Novembre 3rd, 2017 Riccardo Fucile
DAI MACCHINISTI DEI TRENI AI MINATORI, DAGLI OPERATORI ECOLOGICI AGLI INSEGNANTI DI ASILI E MATERNE
Alcuni lavoratori potranno essere esentati dalle rigide maglie della legge Fornero. 
Ci sono i “minatori”, i macchinisti dei treni, oppure gli insegnanti di materne e asili. Le categorie che potrebbero rientrare tra le esclusioni dell’incremento dell’età per poter accedere alla pensione sono diverse e in queste ore si sta cercando di definire questa platea che non dovrebbe superare le 15mila unità .
Queste tipologie di lavoratori già oggi beneficiano della possibilità di aderire all’Ape Social e sono gli stessi che avrebbero presentato nelle ultime settimane la richiesta di adesione all’uscita anticipata.
Lo schema con tutte le categorie incluse e finalmente definite, sarà inserito nella legge di Bilancio entro metà novembre.
Nel dettaglio, sarebbero inclusi in questa lista persone che normalmente sono inseriti in turni di lavoro pesanti o a rotazione: come gli operai edili addetti alle gru, scavatrici o manutentori di edifici.
Ci sono pure i macchinisti e parte dei ferrovieri, i conciatori, camionisti, lavoratori impegnati in turni di facchinaggio, gli infermieri (non tutti), operatori ecologici, insegnanti delle materne e degli asili, badanti che assistono persone non autosufficienti. Per tutti loro potrebbero saltare le griglie imposte dalla Fornero riuscendo a anticipare il giorno della pensione anche di 5 anni rispetto ai 67 anni (e oltre) imposti alle norme.
(da agenzie)
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Ottobre 24th, 2017 Riccardo Fucile
GOVERNO VERSO DECRETO SU AUMENTO DELL’ETA’ DI USCITA… ETA’ PENSIONABILE DESTINATA A SALIRE A 67 ANNI NEL 2019
Non ci sono più appigli per rinviare l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni dal 2019. 
I nuovi dati Istat sulla speranza di vita degli italiani, infatti, attestano che per i neonati è salita a 82,8 anni (4 mesi in più rispetto al 2015) e per i 65enni arriva a 20,7 anni, allungandosi di cinque mesi rispetto a quella registrata nel 2013.
Quindi sulla base delle regole attuali l’età per la pensione di vecchiaia dovrebbe arrivare appunto dagli attuali 66,7 anni a 67 anni nel 2019: spetta ora al ministro del Lavoro Giuliano Poletti emanare il decreto ministeriale per l’adeguamento automatico previsto dalla manovra estiva del luglio 2010, governo Berlusconi.
La speranza di vita alla nascita — scrive l’Istat — risulta come di consueto più elevata per le donne, 85 anni, ma il vantaggio nei confronti degli uomini (80,6 anni) si limita a 4,5 anni di vita in più. A 65 anni la prospettiva di vita ulteriore presenta una differenza meno marcata tra uomini e donne (rispettivamente 19,1 e 22,3 anni) rispetto a quella che si registra alla nascita.
Il 2016 è stato l’anno più favorevole tra gli ultimi quattro sotto il profilo della sopravvivenza. Il tasso standardizzato di mortalità è pari all’8,2 per mille, inferiore anche a quello riscontrato nel favorevole 2014 (8,4 per mille).
Il picco di mortalità del 2015, anno in cui si rileva un tasso standardizzato dell’8,8 per mille risulta riassorbito. L’istituto di statistica precisa che nel 2016 tassi standardizzati di mortalità più alti si riscontrano nel Mezzogiorno: 8,8 per mille complessivo, 9,6 per mille in Campania, 9 per mille in Sicilia. I più longevi in Italia sono gli abitanti del Trentino Alto-Adige. Sono 2,7 gli anni che separano le donne residenti in Trentino-Alto Adige, le più longeve nel 2016 con 86,1 anni di vita media, dalle residenti in Campania che con 83,4 anni risultano in fondo alla graduatoria.
Rispetto a 40 anni fa la probabilità di morire nel primo anno di vita si è abbattuta di oltre sette volte, mentre quella di morire a 65 anni di età si è più che dimezzata.
Un neonato del 1976 aveva una probabilità del 90% di essere ancora in vita all’età di 50 anni, se maschio, e a quella di 59 anni, se femmina. Quaranta anni più tardi, un neonato del 2016 può confidare di sopravvivere con un 90% di possibilità fino all’età di 64 anni, se maschio, e fino a quella di 70, se femmina. L’aumento della speranza di vita nel 2016 rispetto al 2015 si deve principalmente alla positiva congiuntura della mortalità alle età successive ai 60 anni. Il solo abbassamento dei rischi di morte tra gli 80 e gli 89 anni di vita spiega il 37% del guadagno di sopravvivenza maschile e il 44% di quello femminile.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 17th, 2017 Riccardo Fucile
L’ISTAT STA ANCORA FACENDO I CONTI SULLA SPERANZA DI VITA DEL 2016
Il governo Gentiloni ha annunciato ieri di non voler toccare l’aumento dell’età della
pensione a 67 anni e quindi quando l’ISTAT, entro l’anno, comunicherà l’aggiornamento dell’aspettativa di vita l’adeguamento per le pensioni di vecchiaia diventerà automatico. Dai 66 anni e 7 mesi di oggi, in base alle specifiche della riforma Fornero, si dovrebbe arrivare a 67 anni.
I primi a subire l’effetto dell’adeguamento saranno gli esponenti della classe 1952, ovvero 60mila persone e per due terzi donne come spiega oggi Repubblica.
Dovranno lavorare cinque mesi in più? Non è detto.
L’Istat sta facendo ancora i calcoli.
Alla fine sottrarrà la speranza di vita del 2016 — ancora ignota — a quella del 2013, come vuole la legge.
E non sappiamo se questa differenza sia proprio cinque mesi. Potrebbe essere quattro o sei. O anche zero e allora il periodo residuo da vivere per un 65enne potrebbe rimanere pari a 20 anni e 3,6 mesi, proprio come nel 2013.
A quel punto anche l’età per la pensione di vecchiaia resterebbe inchiodata a 66 anni e 7 mesi, come oggi.
Se così fosse, la discussione si sposterebbe di due anni.
L’adeguamento all’aspettativa di vita, sin qui triennale, dopo il 2019 diventa biennale (lo dispone la legge Fornero).
Nel 2021 l’Istat quindi deve ricalcolare il dato. E se questo rimane ancora sotto i 67 anni, allora scatta la clausola di salvaguardia messa nella legge Fornero, all’epoca voluta da Bruxelles: si sale a 67 anni comunque dal 2021 in poi. Volente o nolente lì si finisce.
La normativa d’altro canto guarda alla stabilità dei conti:
Derogare all’automatismo del 2019, quale che sia l’entità dei mesi da aggiungere, significa affossare da subito — già nel primo anno, nel 2020 — i conti pubblici di oltre 3 miliardi, come mostra la simulazione della Ragioneria dello Stato.
D’altro canto le bombe pronte ad esplodere sono due.
Da una parte, quella demografica. Nel giro di un secolo — come mostrano le elaborazioni di Progetica su dati Istat — la piramide della popolazione italiana tende a rovesciarsi. Nel 1957 c’erano più giovani e giovanissimi che vecchi e centenari.
Nel 2057 si tenderà quasi all’inverso.
Anche per questo la gobba previdenziale — la seconda bomba — mostrata dalla Ragioneria nel suo studio è inequivocabile: attorno al 2045 la spesa previdenziale si impenna, raggiunge un picco pari al 17% del Pil, per poi scemare.
E questo grazie ai baby boomers, i nati tra 1958 e 1964: vanno in pensione nel 2030, quando la curva inizia a impennarsi, e ci restano fino al 2045.
Intaccare il meccanismo dell’adeguamento automatico alla speranza di vita prima del 2045 significa far esplodere i conti.
(da “NextQuotidiano“)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
LE DIFFERENZE TRA RETRIBUTIVO E CONTRIBUTIVO E LE CATEGORIE PIU’ FORTUNATE
Due infografiche a corredo di un articolo di Marco Ruffolo su Repubblica oggi ci aiutano a comprendere a che punto sono i due sistemi, retributivo e contributivo, nell’erogazione dei ritiri: tra il 2000 e il 2010 ben tre milioni di lavoratori hanno potuto lasciare all’età di 58 anni con una pensione media di quasi 2 mila euro lordi al mese.
I due terzi hanno una pensione superiore a 1.500 euro. Prendiamo allora uno di questi pensionati-tipo: uno dei primi baby-boomers figli del dopoguerra, classe 1951, assunto ventenne da un’impresa privata, in pensione nel 2009 a 58 anni dopo 38 di lavoro.
Oggi riceve un assegno di 2.120 euro lordi al mese. Quando nel 1996 Lamberto Dini introdusse il sistema contributivo, lui aveva già più di diciotto anni di lavoro alle spalle, e dunque resta immune dalla riforma: gli si continuerà ad applicare il vecchio calcolo retributivo per tutta la sua carriera.
Se la sua pensione fosse calcolata con il sistema contributivo, spiegano diversi studi di esperti previdenziali, dovrebbe prendere non 2.120 euro ma 1.520.
Seicento euro in meno, una differenza del 28%.
Ed è proprio questo il divario medio in Italia tra quanto riceve e quanto ha versato chi è andato in pensione anticipata con il retributivo.
E la forbice si allarga quando l’importo totale della pensione aumenta: “Chi è andato in pensione con 4.100 euro mensili non avendo neppure compiuto 60 anni, oggi riceve ogni mese 1.400 euro in più di quanto avrebbe se gli si applicasse il sistema contributivo, il 34% in più”.
(da “NexrQuotidiano”)
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Luglio 4th, 2017 Riccardo Fucile
SENZA I LAVORATORI DALL’ESTERO IN 22 ANNI QUESTO SAREBBE IL SALDO TRA ENTRATE E USCITE…”SERVE UN REDDITO MINIMO DI INCLUSIONE E UN SALARIO MINIMO”..ABUSO DELLE CIG: PER IL 20% DELLE IMPRESE DURA 5 ANNI
Propone di rinominare l’Inps come “Istituto Nazionale della protezione sociale”, dal momento che “solo” 150 delle 440 prestazioni erogate sono di tipo pensionistico.
E con un pizzico di orgoglio dichiara di essersi fatto tanti nemici e che la lista di chi chiede una chiusura anticipata del mandato “si è notevolmente allungata”.
Ma soprattutto nella “Relazione Annuale” presentata stamane a Montecitorio, il presidente dell’Inps Tito Boeri delinea le direttrici lungo le quali contributi, previdenza e assistenza devono muoversi nei prossimi anni, se si vuole evitare il tracollo.
A cominciare da un consistente impiego degli immigrati: chiudere loro le porte ci costerebbe la perdita secca di 38 miliardi per i prossimi 22 anni, una manovra aggiuntiva annuale.
E delle donne, anche: i costi per il loro mancato utilizzo nel mercato del lavoro sono anche più alti. Boeri chiede maggiore equità , insiste per il perfezionamento e la piena applicazione di riforme appena accennate, o rimaste a metà del guado: il ricongiungimento gratuito dei contributi, il reddito minimo d’inclusione, il salario minimo.
Bacchetta chi frena per motivi propri, come i sindacati, che non vogliono più il salario minimo per non perdere il loro cruciale ruolo contrattuale. Ricorda che il mismatch tra lavoratori e competenze utilizzate e la mancanza di formazione hanno dei costi, alla lunga, e l’Italia li sta pagando tutti.
E rivendica una gestione virtuosa dell’Inps: “Nel 2016 è costata 3.660 milioni contro i 4,531 del 2012, all’indomani dell’incorporazione di Inpdap ed Enpals”.
Le prestazioni: meno della metà sono pensioni.
L’Inps eroga 440 prestazioni, ma solo 150, ricorda il presidente Boeri, sono di natura pensionistica. Tra le ultime nate affidate all’Inps il Bonus mamma domani, l’Ape sociale e l’Ape volontaria. E tra qualche giorno l’Inps comincerà a gestire il nuovo contratto di prestazione occasionale, PRESTO. Da settembre inoltre l’Inps gestirà anche le visite fiscali nel pubblico impiego, e dal 2018 il nuovo Reddito di Inclusione.
Le forzature della Cig.
L’uso della Cassa integrazione si è da tempo snaturato. Infatti due terzi delle 350.000 imprese che nella lunga crisi 2008-2016 hanno utilizzato la cassa integrazione nelle sue varie articolazioni, ordinaria, straordinaria e in deroga, hanno avuto accesso allo strumento per più di un anno, e un quinto delle imprese addiritttura per cinque anni o più.
“Difficile pensare – osserva Boeri – che, in questi casi, si tratti di problemi temporanei, indubbio che siamo di fronte a un sussidio prolungato che riduce in modo continuativo il costo del lavoro di alcune imprese. Circa un beneficiario su quattro di cassa integrazione nel 2014 aveva ricevuto il trattamento per più di nove mesi. Tutto questo ci dice che utilizziamo per periodi molto lunghi strumenti concepiti per affrontare crisi temporanee”.
Ammortizzatori: la copertura è aumentata, ma servono più garanzie.
La copertura degli ammortizzatori sociali con le ultime riforme è aumentata, valuta l’Inps: “Noi stimiano che circa il 6% dei beneficiari Naspi nel biennio 2015-2016 non avrebbe avuto del tutto accesso ai sussidi di disoccupazione in assenza della riforma”. Ma la strada per una garanzia vera dei più deboli è ancora lunga, ricorda Boeri: “Manca ancora in Italia uno strumento universalistico per chi non ce la fa comunque a trovare lavoro al termine della durata massima dei sussidi di disoccupazione e, più in generale, per tutti coloro che finiscono in condizioni di indigenza”.
Piccole imprese crescono: le prime ricadute positive del Jobs Act.
Si proponeva di far crescere le imprese al di sopra dello sbarramento dei 15 dipendenti, e in parte il Jobs Act ci è già riuscito: l’Inps valuta che ci sia stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti, “passate dalle 8.000 al mese di fine 2014” alle “12.000 dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti”.
Il mismatch: un male tutto italiano. L’Ocse assegna all’Italia il “primato nella percentuale di lavoratori sbagliati al posto sbagliato”, osserva Boeri, cioè, in altre parole, nel livello di mismatch tra le competenze richieste dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori. Per superarlo, dice il presidente dell’Inps, bisogna migliorare la transizione tra scuola e lavoro e incentivare gli investimenti in formazione sul posto del lavoro”.
Ma anche la mobilità e il turnover rapido contribuiscono a ridurre il mismatch, che infatti è più limitato tra gli immigrati, che oltre a salvare i nostri conti pensionistici sono estremamente più mobili degli italiani e pertanto migliorano notevolmente le carriere nel corso della vita lavorativa, il salario migliora del 4% per esempio se si lavora in un Comune diverso da quello in cui si è nato.
Gli immigrati: ossigeno per il sistema previdenziale.
Chiudendo le frontiere agli immigrati “rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale”, ammonisce Boeri. I lavoratori che arrivano in Italia sono sempre più giovani, la quota degli under 25 è passata dal 27,5% del 1996 al 35% del 2015, e pertanto si tratta di 150.000 contribuenti in più l’anno, che bilanciano in parte il calo delle nascite.
Più donne al lavoro.
Però gli immigrati non bastano: bisogna varare e soprattutto applicare le politiche per far rimanere al lavoro le donne, anche quando diventano madri, sottolinea l’Inps. La nascita di un figlio per una madre con contratto a tempo determinato ha come conseguenza un calo del reddito potenziale del 35% per i primi due anni di vita del bambino. E le nuove misure per incentivare il ritorno delle madri al lavoro e il congedo di padre funzionano solo in parte, perchè solo in parte vengono applicate: due terzi dei neopadri non hanno preso il congedo nel 2015.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2017 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO DELL’UNIVERSITA’ LA SAPIENZA SU LAVORO E WELFARE
L’anticipo pensionistico, il Jobs act e il bonus da 80 euro sono stati e sono interventi insufficienti per
risalire la china e superare la crisi.
Peggiora la distribuzione del reddito, sono instabili i proventi che arrivano dal lavoro e anche le politiche di consolidamento fiscale, mentre la produttività risponde con una dinamica ridotta, accompagnata dall’invecchiamento demografico, dalla frammentazione anche territoriale dei sistemi produttivi e dalla finanziarizzazione dell’economia.
Che si è tradotta in processi di creazione di valore nuovi ma più insicuri, che poco hanno a che fare con le attività produttive.
Questo il quadro che emerge dal Rapporto sullo Stato sociale 2017 curato dall’università La Sapienza e presentato a Roma nel corso di un evento al quale ha partecipato anche la presidente della Camera, Laura Boldrini.
Nel dossier si analizza la natura della grande recessione iniziata nel 2007 e l’ipotesi che sia in atto una ‘stagnazione secolare’, ma anche il ruolo che può essere affidato all’intervento pubblico e al Welfare State per superare la crisi.
PENSIONI, JOBS ACT E BONUS DA 80 EURO: “MISURE POCO EFFICACI” L’Ape, l’anticipo pensionistico alla cosiddetta ‘fase due’, così come il bonus di 80 euro e il Jobs act, tutti interventi che avevano l’obiettivo di far recuperare competitività , vengono considerati nel rapporto “misure scarsamente efficaci per stimolare l’economia” e inadeguate a fronteggiare il problema strutturale del nostro sistema pensionistico.
In pratica si trasformano i lavoratori di oggi, che stanno sperimentando salari bassi e discontinui, in una “estesa schiera di pensionati poveri”.
Secondo il rapporto l’Ape “non altera la visione entro cui si è mossa la riforma Fornero e non ne risolve i problemi, se non in misura molto limitata”. L’unica novità interessante potrebbe arrivare solo dall’Ape social, che si avvale del contributo pubblico, mentre l’anticipo volontario ha dei costi.
“Un pensionato che avesse maturato un assegno mensile di mille euro netti e volesse anticipare il pensionamento fino al massimo di tre anni e sette mesi — si ricorda — potrebbe vederlo ridotto fino a 700 euro”.
IL MERCATO DEL LAVORO
Secondo il rapporto l’Italia “ha risentito particolarmente delle modalità controproducenti della costruzione europea e della grande recessione”. I loro effetti si sono sovrapposti e mescolati con le cause di un declino che va avanti da un quarto di secolo.
Il tutto mentre le differenze territoriali continuano ad aumentare. “Tra il 2008 e il 2014 — si legge nel rapporto — il valore aggiunto del settore manifatturiero è calato del 14% nelle regioni del Nord e del 33% in quelle del Sud; nelle prime i consumi delle famiglie sono diminuiti del 5,5% mentre nelle seconde del 13%”.
Nel Meridione, inoltre, il calo degli investimenti ha raggiunto il picco del 38% e nel settore manifatturiero è arrivato al 59,3%. Dall’inizio della crisi sono stati persi 576mila posti di lavoro, aggravando una situazione occupazionale già molto critica. “Nel nostro Paese — rileva il rapporto — la strategia di cercare la competitività nella riduzione del costo del lavoro e nella flessibilità del suo impiego, è stata attuata con diverse misure, tra cui la riforma Fornero del 2012 e il cosiddetto Jobs Act del 2015”.
L’effetto principale dell’azzeramento totale dei contributi sociali prevista per un triennio dal Jobs Act “a totale vantaggio dei datori di lavoro” non è stato quello immaginato di rilanciare la crescita e l’occupazione a tempo indeterminato, “ma di modificare i tempi e le modalità provvisorie delle assunzioni che le imprese avrebbero in gran parte comunque fatto”.
Prova ne è il forte calo di nuovi occupati a tempo indeterminato successivo alla riduzione dello sgravio contributivo.
Un dato che fa anche capire come “tagli di pochi punti del cuneo fiscale (come i 4-5 che il governo attuale vorrebbe ridurre stabilmente) siano del tutto inadeguati a stimolare assunzioni nel contesto irrisolto dell’attuale grande depressione”.
Le analisi della nuova occupazione creata (momentaneamente) dalle misure di riduzione del costo del lavoro introdotte dal Jobs Act mostrano, secondo il rapporto, che oltre ad essere “caratterizzata da bassi livelli di specializzazione” è anche diffusa in settori a scarsa intensità tecnologica ed è costituita prevalentemente da lavoratori di età superiore ai 55 anni. “Nell’insieme — spiega il rapporto — questi risultati accentuano anzichè attenuare le carenze strutturali del nostro sistema economico-sociale”.
LA DIMENSIONE EUROPEA
Quest’anno nel rapporto è dedicata attenzione particolare alla dimensione europea. Secondo il rapporto l’inferiorità , tra l’altro persistente, delle performance economiche che si registrano in media nei Paesi dell’Unione rispetto alle grandi aree economiche sono da attribuire a diverse cause.
Tra queste “le politiche di bilancio restrittive e particolarmente vincolanti per le economie nazionali già più deboli e la carenza di politiche industriali tese all’ammodernamento delle strutture produttive e a ridurre le disomogeneità geografiche esistenti”, ma anche “il contenimento delle risorse rese disponibili a fini sociali, specialmente per le regioni più bisognose”.
La ricetta economica indicata dagli organismi comunitari e seguita nei singoli Paesi è stata la flessibilizzazione del mercato del lavoro, con la diffusione di contratti temporanei e a tempo parziale e la riduzione dei vincoli al licenziamento.
Secondo il rapporto “si tratta di una strategia competitiva miope, opposta a quella fondata sull’innovazione e lo sviluppo qualitativo dei sistemi produttivi. Una dinamica che ha penalizzato maggiormente le economie già in ritardo, allargando ulteriormente le differenze territoriali”. Ma non solo.
Dall’inizio della crisi, ci sono forti segnali d’indebolimento della globalizzazione. “Si riduce la propensione e anche la disponibilità al coordinamento economico, sociale e internazionale — spiega il dossier- e si prospetta un ritorno a politiche protezionistiche”.
A cosa si va incontro? “A un approccio alla crisi di tipo regressivo: il rischio è che ai gravi problemi economici e sociali generati dai processi di globalizzazione privi di governance seguano quelli, dagli esiti imprevedibili e minacciosi, del rafforzamento delle frontiere, trasformate in muraglie ostili e del ritorno ai già sperimentati pericoli dei nazionalismi”.
Una prospettiva di cui già ci sono i primi segnali.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
IL NO DELLA CGIL ALLA PROPOSTA DI ANDARE IN PENSIONE PRIMA E GRATIS CON 35 ANNI DI CONTRIBUTI
Si alza in extremis lo sbarramento per accedere all’accedere all’Ape agevolata: bisognerà avere almeno
30 anni di contributi se disoccupati e 35 se si è lavoratori attivi.
Lo ha riferito il segretario confederale Uil Domenico Proietti spiegando che su questi livelli minimi il sindacato sta ancora discutendo per cercare di abbassarli.
Una scelta che però non piace alla Cgil, che si aspettava requisiti di accesso molto più bassi. “30 anni per ape social? Il governo Renzi si rimangia la parola data (erano 20 anni di contributi). Sono inaffidabili”, ha detto il portavoce della segretaria della Cgil Susanna Camusso, Massimo Gibelli.
Secondo quanto riferito dal sindacato, potranno accedere all’Ape agevolata, la cui partenza è prevista l’1 maggio 2017 i disoccupati, disabili e alcune categorie di lavoratori impegnati in attività faticose purchè abbiano un reddito inferiore ai 1.350 euro lordi.
Per queste categorie il costo dell’anticipo pensionistico, attraverso un reddito ponte, sarà a carico dello stato. L’Ape partirà dal 1 maggio 2017.
Tra le categorie inserite nella platea dell’Ape agevolata, oltre ai disoccupati, i disabili e i parenti dei disabili, anche alcune categorie di attività faticose come le maestre, gli operai edili e alcune categorie di infermieri.
Tra i beneficiari anche i macchinisti e gli autisti di mezzi pesanti. Il governo quindi, secondo quanto spiega il sindacalista, scriverà ulteriori categorie oltre quelle previste già dalla normativa sui lavori usuranti.
Le risorse che saranno stanziate per il pacchetto pensioni ammonteranno a circa 1,5-1,6 miliardi per il 2017. Complessivamente saranno sei miliardi in tre anni.
In linea con le anticipazioni degli scorsi giorni, il governo ha riferito che la rata di restituzione del prestito in caso di anticipo pensionistico su base volontaria sarà pari a circa 4,5-4,6% per ogni anno di anticipo sulla pensione.
Proietti ha spiegato che il governo stanzierà delle risorse per questa misura, dato che il 4,5% annuo non copre il costo degli interessi dell’assicurazione e di una parte del capitale del prestito pensionistico, che sarà restituito in 20 anni una volta che il lavoratore sarà andato in pensione.
Al di fuori dei confini dell’Ape, potranno andare in pensione anticipata con 41 anni di contributi i lavoratori precoci, ovvero quelli che hanno 12 mesi di contributi versati prima dei 19 anni se disoccupati o se parte delle categorie previste per l’Ape social (lavoratori edili, maestre d’infanzia, alcune categorie di infermieri, etc).
Proietti ha spiegato che è “importante che sia passato il principio che con 41 anni di contributi si possa andare in pensione”.
In pratica i lavoratori precoci possono andare quindi in pensione con 41 anni di contributi, prima di aver raggiunto i 63 anni di età , limite previsto per l’accesso all’Ape agevolata. Il governo – ha aggiunto Proietti – ha anche confermato l’intenzione di togliere la penalizzazione (che sarebbe dovuta tornare nel 2019) per chi va in pensione prima dei 62 anni.
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 2nd, 2016 Riccardo Fucile
AUMENTO DEL 30% PER CHI GIA’ LO INCASSA, BONUS ESTESO A 1,2 MILIONI DI PERSONE ALZANDO IL REDDITO MASSIMO DA 750 A 1.000 EURO… NESSUN INTERVENTO SULLE MINIME
Salirà da 504 a 655 euro l’importo massimo della quattordicesima, l’assegno in più che viene incassato a luglio dai pensionati a basso reddito.
Lo dicono le simulazioni esaminate al tavolo fra governo e sindacati mercoledì scorso, prima della firma del verbale con tutte le misure sulla previdenza che dovrebbero entrare nella legge di Bilancio.
Le simulazioni
La quattordicesima pesante e allargata è stata una delle prime misure a entrare nel cantiere della riforma.
Poi, quando tutto sembrava fatto, ha rischiato di uscire per scelta «politica», perchè il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva chiesto di studiare una strada diversa.
Dopo ancora c’è stato chi ha fatto un po’ di confusione sulle platee, cioè sul numero delle persone coinvolte. Ma i dettagli contenuti nelle simulazioni confermano l’impianto di cui si era parlato alla vigilia dell’accordo.
E allora vale la pena di fare il punto, anche se tutto dovrà essere definito nella legge di Bilancio che prima il governo dovrà presentare entro metà ottobre e poi il Parlamento dovrà approvare prima della fine dell’anno. Fino a quel momento le modifiche sono sempre possibili.
Sono due gli interventi previsti.
L’aumento del 30%
Il primo è l’aumento della quattordicesima per quei 2,1 milioni di persone che già oggi la prendono. L’importo resterà sempre legato al reddito e al numero di anni di contributi versati e quindi di lavoro. L’incremento sarà del 30%. Sia per l’assegno più alto, incassato da chi ha oltre 25 anni di contributi, che passa appunto da 504 a 655 euro. Sia per quello più basso, che si ottiene con meno di 15 anni di contributi, che passa da 336 a 437 euro. Confermato che non ci sarà il raddoppio dell’assegno di cui aveva parlato pochi giorni fa in televisione Matteo Renzi.
L’estensione a 1,2 milioni di pensionati
Il secondo intervento è l’estensione della quattordicesima a un milione e 200 mila persone che oggi non la prendono.
Il limite massimo di reddito per avere diritto al bonus salirà dai 750 euro lordi al mese di adesso fino a 1000 euro lordi al mese.
Per queste persone ci sarà la vecchia quattordicesima, quella senza aumento visto che hanno un reddito più alto: 336 euro con meno di 15 anni di contributi; 504 quando i contributi sono stati versati per più di 25 anni.
Il nuovo tetto di mille euro al mese vale anche per chi ha due pensioni: se, sommando i due assegni, si supera quota mille non si ha diritto alla quattordicesima.
Non sono previsti interventi diretti sulle pensioni minime, gli assegni da 500 euro al mese che vanno anche a chi non ha lavorato o comunque non ha versato contributi. L’ipotesi era stata presa in considerazione ma poi è stata scartata.
Il nodo dell’equità
In realtà ancora adesso c’è chi sostiene che sarebbe questa la misura da scegliere, perchè questi assegni sono ancora più bassi mentre spesso la quattordicesima va a chi ha sì una pensione bassa ma potrebbe avere anche altre forme di reddito.
Una posizione sostenuta anche dal presidente dell’Inps Tito Boeri, che aveva proposto di aumentare le minime utilizzando il filtro dell’Isee, che pesa reddito e patrimonio non del singolo ma dell’intero nucleo familiare.
Obiezioni alle quali risponde Maurizio Petriccioli, segretario confederale della Cisl: «Quello sulla quattordicesima è un intervento equo proprio perchè tiene conto sia dell’ammontare della pensione sia degli anni di contributi. Sono persone che prendono poco anche se hanno lavorato. Un aiuto lo meritano».
(da “il Corriere della Sera”)
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Settembre 28th, 2016 Riccardo Fucile
STANZIATI 6 MILIARDI IN TRE ANNI… E’ LA PRIMA OPERAZIONE DEL GOVERNO A FAVORE DELLE FASCE PIU’ DEBOLI
Dal patto della lavagna al verbale dell’accordo con i sindacati. Il Governo mette nero su bianco l’impegno assunto dal premier Matteo Renzi a ‘Quinta colonna’: 40 euro al mese (circa 500 euro all’anno) per 1,2 milioni di pensionati in più rispetto agli attuali 2,1 milioni.
Il totale della platea dei beneficiari sale così a 3,3 milioni di persone.
Nel verbale di accordo sugli interventi relativi alle pensioni, firmato dal Governo e da sindacati, arriva anche l’aumento dell’importo della quattordicesima per gli attuali beneficiari anche se non è stata inserita una cifra ufficiale.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini, che ha guidato la trattativa con Cgil, Cisl e Uil insieme al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha affermato che l’aumento della quattordicesima del 30% per chi già la riceve è “plausibile”.
Al punto 2 dell’accordo, come riportato nel testo di cui l’Huffington Post è in possesso, si legge:
“Si prevede un intervento sulla somma aggiuntiva (la cosiddetta “quattordicesima mensilità ”) teso sia ad aumentare gli importi corrisposti, sia ad estendere la platea dei beneficiari di circa 1,2 milioni di pensionati. Ciò sarà realizzato sia attraverso un aumento dell’importo per gli attuali beneficiari (circa 2,1 milioni di pensionati con redditi fino a 1,5 volte il trattamento minimo annuo INPS), sia attraverso l’erogazione della quattordicesima anche ai pensionati con redditi fino a 2 volte il trattamento annuo minimo INPS (circa 1.000 euro mensili nel 2016) nella misura prevista oggi”.
L’intero cantiere sulle pensioni potrà contare su sei miliardi in tre anni.
A riferirlo è stato Poletti, che ha spiegato che la distribuzione delle risorse seguirà “una dinamica crescente”.
Positivo il giudizio del segretario generale della Federazione nazionale pensionati della Cisl, Gigi Bonfanti, che parla di “un’intesa importante che ridà ai nostri pensionati la dignità che per troppo tempo è stata loro negata”.
“Dopo anni nei quali ci siamo battuti per affermare i diritti dei pensionati senza ricevere ascolto da parte del governo, assistiamo finalmente ad una presa di posizione con la quale i nostri pensionati ricevono qualcosa senza dare nulla in cambio, aggiunge.
La numero uno della Cgil, Susanna Camusso, sottolinea che “si è fatto un buon lavoro, ma non è ancora concluso”.
Critico il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo: “I sei miliardi stanziati – ha sottolineato – non sono sufficienti e non dimentichiamo gli esodati e il resto della piattaforma”.
(da “Huffingtonpost”)
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