Giugno 24th, 2018 Riccardo Fucile
SUL WEB IMPAZZA LA FOTO DELLE SEI CAMIONETTE DELLA POLIZIA A DIFESA DEL MINISTRO DELL’INTERNO
«Ma Salvini non voleva risparmiare sulle scorte? O vale solo per Saviano?».
La domanda, dal tono polemico, è di Monica Cirinnà , senatrice per il Partito Democratico, che su Twitter ha pubblicato una foto che gira da un paio di giorni sul web e che si riferisce a una visita elettorale di Salvini a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze.
Lo schieramento di forze è oltre ogni immaginazione: si contano almeno sei camionette della polizia schierate a difesa del ministro dell’Interno, cui vanno a sommarsi gli uomini della scorta personale che lo seguono e almeno altre 3 autovetture.
Per un governo che dichiarava “la nostra scorta sono gli italiani” non è certo un bel biglietto da visita.
Se Salvini è così amato come dice perchè non riduce la sua scorta ai criteri seguiti da ministri analoghi di altri Paesi?
Cinquanta agenti sono uno spreco, cominci a tagliare “a casa sua”
(da agenzie)
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Giugno 5th, 2018 Riccardo Fucile
COME UN ISTIGATORE ALL’ODIO HA SDOGANATO LA PEGGIORE FOGNA UMANA E PROMOSSO UN CLIMA DA GUERRA CIVILE
Simone su Facebook racconta:
Io, Rita e i bambini stiamo rincasando. Dall’altro lato della strada, all’altezza del nostro portone, c’è un signore sulla cinquantina, forse indiano o pakistano, in tunica, molto distinto, che attraversa.
Uno scooter che sta correndo troppo gli arriva quasi addosso, fa appena in tempo ad inchiodare.
L’ uomo che lo guida si alza la visiera del casco ed esplode: “A pezzo demmerda, ma ndo cazzo vai, ma chi cazzo sei, me stavi a ffa’mmazza’, a stronzo”.
Non prova nemmeno a scendere dal motorino: resta seduto a urlare contro l’altro uomo, a un metro dalla sua faccia.
E gli sputa addosso, una, due, tre, quattro volte.
Lo straniero è pietrificato: si prende tutti gli sputi senza una parola, senza una mossa, per quelli che non saranno stati più di quindici secondi ma che a me sono sembrati lunghi come quindici minuti, a lui forse quindici anni.
Poi quello smette di sputare, rimette in moto, e scandisce lento e duro: “Adesso co’ Salvini avete finito, ha’capito mmerda, avete finito. Siete finiti”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 14th, 2018 Riccardo Fucile
PER IL PROLUNGAMENTO NON CI SONO SOLDI E VOLONTA’ POLITICA
Nove chilometri in direzione del nulla.
Da qualche mese vicino al casello di Parma Ovest, nel bel mezzo della pianura Padana, ruspe e betoniere stanno alacramente lavorando per costruire una nuova autostrada: è la TiBre, l’autostrada Tirreno-Brennero.
Sulla carta collegherà , prolungando la Camionale della Cisa, il porto di La Spezia all’autostrada del Brennero.
Ma con ogni probabilità il collegamento da Parma Ovest a Nogarole Rocca, in provincia di Verona, non verrà completato mai.
E quasi certamente della TiBre alla fine verranno costruiti soltanto i 9 chilometri dove ora lavorano macchine e operai del costruttore Pizzarotti, un tratto che si concluderà al paesello di San Quirico di Trecasali.
Sarà , chissà per quanto tempo, l’autostrada più breve d’Italia. E – insieme – una tra le meno utili e tra le più costose.
Prodigi che avvengono solo in Italia.
Immaginata negli anni ’70, per decenni la TiBre è rimasta solo un progetto. E per andare dalla Spezia all’AutoBrennero si è dovuto passare per l’A1 e lo snodo di Modena, allungando il tragitto di una ventina di minuti.
Poi, nel 2006, una serie di circostanze – anche queste tipicamente italiane – cambiano la situazione. Quell’anno il governo Berlusconi decide di concedere senza gara pubblica alla società Autocisa, di proprietà della famiglia Gavio, una proroga di 34 anni della concessione di gestione dell’autostrada Parma-La Spezia.
Bruxelles protesta, minaccia l’infrazione alle regole e pesanti sanzioni.
Per aggiustare le cose l’Italia firma un accordo con l’Unione europea: Autocisa avrebbe finanziato la realizzazione della TiBre, acquisendo così il diritto al rinnovo automatico della concessione per la Parma-La Spezia.
Nel 2010 il Cipe approva il progetto, ma solo per il primo tratto di una decina di chilometri. I soldi, la bellezza di 513 milioni, 40 milioni di euro per chilometro di piattissima pianura, li mette Autocisa.
Che però ottiene il permesso di aumentare i pedaggi della Parma-La Spezia del 7,5% annuo dal 2011 al 2018, incrementando per più di un miliardo le sue entrate. Insomma, Gavio ha mantenuto la sua concessione, ha accollato la spesa dei lavori agli utenti della Camionale della Cisa (tra le più care d’Italia), e addirittura è riuscito a guadagnarci.
Lo Stato, stavolta, non ci ha rimesso un soldo; ma il prezzo è stato quello di dare via libera a una folle autostrada che non va da nessuna parte, e che forse mai ci andrà , nonostante mezza città di Parma sia favorevolissima.
Sì: perchè sia per la Regione Emilia-Romagna che per il governo il completamento dell’opera – che costerebbe altri 2,2 miliardi – fino all’AutoBrennero «non è di interesse prioritario».
Come ha dichiarato il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, «il resto dell’autostrada è condizionato molto dalla sostenibilità finanziaria, e dalla sua reale utilità nei pezzi che mancano».
E a parte la logica e il buon senso, in questa storia italiana c’è un’altra vittima: l’ambiente.
In una pianura altamente cementificata, l’area interessata oggi dai lavori era una specie di isola felice: «terreni agricoli a prativi – spiega Rolando Cervi, presidente del Wwf di Parma – usati come foraggio per le mucche che danno il latte per il parmigiano nella food valley.
E ancora, una importante risorgiva a un passo dal corso del Taro, che aveva creato bei fontanili e i laghetti del Grugno, protetti come Zona d’Interesse Comunitario; e un bel pioppeto, anch’esso protetto, che era l’habitat privilegiato del raro e tutelato Falco cuculo». Adesso sulla risorgiva ci corre il viadotto dell’autostrada; e difficilmente i falchi vorranno nidificare a dieci metri dalle automobili.
Un altro pezzo di pianura che si copre di cemento. Quel che più addolora, è che questo cemento chissà per quanto tempo non servirà a niente e nessuno.
(da “La Stampa”)
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Febbraio 26th, 2018 Riccardo Fucile
IL GOVERNO: “CI SIAMO SBAGLIATI”, MA VA AVANTI LO STESSO
Dicono che il tempo è galantuomo. Forse è così.
Un esempio è quello che emerge dalla lettura di un recente documento dell’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino — Lione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri: “Non c’è dubbio che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione europea, siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica… Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni”.
Scusateci, sembrano dire i tecnici dell’Osservatorio, ma dieci anni fa era impossibile prevedere quanto sarebbe emerso in seguito.
Verrebbe da domandarsi il perchè, allora, fare delle previsioni.
Ma la realtà è molto diversa da quella narrata nel documento. A più riprese, fin dal 2005, ben prima dunque del manifestarsi della recessione economica, sono stati pubblicati numerosi contributi di economisti dei trasporti che mostravano come le previsioni di crescita dei traffici fossero del tutto irrealistiche.
Vediamo alcuni numeri: in base alle previsioni governative, nel 2035 lungo il corridoio di progetto del Tav avrebbero dovuto transitare oltre 43 milioni di tonnellate di merci su strada e 15 su ferrovia; a metà secolo i flussi su strada avrebbero dovuto superare gli 80 milioni di tonnellate.
Tali previsioni erano incoerenti con l’evoluzione storica dei traffici.
La strada aveva conosciuto una rapida crescita fino alla prima metà degli anni ’90 dello scorso secolo per poi declinare, anche in ragione del forte aumento dei pedaggi praticati lungo i trafori del Monte Bianco e del Frèjus, nella decade successiva e ulteriormente in quella immediatamente alle nostre spalle.
Il traffico su ferrovia ha oscillato tra gli 8 e i 10 milioni di tonnellate tra il 1980 e il 2000. Tra il 2003 e il 2011 la galleria è stata ammodernata con forte limitazione della circolazione dei convogli.
Nel periodo successivo alla conclusione dei lavori non si è registrata alcuna ripresa dei flussi che si attestano attualmente intorno ai 3 milioni di tonnellate (lo stesso valore registrato a fine anni ’60).
Seppure in clamoroso ritardo, sono ora gli stessi proponenti del progetto a porsi l’interrogativo. Leggiamo ancora nel documento: “La domanda che i decisori devono farsi è invece un’altra: ‘Al punto in cui siamo arrivati, avendo realizzato ciò che già abbiamo fatto, ha senso continuare come previsto allora? Oppure c’è qualcosa da cambiare? O, addirittura, è meglio interrompere e rimettere tutto com’era prima?’ ”.
Purtroppo, la risposta che viene data all’interrogativo sembra dare ragione a quanto scrisse Henry Kissinger: “Quando un ragguardevole prestigio burocratico è stato investito in una politica è più facile vederla fallire che abbandonare”.
Si riesuma la retorica dell’anello mancante della rete ferroviaria europea, si ripropongono le già più volte confutate motivazioni ambientali a favore del trasferimento modale dalla strada alla ferrovia.
La qualità dell’aria, a Torino, in Valsusa come in tutta Europa è in miglioramento da decenni. Tale tendenza proseguirà in futuro grazie alla progressiva sostituzione dei mezzi più inquinanti: dieci veicoli pesanti a standard Euro VI emettono come uno solo Euro 0.
Gli storici utenti del Frèjus e del Monte Bianco sanno molto bene come la qualità dell’aria nei trafori un paio di decenni fa fosse ben peggiore di oggi.
Si può aggiungere, tra parentesi, che la qualità dell’aria al confine italo-francese dove il 93% delle merci utilizza la strada è migliore rispetto a quella lungo il confine svizzero.
Si riafferma di voler proseguire lungo il percorso intrapreso senza peraltro fornire alcun nuovo elemento quantitativo a sostegno della fattibilità economica del progetto. Per molti decenni non si registrerà infatti alcun vincolo di capacità sulla rete stradale, unico fattore che potrebbe, a determinate condizioni, giustificare l’opera
I tunnel stradali sul versante occidentale delle Alpi sono infatti utilizzati all’incirca per un terzo ed è in fase di realizzazione una seconda “canna” del traforo del Frèjus che allontanerà ulteriormente la prospettiva di saturazione delle infrastrutture esistenti.
Come dimostra l’esperienza svizzera, neppure con il tunnel di base la ferrovia potrebbe diventare competitiva con la strada e dovrà continuare a essere pesantemente sussidiata.
Non solo, come ebbe a dire tempo fa l’ex presidente della Provincia di Torino, Antonio Saitta: “Toccherà al governo mettere in campo politiche di disincentivo economico del trasporto su gomma a favore di un trasferimento modale, specie delle merci, verso il ferro”.
Politiche di disincentivo economico significano un incremento artificiale dei costi del trasporto: è come se un’impresa incapace di contrastare un concorrente di maggior successo chiedesse al governo di incrementare il livello di tassazione che grava sui servizi prodotti da quest’ultimo per metterlo fuori mercato o, peggio, ne impedisse l’acquisto.
La conferma del progetto non può che essere giudicata un pessima scelta: costosa per i contribuenti che pagheranno prima per la costruzione e dopo per incentivare l’uso dei servizi, dannosa per l’economia come dimostrano le analisi costi-benefici indipendenti e irrilevante per l’ambiente.
Ma assai gradita dai costruttori e da un manipolo di operatori ferroviari che vorrebbero prosperare a nostre spese.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 31st, 2018 Riccardo Fucile
SPRECO ALIMENTARE: FRUTTA E VERDURA FINISCONO PIU’ SPESSO NEI RIFIUTI… MENTRE A CASA LE FAMIGLIE SONO PIU’ ATTENTE
E’ un paese a due velocità , con comportamenti diversi tra pubblico e privato, quello che si legge nei dati che verranno presentati domani in occasione della giornata nazionale contro lo spreco alimentare.
Grazie ad un’indagine del ministero dell’ambiente e Waste Watchers, l’associazione legata all’università di Bologna che da anni si batte per lo spreco zero, si scopre che le famiglie italiane in un anno hanno dimezzato la quantita di cibo, di rifiuti alimentari commestibili ma buttati nei rifiuti.
Lo hanno calcolato consegnando a 400 famiglie un diario quotidiano da compilare attentamente segnando spesa, pranzi cucinati, cibi pesati prima e poi come i rifiuti.
Così si è passati da un chilo cibo gettato stimato a settimana, a circa 500 grammi reali, cifre che portano lo spreco annuale domestico, la fontre principale dello spreco alimentare, a circa 8, 5 miliardi di euro.Contro i 13 stimati fino a pochi mesi fa.
Segno che le campagne educative, e anche la crisi, aiutano a modificare i comportamenti. Che però parlano ancora di cibo sprecato nelle scuole: quasi un terzo dei piatti preparati per i bambini delle elementari e medie finisce nella pattumiera.
Il dato emerge da uno studio che ha coinvolto 73 plessi di scuola primaria (35 in Emilia-Romagna, 25 in Lazio e 18 in Friuli-Venezia Giulia). Una ricerca che ha visto partecipare più di 11500 persone, tra studenti e personale, per un totale di 109.656 pasti monitorati.
La quantità di cibo non consumato durante il pasto corrisponde al 29,5% della quantità preparata, così ripartito: avanzi dei piatti (tutte e cinque le pietanze): 16,7%; cibo intatto lasciato in refettorio (tutte e cinque le pietanze): 5,4%; cibo intatto portato in classe (pane e frutta): 7,4%.
La quantità totale di cibo preparato è pari a 534 g pro-capite, di cui 120 g pro-capite sono sprecati: avanza dai piatti: 90 g pro-capite; cibo intatto lasciato in refettorio (tutte e cinque le pietanze): 30 g pro-capite.
A chiedere ai bambini e ragazze cosa lasciano nel piatto, si capisce che le cattive abitudini alimentari casalinghe si trascinano a scuola: frutta e verdura sono i cibi che più facilmente finiscono tra i rifiuti , dimenticati nel frigo, andati a male, o sbocconcellati e abbandonati.
La scala di apprezzamento (% della quantità consumata a pranzo rispetto alla quantità preparato) delle cinque pietanze: vede il secondo in testa alle preferenze 79%;, poi la pasta, il contorno, 70,3% (soprattutto grazie a pure patatine, il pane 57% e la frutta 58,7%.
Dati che raccontano come ci sia ancora molto da fare dal punto di vista educativo per convincere i più piccoli a mangiare frutta e verdura, cosi utili per la salute.
E se un terzo del cibo delle mense va sprecato, bisogna ricordare che si moltipicano nelle città , a partire da Milano che è stata anni fa la capolfila con Milano ristorazione, le iniziative per fare sì che il cibo intoccato dalle mense aziendali e pubbliche e scolastiche vada direttamente ad organizzazioni che lo portano alle persone bisognose. ancora caldo. E nella lotta allo sprecco e per una maggiore solidarietà , iniziative, come la legge che ha favorito la donazione di cibi dalle grandi aziende, che ha portato ad un aumento del 21% delle tonnellate di alimenti donati al Banco Alimentare e quindi distribuiti a più di un milione e mezzo di persone.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 27th, 2017 Riccardo Fucile
LA BREBEMI, CONCEPITA NEL 1996, E’ REALIZZATA CON CAPITALE PRIVATO
A pochi mesi di distanza dalla sua apertura avvenuta il ufficialmente 23 luglio 2014 sotto gli occhi dell’ex premier Matteo Renzi, alcuni attivisti di un centro sociale bergamasco si misero addirittura a giocare a pallone lungo la corsia di sorpasso, un modo goliardico per raccontare la mancanza di traffico in quella deserta lingua d’asfalto nel cuore della Pianura Padana.
A distanza di tre anni da quei giorni la Brebemi, l’autostrada A35 che con i suoi 62 chilometri attraversa il cuore produttivo lombardo tra Brescia e Milano stenta ugualmente a decollare.
L’infrastruttura concepita nel 1996, la prima realizzata in Italia in project financing con capitale interamente privato (2,4 miliardi, di cui 1,6 miliardi di prestiti tra Banca europea degli investimenti, Cassa Depositi e Prestiti e istituti di credito) viene ancora oggi soprannominata «autostrada fantasma».
Lo scrittore e giornalista Roberto Cuda ha deciso di dedicarle un libro, «Anatomia di una grande opera. La vera storia della Brebemi» (Edizioni Ambiente), uscito due anni fa e che ripercorre dettagliatamente i nodi dell’intricata vicenda.
Un appellativo poco felice che le è rimasto incollato sin dai suoi esordi: nel 2014 i passaggi erano pari a 8 mila al mese, per poi diventare 10 mila nel 2015, 14 mila l’estate scorsa e 16 mila nel giugno di quest’anno.
Numeri comunque al di sotto delle aspettative e che hanno indotto i vertici dell’infrastruttura ad apportare delle novità necessarie.
Tuttavia, negli ultimi tempi la situazione Brebemi sembra essere leggermente migliorata. L’infrastruttura infatti ha liberato dal traffico i comuni dell’area interessata, riducendo i tempi di percorrenza e le emissioni di CO2.
Nel primo quadrimestre del 2017, secondo i dati Aiscat, il traffico dell’A35 ha segnato un +8,6%.
Una crescita che incide anche sul conto economico della società : il primo semestre di quest’anno infatti è stato chiuso con ricavi per 29,8 milioni di euro contro i 26 del secondo semestre 2016 e i 25,2 del primo semestre dello scorso anno.
Nelle scorse settimane inoltre, per rilanciare l’autostrada è stato inaugurato a Travagliato nel Bresciano, con tre mesi d’anticipo, un nuovo tracciato lungo 5,6 chilometri e che collega direttamente le autostrade A35 e A4.
Grazie a questa nuova opera la Brebemi può essere utilizzata da tutti gli utenti come strada direttissima Brescia-Milano, agevolando il traffico proveniente da Est e da Ovest.
E il raccordo (costato 58 milioni) dovrebbe drenare un po’ di traffico dall’A4. A breve, poi, apriranno due stazioni di servizio e persino i distributori di metano liquido.
I conti di Brebemi perciò migliorano, ma il bilancio resta in rosso, con un disavanzo di 49 milioni.
E nonostante gli oneri finanziari si siano ridotti (da -93,6 a -86,4 milioni), l’indebitamento complessivo pesa non poco sui conti dell’infrastruttura lombarda.
In questi anni non sono mai mancate le critiche di Legambiente che oltre ad aver bocciato (per l’ennesima volta) il progetto Brebemi, ha più volte ha alzato la voce per la distruzione dei numerosi terreni agricoli espropriati, in particolare nella Bassa Bergamasca.
A dare man forte all’associazione ambientalista anche la questione relativa al centro commerciale «Le Acciaierie» di Cortenuova, proprio in provincia di Bergamo.
Qui, in questo paese di 2 mila anime, la Brebemi ha il sapore di una storia dal finale drammatico. L’immensa struttura, sorta nei pressi di uno dei tanti caselli autostradali e costituita da ben 48 mila metri quadri fu aperta nel 2005, proprio in previsione della nuova infrastruttura. Tuttavia, complice la crisi, da tre anni giace abbandonata e con le serrande dei 175 negozi abbassate.
Un territorio ferito e maltrattato dal cemento che più volte è sceso in piazza con i suoi abitanti per protestare contro i poli logistici e le aree industriali che potrebbero presto sorgere lungo i bordi della A35.
Il condizionale è d’obbligo, perchè si tratta di uno dei tanti interrogativi che ancora oggi purtroppo rendono concreto il soprannome di “autostrada fantasma” per la Brebemi.
Una lingua d’asfalto in mezzo al deserto, dove a sfrecciare per il momento sono soltanto le polemiche.
(da “La Stampa”)
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Luglio 19th, 2017 Riccardo Fucile
LA MINISTRA DEI TRASPORTI FRANCESE BORNE: “BISOGNA RIESAMINARE I FLUSSI DI MOBILITA’ E LE SPESE IN RAPPORTO ALLE RISORSE”
Il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron “ha annunciato un approccio globale. Si fa una pausa, si riesaminano gli orientamenti in termini di mobilità , si riesaminano le spese e le risorse per non fare più promesse non finanziate, e avere dunque a disposizione risorse coerenti con le promesse fatte”.
Si tratta quindi di una pausa sulla Torino-Lione? “si tratta di una pausa”.
Lo dice la ministra dei trasporti francese Elisabeth Borne a Reporterre.Net, sito francese ‘quotidiano dell’ecologià , in un’intervista diffusa dai comitati no tav e ascoltabile anche come file audio sul sito transalpino
“Il presidente della repubblica ha annunciato che, dal momento che gli impegni che sono stati presi e i bisogni essenziali in termini di manutenzione e rigenerazione superano di dieci miliardi le entrate prevedibili in questa fase, siamo obbligati a fare una pausa per riflettere sul modello di mobilità e dare priorità ai progetti- dice Borne- e in seguito andremo verso una legge di programmazione nella quale non saremo più tra promesse non finanziate: avremo anno per anno, con una visione su dieci anni e nel corso dei cinque anni del periodo quinquennale, spese e ricette equilibrate”.
La pausa annunciata dal ministro riguarderà tutto il tratto della linea ad alta capacità in Francia, ma non quello internazionale da Saint Jeanne de Mauriènne e Susa per cui sono già partiti i lavori.
Il 28 luglio si terrà un vertice della ministra Borne con il collega italiano Graziano Delrio. A settembre invece si svolgerà a Lione il primo incontro bilaterale sull’opera con il nuovo governo di Parigi.
Ieri si è intanto aperta la conferenza dei servizi per la variante che prevede di scavare la parte italiana del tunnel partendo da Chiomonte.
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 7th, 2017 Riccardo Fucile
PER 22 CONSIGLIERI REGIONALI CI SONO BEN 16 GRUPPI AUTONOMI, DEI QUALI 10 COMPOSTI DA UNA SOLA PERSONA… COSI’ CI SI GUADAGNA
Miracoli della politica. Di solito quando in italiano ci si riferisce a un gruppo, si parla di più persone.
Ma questo non è vero nella politica regionale, dove un gruppo può essere composto anche da un solo o due consiglieri.
Per 22 consiglieri regionali ci sono infatti ben 16 gruppi consiliari autonomi, dei quali ben 10 (dieci) composti da una sola persona: ognuno presidente di se stesso, scrive oggi Sergio Rizzo sul Corriere.
Sapete quanti sono i gruppi regionali con un solo componente? La bellezza di 62 (sessantadue). Niente è cambiato dopo gli scandali dei soldi dissipati per ragioni che nulla avevano a che fare con la politica.
Niente, nemmeno dopo le inchieste giudiziarie che hanno fatto finire nel registro degli indagati 521 consiglieri.
Niente, neppure dopo il giro di vite imposto a valle di quelle vicende nel 2012 dal governo di Mario Monti, e che di fatto hanno inaridito il fiume di denaro pubblico destinato a quei gruppi nei consigli regionali.
Prima della riformina del 2011 che ha ridotto l’abnorme numero delle poltrone, per oltre 1.100 consiglieri regionali c’erano 75 gruppi monocellulari. Circa il 6,7%. Oggi ce ne sono invece 62 per 904 consiglieri: il 6,8%.
Perfino Regioni che sulla carta li avevano aboliti, quei gruppuscoli, oggi ne sono ipocritamente piene zeppe.
Il 16 novembre del 2011, quando il consiglio regionale del Lazio deliberò il divieto, il suo presidente dell’epoca Mario Abbruzzese esultò: «È un provvedimento che elimina di fatto un costo della politica, risolve il problema esistente fino a oggi della frammentazione dei gruppi».
Allora, con 70 consiglieri regionali, quelli monocellulari erano 8. Oggi, che le poltrone sono 50, eccone 6. Si è passati dall’11,4 al 12%
Per chi si chiede come mai tutto questo, una risposta c’è.
Una volta per i gruppi regionali c’era a disposizione una barca di soldi. Oggi invece molto meno. Briciole: ma è sempre meglio che niente, con questi chiari di luna. Soprattutto, c’è la possibilità di assumere. Addetti stampa, portaborse…
Nel Lazio, per esempio, ogni gruppo può avere fino a 3 collaboratori più l’esperto di comunicazione: al quale qualche giorno fa è stato riconosciuto anche il diritto al contratto giornalistico, con un emendamento ad hoc.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 21st, 2016 Riccardo Fucile
VIAGGIO NELL’IMPIANTO DI COMPOST TRA AMMASSI DI VERDURE, PANE E FORMAGGI
Ci sono i numeri dello spreco di cibo. E fanno impressione: 5 milioni e mezzo di tonnellate l’anno, 12 miliardi buttati al vento in Italia.
Ma il potere evocativo dei dati (fonte Politecnico di Milano con Fondazione banco alimentare) è poca cosa di fronte a quello delle immagini: «Lo vede? È un pezzo di formaggio ed è ancora commestibile».
Luca Rossi, direttore dell’Ipla (Istituto per le piante e per l’ambiente del Piemonte), ha ragione: su quel pezzo di toma non c’è alcuna traccia di muffa. Anche la crosta, a prima vista, è quasi perfetta. E non ha l’odore di un cibo andato a male. Peccato, però, che non si possa più mangiare.
Luca Rossi ha preso il latticino da un ammasso di rifiuti organici provenienti dalla grande distribuzione e scaricata per terra nell’aia di stoccaggio dell’impianto di compost gestita dalla società Territorio e Risorse alle porte di Santhià , in provincia di Vercelli.
Ci sono baguette, pane casereccio di ogni forma e dimensione; filoni integrali e alle noci. E poi tranci di pizza rossa e bianca («È ancora morbida, si poteva recuperare»), formaggio stagionato, peperoni, sedani, limoni, mele.
Ottocento chili, forse una tonnellata.
Osservare tutto quel cibo scartato fa star male ed è ancora peggio quando Rossi, con occhio esperto, si china per raccoglierne qualche campione e dimostra che è ancora buono.
Mentre il direttore di Ipla parla, il suo presidente, Igor Boni, in una decina di minuti, e senza scavare dentro l’ammasso, raccoglie prodotti che avrebbero potuto essere conservati in frigo e poi essere cucinati. «Non hanno un brutto aspetto dopo due viaggi dentro i compattatori».
Il 50% del cibo scartato è buono: ecco in che cosa viene trasformato
Siamo nel Vercellese ma Ipla fa verifiche negli altri impianti del Piemonte e «la storia si ripete».
Anche nel resto d’Italia. Quanto cibo scartato potrebbe essere recuperato?
«Più o meno la metà » spiega Boni. Il direttore è più cauto, ma ammette: «Una parte significativa di questo cibo avrebbe potuto non finire qui».
Il sedano bianco non sembra aver risentito di questo viaggio, nemmeno melanzane e zucchine.
«Vengono scartati – spiega Rossi – per rispettare obblighi di legge o perchè vengono giudicati inadatti per la vendita. Ma anche se non hanno un bell’aspetto si possono ancora mangiare». Basta recuperarlo.
Per Rossi è un circolo virtuoso dove ci guadagnano tutti, anche la grande distribuzione che potrebbe risparmiare riducendo i rifiuti da smaltire.
Qualcosa si sta già facendo.
«In Italia – spiega il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina – recuperiamo ogni anno 550 mila tonnellate di cibo che viene distribuito a milioni di persone in difficoltà ». Il Parlamento ha approvato una legge in materia e promette di recuperare un milione di tonnellate entro l’anno.
Un passo avanti, sicuramente. Ma c’è un problema.
Il Politecnico di Milano ha studiato gli sprechi della filiera. Si parte dai campi dove si butta, a causa della deperibilità , il 34% del prodotto.
Il ministero afferma di recuperare 300 mila tonnellate di ortofrutta l’anno.
L’1% è legato alle lavorazioni industriali mentre il 14 agli scarti della grande distribuzione. Il consumo domestico pesa per il 47%.
E in questo non serve una legge ma l’educazione alimentare.
Maurizio Tropeano
(da “La Stampa”)
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