Marzo 6th, 2012 Riccardo Fucile
ROBERTO SAVIANO: “I CLAN SI PRESENTANO CON IMPRESE CHE VINCONO PERCHE’ FANNO OFFERTE PIU’ VANTAGGIOSE… IL TRACCIATO DELLA TORINO-LIONE SI SOVRAPPONE ALLA MAPPA DELLE FAMIGLIE MAFIOSE E DEI LORO AFFARI”
Tutti parlano di Tav, ma prima di ogni cosa bisognerebbe partire da un dato di fatto: negli ultimi trent’anni l’Alta velocità è diventata uno strumento per la diffusione della corruzione e della criminalità organizzata, un modello vincente di business perfezionatosi dai tempi dalla costruzione dell’Autostrada del Sole e della ricostruzione post-terremoto in Irpinia.
Questa è una certezza giudiziaria e storica più solida delle valutazioni ambientali e politiche (a favore o contro), più solida di ogni altra analisi sulla necessità o sull’inutilità di quest’opera. In questo momento ci si divide tra chi considera la Tav in Val di Susa come un balzo in avanti per l’economia, come un ponte per l’Europa, e chi invece un’aberrazione dello spreco e una violenza sulla natura.
Su un punto però ci si deve trovare uniti: bisogna avere il coraggio di comprendere che l’Italia al momento non è in grado di garantire che questo cantiere non diventi la più grande miniera per le mafie.
Il governo Monti deve comprendere che nascondere il problema è pericoloso.
Prima dei veleni, delle polveri, della fine del turismo, della spesa esorbitante, prima di tutte le analisi che in questi giorni vengono discusse bisognerebbe porsi un problema di sicurezza del sistema economico.
Che è un problema di democrazia.
Ci si può difendere dall’infiltrazione mafiosa solo fiaccando le imprese prima che entrino nel mercato, quando cioè è ancora possibile farlo.
Ma ormai l’economia mafiosa è assai aggressiva e l’Italia, invece, è disarmata.
Il Paese non può permettersi di tenere in vita con i fiumi di danaro della Tav le imprese illegali.
Se non vuole arrendersi alle cosche, e bloccare ogni grande opera, deve dotarsi di armi nuove, efficaci e appropriate.
La priorità non può che essere la “messa in sicurezza dell’economia”, per sottrarla all’infiltrazione e al dominio mafioso, dotandola di anticorpi che individuino e premino la liceità degli attori coinvolti e creino le condizioni per una concorrenzialità , vera, non inquinata dai fondi neri.
Oggi questa messa in sicurezza non è ancora stata fatta e il Paese, per ora, non ha gli strumenti preventivi per sorvegliare l’enorme giro degli appalti e subappalti, i cantieri, la manodopera, le materie prime, i trasporti, e lo smaltimento dei rifiuti, settori tradizionali in cui le mafie lavorano (inutile negarlo o usare toni prudenti) in regime di quasi monopolio.
Quando i cantieri sono giganti con fabbriche di movimenti umani e di pale non ci sono controlli che tengano.
Le mafie si presentano con imprese che vincono perchè fanno prezzi vantaggiosi che sbaragliano il mercato, hanno sedi al nord e curricula puliti, e il flusso di denaro destinato alla Tav rischia di diventare linfa per il loro potenziamento, aumentandone la capacità di investimento, di controllo del territorio, accrescendone il potere economico e, di conseguenza, politico.
Non vincono puntando il fucile. Vincono perchè grazie ai soldi illeciti il loro agire lecito è più economico, migliore e veloce.
Lo schema finanziario utilizzato sino ad ora negli appalti Tav è il meccanismo noto per la ricostruzione post-terremoto del 1980: il meccanismo della concessione, che sostituisce la normale gara d’appalto in virtù della presunta urgenza dell’opera, e fa sì che la spesa finale sia determinata sulla base della fatturazione complessiva prodotta in corso d’opera, permettendo di fatto di gonfiare i costi e creare fondi neri per migliaia di miliardi.
La storia dell’alta velocità in Italia è storia di accumulazione di capitali da parte dei cartelli mafiosi dell’edilizia e del cemento.
Il tracciato della Lione-Torino si può sovrapporre alla mappa delle famiglie mafiose e dei loro affari nel ciclo del cemento.
Sono tutte pronte e già si sono organizzate in questi anni.
Esagerazioni?
La Direzione nazionale Antimafia nella sua relazione annuale (2011) ha dato al Piemonte il terzo posto sul podio della penetrazione della criminalità organizzata calabrese: “In Piemonte la ‘ndrangheta ha una sua consolidata roccaforte, che è seconda, dopo la Calabria, solo alla Lombardia”. Così come dimostra la sentenza n. 362 del 2009 della Corte di Cassazione che ha riconosciuto definitivamente “un’emanazione della ‘ndrangheta nel territorio della Val di Susa e del Comune di Bardonecchia”. L’infiltrazione a Bardonecchia (che arrivò a portare lo scioglimento del comune per infiltrazione mafiosa nel 1995 primo caso nel Nord-Italia) è avvenuta nel periodo in cui si stava costruendo una nuova autostrada e il traforo del Frejus verso la Francia. Gli appalti del traforo portarono le imprese mafiose a vincere per la prima volta in Piemonte.
Credere che basti mettere sotto osservazione le imprese edili del sud per evitare l’infiltrazione è una ingenuità colpevole.
Le aziende criminali non vengono dalle terre di mafie.
Nascono, crescono e vivono al Nord, si presentano in regola e tutte con perfetto certificato antimafia (di cui è imperativa una modifica dei parametri). È sempre dopo anni dall’appalto che le indagini si accorgono che il loro Dna era mafioso.
Qualche esempio.
La Guardia di Finanza individuò sui cantieri della Torino-Milano la Edilcostruzioni di Milano che era legata a Santo Maviglia narcotrafficante di Africo.
La sua ditta lavorava in subappalto alla Tav.
La Ls Strade, azienda milanese leader assoluta nel movimento terre era di Maurizio Luraghi imprenditore lombardo.
Secondo le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Milano, Luraghi era il prestanome dei Barbaro e dei Papalia, famiglie ‘ndranghetiste.
Nel marzo 2009 l’indagine, denominata “Isola”, dimostrò la presenza a Cologno Monzese delle famiglie Nicoscia e Arena della ‘ndrangheta calabrese che riciclavano capitali e aggiravano la normativa antimafia usando il sistema della chiamata diretta per entrare nei cantieri Tav di Cassano d’Adda.
Partivano dagli appalti poi arrivavano ai subappalti e successivamente – e in netta violazione delle leggi – ad ulteriori subappalti gestendo tutto in nero.
Dagli appalti si approdava prima ai subappalti e successivamente – e in contrasto con le norme antimafia – ad ulteriori subappalti con affidamento dei lavori del tutto in nero. Nell’ottobre 2009 l’Operazione Pioneer arrestò 14 affiliati del clan di Antonio Spagnolo di Ciminà (Reggio Calabria), proprietario della Ediltava sas di Rivoli, con la quale si aggiudicò subappalti sulla linea Tav.
Dalla Lombardia al Piemonte il meccanismo è sempre lo stesso: “Le proiezioni della criminalità calabrese, attraverso prestanome, – scrive l’Antimafia – hanno orientato i propri interessi nel settore edile e del movimento terra, finanziando, con i proventi del traffico di droga e dell’usura, iniziative anche di rilevante entità . In tale settore le imprese mafiose sono clamorosamente favorite dal non dover rispettare alcuna regola, ed anzi dal poter fare dell’assenza delle regole il punto di forza per accaparrarsi commesse”.
A Reggio Emilia l’alta velocità è stata il volano per far arrivare una sessantina di cosche che hanno iniziato a egemonizzare i subappalti nell’edilizia in Emilia Romagna.
Sulla Tav Torino-Milano si creò un business mafioso inusuale che generò molti profitti e che fu scoperto nel 2008.
Fu scoperta una montagna di rifiuti sotterrati illegalmente nei cantieri dell’Alta Velocità : centinaia di tonnellate di materiale non bonificato, cemento armato, plastica, mattoni, asfalto, gomme, ferro, intombato nel cuore del Parco lombardo del Ticino.
La Tav diventa ricchezza non solo per gli appalti ma anche perchè puoi nascondere sottoterra quel che vuoi.
Una buca di trenta metri di larghezza e dieci di profondità è in grado accogliere 20mila metri cubi dì materiale.
Ci si arricchisce scavando e si arricchisce riempiendo: il business è doppio.
I cantieri Tav sulla Napoli-Roma, raccontano bene quello che potrebbe essere il futuro della Tav in Val di Susa.
Il clan dei Casalesi partecipa ai lavori con ditte proprie in subappalto e soltanto fino al 1995 la camorra intasca secondo la Criminalpol 10mila miliardi di lire.
Fin dall’inizio gli esponenti del clan dei Casalesi esercitarono una costante pressione per conseguire e conservare il controllo camorristico sulla Tav in due modi: o infiltrando le proprie imprese o imponendo tangenti alle ditte che concorrevano nella realizzazione della linea ferroviaria.
I cantieri aperti dal 1994 per oltre dieci anni, avevano un costo iniziale previsto di 26.000 miliardi, arrivato nel 2011 a 150.000 miliardi di lire per 204 chilometri di tratta; il costo per chilometro è stato di circa 44 milioni di euro, con punte che superano i 60 milioni.
Le indagini della Dda spiegarono alcuni di questi meccanismi scoprendo che molte delle società appaltatrici erano legate a boss-imprenditori come Pasquale Zagaria, coinvolto nel processo Spartacus a carico del clan dei Casalesi (e fratello del boss Michele, il quale, ancora latitante, riceveva nella sua villa imprenditori edili dell’alta velocità ).
Il clan dei Casalesi partecipò ai lavori con ditte proprie, accaparrandosi inizialmente il monopolio del movimento terra attraverso la Edil Moter.
Nel novembre del 2008 le indagini della procura di Caltanissetta ruotarono intorno alla Calcestruzzi spa, società bergamasca del Gruppo Italcementi (quinto produttore a livello mondiale), che forniva il cemento per realizzare importanti opere pubbliche tra cui alcune linee della Tav Milano-Bologna e Roma-Napoli (terzo e quarto lotto), metrobus di Brescia, metropolitana di Genova e A4-Passante autostradale di Mestre.
Le indagini (che aveva iniziato Paolo Borsellino) mostrarono: “Significativi scostamenti tra i dosaggi contrattuali di cemento con quelli effettivamente impiegati nella produzione dei conglomerati forniti all’impresa appaltante”.
L’indagine voleva accertare se la Calcestruzzi avesse proceduto “a una illecita creazione di fondi neri da destinare in parte ai clan mafiosi dell’isola, nonchè l’eventuale esistenza di una strategia aziendale volta a tali fini”.
Ecco: questa è l’Italia che si appresta ad aprire i cantieri in Val di Susa.
Che la mafia non riguardi solo il sud ormai è accertato.
Di più: le organizzazioni criminali non solo in Italia, ma anche in Usa e in tutto il mondo, stanno approfittando enormemente della crisi, che è diventata per loro un’enorme occasione da sfruttare.
Bisogna mettere in sicurezza l’economia del paese e siamo, su questo terreno, in grande ritardo.
La giurisprudenza antimafia è declinata sulla caccia ai boss mafiosi. Giusto, ma non basta: serve un balzo in avanti, serve una giurisprudenza che dia la caccia agli enormi capitali, alle casseforti criminali che agiscono indisturbate nel mondo della finanza internazionale.
O ci si muove in questa direzione o l’alternativa è che ogni forma di ripresa economica sarà a capitale di maggioranza mafioso.
Roberto Saviano
(da “La Repubblica“)
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Luglio 28th, 2011 Riccardo Fucile
VERSATI 2,4 MILIONI DI EURO PER CONSULENZE FITTIZIE…PER I PM ERA UNA FORMA DI FINANZIAMENTO AI DS
Il “sisitema Sesto” è un po’ come il vaso di Pandora: ovunque ti giri, spuntano tangenti.
Non tutte chiare, non tutte destinate all’ex sindaco di Sesto San Giovanni Filippo Penati e soprattutto non tutte servite per finanziare le attività politiche dei Ds tra la provincia e Milano.
L’ultima traccia scoperta dagli inquirenti porta infatti ben oltre i confini della Lombardia anche se si dissolve tra i Lidi di Ravenna e le campagne di Modena.
E’ qui infatti che, inspiegabilmente, finiscono 2 milioni e 400 mila euro versati dall’imprenditore edile ed esponente del centrodestra Giuseppe Pasini a due società indicate dalle cooperative rosse di Bologna: la Fingest di Modena e la Aesse di Ravenna.
Secondo il materiale raccolto dagli inquirenti monzesi, i pm Walter Mapelli e Franca Macchia, il passaggio di denaro, avvenuto nel 2002 in almeno 4 tranches da 619 mila euro ciascuna, non ha infatti una spiegazione plausibile, visto che le fatture emesse a fronte dei pagamenti di Pasini parlano di contratti per lavori inesistenti.
Generiche consulenze per l’estero che poco sarebbero servite in quel periodo a Pasini, in lotta per ottenere dal comune di Sesto San Giovanni una deroga al Prg che gli consentisse di avere un aumento volumetrico sulle costruzioni da realizzare nell’area ex Falk.
Secondo le accuse, ad indicare a Pasini le due società , i cui titolari, Francesco Aniello (avvocato siciliano) e Giampaolo Salami (professionista ravennate) erano legati al Consorzio Cooperative Costruzioni, sarebbe stato Omer Degli Espositi, il 63enne vicepresidente della Ccc ora indagato (insieme ai due consulenti) per concorso in concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti.
Pasini ai pm avrebbe spiegato che dopo aver acquistato l’area Falk per 380 miliardi di lire arrivò a un accordo con Penati per non subire intralci burocratici che prevedeva il versamento di una tangente complessiva di 20 miliardi di lire, in pratica il 5 per cento sul valore dell’area.
Una cifra che l’imprenditore, ora consigliere comunale del centrodestra, si sarebbe impegnato a versare in diverse modalità : 4 miliardi di lire subito (si parla del 2002) aprendo un conto in Lussemburgo che servì in gran parte per rifondere una parte dei finanziamenti a Penati ricevuti dall’imprenditore dei trasporti e Grande Accusatore, Piero Di Caterina.
In pratica con quei soldi, Pasini consentì all’allora sindaco di Sesto di iniziare a far fronte ai suoi debiti con Di Caterina, tenendo per sè, o meglio per le spese della sua struttura politica, “solo” 500 milioni di lire, che vennero prelevati in Svizzera dal suo braccio destro Giordano Vimercati.
Esistono le contabili bancarie e i numeri di conto corrente forniti dagli stessi imprenditori che non lasciano spazio a molti dubbi.
Un’altra parte dell’accordo tra Pasini e Penati, almeno secondo l’imprenditore, avrebbe previsto invece l’intervento della Ccc di Bologna per l’appalto di alcuni lavori nell’area.
Infine, il versamento di quei famosi 2 milioni e 400 mila euro alle due piccole società di consulenza di Modena e Ravenna.
Che fine hanno fatto quei soldi? A chi erano destinati veramente?
Il sospetto degli investigatori, anche in questo caso, è che si sia trattato di un pagamento per i vertici nazionali del partito di Penati dell’epoca, ovvero i Ds.
Ieri intanto i magistrati di Monza hanno interrogato un altro indagato, Antonio Princiotta, segretario generale prima del comune di Sesto e poi della Provincia sempre con Penati.
Accompagnato dal suo legale, l’avvocato Luca Giuliante (lo stesso di Lele Mora, nonchè tesoriere del Pdl lombardo), Princiotta è stato ascoltato per un paio d’ore. Secondo Di Caterina, il burocrate vicino a Penati avrebbe ricevuto la promessa e il versamento di 100 mila euro (in tranche da 2000 euro ciascuna, l’ultima nel 2008) per stendere la delibera della Provincia, firmata da Penati il 9 gennaio del 2009, che risolvesse il contenzioso dell’imprenditore con l’Atm di Elio Catania, obbligando l’azienda dei trasporti milanesi a versare alla Caronte 12 milioni di euro dovuti dagli introiti dei biglietti.
Crediti tutt’ora vantati da Di Caterina, visto che l’esecutività della delibera è stata poi bloccata dalla nuova giunta di Podestà .
Princiotta ha negato le accuse, sostenendo in pratica che Di Caterina sarebbe impazzito.
Ma come si sa, talvolta la verità è patrimonio dei folli.
E qui il manicomio è appena cominciato.
Paolo Colonnello
(da “La Stampa“)
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Maggio 1st, 2011 Riccardo Fucile
SULLA STRADA ASPETTANDO IL CAPORALE CHE TI FA LAVORARE…. TRA ABUSI, INGIUSTIZIE E MORTI SENZA NOME… IL “LAVORO SPORCO” DI TANTI “INVISIBILI” SOLO A CHI NON LI VUOLE VEDERE, IN UNO STATO SOCIALE LATITANTE
Sono le 5 del mattino, sulla statale a ridosso della Magliana, periferia sud di Roma. Vicino a un viadotto, si distinguono delle sagome sul ciglio della strada: vanno avanti e indietro tra le auto che sfrecciano.
Saranno una cinquantina, da lontano sembrano prostitute.
In realtà sono uomini: lavoratori, operai.
Tutti in cerca di un lavoro. «In nero, ovviamente».
Moldavi, ucraini, rumeni, polacchi in attesa del caporale che di lì a poco li assolderà in qualche cantiere, «in nero ovviamente».
Costano la metà e lavorano quasi il doppio rispetto a un operaio regolare.
Un manovale in nero prende 40 euro per dieci ore di lavoro; si sale fino
a un massimo di 70 euro per quelli con più esperienza.
Vuol dire che devono saper fare di tutto: muratura, pittura, intonaco, massetti, pavimenti, idraulica etc.
Nessuno può discutere o contrattare il salario.
Se ti sta bene sali in macchina, altrimenti resti in strada ad aspettare la prossima opportunità , se ci sarà .
Perchè le strade della capitale sono sempre più piene di lavoratori che si offrono senza condizioni.
Con una telecamera nascosta abbiamo anche filmato quello che succede
quotidianamente sulle strade provando a fotografare la paura, la rassegnazione e l’indignazione di chi non ha altra scelta per vivere.
Ma anche la spudorata arroganza con la quale i caporali abusano di queste persone.
Per un giorno ci siamo trasformati in uno di loro: siamo diventati operai in nero. “Invisibili” ma parte integrante di quella terribile piaga del lavoro senza diritti che affligge l’Italia.
Dopo alcune ore in piedi e sotto al sole si ferma una macchina.
Il socio di un’impresa locale ci ingaggia per il rifacimento della retefognaria di una residenza sanitaria.
Il prezzo per la giornata è 50euro.
Appena arrivati prendiamo ordini a ripetizione e iniziamo a fare quello che qui chiamano il «lavoro sporco».
Inutile parlare di sicurezza sul lavoro.
Se chiedi un paio di guanti o un casco ti ridonoin faccia: «Qui si lavora così … lavora piano piano».
Un altro operaio spiega che se ci facciamo male o sbagliamo a fare qualcosa è meglio che ce ne andiamo subito perchè il capocantiere nemmeno ci pagherà . Ma l’infortunio è il minimo che può capitare.
In casi peggiori nessuno dovrà mai sapere come e cosa è successo.
Insomma, dei fantasmi.
Inesistenti anche per le statistiche che non li contemplano neppure alla voce «morti sul lavoro».
Tragica realtà quotidiana nell’Italia che produce e lavora senza regole e diritti.
Antonio Crispino
(da “Il Corriere della Sera“)
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Aprile 20th, 2011 Riccardo Fucile
STOP AI LAVORI PER UN’AZIENDA VICINA AL CARROCCIO E IMPEGNATA NELA COSTRUZIONE DELLA TANGENZIALE A NOVELLARA…IL PREFETTO DI REGGIO EMILIA: “NELLA NOSTRA PROVINCIA C’E’ LA MAFIA”…SI TRATTA DELLA DITTA BACCHI DI BORETTO, SPECIALIZZATA IN ESCAVAZIONI: HA DATO IN SUBAPPALTO I LAVORI A DUE AZIENDE COLLEGATE ALLA FAMIGLIA MATTACE
Le infiltrazioni mafiose — o i tentativi — al Nord continuano a destare allarme nella politica.
Questa volta la bufera si abbatte sul Reggiano.
Durante un convegno della Cna il prefetto di Reggio Emilia, Antonella De Miro, ha rilanciato: “A Reggio la mafia c’è”.
A corollario dell’ultima notizia che riguarda lo stop imposto dalla Dia all’appalto per la costruzione della circonvallazione a Novellara.
Evento che ha scosso il mondo politico.
Le amministrazioni locali hanno chiesto di “continuare i lavori della tangenziale”.
L’ex vicesindaco di Guastalla ed ex leghista Marco Lusetti, espulso dal Carroccio la scorsa estate e fondatore del movimento “Agire Comune”, ha difeso a spada tratta la ditta che ha vinto l’appalto.
Nessun commento sulla vicenda è arrivato ad oggi dal segretario della Lega Nord Emilia, l’onorevole leghista Angelo Alessandri, presidente della Commisione lavori pubblici ed Ambiente della Camera dei Deputati ed originario di Guastalla, paesi a pochi chilometri dal Po e da Boretto.
Invece il consigliere regionale Andrea Defranceschi (Movimento 5 Stelle) annuncia una interrogazione in Regione chiedendo il “check-in” di tutti gli appalti sulle estrazioni di sabbie dal Po negli ultimi anni.
Ma qual è il punto di tutta la vicenda?
E perchè imbarazza così tanto la Lega?
Riguarda Novellara, appunto, paese della provincia di Reggio Emilia, e quella che gli ambietalisti la chiamano la “tangenziale discarica”.
Un progetto partorito all’inizio del millennio tra le contestazione in primis da Legambiente, in quanto il finanziameno di questa opera pubblica è nato come compensazione per l’ampliamento della locale discarica gestita dalla municipalizzata pubblica Sabar spa di cui il Comune è socio.
Su quest’opera pubblica, cavallo di battaglia di tutti i sindaci di centrosinistra degli ultimi dieci anni, è arrivato lo stop dell’antimafia.
Il 23 marzo scorso alla Prefettura di Reggio Emilia è stata consegnata una dettagliata relazione, arrivata dopo la richiesta degli accertamenti sui cantieri, disposti dalla Direzione investigativa antimafia di Firenze.
Controlli attivati a metà febbraio tramite il prefetto De Miro.
Le indagini hanno portato alla sospensione dell’appalto e alla revoca della certificazione antimafia alla ditta Bacchi di Boretto, notissima in zona anche per le escavazioni nel Po fortemente contestate da associazioni ambientaliste come Legambiente.
Una ditta la Bacchi spa nota anche per gli ottimi rapporti istituzionali con diversi politici in primis con quelli della Lega Nord, tanto che il Carroccio nel 2006 ricevette un regolare finanziamento di 5.000 euro registrato alla Camera dei Deputati.
Agli investigatori del centro operativo del capoluogo toscano era stata segnalata la presenza nel cantiere di soggetti vicini alla criminalità organizzata.
Le ispezioni hanno dato esito positivo.
Da quanto è emerso l’azienda di Boretto avrebbe assegnato due subappalti ad imprese con sede in provincia di Parma, il Consorzio edile M2 di Soragna e la Tre Emme Costruzioni di Roccabianca.
La Direzione investigativa antimafia ha ricostruito che le due le imprese sono collegate alla famiglia Mattace di Cutro, ritenuta dagli investigatori molto vicina al clan Grande Aracri.
Secondo quanto emerge dai documenti della Prefettura, nell’assegnazione di questi lavori alle ditte riconducibile ai Mattace, la Bacchi avrebbe eluso in maniera consapevole la legge antimafia per il controllo dei subappalti.
Le ditte dei Mattace non avrebbero mai ottenuto la certificazione antimafia dalla Prefettura.
La legge prevede che l’obbligo dell’autorizzazione antimafia scatta solo per subappalti di importo superiore ai 155 mila euro.
E’ stato così, come emerge dall’ispezione, che la Bacchi avrebbe aggirato l’ostacolo.
Spezzando il subaappalto tra le due ditte: 50mila euro di lavori al Consorzio M2 e 130mila euro alla Tre Emme.
Ma non è finita qui. Ispezionando il cantiere le forze dell’ordine hanno trovato Giuliano Floro Vito.
Chi è ? E’ l’ex cognato di Domenico Mattace, il presidente della TreEmme e considerato dagli inquirenti un elemento di grande spessore criminale, legato al clan della n’drangheta dei Dragone e poi dei Grandi Aracri, già posto agli arresti nel 2001 e poi assolto per l’operazione “Scacco Matto”, finito poi in manette per usura nell’aprile 2010.
Per questa vicenda Floro Vito, per la legge dovrebbe essere agli arresti domiciliari e sorvegliato speciale.
Peccato che si trovasse sul cantiere di Novellara come dipendente della Tre Emme.
Dalle fatture poi risulta che la Bacchi ha versato alla Tre Emme 161 mila euro.
Una cifra superiore a quello concordata.
In particolare maggiore alla soglia che fa scattare l’obbligo di certificazione antimafia.
Altra anomalia. L’azienda di Boretto ha chiesto alla stazione appaltante, Iniziative Ambientali, società mista che vede tra i soci le municipalizzate Sabar Spa, Iren Spa e Unieco, di poter procere all’affidamento del subappalto solo il 21 giugno 2010.
Ma i Bacchi avevano già firmato il contratto con la ditta dei Mattace da circa un mese e mezzo.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 14th, 2011 Riccardo Fucile
ACCUSE DI UN IMPRENDITORE AL PRIMO CITTADINO: “MI HA CHIESTO 50 MILA EURO”: UN AUDIO COMPROMETTENTE CONFERMA LA RICHIESTA DI DENARO…E PER IL SINDACO PDL PARAFULMINE SCATTA L’ACCUSA DI CONCUSSIONE
“Li hai presi i diecimila euro che ti ho mandato tramite l’assessore?”. “Sì, certo”.
Storia di concessioni edilizie e tangenti a Lampedusa.
L’ha raccontata ieri nell’aula del Tribunale di Agrigento l’imprenditore settantenne Pasquale De Francisci e ha portato le prove.
Una cassetta registrata di nascosto a Palermo in Piazza Politeama durante un incontro con Bernardino De Rubeis, detto Dino, il sindaco
dell’isola.
Un politico diventato personaggio grazie all’emergenza immigrati di questi mesi.
Gli italiani lo ricordano, lui altissimo, accanto a Berlusconi.
Sull’isola ancora risuonano i suoi ordini secchi, impartiti pochi minuti prima dell’arrivo del Cavaliere in piazza.
“Ma che minchia fate? Abbassate questa minchia di cartelli se no il presidente non parla con voi”.
C’erano slogan e scritte “non gradite”, c’erano contestatori e Silvio aveva chiesto solo applausi e consensi.
I cartelli sparirono.
La cassetta dell’imprenditore no.
È spuntata ieri durante il processo a carico di De Rubeis e ha provocato il finimondo.
L’accusa nei confronti del sindaco cambia, si aggrava: non più tentata concussione, ma concussione consumata.
Perchè nella registrazione fatta dall’imprenditore si parla di soldi dati, almeno diecimila euro, di altri da dare, altri 40mila per arrivare alla cifra totale di 50mila.
Tanto, secondo De Francisci (uno dei tre imprenditori che accusano De Rubeis di aver intascato mazzette), il sindaco gli avrebbe chiesto per una concessione edilizia.
La registrazione con i dialoghi tra De Rubeis e l’imprenditore è stata secretata e acquisita agli atti, l’accusa si aggrava.
Per il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo la concussione si è consumata.
La storia inizia il secolo scorso, nel 1992, quando De Francisci presenta un progetto di lottizzazione per una delle zone più belle di Lampedusa, Cala Croce.
L’intenzione è quella di costruire un albergo di piccole dimensioni e alcuni dammusi (le costruzioni tipiche dell’isola).
La vicenda si trascina fino al 2005, perchè solo allora la pratica comincia a prendere forma .
Ci sono i “titoli autorizzativi”, manca solo la concessione.
Passano ancora tre anni e all’imprenditore arriva la richiesta del pagamento degli oneri di urbanizzazione, come sempre avviene in questi casi, si tratta sulla quantità e sulle forme del pagamento. La cifra finale è di 23 mila euro.
L’imprenditore li versa, ma la concessione ancora non si vede.
“A novembre del 2008 — fa mettere a verbale De Francisci — mi recai in Comune e il sindaco mi disse che avrei avuto tutto, ma mi sarebbe costato un po’. Più precisamente mi fece il segno con la mano aperta per indicare la somma che avrei dovuto pagare a lui per ottenere la concessione edilizia”.
La mano aperta con cinque dita in bella mostra.
L’imprenditore equivoca, pensa a cinquemila, il sindaco (secondo la testimonianza di De Francisci), “abbassando il tono della voce, mi rispose che la somma richiesta era di 50 mila euro”.
Alcune settimane dopo i due si incontrano a Palermo, l’imprenditore proprio non vuole pagare, ritiene ingiusta la richiesta di una mazzetta e si arma di registratore.
Il colloquio col sindaco (tutto in stretto dialetto siciliano, una cosa da far impazzire Camilleri) nella splendida piazza palermitana viene fissato su nastro.
De Francisci chiede se i primi 10 mila euro sono arrivati, De Rubeis: sì.
I due prendono un caffè, ma litigano sulla somma: 30 mila, no, pagano tutti 50 mila.
Si usa così a Lampedusa.
Enrico Fierro
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 13th, 2011 Riccardo Fucile
E’ QUANTO EMERGE NELLE 1.110 PAGINE DI DATI NELLA RELAZIONE ANNUALE DELLA DIA…LE REGIONE HA IL MASSIMO INDICE DI PENETRAZIONE NEL SISTEMA ECONOMICO LEGALE: TRAPIANTATI RITI E TRADIZIONI
La Lombardia si conferma la regione del nord Italia che registra «il maggiore indice di penetrazione nel sistema economico legale dei sodalizi criminali della ‘ndrangheta, secondo il modello della “colonizzazione”».
È l’allarme lanciato dalla Relazione annuale della Direzione nazionale Antimafia, 1.110 pagine di dati e analisi sulla criminalità organizzata made in Italy. «In Lombardia», chiariscono gli analisti, «la ‘ndrangheta si è diffusa non attraverso un modello di imitazione, ma attraverso un vero e proprio fenomeno di “colonizzazione”, cioè di espansione su di un nuovo territorio, organizzandone il controllo e gestendone i traffici illeciti, conducendo alla formazione di uno stabile insediamento mafioso.
La ‘ndrangheta ha «messo radici», divenendo col tempo un’associazione dotata di un certo grado di indipendenza dalla «casa madre», «con la quale però comunque continua ad intrattenere rapporti molto stretti e dalla quale dipende per le più rilevanti scelte strategiche».
In altri termini, in Lombardia «si è riprodotta una struttura criminale che non consiste in una serie di soggetti che hanno semplicemente iniziato a commettere reati in territorio lombardo»; al contrario, gli indagati «operano secondo tradizioni di ‘ndrangheta: linguaggi, riti, doti, tipologia di reati sono tipici della criminalità della terra d’origine e sono stati trapiantati in Lombardia dove la ‘ndrangheta si è trasferita con il proprio bagaglio di violenza».
La ‘ndrangheta è presente anche in Piemonte, Liguria, Toscana, Lazio ed in particolare Roma, Abruzzo, ove sono emersi inquietanti interessi negli appalti per la ricostruzione dopo il sisma del 2009, Umbria ed Emilia Romagna.
Per quanto attiene ai rapporti sul territorio, insomma, la ‘ndrangheta «è oggi l’assoluta dominatrice della scena criminale, tanto da rendere sostanzialmente irrilevante, e comunque, in posizione subordinata, ogni altra presenza mafiosa di origine straniera».
Non solo: la ‘ndrangheta si è da tempo proiettata anche verso l’Europa, il Nord America, il Canada, l’Australia.
C’è inoltre l’allarme per le infiltrazioni nella pubblica amministrazione: «Emerge in modo costante e preoccupante, soprattutto nel Centro-Nord del Paese, la presenza sempre più gravemente pervasiva di soggetti collegati alle organizzazioni criminali, soprattutto di matrice ‘ndranghetistica».
Una situazione che viene definita«particolarmente temibile».
Infatti, spiega la Dna, «c’è il rischio che si crei una schiera di “invisibili” che, germinata dalle cellule silenti delle mafie al Centro-Nord, penetri in modo silente ma insidioso il tessuto politico, istituzionale ed economico delle regioni oggetto dell’espansione mafiosa».
E non si ritiene sia una caso se, come si ricorda, «l’Unione Europea e la comunità internazionale convergono verso l’attribuzione di un medesimo coefficiente d’allarme per i delitti di corruzione e quelli di criminalità organizzata, a riprova di un coacervo illecito che andrebbe congiuntamente esplorato, con i medesimi mezzi probatori e le stesse tecniche investigative». come «le intercettazioni telefoniche e ambientali».
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Febbraio 2nd, 2011 Riccardo Fucile
DA UNA INFORMATIVA DEI RIS NUOVI DETTAGLI SUI RAPPORTI TRA BERTOLASO E IL SISTEMA ANEMONE-BALDUCCI… DALL’ANALISI DEGLI ESTRATTI CONTO DELLA MOGLIE E DEL FRATELLO DELLA DONNA EMERGE UN RITORNO ECONOMICO GRAZIE AI LEGAMI CON IL COSTRUTTORE
Un’informativa del Ros dei carabinieri di Firenze del 13 novembre 2010 svela nuovi, cruciali dettagli sui rapporti tra l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso e il Sistema Anemone-Balducci.
Le 15 pagine del rapporto – contenute nei sessanta faldoni di atti istruttori depositati dalla Procura di Perugia a conclusione delle indagini preliminari sui Grandi Appalti (G8 della Maddalena, Grandi Eventi, Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia) – documentano attraverso l’analisi degli estratti conto bancari di Gloria Piermarini, moglie di Bertolaso, e di suo fratello Francesco Piermarini, il “ritorno” economico di cui entrambi, nel tempo, hanno goduto nei loro rapporti ora con società riconducibili al cartello di Anemone, ora con la grande committenza pubblica.
“La signora Gloria Piermarini – annotano i carabinieri – è titolare del conto corrente (…) presso la filiale Bnl di Roma (…) e già dall’esame dell’estratto possono essere rilevate operazioni di interesse investigativo”.
Almeno quattro, tra l’ottobre del 2004 e l’aprile del 2007, per un totale di oltre 100mila euro. “Il 15 ottobre 2004, 25.650 euro da “Italferr spa”. Il 30 maggio 2005, 27.750 ancora da “Italferr”.
Il 22 settembre 2006, 36.400 euro dalla “Sac”, Società appalti costruzioni di Emiliano Cerasi. Il 5 aprile 2007, 24.750 euro dalla “Redim” del Gruppo Anemone”.
Delle quattro operazioni, una sola era sin qui nota (e per altro era stata a suo tempo “giustificata” dallo stesso Guido Bertolaso): i 24mila euro ricevuti da Anemone nell’aprile 2007.
La signora, infatti, di mestiere è paesaggista e quel bonifico, segnala il Ros, “risulta corrisposto dal Gruppo Anemone quale compenso per la progettazione preliminare relativa alla sistemazione degli spazi verdi e dei parcheggi del Centro “Salaria Sport Village””.
Più difficile, a quanto pare, trovare una ragione per le altre tre operazioni. Dagli estratti conto non emergono infatti “giustificativi” intelligibili per spiegare gli oltre 50 mila euro ricevuti dalla signora da una società del Gruppo Ferrovie dello Stato.
Ma, soprattutto, agli occhi degli inquirenti, appare significativo il compenso ottenuto dalla “Sac”.
La “Società appalti costruzioni” di Emiliano Cerasi non è infatti un’azienda qualunque.
Scrive il Ros: “Il 25 maggio del 2007, la “Sac” figura in associazione temporanea di imprese con il “Conscoop Consorzio Cooperative Forlì”, cui aderisce la cooperativa “L’Internazionale Coop” di Altamura (Bari), riferibile all’imprenditore Vito Matteo Barozzi, in stretti rapporti le imprese del gruppo Anenome. E questo gruppo di imprese si aggiudica i lavori di restauro del teatro Petruzzelli di Bari per l’importo di 24 milioni 303mila 812 euro”. Ebbene, “in quell’appalto, Angelo Balducci, su proposta dell’allora Capo del dipartimento della Protezione civile Guido Bertolaso, è stato nominato Commissario delegato alla ricostruzione del Teatro di Bari”.
Nè Bari, sembra un caso. “Il 28 dicembre 2007 – annotano ancora i carabinieri – la “Sac”, in associazione temporanea di imprese con la “Igit spa”, riferibile all’imprenditore Bruno Noni, in stretti rapporti con Diego Anemone, si aggiudica i lavori di realizzazione del Nuovo Teatro di Firenze (parte del programma di Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia) per un importo di 69 milioni e 820 mila euro”.
E, guarda caso, “entrambe le gare di appalto (Bari e Firenze) hanno uno stesso presidente di gara: Salvo Nastasi”, direttore generale del ministero dei Beni Culturali ed intimo di Guido Bertolaso.
Più di una sorpresa arriva anche dall’analisi degli estratti conto di Francesco Piermarini, il cognato di Guido Bertolaso.
Il professionista di 52 anni, cui molti si riferiscono come ingegnere (ma che da una verifica del Ros ingegnere non risulta essere), fino all’aprile del 2004, attraverso la società “Le Grand Bleu”, sembra occuparsi di produzioni cinematografiche.
Sappiamo già – e l’informativa del Ros lo documenta – che l’avventura si limita a una sola pellicola – “Il Servo ungherese” – finanziata con il sostegno dei Beni Culturali e sostenuta dalla “Medusa” del Gruppo Fininvest: “Il 24 settembre 2003 risulta a favore di Piermarini Francesco su conto Bnl (…) un bonifico di 120mila euro per “diritti film”. Il 25 novembre dello stesso anno, un bonifico di 50mila euro, “per anticipo fattura””.
E sappiamo anche che Francesco Piermarini lavorerà nei cantieri del G8 della Maddalena.
Quel che non sapevamo e che scoprono il Ros e la Guardia di Finanza è che, nel 2005, il cognato del potente capo della Protezione civile viene tirato dentro da Diego Anemone (con cui i rapporti sono di tale familiarità che, nel 2009, da lui acquista una Bmw usata) nei lavori di ristrutturazione della ex caserma Zignani, individuata dal Sisde come nuova sede del suo reparto “Roc”.
“Il 26 ottobre 2005 – annota infatti il Ros – la “Anemone Costruzioni” incarica con apposita lettera di conferimento di incarico professionale, Francesco Piermarini di provvedere alla “supervisione e revisione della contabilità ” dei lavori di ristrutturazione della Caserma Zignani per un compenso convenuto di 35mila euro, corrisposto, a fronte di fattura, con due assegni bancari, di 12mila e 23mila 920″.
Sembra tutto regolare. Sembra.
Perchè – si legge ancora nell’informativa – di fronte alle spiegazioni sul lavoro svolto offerte dal cognato di Bertolaso (“Mi sono adoperato a contattare vari istituti di credito per reperire le migliori condizioni per l’eventuale finanziamento delle commessa”), la conclusione investigativa suona tranchant: “Le prestazioni rese da Piermarini non appaiono idoneamente documentate”.
Al contrario della sua consulenza fiorita, tra il 2008 e il 2009, all’ombra di una delle tante emergenze italiane: 67mila euro (anche questa sin qui ignota) per lavorare con il “Commissario Delegato per l’emergenza nella Laguna di Marano Lagunare e Grado” (Friuli).
Un’avventura in cui figura anche (ma forse è solo una coincidenza), anche Gianfranco Mascazzini, quale presidente del Comitato Scientifico di supporto al Commissario delegato.
Quello stesso Mascazzini arrestato nei giorni scorsi a Napoli nell’ultima inchiesta sulla monnezza napoletana.
Carlo Bonini
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 27th, 2011 Riccardo Fucile
CHIUSA L’INCHIESTA A PERUGIA, COINVOLTE 22 PERSONE: AD ANEMONE IN TRE ANNI LAVORI PER 75 MILIONI… ECCO COME LA CRICCA SI SPARTIVA GLI AFFARI
Sono affari milionari quelli che la «cricca» è riuscita a chiudere quando al vertice della Protezione Civile e alla gestione dei Grandi Eventi c’era Guido Bertolaso.
Perchè in appena tre anni alle imprese di Diego Anemone sono stati concessi appalti per oltre 75 milioni di euro.
Era favorito il giovane costruttore, ma sapeva evidentemente ricompensare chi lo agevolava.
E proprio a Bertolaso avrebbe dato «50.000 euro in contanti consegnati brevi manu il 23 settembre 2008, la disponibilità presso il Salaria Sport Village di una donna di nome Monica allo scopo di fornire massaggi operati presso le stesso centro da tale Francesca, la disponibilità di un appartamento in via Giulia a Roma dal gennaio 2003 all’aprile 2007».
Sesso e soldi anche per l’alto funzionario Fabio De Santis, ma grande riconoscenza l’avrebbe mostrata nei confronti del provveditore ai Lavori Pubblici Angelo Balducci, beneficiato con appartamenti, viaggi, domestici assunti e lavori di ristrutturazione delle numerose dimore delle quali poteva godere.
La Procura di Perugia chiude la prima parte dell’inchiesta sui lavori assegnati per il G8 de La Maddalena e le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia notificando l’avviso a 22 persone.
E nell’elenco dei lavori «truccati» inserisce anche la caserma Zignani a Roma, diventata una delle sedi degli 007 del Sisde.
A 15 di loro contesta il reato di associazione a delinquere e poi ci sono la corruzione, l’abuso d’ufficio, le rivelazioni del segreto d’ufficio e il favoreggiamento.
Accuse pesanti anche all’ex procuratore aggiunto della capitale Achille Toro, che avrebbe ottenuto favori per sè e per i suoi figli in cambio delle informazioni sulle indagini in corso a Roma.
Oltre ai funzionari Fabio De Santis e Mauro Della Giovampaola, l’elenco comprende la funzionaria del Dipartimento «Ferratella» Maria Pia Forleo; la segretaria di Anemone Alida Lucci che tra l’altro gestiva decine di conti correnti; il commissario per i Mondiali di Nuoto Claudio Rinaldi; l’architetto che gestiva l’acquisto di case per i potenti Angelo Zampolini.
Ma c’è anche l’ex senatore del Pd Francesco Alberto Covello «vicepresidente dell’Istituto per il Credito Sportivo che ha erogato mutui a totale carico dello Stato, che compiva atti del proprio ufficio adoperandosi affinchè Anemone accedesse a tale finanziamento, così facendo conseguire l’attribuzione di un credito pari a 18 milioni di euro per la ristrutturazione del centro sportivo, di fatto non fruito per il mancato verificarsi delle condizioni imposte e in cambio ha ottenuto la fornitura di mobili presso la propria abitazione».
I pubblici ministeri Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi parlano di un «sodalizio stabile che attraverso la messa a disposizione della funzione pubblica dei funzionari a favore degli imprenditori, in particolare Diego Anemone e le sue imprese, consentiva una gestione pilotata e contraria alle regole di imparzialità ed efficienza della pubblica amministrazione delle aggiudicazioni e della attuazione degli appalti inerenti i Grandi Eventi gestiti dal Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo della presidenza del Consiglio».
Avevano ruoli e compiti diversi i funzionari pubblici ma, dice l’accusa, «operavano al servizio del privato e compivano scelte economicamente svantaggiose per la pubblica amministrazione».
E così a Balducci viene contestato di essere «capo e promotore» dell’associazione a delinquere.
Scrivono i magistrati: «L’indagato era capace di esercitare tutta la sua influenza per promuovere la fortuna commerciale di Anemone a lui legato da una comunanza di interessi economici assimilabile a una vera e propria società di fatto».
E ancora: «Balducci operava illegittimamente affinchè le imprese facenti capo ad Anemone (da sole o con altre facenti parte del medesimo gruppo) risultassero aggiudicatarie degli appalti e consentiva, anche mediante l’approvazione di atti aggiuntivi successivi, che il costo dell’appalto a carico della Pubblica Amministrazione aumentasse considerevolmente rispetto a quello del bando, anche a fronte di spese incongrue o meramente eccessive, al solo scopo di favorire stabilmente il privato imprenditore».
Identiche contestazioni a Bertolaso e a De Santis.
Il capo della Protezione Civile ha sempre negato di aver goduto dei favori sessuali delle ragazze dello Sport Village e soprattutto di aver preso soldi, ma i magistrati ritengono di avere le prove sufficiente per sollecitarne il rinvio a giudizio.
E individuano il canale della «mazzetta» da 50 mila euro in don Evaldo Biasini, l’economo della Congregazione del preziosissimo sangue che custodiva nella cassaforte del suo ufficio i contanti per l’amico imprenditore. Riscontri vengono elencati anche per le donne che sarebbero state «concesse» a De Santis presso due alberghi di Venezia dove era in missione proprio per la struttura che gestiva i Grandi Eventi.
Al procuratore aggiunto che si è dimesso dalla magistratura dopo essere stato indagato, l’accusa contesta di aver «ricevuto da Angelo Balducci e dall’avvocato Edgardo Azzopardi utilità non dovute per i suoi figli Stefano e Camillo per compiere atti contrari ai suoi doveri d’ufficio al fine di favorire Anemone e lo stesso Balducci».
Nel capo d’imputazione di Toro si legge: «Asserviva le sue funzioni agli interessi di Balducci e violava il segreto d’ufficio e comunque il dovere di riservatezza fornendo le informazioni sul procedimento penale di Roma e di Firenze, notizie delle quali era a conoscenza sia per la funzione di coordinatore del gruppo di lavoro, sia per l’attività di coordinamento investigativo tra i due uffici. Interveniva sui suoi sostituti Assunta Cocomello e Sergio Colaiocco alterando l’iter di sviluppo delle indagini, inducendoli a compiere atti contrari ai doveri d’ufficio e in particolare a non chiedere l’autorizzazione di intercettazioni telefoniche pur in presenza delle necessità investigative».
Un comportamento che gli avrebbe consentito di ottenere numerosi vantaggi. E infatti «l’avvocato Camillo Toro otteneva l’incarico di esperto presso la struttura di missione dal 18 gennaio 2010 al 31 dicembre 2010, un contratto con il capo di gabinetto del ministero delle Infrastrutture e Trasporti per un corrispettivo netto di 25 mila euro».
L’avvocato Stefano Toro firmava invece «un contratto di collaborazione professionale del luglio 2009 per gli aspetti attinenti le attività legali-amministrative per il 150 anniversario dell’Unità d’Italia»; veniva designato rappresentante del Dipartimento per l’Istituzione della commissione per l’emergenza idrica dei comuni serviti dall’Acquedotto del Simbrivio e veniva liquidata in suo favore la somma di 30 mila e 600 euro».
Ora gli accertamenti vanno avanti per definire le altre posizioni, compresa quella degli ex ministri Pietro Lunardi e Claudio Scajola, del cardinale Crescenzio Sepe.
Fiorenza Sarzanini
(da “Il Corriere della Sera“)
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Dicembre 8th, 2010 Riccardo Fucile
UN DOSSIER DI “LIBERA”, L’ASSOCIAZIONE DI DON CIOTTI, REGISTRA E DENUNCIA IL MALAFFARE SEGUITO AL TERREMOTO DELL’AQUILA… LA DITTATURA DELLA PROTEZIONE CIVILE, LO SBARCO DELLE CRICCHE, I LEGAMI CON LE AMMINISTRAZIONI DELLO STATO…1600 BAGNI CHIMICI PIU’ DEL RICHIESTO, BUTTATI 4 MILIONI DI EURO… ILCOSTO A MQ DELLE CASE, LE AZIENDE SOSPETTATE DI MAFIA
È un viaggio nella fossa d’Abruzzo e nella ricostruzione che non c’è, un’inchiesta completa sul business fatto sui morti e fra i palazzi di sabbia, un rapporto da brivido su appalti piccoli e grandi pilotati in nome di un’emergenza che non finisce mai.
Il dossier ha per titolo “L’Isola Felice” e descrive cosa è accaduto all’Aquila già nella notte fra il 5 e il 6 aprile 2009, quando a poche ore dalla tragedia con i soccorsi sono arrivati anche i primi sciacalli.
Una cinquantina di pagine firmate da Angelo Venti su bagni chimici e aziende al di sotto di ogni sospetto, sul mistero delle macerie scomparse, sul giallo degli isolatori sismici non omologati, sui costi delle case promesse da Berlusconi.
“È un lavoro che abbiamo voluto tutti noi di Libera perchè, oggi più che mai, abbiamo il dovere di rompere il silenzio”, dice don Luigi Ciotti.
Il rapporto sarà distribuito in 40mila copie la prossima settimana all’Aquila.
“La scossa delle 3.32 ha spazzato via quel velo di ipocrisia che copriva chi si ostinava a parlare ancora di questa come un’isola felice”, scrive Venti partendo subito dal primo affare: l’oro dei bagni chimici.
Quell’odore di mafie lo sentono subito in Abruzzo.
Così apre il dossier: “Il rischio delle infiltrazioni non deve attendere l’inizio della ricostruzione, anzi arriva nelle prime ore insieme con la Protezione Civile e con un appalto sul modello di gestione dei Grandi Eventi”.
Il costo sostenuto per i bagni chimici è una parte consistente delle spese della prima emergenza: quasi un quarto dei fondi per il mantenimento delle tendopoli.
Le segnalazioni raccolte dal presidio di Libera parlano di liquami smaltiti illegalmente nei fiumi, di bolle di trasporto falsificate, di ditte che subiscono sabotaggi, di contatti fra i manager di quelle aziende e funzionari della Protezione civile per gonfiare le fatture.
Molte di quelle società , da anni, collaboravano con la Protezione civile per la gestione dell’emergenza rifiuti in Campania.
Alla fine, nelle tendopoli, si conteranno circa 3.600 bagni chimici, ciascuno al prezzo di 79 euro al giorno e per una spesa di oltre 8 milioni al mese.
Da conti fatti dagli esperti i bagni trasportati nel “cratere” sarebbero stati 1.600 in più del necessario: oltre 3 milioni e 800 mila euro al mese sottratti alla ricostruzione vera.
Poi c’è l’affare oscuro delle macerie.
Scoperto il 13 aprile 2009, giorno di Pasquetta, quando i ragazzi di Libera fotografano ruspe e camion che trasportano a Piazza d’Armi, zona militare interamente recintata.
Le macerie e ogni sorta di arredi ed effetti personali vengono macinati dentro due macchine tritasassi.
Gli autisti dichiarano che provenivano dalla Casa dello studente e altri palazzi crollati in via XX settembre, un paio di giorni prima la procura – per quei palazzi – aveva annunciato l’apertura di un’inchiesta per “crolli sospetti”.
Si blocca tutto.
“Ma lo smaltimento è anche un affare da decine di milioni di euro che scatena gli appetiti di speculatori e criminalità “, scrivono quelli di Libera.
E spiegano: “Anche la vicenda della ditta che detiene la proprietà della ex Teges (è l’unica cava dove hanno rovesciato le macerie, ndr), la T&P srl, fa sorgere altre domande. Nel giugno 2009 la T&P vede l’ingresso di un nuovo socio con legami con diverse altre società , tra cui l’aquilana Abruzzo inerti srl, partecipata a sua volta dalla romana Sicabeton spa, grossa azienda con interessi in Italia e all’estero”.
Personaggi e società del gruppo Sicabeton sono stati indagati dai carabinieri di Palermo e figurano in un rapporto consegnato nel 1991 al giudice Falcone. La Sicabeton spa, poi, risulterebbe inserita nell’elenco delle imprese a rischio censite dalla Procura nazionale antimafia.
È tutto un intrigo di soldi e cemento.
E a gestire il cantiere più grande d’Europa è il Dipartimento di Protezione civile.
Altro capitolo, il Progetto C. a. s. e.: “È la prima volta nella storia delle catastrofi italiane che la Protezione civile si occupa di ricostruzione sostituendosi agli enti locali. Quello degli alti costi del Progetto C. a. s. e. è un capitolo aperto, non si hanno dati completi delle spese effettive e non vi è accordo sui costi reali da conteggiare”.
A giugno 2010, la Procura nazionale antimafia e la procura dell’Aquila però hanno iniziato le indagini “per accertare se i 2.700 euro a metro quadrato pagati sono rispondenti alla qualità delle realizzazioni”.
Nel dossier si ricostruisce anche il primo caso sospetto di infiltrazione mafiosa.
È il giugno del 2009 e si scopre che fra le ditte del movimento terra a Bazzano, c’è l’Impresa Di Marco srl di Carsoli: l’amministratore unico è Dante Di Marco, lo stesso della Marsica plastica srl coinvolta due anni prima in un’inchiesta dove era finito Massimo Ciancimino con i suoi soldi. Un’inchiesta che gli investigatori definirono “il primo caso conclamato di presenza mafiosa in Abruzzo”.
Oggi sono oltre 300 le imprese siciliane, calabresi e napoletane “attenzionate” dall’antimafia.
Molte hanno sede sociale al nord, naturalmente sono intestate a figli o a nipoti, mafiosi e camorristi.
Attilio Bolzoni e Carmine Saviano
(da “La Repubblica“)
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