Gennaio 23rd, 2021 Riccardo Fucile
I SISTEMI SANITARI PIU’ SANI: EMILIA-ROMAGNA, VENETO, UMBRIA
Oltre 1,6 milioni di famiglie italiane hanno rinunciato a curarsi per motivi economici. È quanto comunica l’Istituto Demoskopika, gruppo italiano per le ricerche di opinione e di mercato.
Nel 2019 sono stati 314mila i “viaggi della speranza” dal Sud che hanno generato bilanci in rosso per oltre 1,2 miliardi di euro. Il record spetta a Calabria e Sicilia. I sistemi sanitari più “in salute” del paese sono invece quelli di Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige.
Questi dati emergono dall’IPS 2020, l’Indice di Performance Sanitaria realizzato, per il quarto anno consecutivo, dall’Istituto Demoskopika sulla base di otto indicatori: soddisfazione sui servizi sanitari, mobilità attiva, mobilità passiva, risultato d’esercizio, disagio economico delle famiglie, spese legali per liti da contenzioso e da sentenze sfavorevoli, democrazia sanitaria e speranza di vita (qui il rapporto completo)
La classifica di “IPS 2020”
La gara per le posizioni migliori quali sistemi sanitari più “sani” d’Italia si gioca anche quest’anno, come per le tre edizioni precedenti, interamente nel Centro-nord.
A guidare la classifica dell’Indice di performance sanitaria dell’Istituto Demoskopika per il 2020, in particolare, l’Emilia-Romagna che, con un punteggio pari a 107,7 conquista la vetta spodestando il Trentino-Alto Adige (107,6 punti).
Segue il Veneto (105,6 punti) che mantiene la stessa posizione del 2019 nel medagliere dei sistemi più performanti del paese. Subito dopo, tra i migliori sistemi sanitari locali, Umbria (105,5 punti), Lombardia (104,9 punti) e Marche (104,8 punti).
Altri 9 sistemi sanitari rientrano nella categoria delle regioni “influenzate”: Toscana (104,2 punti), Friuli-Venezia Giulia (104,0 punti), Lazio (103,7 punti), Piemonte (102,8 punti), Valle d’Aosta (100,8), Liguria (100,0), Sardegna (99,4), Abruzzo (98,1 punti) e, infine, Basilicata (97,9 punti).
Tutte del Sud, infine, le rimanenti regioni che contraddistinguono i sistemi etichettati come “malati” nella classifica di Demoskopika: Puglia (97,4 punti), Molise (97,1 punti), Sicilia (93,0 punti), Calabria (90,9 punti) e, fanalino di coda, il sistema sanitario della Campania con 88,6 punti.
“Regioni e Governo approfittino delle ingenti risorse finanziarie del dispositivo Next Generation EU della maggiore flessibilità della programmazione 2021-2027 per ridurre il disequilibrio dell’offerta sanitaria italiana”, è l’invito del presidente di Demoskopika, Raffaele Rio.
Il disagio economico
Nel 2019 oltre 1,6 milioni di famiglie italiane hanno dichiarato di non avere i soldi, in alcuni periodi dell’anno, per poter affrontare le spese necessarie per curarsi con un incremento dell’area del disagio pari al 2,3 per cento (oltre 36mila nuclei familiari in più) rispetto all’anno precedente.
A consolidare le prime posizioni del ranking di Demoskopika tutte le realtà del Mezzogiorno con oltre 923mila famiglie in condizioni di disagio a causa della mancata disponibilità economica per fronteggiare la cura di malattie, pari al 56,9 per cento del valore complessivo italiano.
A denunciare il fenomeno sono soprattutto le famiglie in Sicilia, con una quota del 13,5 per cento, quantificabile in oltre 271 mila nuclei familiari. Seguono la Calabria con una quota del 12,1 per cento pari a 98 mila famiglie, la Puglia (11,3 per cento, pari a 182mila nuclei familiari) e la Campania (11,2 per cento, 245mila famiglie.
All’estremo opposto della classifica ci sono Emilia-Romagna (1,9 per cento), Trentino-Alto Adige (2,2 per cento) e Friuli-Venezia Giulia (2,4 per cento), che ottengono il ranking migliore in questa graduatoria parziale dell’Indice di Performance Sanitaria di Demoskopika, con una quota media percentuale, per queste realtà , di poco più del 2 per cento di nuclei familiari in condizioni di disagio economico che ha coinvolto complessivamente oltre 61 mila nuclei familiari.
(da agenzie)
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Novembre 28th, 2020 Riccardo Fucile
IN POCHI ANNI I TAGLI HANNO PORTATO A CIRCA 30.000 DIPENDENTI IN MENO
L’emergenza sanitaria ha fatto esplodere alcune carenze strutturali del SSN come l’inadeguatezza della medicina territoriale (che è stata bypassata, sia pure con differenze, in ambedue le fasi) e, per tanti motivi, la carenza di personale specializzato.
Gli allarmi erano stati lanciati da tempo e in molte sedi, istituzionali e non.
La Corte dei Conti non ha esitato a certificare che “la riorganizzazione della rete di assistenza e l’uso complessivamente più appropriato delle strutture ospedaliere non sempre sono stati accompagnati in questi anni da un’adeguata offerta dell’assistenza territoriale rivolta alla parte “più debole” della popolazione, cioè anziani e disabili”.
Sempre la magistratura contabile ha sottolineato che negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Ssn è fortemente diminuito (anche se in rapporto alla popolazione il numero dei medici è in linea con quello dei principali Paesi europei).
Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008).
Tra il 2012 e il 2017 (anno per il quale è disponibile un maggior dettaglio di dati) il personale (sanitario, tecnico, professionale e amministrativo) dipendente a tempo indeterminato in servizio presso le struttura sanitarie pubbliche è passato da 653 mila a 626 mila con una flessione di poco meno di 27 mila unità (-4 %).
Nello stesso periodo il ricorso a personale flessibile (a termine, interinale) in crescita di 11.500 unità ha compensato il calo solo in parte.
Ma la vera preoccupazione — in un sistema Paese che vive alla giornata ed è incapace di programmare — riguarda il futuro prossimo (per di più dopo il flagello imprevisto della pandemia).
Un’organizzazione sindacale del dirigenti medici e dei medici ospedalieri del Ssn (l’ANAAO-ASSOMED) ha monitorato, ogni anno, a partire dal 2010, il personale sanitario in rapporto ai trend del turn over.
Per dare un’idea della dimensione dei problemi prendiamo lo studio aggiornato nel 2016. “I medici nati tra il ’51 e il ’60, operanti nel SSN, hanno già maturato o matureranno — era scritto nel focus – i criteri pensionistici pre o post “Fornero” nell’arco dei prossimi 10 anni (2016à·2025) e costituiranno un numero di cessazioni stimabili in circa 47.284 unità (fasce d’età 55-59 e 60-64 anni), di cui circa 19.157 nel primo quinquennio (2016 à· 2020) e circa 28.127 nel secondo quinquennio (2021à·2025), con una media annuale di circa 4.720 unità . Stiamo parlando di fasce di età — proseguiva il focus – per le quali il riscatto previdenziale degli anni di università era facilitato da un versamento economico mensile sostenibile; inoltre l’assunzione avveniva precocemente dopo il conseguimento della Laurea in Medicina e Chirurgia, dato che non vi era l’obbligo, come attualmente, di possedere il titolo di specializzazione per essere assunti nel SSN. Nel quinquennio 2026à·2030 i cessati erano previsti in circa 18.471 unità , con una media annuale in lieve contrazione di circa 3.690 unità (-22% rispetto al decennio 2016-2025). Solamente nel decennio 2031-2040 si registrerà una contrazione importante del numero di cessazioni annuali, sostenute dalle fasce d’età 40-44 anni e 45-49 anni con media annuale di circa 2.311 unità (- 51% rispetto al decennio 2016à·2025), ritornando al livello in essere prima della riforma “Fornero”.
Lo studio ANAAO-ASSOMED è stato aggiornato nel settembre scorso, in relazione all’inaspettata pandemia da Sars-CoV-2 che ha colpito l’Italia dal febbraio 2020. Si stima che, nel quinquennio 2019-2023 vi siano 32.501 pensionamenti, a fronte di soli 22.328 nuovi specialisti che opteranno per il SSN (il 66% del totale annuale secondo l’ANAAO), con un ammanco di 10.173 specialisti.
Ma sono possibili – sostiene lo studio – anche scenari più sfavorevoli. Per esempio, se il 15% degli specialisti pensionandi nel quinquennio 2024-2028, anche per le ricadute legate all’epidemia da Covid-19, anticipasse l’uscita dal servizio, l’ammanco sarebbe di 13.473 specialisti al 2023. Se, inoltre, si tenesse conto che esiste già una carenza di 6.225 medici specialisti rispetto al 2009, anno con il livello più alto di medici assunti nel SSN, e che potrebbero essere necessari ulteriori 4mila specialisti per far fronte alle esigenze di nuovi posti letto in Terapia Intensiva e Sub-intensiva per l’emergenza pandemica, l’ammanco salirebbe alla vertiginosa cifra di 23.698 specialisti nel 2023.
I fenomeni, definiti ”imbuti’ formativi e lavorativi, costituiscono — secondo lo studio – una fonte di logorio del SSN e risultano sempre più carichi di risvolti altamente critici sulla qualità delle cure e dei percorsi di formazione nel confronto con altre realtà europee.
(da agenzie)
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Novembre 24th, 2020 Riccardo Fucile
E’ ATTUALE DIRETTORE DELL’ASL ROMA 6 E DI AREA PD
E’ Narciso Mostarda il nuovo commissario alla Sanità in Calabria. La riunione del Consiglio dei Ministri è ancora in corso a Palazzo Chigi ma la decisione sembra essere presa: sarà l’attuale direttore dell’Asl Roma 6 ad occuparsi – salvo sviluppi imprevisti del cdm – della Sanità nella regione del Sud Italia.
Mostarda ha 58 anni, è laureato in medicina con specializzazione in neuropsichiatria infantile. Non mancano gli impegni in politica: nel 2009 è stato assessore del Pd nel Comune di Frosinone. Nel 2016 è stato nominato direttore generale della Asl H, la numero 6, di Roma.
(da agenzie)
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Novembre 13th, 2020 Riccardo Fucile
CENTINAIA DI PAZIENTI NOLEGGIANO LE AMBULANZE PER FUGGIRE VERSO LATINA E ROMA
Non sono più dei casi isolati. Con le strutture sanitarie della Campania sempre più in crisi a causa del dilagare del coronavirus, verso i vicini ospedali della provincia di Latina, e in particolare del sud pontino, si sta registrando un vero e proprio piccolo esodo di pazienti.
Alle prese con il Covid o con altre patologie, chi dalla Campania può noleggiare un’ambulanza o avere la forza di affrontare il viaggio in auto spera di riuscire a ottenere un posto letto e cure più adeguate in terra pontina.
Un trend che sta mandando in affanno la sanità nel basso Lazio, dove proprio per il Covid i posti scarseggiano e i problemi sono numerosi. I pazienti campani che stanno bussando negli ultimi giorni alle strutture sanitarie pontine sono infatti centinaia e non sono solo vittime del virus.
Tra chi ad esempio ha problemi cardiaci o una semplice frattura, temendo di infettarsi in ospedali che in Campania si sono trasformati in gironi danteschi e di dover affrontare attese infinite, il sud della provincia di Latina viene visto come la soluzione più semplice.
Al solo pronto soccorso del “Dono Svizzero” di Formia, il centro più vicino per chi si mette in viaggio dalla vicina regione e dove di recente è stata attrezzata nuovamente un’area per le vittime del coronavirus, in una settimana, e precisamente dal 4 all’11 novembre, hanno fatto ricorso ben 96 persone delle province di Caserta e Napoli.
E al “Goretti” di Latina altre dieci. Trattandosi a Formia ormai di un paziente ogni cinque proveniente dalla Campania, la stessa Regione Lazio si è attivata e l’assessore alla salute Alessio D’Amato avrebbe già ricevuto rassicurazioni dalla giunta del governatore Vincenzo De Luca su un intervento per porre un freno a tale preoccupante trend.
Intanto negli ultimi giorni dei pazienti provenienti dalla Campania sedici sono stati anche ricoverati nelle strutture dell’Asl di Latina e 5 per Covid. Un’ulteriore difficoltà su una rete che già fatica a reggere l’urto della seconda ondata del virus e dove proprio a Formia nelle ultime ore c’è stato anche chi, con una segnalazione alla sindaca Paola Villa e ai carabinieri del Nas, ha avanzato perplessità sulla sicurezza degli utenti dell’ospedale, lamentando situazioni di promiscuità , relative anche ai percorsi seguiti, tra Covid e non-Covid, temendo che i contagi possano avvenire così anche all’interno della struttura sanitaria.
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2020 Riccardo Fucile
UN NEW NORMAL DAL PROFILO NOVECENTESCO DIVENTATO PILASTRO STIMATO ALL’ESTERO PER LA SUA RISPOSTA ALLA PANDEMIA
Profetico fu il suo amico Gianni Cuperlo, già compagno di partito, che in un sottopalco di una festa di Articolo Uno, fine estate 2019, all’ex mattatoio del Testaccio, lo incalzò a bruciapelo. “Roberto”, disse, “ti devo chiedere una cosa importante”. E all’evidente interesse del ministro alla Salute di fresco incarico, replicò serafico toccandosi il fianco: “Ho un doloretto qui, che mi consigli?”, tra le risate bonarie dei presenti.
Gratificante è stata di recente Angela Merkel, che sconsigliando ai connazionali i viaggi nell’Europa sferzata dal Covid, ha sorpreso non pochi elogiando l’Italia, fuor di stereotipo ‘bella ma casinista’, anzi uno dei posti “non a rischio” laddove “si agisce con grandissima cautela”.
La nomina insperata in un governo insperato, chimera giallorossa nata sulle ceneri dei “pieni poteri” di Matteo Salvini, e la ‘laurea honoris causa’ conferita dalla cancelliera dottoranda in chimica quantistica per la tenuta insperata in un contesto disperato.
Un sottopalco e la Merkel. Lo stupore e la cautela. Ecco, in un anno, i due poli di Roberto Speranza, il ministro della Salute ai tempi della grande pandemia.
Tra lo stupore di tutti arriva al giuramento del Conte 2, agosto 2019, esponente del piccolo LeU, sostanzialmente a digiuno di camici, corsie, farmaci. Ma non importa. Anche se a chi, come Gad Lerner gli chiederà se abbia dovuto fare un “corso accelerato” in virus ed epidemie, risponderà che “la sanità è stata una passione” e “da sempre”, Speranza, già rappresentante di istituto al “Galileo Galilei” di Potenza, ultimo segretario della Sinistra giovanile, creatura diessina che nel post Bolognina aveva preso il posto della più gloriosa Fgic, laureato in scienze politiche alla Luiss, un breve periodo alle risorse umane della Barilla, insomma non proprio un esperto di sanità , crede “nel primato della politica” sui tecnici.
Politica versus tecnica. Antipasto ideologico e un po’ nemesi di un conflitto che nei mesi pandemici scorrerà carsico nelle istituzioni per emergere in superficie più volte, drammatico e inevitabile.
Tanto che ai tecnici il ministro dovrà affidarsi e ricorrere, necessariamente. Contro il diabolico virus i due pilastri fondativi del suo mandato, l’articolo 32 della Costituzione – a cui ricorre come a un mantra — e il Sistema sanitario nazionale, non sono sufficienti.
Persino la battaglia, vinta, sull’abolizione del superticket diventa purtroppo trascurabile. Con migliaia di morti al giorno, le immagini tragiche delle bare di Bergamo, il lockdown, sono ben altre le decisioni da prendere.
“Nell’emergenza — racconterà — ho conosciuto persone straordinarie, da Ippolito a Brusaferro a Rezza, e altri con cui si è creata un’amicizia, direi quasi un’intimità , di quelle che dureranno tutta la vita”.
Amici per la vita che si aggiungeranno a quelli della politica, degli anni pre-pandemia. Pier Luigi Bersani, suo mentore, ovviamente, ma per ragioni anagrafiche soprattutto Enzo Amendola e Peppe Provenzano, compagni nella Sinistra giovanile, e ora colleghi ministri, “con la stessa cultura politica”, anche se in partiti diversi.
Dettaglio questo, non da poco, considerato che nel Partito democratico, abbandonato in polemica con Matteo Renzi nel 2017, Speranza non era proprio un corpo estraneo. Tutt’altro.
È proprio nel Pd che sorprende in parecchi quando nel 2009 sbanca le primarie per il segretario regionale della Basilicata piazzandosi davanti a due eminenze locali, il sindaco di Matera Salvatore Adduce, e l’ex segretario regionale della Margherita e più volte assessore, Erminio Restaino.
È tra lo stupore di molti deputati dem, che Pier Luigi Bersani, per il quale Speranza aveva curato le primarie vittoriose dell’anno prima, lo impone a capogruppo alla Camera e chiede il “voto per acclamazione” per il “giovane di lungo corso”, spaccando il partito.
Dieci giorni dopo, in quel drammatico marzo del 2013, dopo la “non vittoria” del suo mentore alle politiche, arriveranno i celebri “101” del Capranica e la stroncatura di Romano Prodi al Quirinale. “Una ferita che sentiamo ancora sulla pelle” – confesserà anni dopo a Vittorio Zincone – “Io in modo particolare. Non credo che si rimarginerà facilmente”.
E’ la politica a costringerlo a dare ascolto al suo cocktail genetico: anima lucana e dna british — è inglese suo fratello, Peter, e la madre; ha un cugino, Nick, già collaboratore del premier (laburista) Gordon Brown.
A indurlo a parlare poco, e con grandissima prudenza. Ed è proprio nella declinazione in infinite sfumature di una delle quattro virtù cardinali della morale occidentale, nella “retta norma dell’azione” decantata da Tommaso d’Aquino, che si esplicita la gestione dell’emergenza di Speranza.
Cautela, precauzione, attenzione. E ancora: “Dobbiamo dire la verità ”; “Il pericolo non è scampato”; “Ci aspettano mesi ancora difficili”.
Questo nelle dichiarazioni ai media, mentre non è un mistero che nelle segrete stanze del Comitato tecnico scientifico, o in sede di governo, Speranza abbia tenuto ferma la barra sulla massima prudenza, fino a essere percepito come un ‘frenatore’.
“Lo so che sono dipinto come quello più rigido.”- confessa in un colloquio, uno dei pochi, di quei giorni – “Ma proprio perchè sono il ministro della Salute mi sento in obbligo di essere severo. Non voglio ingannare nessuno”.
E non ingannare nessuno implica anche scomparire e non rilasciarle del tutto le interviste, come è accaduto nei due mesi neri di marzo e aprile, con il picco di contagi e decessi e il Paese bloccato dal lockdown.
D’altra parte, è lui stesso a teorizzarlo, definendosi “novecentesco”, refrattario a social o comparsate nei tg. Meglio lavorare nell’ombra, telefonare a tutti gli esponenti dell’opposizione prima di decidere la zona rossa di Codogno, mediare, e limitarsi a gioire col suo staff negli uffici ministeriali romani di Lungotevere Ripa, mostrando il cellulare con il pezzo sul New York Times del Nobel all’Economia Paul Krugman.
Dal titolo che vale più di mille tweet: “Perchè l’America di Trump non può essere come l’Italia?”.
Insomma, assodato che il personaggio ha un profilo decisamente ‘new normal’, un quarantenne con due figli sposato con moglie conosciuta a 16 anni,a questo punto il pericolo è di farne un ‘santino’. Ma pur sfumate in questa atmosfera sobria e responsabile, le decisioni controverse non sono mancate, come quella di chiudere immediatamente i voli con la Cina, con l’effetto di non controllare i flussi in entrata e uscita via terra o via mare.
O la tendenza a scegliere la via più dura, quindi paradossalmente meno coraggiosa, come nella difesa della chiusura a oltranza, a fronte di un panorama economico in via di disfacimento.
“Non so se rifarei tutto”, ha anche confessato, ma chi potrebbe sostenere il contrario al cospetto di un evento inaspettato e inedito come una pandemia? Anche se in verità un cambio di tendenza si è avuta quest’estate, con il nostro a rassicurare “che non ci sarà un nuovo lockdown” e a mettere la faccia sulla riapertura delle scuole.
Ora che, come sostiene lo stesso, siamo nell’“ora della resistenza al virus”, con mezza Europa contaminata di nuovo e la seconda ondata purtroppo alle porte, non resta che sperare che il paradigma speranziano regga.
Che la cura da lui annunciata “vicina” lo sia per davvero. E che il ministro della cautela e dello stupore possa tornare all’Olimpico dov’è abbonato a tifare Roma (il suo amato Totti difficile che possa tornare a goderselo).
A strappare sulla politica, per dire, su temi pre-pandemici come lo Statuto dei lavoratori o il Jobs Act. O sul Mes, che garantirebbe 20 miliardi per l’agognato modello territoriale di sanità .
Vorrebbe dire che “new normal” saremmo tornati a essere tutti noi.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 30th, 2020 Riccardo Fucile
“LA SCUOLA RIAPRIRA’ IN SICUREZZA”
Ministro Speranza, lei ha detto “mai più lockdown”. In Francia Macron non lo ha escluso, la Merkel ha parlato alla nazione avvertendo che saranno mesi difficili. Conferma il “mai più” o dipende dall’andamento dei contagi?
Concordo che non saranno mesi facili. Ma penso che l’Italia oggi sia messa meglio degli altri paesi europei. E questo è oggettivo, lo dicono i numeri: il tasso di incidenza del virus è più basso rispetto altri grandi paesi europei come Francia, Spagna e Germania, grazie al lockdown duro che abbiamo realizzato e al comportamento seguito delle persone. Questo non significa che siamo fuori dall’emergenza e c’è ancora bisogno di un livello alto di attenzione. Siamo fuori dalla tempesta, ma non in un porto sicuro. Alla luce di queste considerazioni, escludo l’ipotesi di un nuovo lockdown, anche perchè siamo più attrezzati rispetto a qualche mese fa.
Si riferisce alla consapevolezza delle persone, su cui si potrebbe aprire un dibattito.
Mi riferisco innanzitutto al nostro servizio sanitario nazionale, che si è molto rafforzato. Abbiamo investito più in cinque mesi che in cinque anni e l’esperienza ha reso più bravi i nostri medici, i nostri infermieri, i nostri professionisti sanitari. Aggiungo un altro elemento: anche dove ci sono molti più casi che in Italia, la ricaduta in termini di pressione sul servizio sanitario nazionale è limitata, perchè la media di età si è abbassata. È chiaro che l’effetto del virus sui trentenni è diverso.
Finora il numero dei ricoveri è ovunque sotto controllo, anche se i contagi sono in crescita, ma che succede se si raggiunge di nuovo un livello di guardia in alcune zone? Prevedete dei lockdown mirati?
Abbiamo un sistema di monitoraggio costruito con l’Iss e le regioni molto attento, costruito attorno a 21 criteri, alcuni dei quali connessi al livello di ospedalizzazione. Al momento in nessuna area d’Italia si riscontrano difficoltà tali da giustificare lockdown territoriali, ma è altrettanto chiaro che dobbiamo essere pronti a intervenire ove necessario. Questo ci hanno insegnato gli ultimi mesi.
Il ministro Lamorgese parlò di tamponi da fare a tutti i migranti che sbarcano. Prevedete una misura analoga anche per i cittadini europei che arrivano?
Approfitto della domanda per rendere pubblica una proposta che ho avanzato nelle ultime ore ai ministri di Francia, Germania e Spagna. E che discuteremo in un prossimo vertice il 4 settembre. La spiego: adesso, ogni volta che si adottano misure nei confronti di un altro paese vengono lette come un atto ostile.
Non ho capito, si offendono per i tamponi?
Tamponi all’arrivo, divieto di accesso e transito, obbligo di quarantena. Quando prendi una misura del genere, il paese coinvolto attualmente lo vive in maniera poco friendly. Io dico: visto che dobbiamo convivere col virus per svariati mesi, lavoriamo sulla reciprocità delle misure e tra grandi paesi europei diamo il buon esempio. Facciamoci i i test reciprocamente a partire dagli aeroporti. Cioè: se uno dall’Italia va a Madrid o Parigi, viene testato all’arrivo e così uno che dalla Spagna o dalla Francia arriva in Italia. Chiaramente la misura va attuata a tutti i cittadini, indipendentemente dalla nazionalità .
Controlliamoci tutti, dice lei.
Esatto, far diventare normalità ciò che stiamo facendo da dieci giorni con successo rispetto ad alcuni paesi. Questo ci consente di tenere aperti i confini con maggiore serenità . Proprio perchè ci muoviamo dentro un orizzonte non di ritorno al lockdown, ma di convivenza col virus, dobbiamo sapere che la convivenza ha bisogno di strumenti concreti.
Ministro, a pochi giorni dall’inizio della scuola, c’è ancora grande confusione sulle modalità del rientro: aule che mancano, insegnanti che forse non bastano, regioni disallineate. Non pensa che siamo di fronte a un clamoroso ritardo, aggravato dal fatto che siamo il paese che le ha chiuse per primo, e dunque c’era tutto il tempo per pensarci?
Sapevamo che non sarebbe stato facile. E anche altri paesi come Francia, Germania o Israele hanno registrato delle difficoltà . Mettere in moto dieci milioni di persone comporta rischi che dobbiamo gestire e nessuno ha la bacchetta magica per risolvere in un minuto i problemi storici della scuola italiana, che ci sono da molto prima del Covid, dal deficit di personale, alle classi con troppo allievi.
È da marzo… Un tempo congruo per decidere. Domani lei co-presiederà una conferenza dell’Oms proprio sulla scuola. Cosa dirà della confusione che c’è in Italia?
Nessuna confusione. Vorrei trasmettere un messaggio di serenità : le scuole riapriranno il 7 a Bolzano, il 14 nella maggioranza delle regioni e il 24 in altre. Abbiamo messo ingenti risorse, i protocolli per riaprire in sicurezza sono pronti. Questa, per me, è la vera fine del lockdown.
Lei dice: chi apre il 7, chi il 14, chi il 24. È accettabile per il governo che alcune regioni posticipino il rientro in modo discrezionale?
Le regioni del Sud hanno sempre avviato le scuole con un po’ di ritardo anche per ragioni di carattere climatico, quindi non mi scandalizzo, l’autonomia lo consente. Con loro stiamo lavorando costantemente. Venerdì all’unanimità in conferenza unificata con Comuni e Province, oltre che con le Regioni abbiamo approvato le linee guida sulla gestione dei casi e focolai Covid. Queste regole saranno vigenti in tutta Italia, da Bolzano alla Sicilia.
Scusi se insisto. Ma questo “federalismo virale” è un tratto costante della crisi sin dall’inizio: sulle chiusure, sulle discoteche, sui migranti, ora sulle scuole. È solo l’effetto della campagna per le regionali oppure questo è dovuto all’incertezza decisionale del governo a livello centrale?
Il governo ha le idee chiare e una linea da sempre costruita sulla priorità del diritto alla salute. Io non voglio pensare alla campagna elettorale di qualcuno perchè la gestione dell’emergenza è questione troppo delicata. In questi mesi il mio giudizio è che abbiamo lavorato bene insieme. Dal 16 maggio le regioni possono attuare misure non solo più restrittive, ma anche meno restrittive. Per questo ad esempio alcune hanno riaperto le discoteche che il governo aveva lasciato chiuse.
Torniamo ai nodi da sciogliere, in vista delle riaperture. I trasporti. C’è una discussione attorno alle modalità con cui saranno riempiti mezzi di trasporto pubblici e scuolabus. Riesce a darci qualche certezza?
Sui trasporti c’è una preoccupazione dei territori che temono che le norme finora vigenti siano troppo stringenti rispetto alla necessità della ripartenza. Il Cts ha offerto un ventaglio di soluzioni possibili per risolvere il tema, tra cui il riempimento fino al 75 per cento. Penso che si possa arrivare a una soluzione condivisa.
Non si è capito nemmeno come saranno gestiti eventuali focolai nelle scuole. Il Cts dice: se uno è positivo in una classe, sta a casa tutta la classe. E gli insegnanti? Come funziona? I presidi decidono?
Il cuore del documento approvato all’unanimità di cui le dicevo è un nuovo rapporto organico tra servizio sanitario nazionale e sistema scolastico. Nel caso di un positivo, studente o insegnante, la valutazione viene fatta dal dipartimento di prevenzione, a partire dal contact tracing. Così si decide come intervenire: tamponi, quarantena, eccetera. È chiaro che con un solo caso non si chiude la scuola.
Dunque nessun automatismo. Decide il dipartimento di prevenzione a seconda dei casi.
Esatto. È un lavoro sanitario. Non lasceremo soli insegnanti e docenti.
E sulle mascherine? Anche Galli dice che, per un bambino, è difficile stare con la mascherina a scuola per un numero prolungato di ore.
La mascherina, e noi siamo l’unico Paese che ne garantisce a studenti e personale oltre dieci milioni al giorno, è obbligatoria, oltre i 6 anni, per andare a scuola, e va tenuta nei momenti di ingresso, uscita e ogni volta ci può essere rischio di stare sotto la distanza di un metro. Al banco, dove c’è un metro di distanza, si può togliere.
Crisanti sostiene che il modo per mantenere sicure le scuole non sono tanto le mascherine ma i tamponi di massa. Non era meglio investire tutto in controlli di massa per le scuole, invece che spendere tre miliardi sui banchi?
Le due cose non sono in contrapposizione. Se questa è l’occasione di avere i banchi nuovi che non siano quelli dei nostri nonni, noi siamo contenti, poi è chiaro che i test sono fondamentali e, segnalo, siamo arrivati a 100mila test al giorno.
Ministro, di tutto si parla tranne che del Mes. Non sarebbe logico utilizzarlo ad esempio per aprire presidi sanitari nelle scuole, negli uffici pubblici e nelle fabbriche?
Io penso che ogni euro che si mette sulla salute è sacrosanto. Il nostro piano è pronto per utilizzare i finanziamenti europei, Mes compreso. L’importante per me è che i soldi arrivino: dal bilancio dello Stato, dal Recovery o dal Mes. Quello che per me non è accettabile è dire: non c’è il Mes, non ci sono risorse.
C’è una gigantesca ipocrisia sul tema. Abbiamo preso il fondo Sure, 27 miliardi di prestiti. Perchè non dite che quei soldi sono come i 35 del Mes e che il prestito del Mes costa meno del Recovery fund?
Io eviterei qualsiasi battaglia ideologica. A me pare ragionevole utilizzare il Mes, ma non dico “o Mes o nulla”. Il servizio sanitario nazionale ha bisogno di una stagione straordinaria di investimenti, discorso che facevo già prima del Covid. Ricordo che dal primo settembre non si pagherà più il superticket, ed è stata una delle prime misure per cui mi sono battuto.
Il tema delle risorse riguarda anche il modo in cui si affronterà il delicato passaggio autunnale con l’arrivo dell’influenza stagionale. Inevitabilmente saranno presi d’assalto ambulatori e medici di base. Come pensa di potenziare gli strumenti di prevenzione o cura?
Non c’è dubbio, sarà un autunno impegnativo. Stiamo lavorando a una grande campagna sulle vaccinazioni ordinarie. Le regioni hanno di molto rafforzato la capacità di offerta del vaccino. Essendo i sintomi simili, sarà fondamentale avere più persone vaccinate possibile, per abbassare la pressione sulle strutture sanitarie.
Ultima domanda: quando ci sarà , il vaccino, sarà obbligatorio o avrete il problema dei “no vax” come lo avete dei “no Mes”?
L’obiettivo di oggi è avere il vaccino nel più breve tempo possibile. E quando arriverà purtroppo non sarà disponibile per tutti immediatamente. Dovremo scegliere da chi partire. Per questo il problema non si pone come lo solleva lei. Partiremo dagli operatori sanitari, dai soggetti più fragili, dagli anziani con altre patologie.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 3rd, 2020 Riccardo Fucile
IL MINISTRO DELLA SALUTE E’ TERZO PER GRADIMENTO TRA GLI ITALIANI… DI CARATTERE SCHIVO. APPARE POCO SUI MEDIA PERCHE’ E’ SOMMERSO DI LAVORO E NON AMA LE CHIACCHIERE… HA SCELTO LA LINEA DEL RIGORE FIN DALL’INIZIO
L’articolo 32 della Costituzione è il suo mantra: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività , e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Dal 5 settembre 2019, da quando ha giurato come ministro della Salute nel secondo governo Conte, Roberto Speranza si lascia guidare nella sua azione dalla Carta.
E ha scelto la linea del rigore per fronteggiare la più grande emergenza sanitaria della storia del Paese.
Niente interviste, poche e mirate le apparizioni in tv e tutte di servizio, per dare informazioni corrette ai cittadini. Una strategia mediatica improntata all’essenzialità perchè il lavoro è tanto e non c’è tempo da perdere. E che si è rivelata premiante, visto che il ministro della Salute è terzo per indice di gradimento nella classifica dei leader stilata da Ilvo Diamanti su Repubblica.
L’attività di Speranza, potentino, 41 anni, va distinta in due momenti: pre e post Covid. Una data fa da spartiacque: è il 14 dicembre 2019, quando alla conferenza stampa di fine anno al ministero Speranza presenta, con una ventina di slide, i primi cento giorni per la Salute.
La sua azione è già indirizzata verso tre obiettivi: più assunzioni, più risorse e maggiore vicinanza dei medici di base alle strutture pubbliche. Riesce a frenare l’annosa emorragia di tagli alla sanità ottenendo in legge di Bilancio quattro miliardi e mezzo, di cui due da destinare al fondo sanitario nazionale e altri due e mezzo per l’edilizia sanitaria.
Ma soprattutto Speranza intuisce, quasi a prevedere il disastro della pandemia che scoppierà di lì a poche settimane, che il Ssn si trova ad operare in una società profondamente cambiata, dove la piramide demografica si è invertita: masse di anziani, spesso afflitti da patologie croniche, si riversano negli ospedali anche solo per effettuare semplici controlli perchè non hanno altri punti di riferimento.
Perciò mette a disposizione 240 milioni per i medici di famiglia per l’acquisto di strumentazioni nuove, dagli spirometri alle macchine per l’elettrocardiogramma.
Lo scopo è liberare i pronti soccorso, consentendo alla medicina di base di fare screening a una parte della popolazione che altrimenti intaserebbero le strutture pubbliche.
Poi arriva il Covid ed è come un ciclone che travolge tutto. Speranza capisce subito la pericolosità del virus e adotta la linea del rigore, confermata anche ieri con il suo no agli spostamenti nelle seconde case.
È lui a spingere per il blocco dei voli in Italia, quando ancora non è scoppiato il caso Codogno: il ricovero di Mattia, considerato il paziente uno, è del 21 febbraio.
Intanto parte la task force, il comitato tecnico scientifico con cui è sempre in stretto contatto, in particolare con il coordinatore Walter Ricciardi.
Tutto il resto è storia recente. Speranza e il suo ministero sono stati sempre i punti di riferimento principali di tutte le decisioni assunte da Conte nei suoi dpcm. La salute dei cittadini prima di tutto.
Di carattere riservato, laureato in Scienze Politiche con un dottorato in Storia dell’Europa Mediterranea, nonostante la giovane età Speranza è un politico di antica scuola, quella “classica” dedita al territorio e al culto del funzionamento delle istituzioni.
“Se prima già lavorara h24, con il coronavirus le sue giornate sono diventate di 72 ore” raccontano i suoi più stretti collaboratori.
Quella che sembra una strategia mediatica della riservatezza è quasi una scelta obbligata, dettata soprattutto dalla mancanza di tempo. Per questo meglio concentrare le uscite in poche apparizioni televisive, utili a dare informazioni. Della sua vita da politico precedente al ruolo di ministro si ricorda un evento su tutti: la dolorosa scissione dal Pd – a cui aveva aderito dalla nascita, provenendo dalle fila della Sinistra giovanile – con D’Alema e Bersani il 17 febbraio 2017 e la fondazione di un nuovo partito, Articolo Uno.
(da “La Repubblica”)
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Aprile 6th, 2020 Riccardo Fucile
I MANCATI INVESTIMENTI NELLA SANITA’ PUBBLICA ALL’ORIGINE DELLA PAUROSA DIFFERENZA DI VITTIME RISPETTO AI TEDESCHI
Una corsa contro il tempo per salvare la vita di molti italiani.
È la sfida a cui è chiamato il Servizio Sanitario nazionale ad appena due anni dai suoi primi 40 anni. E se da circa un mese un intero Paese assiste al rito quotidiano dei contagi e, tragicamente, dei decessi da Covid-19, la locuzione “terapia intensiva” usata fino a ieri prevalentemente da sanitari e addetti ai lavori, è diventata ormai lessico quotidiano.
Parliamo di interi reparti o singole postazioni dedicate a pazienti che hanno bisogno di assistenza continua per il mantenimento delle loro funzioni vitali.
Un’unità di terapia intensiva è generalmente dotata di specifici macchinari come respiratori automatici, sistemi di monitoraggio continuo delle funzioni vitali, defibrillatori manuali e molto altro. Tecnologie che, nelle polmoniti più critiche innescate dal nuovo coronavirus, possono fare la differenza fra la vita e la morte.
Le unità di terapia intensiva disponibili in Italia, prima dello tsunami da Covid-19, erano 5.293, una media di 8.7 ogni 100.000 abitanti non distribuita uniformemente sul territorio nazionale.
Dal primato positivo della Liguria a quello negativo della provincia autonoma di Bolzano, il loro numero variava (e varia) da regione a regione.
«I reparti di terapia intensiva sono essenziali, al di là dell’emergenza da Covid-19, per la cura di patologie critiche come ictus o infarto, ma anche nel caso di eventi traumatici, penso banalmente a gravi incidenti. Sono poi fondamentali come supporto a diversi interventi chirurgici: quando parliamo di liste d’attesa lunghe per specifici interventi, parliamo anche di scarsità di postazioni di terapia intensiva » spiega Carlo Palermo, presidente dell’Anaao-Assomed, associazione di medici e dirigenti sanitari.
I posti di terapia intensiva in Italia erano 7.3 per 100.00 abitanti nel 2008, una media che è arrivata 8.7 nel 2018.
Non si può quindi parlare di diminuzione negli anni, ma il loro relativo aumento non è stato certo significativo e non è servito ad arginare le richieste provocate dall’epidemia da nuovo coronavirus. Sono molte le regioni con reparti di terapie intensiva in via di saturazione ed è ormai nazionale la corsa contro il tempo per incrementare le postazioni, una dinamica che sembra purtroppo incidere anche sulla gestione dell’epidemia.
E anche se non esistono dati aggiornati al 2019, il paragone con l’estero lascia perplessi.
“La Germania ha circa 28-29 postazioni di terapie intensive ogni 100.000 abitanti, ovvero 3 volte e mezzo le nostre” argomenta Palermo, citando uno studio del 2012 . Un dato che rende l’idea della diversa gestione della crisi da parte dei due paesi, e dell’enorme costo umano, che la tragedia del Covid-19 sta provocando nello Stivale.
(da Giornalettismo”)
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Febbraio 13th, 2020 Riccardo Fucile
LA RICERCATRICE ERA PRECARIA CON UNO STIPENDIO DI 16.726 EURO LORDI L’ANNO
Per Francesca Colavita, la ricercatrice di Campobasso che ha contribuito a isolare il Coronavirus allo Spallanzani di Roma, si apre definitivamente la strada della ricerca. L’Istituto nazionale per le malattie infettive ha infatti chiesto all’Azienda sanitaria regionale del Molise, ottenendo il nulla osta, di poter attingere alla graduatoria dei vincitori e idonei al concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura di un posto di dirigente Biologo della disciplina di Microbiologia e Virologia che vede la giovane ricercatrice collocata al 17/o posto.
L’Istituto Spallanzani ha chiesto di poter procedere all’assunzione “in considerazione della vocazione per la ricerca piuttosto che per l’assistenza, nonchè per la lodevole attività professionale che ha assicurato nell’ambito dell’emergenza sanitaria attuale di rilevanza nazionale e internazionale”.
Del team guidato da Maria Rosaria Capobianchi fanno parte, oltre a Colavita, Concetta Castilletti, responsabile della Unità dei virus emergenti (“detta ‘mani d’oro’, ha raccontato il direttore dell’Istituto Giuseppe Ippolito), classe 1963, specializzata in microbiologia e virologia, Fabrizio Carletti, esperto nel disegno dei nuovi test molecolari, e Antonino Di Caro che si occupa dei collegamenti sanitari internazionali. Nella foto pubblicata sulla pagina dell’assessorato le vediamo in compagnia di Alessio D’Amato, assessore alla salute del Lazio (a sinistra), e Roberto Speranza, ministro della Salute all’epoca dell’annuncio Francesca Colavita era al centro: in questa pagina sul sito dell’ospedale Spallanzani si scriveva che aveva un “Incarico di co.co.co. per l’espletamento di attività di ricerca nell’ambito del Progetto FILAS-RU-2014-1154” per un compenso di 16726 euro (lordi, si immagina).
Lo Spallanzani è un’eccellenza italiana della ricerca dove si trova uno dei due laboratori italiani di livello di biosicurezza 4, il massimo livello di sicurezza per “svolgere attività con materiali infetti o esperimenti microbiologici che presentano, o sono sospetti presentare, un alto rischio sia per chi lavora in laboratorio, sia per la comunità ”.
L’Istituto dallo Stato riceve un finanziamento di appena 3,5 milioni di euro l’anno. Soldi che dovrebbero servire a mantenere in efficienza le macchine e i laboratori e a pagare gli stipendi del personale, circa settecento dipendenti dei quali 400 medici, infermieri e sanitari.
Ma non bastano, e per fortuna che ci sono i bandi e i finanziamenti europei a colmare la lacuna. In questo senso forse parlare di “successo italiano” non aiuta molto a far capire quanto poco l’Italia (intesa come Stato) ci metta negli istituti di ricerca.
Lo Spallanzani non è l’unica Cenerentola visto che i 51 IRCCS (Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) pubblici e privati, vale a dire i centri di eccellenza per la ricerca medico-scientifica, si devono spartire una torta di appena 159 milioni di euro l’anno.
Se volete fare un confronto il già citato Institut Pasteur ha da solo un bilancio di circa 289 milioni di euro l’anno. Non sono tutti soldi pubblici, lo Stato Francese contribuisce direttamente con 58,9 milioni di euro l’anno ai quali vanno aggiunti altri 54 milioni di euro di ulteriori finanziamenti pubblici (per un totale di 113 milioni di euro). Circa il 39% del bilancio dell’istituto è da finanziamenti pubblici, il resto sono donazioni, sponsor, vendita di brevetti e servizi. Questa è la vera “gara” sulla quale l’Italia può e deve competere.
(da agenzie)
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