianti e modifiche allo studio.
Segnate da un minimo comun denominatore: tagliare la spesa.
E’ la storia delle pensioni italiane, vero e proprio macigno sull’equilibrio dei conti pubblici.
Non è bastata neppure l’ultima riforma Fornero per chiuderla definitivamente. Varata non più tardi del 2012 già si pensa di scrivere nuovi capitoli.
Come ha annunciato il presidente del Consiglio Matteo Renzi e come ha proposto il presidente dell’Inps Tito Boeri con l’idea di ricalcolare tutti gli assegni previdenziali con il metodo contributivo che avrebbe l’effetto di dare una bella sforbiciata, l’ennesima, agli assegni.
Eppure, sfogliando il dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati che ha messo a punto un’analisi comparativa tra la legislazione nazionale e quella di altri 30 Paesi europei, si scopre un dato interessante.
Quando nel 2050 l’attuale sistema pensionistico italiano andrà a regime, per le pensioni di vecchiaia (quelle erogate al raggiungimento dell’età pensionabile in base ai requisiti di legge, tra i quali gli anni minimi di contribuzione, vigenti al momento in cui matura il diritto previdenziale) bisognerà aver compiuto 69 anni e 9 mesi di età .
Una soglia che non ha eguali negli altri 30 Stati presi in considerazione nel dossier sia in confronto alla situazione vigente sia a quella che, negli anni, si determinerà nei singoli Paesi analizzati.
Ed anche sul fronte delle pensioni anticipate, le vecchie pensioni di anzianità (corrisposte al raggiungimento del requisito di anzianità contributiva, cioè del numero minimo di anni di contribuzione previsti dalla legge), il regime italiano resta uno dei più duri in circolazione.
LAVORATORI DI LUNGO CORSO
Partiamo dalle pensioni di vecchiaia. La normativa italiana prevede la possibilità per i lavoratori di sesso maschile del settore privato, lavoratori autonomi e para-subordinati, di ritirarsi a 66 anni e 3 mesi; idem per i dipendenti pubblici (uomini e donne); per le lavoratrici del settore privato invece uscita prevista a 63 anni e 9 mesi; per le lavoratrici autonome e para-subordinate a 64 anni e 9 mesi.
Sono invece necessari 65 anni e 3 mesi per la concessione dell’assegno sociale.
Riforme alla mano, per il futuro l’età pensionabile sarà gradualmente aumentata in proporzione all’aumento della speranza di vita e, a partire dal gennaio 2021, non potrà essere inferiore a 67 anni.
Che, come detto, saliranno a 69 anni 9 mesi entro il 2050.
Tra le discipline più rigorose d’Europa, c’è quella della Germania che fissa a 67 anni l’età pensionabile standard (a regime nel 2029) per l’accesso ai trattamenti di vecchiaia.
Unica eccezione per il lavoratori con almeno 45 anni di contributi obbligatori per i quali il limite di età scende a 65 anni.
Poi c’è la Francia: 60 anni per i nati prima del 1° luglio 1951, con incrementi di 5 mesi per anno di nascita fino a toccare i 62 per i nati dal 1955 in poi, se il lavoratore ha raggiunto il periodo minimo di iscrizione; 65 o 67 anni (in base agli stessi parametri anagrafici), invece, se non è stato maturato il periodo minimo di iscrizione.
Ci vogliono 67 anni anche in Islanda e in Spagna ma solo per i lavoratori con meno di 38 anni e 6 mesi di contributi (oltre tale soglia bastano 65 anni, ma dal 2027 ci vorranno 67 anni per tutti).
PENSIONI SCONTATE
Un anno di sconto, invece, nei Paesi d’oltre Manica. L’Irlanda ha fissato a 66 anni il requisito di età per l’erogazione della pensione.
Addirittura due nel Regno Unito: per i sudditi di Sua Maestà , attualmente, è previsto il limite di 65 anni per gli uomini che, entro il 2018, scatterà anche per le donne (per le lavoratrici, fino al 2010, era di 60 anni), in attesa che dal 2020 l’età pensionabile si alzi a 66 anni per tutti.
Soglie più basse, invece, nel resto d’Europa. Dove il record dei “baby” pensionati spetta, attualmente, ex equo alla Repubblica Ceca (62 anni e 8 mesi per gli uomini e da 61 anni e 8 mesi per le lavoratrici senza prole a 57 anni e 8 mesi per quelle con almeno 5 figli) e alla Slovacchia (62 anni per tutti, con trattamenti di favore per le donne con figli, ma dal 2017 scatteranno meccanismi di adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita). In mezzo ci sono altri 17 Paesi nei quali, sebbene con sfumature diverse e in alcuni casi con trattamenti diversificati tra uomini e donne, l’età di riferimento per la pensione di vecchiaia è fissata a 65 anni.
Si tratta di Austria, Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Slovenia, Cipro, Lettonia, Estonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Ungheria, Svizzera, Bulgaria, Paesi Bassi, Polonia e Croazia.
Ma in questi ultimi tre Paesi, con meccanismi e tempi diversi, il limite di età sarà innalzato per tutti a 67 anni.
Ne bastano, invece, 64 ai cittadini di entrambi i sessi del Liechtenstein per acquisire il diritto ad una pensione di vecchiaia.
Poi ci sono i cosiddetti sistemi previdenziali flessibili, come quelli di Svezia (da 61 a 67 anni), Norvegia (da 62 a 75 ) e Finlandia (61 e i 68) dove il lavoratore può decidere di anticipare o posticipare la pensione.
ASSEGNO ANTICIPATO
Quanto alla pensioni anticipata, che ha sostituito dal gennaio 2012 la vecchia pensione di anzianità (riforma Fornero), quando essa è richiesta prima dei 62 anni di età e la persona ha maturato i requisiti per il godimento del trattamento (42 anni e 6 mesi per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne), è prevista una riduzione dell’importo dell’1% se si beneficia di una pensione anticipata 2 anni prima dei 62 anni; del 2% prima oltre i 2 anni. Guardando all’Europa, in Danimarca, Finlandia, Irlanda, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia la pensione anticipata non esiste.
In Germania è possibile lasciare il lavoro a 63 anni con 35 anni di contributi; a 60 anni per le donne nate prima del 1952 e con almeno 15 anni di contributi; a 63 anni per le persone nate prima del 1952 e con particolari requisiti. In Francia, la pensione anticipata è prevista in tre casi: tra i 56 e i 60 anni di età (lunga carriera); tra i 55 e i 59 anni (per grave disabilità ); a partire da 60 anni (lavori usuranti) in caso di invalidità causata da infortunio sul lavoro o fattori di rischio professionale.
In Spagna il diritto alla pensione anticipata si consegue a 60 anni per i lavoratori assicurati in base al sistema abolito nel 1967.
E’ possibile anticipare il congedo fino a un massimo di 2 anni prima del raggiungimento dell’età pensionabile in caso di pensionamento volontario; con 35 anni di contributi; se l’importo della pensione è pari al valore minimo della pensione stessa.
Oppure di 4 anni con 33 anni di contributi o se il lavoratore è rimasto disoccupato per almeno 6 mesi. I lavoratori con invalidità almeno del 45% possono andare in pensione a 56 anni (a 52 se l’invalidità è del 65%).
Antonio Pitoni
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 16th, 2015 Riccardo Fucile
L’UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO RENDE UFFICIALI I RIMBORSI: DA 319 A 816 EURO, MA AVREBBERO AVUTO DIRITTO A 3.008 E 4.157 EURO… E AGLI ALTRI UN BEL NULLA
Il decreto del Governo che applica la sentenza della Corte costituzionale sul blocco della perequazione sulle pensioni prevede “una restituzione assai parziale, meno del 12% del totale, della mancata indicizzazione” ma “concentra le limitate risorse nelle classi di pensionati con redditi più bassi”.
Lo scrive l’Ufficio parlamentare di bilancio nel documento sulla “rivalutazione delle pensioni dopo il decreto legge 65/2015: effetti redistributivi sulla finanza pubblica” spiegando che ai pensionati con redditi tra tre e quattro volte il minimo (tra i 1.500 e i 2.000 euro al mese) andrà il 67,5% delle risorse stanziate dal Governo (2,8 miliardi di euro lordi nel complesso, 2,2 al netto del fisco).
Chi ha redditi da pensioni superiori a sei volte il minimo (oltre 3.000 euro al mese) non avrà alcun rimborso.
Complessivamente, rispetto a quanto sarebbe spettato in caso di rimborso integrale, la cifra restituita è minima, come mostra il grafico pubblicato dall’Upb nel suo documento.
I rimborsi da 319 a 820. euro.
In termini di importi, le cifre che saranno restituite ai pensionati vanno da 816,4 euro per le fasce più basse a 319,8 euro per le fasce più alte.
La restituzione integrale per il triennio 2012-2014 sarebbe rispettivamente di 3.008 euro e 4.157 euro; il provvedimento restituisce quindi tra il 27,1% e il 7,7% della somma complessiva.
“Il tesoretto è svanito” .
Il presidente dell’Upb Giuseppe Pisauro è poi tornato sul tema dell’ormai dimenticato tesoretto, il margine ricavato nelle pieghe dei conti tra le previsioni formulate lo scorso anno e il nuovo quadro macroeconomico delineato nel Def.
Con il decreto del governo, ha detto “è svanito quel margine”.
Non solo Pisauro non ha risparmiato critiche all’utilizzo un po’ spregiudicato di quello che era uno spazio di bilancio virtuale e tutto da confermare nel corso dell’anno. L’Upb – ha detto – è stato tra i più netti nel valutare l’eventuale utilizzo del tesoretto nel consigliare di riconsiderare tutto quando i conti sarebbero stati più stabili”. Bisognava fare attenzione ai “fattori esogeni”, ha spiegato, e la vicenda sulle pensioni oltre tre volte il minimo “è uno di questi”.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 7th, 2015 Riccardo Fucile
NON SOLO CHI AVEVA DIRITTO A 3.000 EURO NE RICEVEREBBE SOLO 500, MA ORA SI PAVENTA UN ALTRO TAGLIO DEL 20%
I rimborsi che il governo darà ai pensionati, in adempimento della sentenza della Corte Costituzionale, potrebbero essere più bassi rispetto a quanto annunciato.
Lo rivela Il Messaggero oggi in edicola, secondo il quale un certo taglio si prospetterebbe anche per i trattamenti pensionistici definitivi, che si porteremmo dietro per gli anni a venire un adeguamento all’inflazione ancora più parziale.
I rimborsi del governo ai pensionati dovrebbero arrivare già ad agosto, ma ci si aspettano sorprese al ribasso.
Il decreto per ripristinare una quota della perequazione (totalmente cancellata dal governo Monti nel 2011 per gli assegni superiori a 1.405 euro lordi mensili) è allo studio della Commissione Lavoro della Camera.
La relatrice, la deputata del Pd Anna Giacobbe, ha chiesto al governo di “fornire una conferma in ordine al concreto funzionamento dei meccanismi di rivalutazione, eventualmente anche attraverso la messa a disposizione di elementi di maggior dettaglio”.
Detto altrimenti, il meccanismo è poco chiaro, e dal governo serve quanto prima una delucidazione.
Scrive Il Messaggero:
I conti li ha già fatti la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro: gli importi netti dei rimborsi risulterebbero più bassi di oltre il 20% rispetto a quelli di cui hanno parlato sia il presidente del Consiglio sia lo stesso ministro Padoan in Parlamento.
Così una pensione da 1.700 euro lordi mensili (ai valori del 2011) il primo agosto avrebbe un rimborso arretrato netto di 575 euro, invece di 750, una da 2.200 di 361 invece che 460, mentre chi aveva un assegno da 2.700 euro otterrebbe 216 euro e non 280.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 31st, 2015 Riccardo Fucile
E IL CODACONS ANNUNCIA UNA CLASS ACTION… GOVERNO ALL’ANGOLO
Un’ingiunzione di pagamento di 3.074 euro a titolo di arretrati dopo la bocciatura del blocco delle indicizzazioni delle pensioni da parte della Corte Costituzionale.
E’ quanto è stato stabilito in un decreto ingiuntivo del 29 maggio dal Tribunale di Napoli, sezione lavoro, che ha accolto il ricorso di un pensionato partenopeo presentato prima che il governo annunciasse il decreto sui rimborsi delle pensioni.
E’ quanto riferisce l’avvocato Vincenzo Ferrò, che ha assistito il pensionato.
Secondo il Codacons, la decisione apre la strada a migliaia di pronunce analoghe in tutta Italia in favore dei pensionati.
Il Ministero del Lavoro, ha risposto ricordando che i ricorsi dovranno tenere conto del decreto presentato dal Governo.
“Si tratta di una decisione importantissima, che avalla la class action avviata dal Codacons alla quale hanno già aderito oltre 5mila pensionati attraverso l’invio di una diffida all’Inps e al Ministero del lavoro — spiega il presidente Carlo Rienzi — Se non saranno restituiti integralmente i soldi sottratti agli utenti che hanno partecipato alla nostra azione collettiva, scatteranno migliaia di analoghi ricorsi che potranno contare sull’importante precedente del Tribunale di Napoli”.
E il Codacons attacca duramente le affermazioni odierne del ministero del Lavoro tese ad indurre i pensionati ad evitare i ricorsi.
”L’errore del Ministero è evidente — spiega Rienzi — Il decreto, infatti, vale per il futuro, ma non cancella i diritti acquisiti dai pensionati nel passato, e la sentenza della Consulta interessa proprio le pensioni pregresse per le quali è ampiamente legittimo proporre ricorso”.
In tal senso il Codacons invita tutti i pensionati danneggiati dalla legge Fornero ad aderire alla class action presente sul sito www.codacons.it.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile
IN ANTICIPO DI 4 ANNI MA CON UN TAGLIO DI 150-200 EURO MENSILI
Andare in pensione con un anticipo di 4 anni, perdendo però una mensilità abbondante ogni anno.
È quel che accadrebbe applicando le penalità previste dal disegno di legge del duo Baretta-Damiano, che il governo sta seriamente prendendo in considerazione per favorire la «staffetta generazionale».
Ossia consentire l’uscita anticipata ai lavoratori più anziani e costosi per fare largo ai giovani.
Gli effetti li ha calcolati per La Stampa il Centro studi della Uil – politiche fiscali e previdenziali, applicando la sforbiciata del 2% l’anno prevista dal testo depositato alla Camera, che lascia libertà di andare a riposo già a 62 anni, anzichè a 66 come da normativa vigente, ma con almeno 35 anni di contributi versati.
La proposta prevede anche la possibilità di ritardare fino a 70 anni il pensionamento, in questo caso con un bonus sempre del 2% l’anno.
Ma il governo non sembra intenzionato a mettere in pratica questa opzione, contraria alla politica del «largo ai giovani».
Taglio del 3% l’anno
In verità anche il “malus”, per ammissione dello stesso sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, potrebbe subire un ritocco all’insù, al 3% l’anno, per attenuare il costo dell’operazione.
E tra le opzioni c’è anche quella buttata lì dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di calcolare tutto con il contributivo il trattamento di chi va anticipatamente in quiescenza. Una possibilità che equivarrebbe a un taglio del 30%.
Lo stesso previsto dall’opzione donne della legge Fornero, che fino ad oggi ha riscosso scarso successo tra le lavoratrici.
«La Uil è sempre stata favorevole al principio della flessibilità », ci tiene a ricordare il segretario confederale Domenico Proietti. Che però aggiunge: «Non ci devono essere penalizzazioni aggiuntive a quella già implicita del calcolo con il contributivo».
Cerchiamo però di capire cosa accadrebbe a chi decidesse da qui a 15 anni di andare in pensione anticipatamente con i tagli ipotizzati dall’unica proposta già nero su bianco.
Con uno stipendio di 30 mila euro lordi chi andrà in pensione nel 2020, percepirebbe un assegno mensile di 1.660 euro.
Anticipando di 4 anni l’addio al lavoro l’incasso mensile scenderebbe a 1.527 euro, con una perdita di 133 euro. Nell’arco dell’anno una mensilità in meno.
Se poi il taglio si inasprisse al 3% l’anno, l’assegno si ridurrebbe di ben 199 euro, scendendo a 1.328 euro.
Il nodo dei cinquantenn
Mettiamo invece il caso di un lavoratore cinquantenne che in pensione ci andrà nel 2030, con la pensione calcolata integralmente con il meno vantaggioso sistema contributivo. Il taglio in termini percentuali sarà sempre lo stesso, ma si rivelerà meno sostenibile perchè applicato su un trattamento più basso.
Con il solito reddito di 30 mila euro l’assegno mensile a normativa vigente in questo caso scenderebbe a 1.328 euro, ai quali ne andrebbero detratti 106 con il taglio dell’8% previsto dalla «Baretta-Damiano» per chi anticipa di 4 anni l’addio al lavoro.
L’assegno si ridurrebbe così a 1.222 euro, addirittura a 1.169 con il più probabile taglio del 3% annuo al quale sta pensando l’esecutivo.
Insomma, per far quadrare i conti si rischia di rendere poco appetibile l’opzione dell’uscita anticipata.
E proprio ieri la Cgia di Mestre ha diffuso numeri che parlano di una spesa previdenziale italiana da record europeo, pari al 16,8% del Pil e quattro volte superiore a quella per la scuola.
Cifre che in realtà ricomprendono anche la voce assistenza, anche se dal 2001 al 2011 la spesa per le pensioni vere e proprie è lievitata di quasi 50 miliardi. E questa volta i numeri sono della Ragioneria.
Paolo Russo
(da “il Secolo XIX”)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA “GENERAZIONE MILLENIAS”: I GIOVANI PRECARI DIVENTERANNO GLI ANZIANI POVERI DI DOMANI
La «bomba» è destinata ad esplodere attorno al 2050. 
Ma questa volta non sarà tanto un problema di tenuta dei conti, visto che più o meno la spesa previdenziale resterà stabile attorno al 16% del Pil nonostante l’invecchiamento della popolazione.
Sarà una bomba sociale, che avrà come protagonista l’attuale «generazione mille euro», che quando andrà in pensione percepirà una pensione che sarà molto più bassa del salario già misero che percepisce oggi.
Nei casi più estremi, infatti, non arriveranno a 400 euro netti al mese
Millenials nei guai
Il Censis stima che il 65% dei giovani (25-34 anni) occupati dipendenti di oggi, ovvero due su tre, avrà una pensione sotto i mille euro, pur con avanzamenti di carriera medi assimilabili a quelli delle generazioni che li hanno preceduti, considerando l’abbassamento dei tassi di sostituzione.
E la previsione riguarda i più «fortunati», cioè i 3,4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro, con contratti standard.
Poi ci sono altri 890 mila giovani autonomi o con contratti di collaborazione e quasi 2,3 milioni di Neet, ragazzi che non studiano nè lavorano, che avranno ancora meno.
«Se continua così, i giovani precari di oggi diventeranno gli anziani poveri di domani» segnala nelle scorse settimane il Censis. Dunque, se in prospettiva un problema di previdenza si pone, riguarda innanzitutto quella «solidarietà tra generazioni», evocata tra l’altro giusto ieri Matteo Renzi.
L’effetto contributivo
Il regime contributivo puro, che dalla riforma Fornero in poi si applica a tutti, secondo il Censis «cozza con la reale condizione dei millennials». E non a caso il 53% di loro pensa che la loro pensione arriverà al massimo al 50% del reddito da lavoro.
La loro pensione dipenderà dalla capacità che avranno di versare contributi presto e con continuità .
Ma il 61% di loro ha avuto finora una contribuzione pensionistica intermittente, perchè sono rimasti spesso senza lavoro o perchè hanno lavorato in nero.
Per avere pensioni migliori, con la previdenza integrativa che stenta a decollare, l’unica soluzione è lavorare fino ad età avanzata.
Ma non è detto che il mercato del lavoro degli anni a venire lo consenta: per ora i dati sull’occupazione ci dicono che il percorso è tutto in salita, visto che tra il 2004 ed il 2014 l’occupazione degli under 34 è scesa del 10,7% bruciando 1,8 milioni di posti.
Genitori e fratelli maggiori della «generazione mille euro», comunque, non se la caveranno tanto meglio.
Secondo calcoli recenti della Ragioneria dello Stato anche chi andrà in pensione dal 2020 in poi avrà una pensione decisamente ridotta rispetto a quanti hanno lasciato il lavoro nel decennio precedente. In molti casi il loro assegno non supererà il 60% dell’ultimo stipendio. percentuale che scende addirittura sotto al 50% per gli autonomi.
L’equità possibile
Come rimediare? L’idea che Tito Boeri ha lanciato su lavoce.info a gennaio, prima insomma di prendere la guida dell’Inps, è quella di introdurre un contributo di solidarietà a carico di quel milione e 800 mila pensionati che oggi percepisce un assegno che supera i 2000 euro netti tenendo conto dello scostamento fra pensione effettiva e contributi versati.
Il taglio dei trattamenti, attraverso una serie di aliquote progressive,, sarebbe compreso tra il 3 ed il 7% e frutterebbe circa 4,2 miliardi.
Che secondo un esperto di previdenza come Alberto Brambilla potrebbe venire destinati ad una maggiore defiscalizzazione della previdenza complementare dei lavoratori più giovani. In maniera tale, come auspica anche Boeri, si avvicinare un poco padri. e figli.
Paolo Baroni
(da “La Stampa”)
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