Novembre 4th, 2016 Riccardo Fucile
GLI ALBERGATORI SPERANO DI CHIUDERE IL 2016 CON LE STESSE PRESENZE DELL’ANNO SCORSO… SOLO UN TERZO DEGLI INTERVENTI INFRASTRUTTURALI PROGRAMMATI E’ STATO ESEGUITO
Il sito del Giubileo parla di diciannove milioni di arrivi, ma gli albergatori temono di non raggiungere i 14 milioni del 2015.
Sta tutto in questi numeri il flop del Giubileo, tanto che il vero successo turistico della Capitale quest’anno è stato il congresso mondiale di cardiologia che ha portato a Roma 35mila specialisti, con hotel esauriti, taxi introvabili e un milione di euro di tassa di soggiorno incassato dal Comune.
Come ci si aspettava, quindi, a venti giorni dalla muratura della Porta Santa non si sono viste le folle oceaniche di pellegrini che dovevano arrivare a 25 milioni.
Ma soprattutto: soltanto un terzo degli interventi programmati è stato poi effettuato. Spiega Il Messaggero:
Nonostante appunto gli annunci roboanti,con tanto di magnifiche proiezioni economiche che pur in assenza di grandi opere avrebbero dovuto risollevare (non si capisce come) la Capitale.
E invece? «Il bilancio si chiude a zero. È come se il Giubileo per gli albergatori non ci fosse mai stato». A parlare è Giuseppe Roscioli, presidente di Federalberghi. Che laicamente aggiunge: «Io credo che nessuno a Roma si sia reso conto che ci fosse il Giubileo».
Gli albergatori dunque incrociano le dita per chiudere il 2016 con le stesse presenze dell’anno scorso intorno ai 14 milioni di arrivi. I numeri forniti e aggiornati (al 24 ottobre) dal sito creato ad hoc dal Vaticano parlano «di 19 milioni di partecipanti». Dentro ci sta tutto: dai romani ai fedeli provenienti dal resto del Lazio fino ai pellegrini “mordi e fuggi”.
Ecco spiegate dunque le preoccupazioni degli albergatori.
Di 146 progetti presentati sono andati in porto solo 42, e in più c’è il rischio che si perdano ancora altri 25 milioni di euro che servivano per progetti di manutenzione ordinaria ma devono essere messi a gara entro il 20 novembre altrimenti i soldi torneranno allo Stato.
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
PAGHE PIU’ ALTE CHE ALLA CASA BIANCA…. PER PROMUOVERE IL PAESE SOLO CENTINAIA DI MIGLIAIA DI EURO
Elmetto e baionetta, i 78 dipendenti italiani dell’Enit sono in trincea. E diffidano il governo: altolà alla nascita della «nuova» agenzia per il turismo.
C’è da capirli: quasi uno su due è «quadro» o dirigente e la busta paga è più alta che alla Casa Bianca. Così, mesi dopo gli squilli di tromba sulla svolta, tutto è fermo.
È da un anno e passa che il vecchio Enit, fondato 96 anni fa, è stato affidato a un commissario, Cristiano Radaelli, incaricato di dare una sistemata ai costi (vedi un taglio del 29% sugli affitti) e avviare la conversione dell’ente statale in un’agenzia per il turismo, inquadrata come ente economico regolato da contratti di tipo privatistico.
È da maggio che Renzi ha scelto come presidente Evelina Christillin, la «testona sabauda» (autoritratto) già alla testa dell’organizzazione per le Olimpiadi invernali di Torino, del Teatro Stabile, del Museo egizio.
Ed è da metà giugno che il passaggio viene dato per fatto.
Di più: ai primissimi di luglio Dario Franceschini ha firmato anche le nomine dei due consiglieri, Antonio Preiti e Fabio Lazzerini, che per rilanciare il nostro turismo lascerebbe la Emirates dove è direttore generale per l’Italia.
Il ministro era raggiante: «L’Italia ha ora uno strumento snello, efficiente ed efficace in grado di affrontare le grandi sfide e cogliere le enormi opportunità rappresentate dalla crescita esponenziale del turismo internazionale».
Sì, ciao… Anche la data del 1° ottobre, che registrava già un ritardo, è saltata.
Contro il passaggio piovono ricorsi sia dei dipendenti Enit che non vogliono perdere il loro status sia dei precari di PromuoviItalia che, avviato il fallimento societario, chiedono di esser recuperati all’interno del settore pubblico.
L’ultima diffida è stata appena inviata da uno studio di avvocati per conto di due delle 7 sigle sindacali interne (sette per 78 dipendenti: una ogni 11 persone!) e intima a tutti, da Palazzo Chigi ai nuovi consiglieri, a non fare un passo avanti.
Immaginatevi Matteo Renzi! Furibondo.
Il punto è che una storia come quella di Enit non poteva che finire così, farraginosamente.
Al di là anche della dedizione e della professionalità di molti. Si è visto di tutto, negli ultimi anni. Sedi estere (un centinaio di dipendenti stranieri per 23 «filiali») megalomani come quella di New York al Rockefeller Center che, prima di venir spostata dal commissario all’Istituto italiano di cultura, costava 400.000 euro l’anno. Uffici come Vienna capaci di spendere in un anno 20.000 euro di giornali, pari a 77 euro a giorno lavorativo.
Ripetuti ricorsi ai giudici come quello che ha permesso all’unico giornalista di farsi riconoscere la qualifica di «direttore».
Per non dire dei «manager» piazzati via via da questo e quel governo. Su tutti il «brambilliano» Paolo Rubini, nominato direttore generale pur avendo nel curriculum, come scrisse Emanuele Fittipaldi su l’Espresso , «solo la vice-presidenza della StemWay Biotech, un’azienda specializzata nel congelamento di cordoni ombelicali». Un campo vicino al turismo quanto Carugate a Tokio.
Come dimenticare poi la selezione di dirigenti mandati all’estero? Per conquistare il mercato cinese, come già abbiamo raccontato, fu mandata ad esempio a Pechino l’ex segretaria comunale di Zeme, Velezzo, Lardirago, Bascapè, Affile, Labico e Campagnano romano…
«E se la cavò perfino meglio di altri…», ammicca uno che l’Enit lo conosce bene. Quanto a un suo collega inviato in Brasile, non riuscì a ottenere il visto e se ne restò a conquistare i possibili turisti brasiliani da Buenos Aires. Un capolavoro.
Lo status di tutti, poi, era appena inferiore a quello di un ambasciatore e le indennità varie, stando ai documenti, potevano arrivare a ventimila euro netti al mese più lo stipendio.
Per un totale di oltre trecentomila euro puliti l’anno. Fatti rientrare tutti a Roma dal commissario Radaelli, i sei «distaccati d’oro» hanno fatto tutti causa.
Perdendo. Risparmio finale da un anno all’altro: un milione e 900mila euro. Oltre trecentomila a testa di sole indennità e spese varie.
C’è poi da stupirsi se l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli aveva inserito il carrozzone Enit al secondo posto, dopo il Cnel, tra gli enti pubblici da chiudere?
Lo stesso «Piano strategico per lo sviluppo del turismo in Italia», forse lo studio più serio degli ultimi anni, voluto dall’allora ministro Pietro Gnudi con la collaborazione di Boston Consulting Group, era chiarissimo.
E dopo avere denunciato la «graduale marginalizzazione dell’Enit» usava parole tombali: «L’Agenzia Nazionale del Turismo è percepita come legata più a logiche burocratiche che di mercato».
Dopo un anno passato a tagliare e battagliare (a volte a dispetto della scarsa collaborazione di pezzi dello Stato, come l’Avvocatura che non gli ha mai fornito un esperto per il passaggio dei contratti da pubblico a privato), Cristiano Radaelli avrebbe confidato agli amici di sentirsi la coscienza a posto: «Quello che potevo fare l’ho fatto».
Compresa la definizione delle strategie del «nuovo» Enit (a partire dal web dove il famigerato italia.it che è migliorato ma è ancora in 6 lingue contro le 10 della Gran Bretagna o le 16 della Norvegia!) e la futura pianta organica: otto dirigenti, 31 quadri, 101 dal quarto al secondo livello
Il passaggio dal vecchio organismo statale al nuovo «ente economico», però, non sarebbe indolore per i dipendenti. Anzi.
Status a parte, col nuovo contratto del turismo c’è chi perderebbe il 45% dello stipendio. Va da sè che nessuno, potendo essere spostato in un altro ministero, abbia voglia di andarci a rimettere.
Col rischio che l’Agenzia, e sarebbe un peccato, perda alcune professionalità che anche nei momenti peggiori hanno consentito all’Enit di dare un contributo.
Il guaio è che anche il nuovo ente, ammesso che fili tutto liscio, avrebbe difficoltà a distribuire i vecchi stipendi.
Il bilancio dell’Enit che riceve dallo Stato 17,6 milioni l’anno (contro i 50 di un tempo) riserva alla promozione vera e propria «alcune centinaia di migliaia di euro». Briciole, rispetto alla settantina di milioni che mediamente spendono la Francia, la Gran Bretagna o la Spagna.
Da noi se ne va quasi tutto nelle spese di gestione e nel personale. Basti dire che, nonostante i tagli (proseguiti anche quest’anno) i 78 dipendenti italiani sono costati nel 2014 la bellezza di 6,7 milioni. Pari a 85.897 a testa.
Oltre ventimila euro più di quanto hanno mediamente guadagnato (62.363 euro) i dipendenti della Casa Bianca.
Contro i «gufi», Evelina Christillin si è attrezzata con una collezione di centinaia e centinaia di gufi e civette di ceramica, di pietra, di peluche…
Auguri.
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Settembre 11th, 2015 Riccardo Fucile
E GLI HOTEL POTREBBERO TRASFORMARSI IN ESATTORI
Mentre il governo si prepara a cancellare l’imposta sulla prima casa che garantisce gettito prezioso ai comuni italiani, allo studio del governo ci sarebbe la volontà di dare una spinta a un’altra imposta: la tassa di soggiorno pagata dai turisti.
Ne scrive oggi il Corriere della Sera.
Le ipotesi sul tavolo sono ancora diverse, ma l’obiettivo è chiaro: tirar fuori più soldi da una tassa che finora non ha funzionato. Oggi è applicata in pochi Comuni, 650, neanche uno su dieci. E porta nelle casse dei sindaci 270 milioni di euro l’anno. Briciole in un’epoca di tagli. Un aumento del tetto massimo – oggi fissato a 5 euro per notte a persona, con l’eccezione di Roma che arriva fino a 7 – è tra le ipotesi sul tavolo
La via maestra che il governo vorrebbe percorrere è quella di un incentivo fiscale che spinga verso l’adozione dell’imposta anche quei comuni che oggi non la utilizzano, oltre 7 mila a fronte dei 650 che invece già ne beneficiano.
Si studia inoltre la possibilità di agganciare l’imposta non al numero delle stelle ma a al costo della Camera.
C’è poi un problema da risolvere. Negli ultimi mesi sono in aumento i casi di «evasione» della tassa di soggiorno.
In hotel l’imposta si paga separatamente dal conto. E se il cliente non la vuole saldare l’albergatore non lo può obbligare. L’idea è recuperare i soldi evasi dai turisti direttamente dall’hotel, che a quel punto avrebbe tutto l’interesse a trasformarsi in esattore per conto del Comune.
Un’idea che piace al ministero dell’Economia ma meno, molto meno, a quello dei Beni culturali.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 3rd, 2015 Riccardo Fucile
LA REGIONE LAZIO IMPONE AI BED & BREAKFAST E AFFITTACAMERE L’OBBLIGO DI CHIUDERE PER 100 GIORNI L’ANNO: DANNO STIMATO IN 36 MILIONI
Più difficile arrivare al Giubileo, quasi impossibile trovar posto e restare.
A pochi mesi dall’apertura dell’Anno Santo la Regione Lazio ha riscritto le regole per il turismo “extra-alberghiero” introducendo stringenti limitazioni all’attività .
Tra le altre, un “fermo amministrativo” di 100 giorni a chi affitta in modo “non professionale”, cioè non fa impresa alberghiera.
La stretta rischia di cancellare un milione di posti letto tra bed&breakfast, ostelli, affittacamere, case per vacanze. E diventa così la seconda vera grana per il sindaco Ignazio Marino e per la macchina dell’accoglienza, dopo quella sui pullman dei fedeli in centro.
Un paradosso, se si pensa che la stessa formula del b&b sarebbe nata proprio qui, a Roma, e per giunta in occasione dei giubilei: risalendo nel tempo se ne ha testimonianza nelle cronache di Paolo del Mastro, in occasione di quello indetto da Papa Nicolò V nel 1450.
Ebbene, quasi seicento anni dopo la giunta Zingaretti cambia ancora tutto.
A metà agosto approva un nuovo regolamento che manda in fibrillazione il settore.
Il testo non è stato ancora pubblicato sul Burl e solo l’indomani entrerà in vigore. E tuttavia il suo banco di prova — non ci sono dubbi — sarà proprio il grande evento voluto da Papa Francesco.
Le nuove norme, in tutto 20 articoli, sono state presentate come “antidoto” all’abusivismo e al rischio sicurezza, a partire dall’obbligatorietà di denuncia anche da parte dei privati che offrono la loro stanza in rete per ospitare i turisti.
Il fatto che entrino in vigore alle porte del Giubileo pone però una serie di problemi, rischi e polemiche.
Primo tra tutti, quello di limitare fortemente l’offerta di ospitalità a buon mercato per i quasi 100mila pellegrini al giorno attesi nella Capitale, a tutto vantaggio degli albergatori tradizionali.
Non a caso c’è chi sostiene che, dietro le quinte, si sia mossa la lobby degli hotel di Confindustria e Confcommercio, le stesse che hanno poi generosamente messo a disposizione dell’Agenzia Regionale del Turismo un pacchetto software che consentirà di setacciare il web e verificare in tempo reale se le stanze private proposte sui portali tipo Airbnb siano autorizzate o meno.
In caso contrario, scatta il deferimento alle autorità competenti con multe salate e sigilli. Scelte che, a detta di alcuni, penalizzerebbero i b&b a carattere familiare (massimo tre stanze) e le case vacanza, cioè proprio le forme di ricettività più economiche e diffuse nel tessuto sociale.
Teme effetti nefasti, ad esempio, l’associazione di categoria dei b&b e degli Affittacamere, già socio fondatore di Confturismo che annuncia battaglia in occasione degli Stati generali del turismo sostenibile, in programma dall’1 al 3 ottobre a Pietrasanta (Ma).
“La nuova legge ha un chiaro intento punitivo, sarà un flagello”, sostiene il presidente dell’Anbba, Marco Piscopo, che ha scritto parole infuocate alla commissione Giubileo della Misericordia e alla Regione, lamentando anche il mancato coinvolgimento al “tavolo” da cui è nato il nuovo regolamento.
“I regolamenti vengono adottati senza alcun obbligo di procedere a consultazione nè a concertazione con le associazioni di categoria”, è la risposta piccata dell’Agenzia Regionale per il Turismo.
Comunque sia, c’è allarme sull’emergenza alloggi per il Giubileo e sul futuro del settore.
“E’ evidente — sostiene Piscopo — che limitare la possibilità di ospitare i pellegrini solo per 240 per i B&B e di 260 per la case vacanze significa aprire un buco ricettivo nell’evento”.
I primi a pagare il prezzo della nuova politica capitolina sull’accoglienza sarebbero dunque i pellegrini.
“Non tutti, sia chiaro, quelli che possono andare nell’albergo quattro stelle continueranno a farlo ma la stragrande maggioranza di quelli che raggiungeranno Roma per il Giubileo certamente non sono clienti dei grandi alberghi stellati che si vorrebbero preferire. Sono utenti di fascia medio bassa, soprattutto giovani, in cerca di ospitalità a buon prezzo in una città dove le tariffe sono sempre sopra la media”.
L’ufficio tecnico dell’Anbba ha anche provato a “pesare” effetti e danni del posto letto sacrificato sull’altare del regolamento.
Se i 1.801 B&B romani dichiarati e regolari (capacità ricettiva massima 3 camere per sei posti letto) nel 2016 dovranno chiudere per 120 giorni dovranno rinunciare a offrire una sistemazione a circa 570mila presenze.
Per le case vacanze i giorni di chiusura indicati sono 100 e per le 3.411 strutture registrate non si avrebbe più un’offerta di 10.233 posti giornalieri ma di 600mila in meno. In totale, tra le due categorie, si perderebbero per strada 1,2 milioni di posti, con un danno stimato di oltre 36 milioni.
Con effetti non secondari per chi ha intrapreso questa attività ben oltre il 2016.
“Il nostro settore in questi anni ha svolto la funzione di un ammortizzatore sociale, ha consentito a tanti cittadini espulsi dal ciclo produttivo dalla crisi di mettere a reddito la propria abitazione. Cancellare questa speranza di riscatto è in giusto e antieconomico. L’albergo produce servizi aggiuntivi per se stesso, il B&B o la stanza in affitto fanno sì che l’ospite spenda fuori, intorno, per comprare cibo, andare al bar, al ristorante o in lavanderia. Insomma, l’indotto è diffuso e non concentrato sul solo albergatore. Questa potenzialità deve essere incentivata, non uccisa in culla”.
E tuttavia il nuovo regolamento vorrebbe incentivare l’ospitalità “leggera”, favorendone la trasformazione in attività imprenditoriale vera e propria.
“Vero — risponde Piscopo — la legge dice che se le famiglie aprono la partita Iva e trasformano l’attività in professionale potranno lavorare tutto l’anno e ampliare la capacità ricettiva di una camera e di due posti letto in più. Ma la media oggi è di 4 posti letto e ampliamento e il passaggio ad attività professionale sono tanto onerosi da essere praticabili solo per pochi. Non certo per chi ha aperto le porte di casa per un micro-reddito o un lavoro che non c’è”.
Il Giubileo inizia l’8 dicembre, sarà difficile adeguarsi per tempo alle nuove norme. “Molti chiuderanno di fronte alla prospettiva di doversi districare tra burocrazie e chiusure forzate, altri finiranno nel sommerso pur di non farlo. Si vanificherebbero così anche i nostri sforzi per contrastare la concorrenza delle attività non dichiarate. Alla fine la legge — conclude Piscopo — sarà un fallimento per tutti tranne che per la categoria degli albergatori che muove e ispira le scelte della Regione”.
Eccetto una, forse: nel testo non compaiono limitazioni specifiche ai tanti enti religiosi che fungono da paravento per attività alberghiere (in nero) destinate non solo ai pellegrini ma ai turisti comuni che nella città dei Papi, Giubileo o no, son sempre benedetti.
Thomas Mackinson
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 30th, 2015 Riccardo Fucile
PIU’ CHE TICKET UNA RAPINA… LA PROPOSTA DEL NEO-ASSESSORE ESPOSITO
L’assessore Sì-Tav, l’assessore «multitasking» (autodefinizione, visto l’attivismo sui social), l’assessore pendolare che vola tra Roma, dove lavora, e Torino, dove ha mantenuto famiglia e bacino elettorale.
Ma Stefano Esposito, classe ’69, nativo di Moncalieri, nella giunta del Campidoglio è soprattutto l’assessore che, in vista del Giubileo, ha dichiarato guerra ai pullman turistici
Ticket di mille euro per entrare in centro. È così?
«Sì, questa è la mia proposta che porterò alla giunta politica del 3 settembre».
Perchè questa decisione?
«Nel 2014 sono entrati 90 mila bus turistici. Per l’Anno Santo ne prevediamo circa 170 mila. E fargli pagare appena 200 euro al giorno, o 2.800 euro annuali, è un incentivo pazzesco che va eliminato».
Su con le tariffe, allora…
«Esatto. Mille euro per la zona centrale, 10-12 mila per l’abbonamento annuale».
Pagheranno i turisti: mille diviso 50 persone, la capienza di un bus, fa 20 euro a testa.
«Se è per questo ero partito dal divieto assoluto di entrare. Poi nel confronto politico e coi tecnici ho pensato che era meglio questa strada. Solo i cretini pensano di sapere tutto…».
Ticket anche per le auto?
«Nelle altre capitali europee c’è. Ma qui mi sembra prematuro. Per ora andiamo coi pullman: del resto se vuoi arrivare sotto il colonnato di San Pietro oppure al Colosseo è giusto che si paghi tanto. Ma qui a Roma, ma come un po’ in tutta Italia, c’è una mentalità gommarola ».
Sarebbe?
«Abituata a pensare al trasporto pubblico quasi esclusivamente su gomma. Io voglio cambiare questa mentalità ».
Detto da uno che è noto per le sue posizioni per la Tav suona quasi come una minaccia…
«Vengo da una solida cultura del ferro contro la gomma. Chi è avversario dei treni, invece, ne è un sostenitore».
E tolti dal centro, dove andranno questi bus turistici?
«Abbiamo già predisposto una serie di parcheggi subito fuori la cinta centrale, in posizioni comodissime, vicino alle stazioni ferroviarie o della metropolitana».
Tiburtina, ad esempio. Dove ogni sette minuti ci sarà un treno per la stazione San Pietro?
«Esatto. Ma non posso dire tutto. Domani avrò la bozza di delibera».
Penserà mica di collegare anche Termini con San Pietro via rotaia?
«Veramente è un’idea che mi è venuta. Ho fatto anche fare un’analisi tecnica agli uffici».
Risultato?
«Speravo di avere più “materiale” utilizzabile. Invece i binari, su quel tratto, sono stati tolti a fine anni 80 non so perchè. Per il Giubileo non faremmo in tempo, e poi serve un bell’investimento economico».
Progetto abortito?
«Per l’Anno Santo sì. Non possiamo aprire cantieri senza chiuderli. Ma nell’orizzonte temporale del 2018 è un obiettivo che si può tenere in considerazione».
E lei come fa avanti e indietro tra Roma e Torino?
«In aereo, anche due volte a settimana. Parto la sera alle 20, torno la mattina alle 6.50. E spesso la domenica sono nella Capitale».
Chi paga i suoi viaggi?
«Il Senato, come per tutti i senatori. Ma con me il Comune risparmia: faccio l’assessore a zero euro, ho anche sbarrato la riga sull’Iban nel modulo per i pagamenti che mi ha consegnato il Campidoglio…».
Ernesto Menicucci
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 18th, 2015 Riccardo Fucile
L’ANFITEATRO FLAVIO SOLO AL SETTIMO POSTO, IL CAFFE FLORIAN AL 26° E POMPEI 41°
L’ultima edizione della «Ultimate travel list», l’elenco dei 50 posti che «si debbono vedere», stilata sul web dagli utenti della «Bibbia» delle guide turistiche planetarie, la Lonely Planet, riserva amare sorprese al nostro Paese ma solleva qualche dubbio sui gusti dei sui lettori.
Per trovare qualcosa di italiano bisogna scendere fino al settimo posto.
Solo qui c’è quello che nell’immaginario collettivo – di una volta ormai – dovrebbe essere il monumento icona dell’umanità : il Colosseo, l’Anfiteatro Flavio che viene citato da solo, senza alcun riferimento alla città di Roma che lo ospita.
Ma per i moderni traveller, i gusti, nell’era di internet e delle app, sono cambiati.
Per questo al primo posto svetta il complesso dei templi di Angkor in Cambogia, seguiti dalla grande barriera corallina australiana; al terzo posto il complesso Inca di Machu Picchu in Perù.
Viene poi la grane muraglia cinese, il mausoleo indiano Taj Mahal.
Sesto il Gran Canyon negli Stati Uniti. Solo settimo, appunto, il Colosseo.
Molte scelte, possiamo dire che sono moderne, forse troppo: nella lista altri capolavori dell’umanità , come le Piramidi in Egitto, sono solo 25esime, precedute da meraviglie naturali ma con un impatto storico decisamente ridotto.
Ad esempio il lago salato di Uyuni in Bolivia è 24esimo. Al 20esimo posto il non proprio famoso «Museum of Old and New Art di Hobart in Australia».
Tre gradini più su il Fiordiland National Park in Nuova Zelanda.
Per tornare in Italia bisogna scendere al 26esimo posto per trovare Venezia. O meglio, come nel caso del Colosseo e Roma, è citata solo Piazza San Marco dove – bizzarramente – più che la basilica o i palazzo Dogale o le Procuratie, si cita ammirati la professionalità dei camerieri del caffè Florian
A conferma dei gusti moderni/bizzarri dei lettori della Lonely Planet, il Partenone e l’Acropoli di Atene sono 28esimi con, a seguire, la reggia di Versailles.
La terza, ed ultima, meraviglia italiana è – nonostante tutti i problemi strutturali, amministrativi e sindacali – è Pompei, ma solo 41esima.
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
OPPORTUNITA’, SPRECHI E ALIBI
Sedici lingue di benvenuto ai visitatori nel portale turistico della Norvegia e solo due, italiano e inglese, in quello della Sicilia.
Basta questo confronto per inchiodare la classe politica isolana, sinistra e destra, alle responsabilità del fallimento di quella che nel bla-bla-bla quotidiano viene spacciata come la Straordinaria Opportunità del Turismo.
È quasi tutto il Sud, purtroppo, a faticare.
A dispetto della stupefacente ricchezza della sua offerta.
Con 18 siti Unesco talora condivisi con altre regioni e spesso multipli sparsi sul territorio più quattro «immateriali» (le grandi macchine a spalla della devozione popolare, lo zibibbo di Pantelleria, il canto tenore sardo, i Pupi) più i vini e una gastronomia d’eccellenza più tre quarti delle coste italiane spesso bellissime e larga parte delle isole, il Mezzogiorno attira in totale, secondo dati Istat-Regione Veneto, solo un ottavo degli «arrivi» stranieri e un settimo di quanto spendono.
Per capirci: i 3 miliardi e 238 milioni finiti al Sud sono meno di quanti sono stati lasciati dagli ospiti esteri nel solo Veneto e poco più che nella sola Toscana.
Dice l’Osservatorio Confesercenti, tirandoci un po’ su di morale, che la stagione va bene e che, tra aprile e giugno, si registra un aumento di 8.684 alberghi, bar e ristoranti rispetto allo stesso periodo del 2014: più 2%.
E a crescere più rapidamente sono il Sud e le Isole: più 2,5% contro l’1,8% del Centro-Nord. Evviva.
Ma in quale contesto? Negli anni del più grande boom turistico di tutti i tempi, con un numero di viaggiatori quasi triplicati dal 1990 ad oggi (da 440 milioni a un miliardo e 138 milioni nel 2014) e una crescita nel 2014 del 4,4% con un aumento nei Paesi del Mediterraneo, secondo World Tourism Barometer, del 6,9%.
Il triplo abbondante della media italiana.
Tanto è vero che, pur restando quinti per arrivi internazionali (anni fa eravamo primi), l’anno scorso siamo scesi al 7 º posto per introiti dopo il sorpasso della Gran Bretagna: 45,9 miliardi di euro loro, 45,5 noi che l’anno prima eravamo davanti di quasi 3 miliardi.
Proprio il Regno Unito, del resto, dimostra come, pur avendo un terzo dei nostri siti Unesco (meno del nostro solo Meridione) e meno sole e meno spiagge e meno eccellenze gastronomiche, si possa evidentemente sfruttare il «travel boom» meglio che da noi.
Spiega l’ultimo rapporto World Travel & Tourism Council che se noi ricaviamo da Venezia e dai faraglioni di Capri, dalle Dolomiti e dai Fori Romani, indotto compreso, il 10,1% del Pil, loro ricavano il 10,5.
E se da noi lavorano nel turismo indotto compreso (per capirci, incluso chi fabbrica gilet per i camerieri) l’11,4% degli occupati pari a 2 milioni e 553 mila persone, da loro sono il 12,7% per un totale di 4 milioni e 228 mila addetti.
Poi, per carità , ci saranno anche contratti diversi. Ma lo stacco è nettissimo. E incredibilmente ignorato.
Basti dire che pur occupando il solo turismo diretto dieci volte più addetti della chimica, la numero uno dei sindacalisti italiani Susanna Camusso non ne parla mai. Un titolo Ansa su 5.615 a lei dedicati. Turismo cosa?
Il punto è che non basta soltanto offrire Pienza, Ostuni o Cremona.
Magari con la supponenza e lo sgarbo di chi è convinto che «comunque qua devono passare!».
Come dimostrano gli studi di Silvia Angeloni, ad esempio, il turista chiede anche altro: trasporti, rete web, prezzi competitivi, pulizia… Quali danni fa il rimbalzo sui social network di certi viaggi infernali e pericolosi di qualche visitatore sulla Circumvesuviana?
Prendiamo l’ultimo Travel & Tourism Competitiveness Index .
Due anni fa, con parametri evidentemente forzati, eravamo al 26 º posto, oggi va meglio: siamo ottavi.
Miglioriamo per «accesso ai servizi igienico-sanitari», «presenza delle principali compagnie di autonoleggio» o «copertura della rete mobile» (siamo primi!), per densità di medici (settimi) e «numero di siti naturali Unesco» (decimi).
Ma restiamo al 133 º posto per «competitività dei prezzi». E siamo scesi al 35 º per l’uso di Internet e tecnologie, al 48 º per la sicurezza, al 70 º per «qualità delle infrastrutture del trasporto aereo», 123 º per «efficacia del marketing nell’attrarre i turisti».
E qui torniamo a quanto dicevamo. Perchè certo, il Sud ha buone ragioni per chiedere fibre ottiche, treni più decorosi e più veloci (Matera, futura capitale europea della cultura, è ancora tagliata fuori dalla rete), collegamenti aerei, campagne di spot che vadano ad acchiappare turisti nel mondo.
E i ritardi dei governi in questi anni, spesso indifferenti al turismo, han finito per pesare di più sul Mezzogiorno.
Sì, una migliore gestione potrebbe distribuire al Sud carte importanti da giocare. L’ultima tabella Eurostat (dati 2013) sulle prime venti regioni turistiche dell’Ue mostra al 6° posto il Veneto, all’11 º la Toscana, al 13 º l’Emilia-Romagna, al 19° il Lazio, al 20° la provincia di Bolzano.
Del Meridione, nonostante quel patrimonio di bellezza e di cultura, non ce n’è una.
Scaricare tutto su Roma o i poteri forti, le banche padane o il perfido Nord, sarebbe insensato. Un alibi per le cattive coscienze.
Soprattutto sul tema della «propaganda».
Spiega l’ultimo rapporto del Centro studi MM-One su dati Eurostat che nel turismo la quota di fatturato generata dall’online è del 22% in Francia, del 26 in Spagna, 29 in Portogallo, 32 in Germania, 39 in Gran Bretagna e addirittura 88% in Irlanda.
Noi, mogi mogi, siamo al 18%. Dieci punti sotto la media europea e staccatissimi ad esempio dalla Croazia, concorrente diretta sul turismo balneare, che ha il doppio (35%) della nostra quota.
A farla corta: Renzi può anche mettere 12 miliardi sulla banda larga. Ma senza una svolta culturale rischiamo di restare indietro.
Basti vedere, appunto, la distanza abissale nella visione del turismo di oggi e di domani che separa noi, soprattutto il nostro Mezzogiorno, dalla Norvegia.
Il Paese scandinavo non sarebbe, sulla carta, votato al turismo. O almeno così appare a chi identifichi la vacanza con spiagge, sole, vino buono, mozzarella e pomodori.
Se poi l’unità di misura fossero i siti Unesco sarebbero guai. Ne ha sette, l’ultimo dei quali il sito industriale Rjukan-Notodden.
Per capirci: noi potremmo allungare ancora la lista con la cappella degli Scrovegni, Segesta, la fortezza di Palmanova, i portici di Bologna… Quello che hanno, però, a partire dai fiordi, lo sanno vendere.
Il sito ufficiale visitnorway.com, come dicevamo è semplice, ma fatto bene e soprattutto si apre ai turisti di tutto il pianeta con portali in giapponese e in portoghese, polacco e russo per un totale di 16 lingue.
La Norvegia ha la stessa popolazione della Sicilia (poco più di 5 milioni di abitanti), un territorio molto più grande, un patrimonio culturale molto più piccolo. Ma nel 2014 ha ricavato dal turismo, dice il rapporto WTTC, cinque miliardi di dollari. Poco meno di quanto incassa dagli stranieri l’intero Mezzogiorno.
Quanto alla Sicilia, sul versante estero che rappresenta la metà circa dei propri ospiti, non arriva, compresi viaggi di lavoro, al miliardo e mezzo.
Ma come si vendono, sul web, le regioni meridionali?
Malissimo la Campania (italiano e inglese: fine), un disastro il Molise e la Calabria (solo italiano con un pasticcio di rinvii a paginette pdf), decorosamente la Sardegna (5), bene la Puglia e l’Abruzzo che svettano con sei lingue.
Costo delle traduzioni? In tutto 70 mila euro, spiegano gli abruzzesi. Diecimila e poco più a lingua. E altri 70 mila di manutenzione annuale di una ventina di presenze importantissime sui social network .
E la Sicilia? Lo dicevamo: italiano e inglese. Manca perfino il tedesco, nonostante siano tedeschi, nella scia di Goethe, gli stranieri che più amano l’isola. «Io ci provai a cambiare il sito», sospira Michela Stancheris, per qualche tempo assessore con Crocetta.
«Mi spiegarono che dovevo rivolgermi a “Sicilia Servizi”. Un incubo. Alla fine uscii stremata».
Chissà , forse mancavano i soldi. Franco Battiato denunciò poco dopo l’insediamento un buco all’assessorato di 90 milioni.
Buco aperto ad esempio anche con un diluvio di concerti (a Comitini sbarcarono i Nuovi Angeli) in ogni contrada.
Come potevano avere i soldi per un sito web decente?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 4th, 2015 Riccardo Fucile
OCCORRE PUNTARE SU SPORT, NATURA E PICCOLI BORGHI
Quanti italiani sanno che in Basilicata, nel Parco nazionale dell’Appenino Lucano, nidificano ben due degli uccelli più rari che si possano ammirare in Europa, la cicogna nera e il capovaccaio, un piccolo avvoltoio capace di scagliare pietre per aprire le uova di cui vuole nutrirsi?
E quanti che a Città della Pieve, in Umbria, basta spingere il portone di legno della cattedrale per ammirare una serie di affreschi e tavole che all’estero farebbe la fortuna dei musei di qualsiasi metropoli, compresa una Madonna in Gloria dipinta nel 1514 da Pietro Vannucci detto il Perugino, maestro del celebre Raffaello?
Dicono i primi numeri dell’estate che quest’anno, dopo un periodo difficile, il turismo italiano sta tornando a respirare.
Nei due aeroporti di Milano, la città dell’Expo, in maggio e in giugno i passeggeri dei voli internazionali sono cresciuti del 6,3 per cento rispetto a un anno fa.
In tutta la penisola gli albergatori segnalano un aumento degli stranieri, mentre sembra essere in atto un vero boom per quei privati che affittano appartamenti su siti tipo Airbnb, ma anche per agriturismi, bed&breakfast, campeggi, fenomeni difficili da catturare nelle statistiche ufficiali.
Eppure, se si allarga lo sguardo a quel che sta accadendo nel mondo, basta poco per rendersi conto che le sconfinate meraviglie naturali e artistiche d’Italia non riescono a generare una ricchezza all’altezza delle loro possibilità .
Ha ricordato di recente Romano Prodi che la Sicilia, con le sue memorie storiche di inestimabile valore, ha meno di un decimo dei turisti delle isole Baleari, che al di fuori della stagione estiva non possono offrire più di tanto.
Se si fa eccezione per i Musei Vaticani, tra i venti musei più visitati al mondo non figura nessuno italiano, mentre ce ne sono ben due di Taiwan, il National Palace Museum di Taipei (tredicesimo) e il National Museum of Natural Science di Taichung (diciottesimo), la terza città per numero di abitanti dell’isola
Un’analisi su 30 mila giudizi postati sul sito rivela i gusti dei viaggiatori che visitano le due capitali.
Nei ristoranti è pizza contro vino, negli alberghi famiglia contro romanticismo. Ma, tra un “delizioso” e uno “squisito”, molti parlano spesso di “rapina”
E ancora: nelle classifiche del turismo internazionale, ormai da tempo l’Italia sta perdendo posizioni.
Se si considerano gli arrivi annui, i 48 milioni ottenuti nel 2014 la collocano ben sotto non soltanto la Francia, prima assoluta con 83 milioni, ma anche la Spagna, che di arrivi ne ha contati 64 milioni.
L’ufficio statistico europeo Eurostat compila una graduatoria dei Paesi che ogni anno registrano più pernottamenti da parte dei turisti internazionali. In questo caso, con 184 milioni di pernottamenti annui, l’Italia viene surclassata dalla Spagna, che arriva a 252 milioni, anche se riesce a superare la Francia (ferma a 131 milioni), che primeggia tra le destinazioni da week end ma fatica a catturare i vacanzieri per periodi più lunghi.
È facile intuire perchè l’Italia stia perdendo quote di mercato in un settore che sta vivendo una fase esplosiva com’è il turismo.
Man mano che diventano più raggiungibili luoghi fino a poco fa troppo lontani, la concorrenza cresce e l’Europa fatica a tenere il passo.
Il confronto con la Francia, che resta però leader di mercato, può dunque essere utile per comprendere quali siano stati gli errori commessi.
Lo scorso maggio, per festeggiare i vent’anni di vita della sua azienda, il tycoon cinese Li Jinyuan ha deciso di finanziare un viaggio premio di quattro giorni per i suoi 6.400 dipendenti. Parigi e l’intera Rèpublique hanno raccolto la sfida: solo nella Ville Lumière sono stati coinvolti 140 alberghi e a fare gli onori di casa si è presentato il ministro degli Esteri in persona, Laurent Fabius.
Le ferrovie francesi hanno messo a disposizione i treni ad alta velocità per trasportare gli ospiti a Nizza; alla fine si calcola che l’operazione abbia fruttato all’economia transalpina più di 13 milioni di euro.
I colpi di fortuna capitano: anche a Savelletri di Fasano, in Puglia, lo scorso settembre sono arrivati 800 invitati per i tre giorni delle nozze della figlia del magnate indiano dell’acciaio Pramod Agarwal.
Ma il punto è un altro. Il governo francese cerca di darsi una strategia. Un anno fa ha varato un piano in 30 punti per rilanciare il turismo.
Tra le priorità , la costituzione di cinque poli di eccellenza (gastronomia ed enologia, montagna e sport, ecoturismo, turismo dell’artigianato e del lusso, turismo urbano e notturno); la realizzazione di un piano per estendere il wifi gratuito a tutti i luoghi più frequentati; la cancellazione dell’obbligo di presentare una prenotazione alberghiera al momento della domanda di un visto per un soggiorno di breve durata; l’estensione agli altri mercati emergenti dell’iniziativa “visti turistici in 48 ore”, già avviata in Cina.
Perchè è da Oriente che vengono e verranno sempre più i nuovi turisti.
La compagnia aerea francese Air France collega Parigi a cinque grandi città cinesi con un totale di 49 voli settimanali.
Significa che i viaggiatori possono raggiungere la Tour Eiffel da Pechino, Shanghai e Hong Kong, ma anche dalle meno note Wuhan e Guangzhou.
I voli di Alitalia da Roma? Zero, al momento: per il primo collegamento con Pechino è stato necessario aspettare il salvataggio da parte degli arabi di Etihad e arriverà a ottobre.
Anche se si guardano i voli Roma-Cina operati da altre compagnie, dalla Cathay Pacific alla Hainan Airlines, il divario resta ampio. In totale sono 23 alla settimana: meno della metà di quelli operati dagli scali parigini dalla sola Air France.
Risultato: l’Italia ha 300 mila ingressi cinesi l’anno, la Francia 1,8 milioni.
«La mancanza di collegamenti fa sì che molti cinesi intenzionati a venire in Europa atterrino a Parigi o a Francoforte, ed è da queste città che i tour operator organizzano i percorsi, tralasciando o concedendo poco tempo alla visita dell’Italia. È davvero un peccato, perchè i cinesi cercano soprattutto arte, shopping e cibo buono», spiega Angelo Rossini, analista di viaggi per la società Euromonitor International.
L’elenco delle lacune italiane, al confronto con la Francia, è vario e noto agli esperti. Dopo il referendum del 1993 che tolse al governo le competenze nel settore, molte regioni hanno perso anni senza concludere nulla.
L’Enit, l’agenzia nazionale del turismo, è stata a lungo commissariata e solo ora il governo di Matteo Renzi si è messo a pensare che futuro tentare di darle.
Tanti alberghi costruiti mezzo secolo fa sono arretrati da far paura, abituati come sono a vivere di rendita: «Ora è previsto un credito d’imposta per la ristrutturazione, solo che mancano ancora i decreti attuativi», dice Alessandro Nucara, direttore generale di Federalberghi.
La rete ferroviaria ad alta velocità è ancora ridotta, e nei Comuni può accadere di tutto. L’autobus “389” che collega il centro di Palermo a Monreale, da poco divenuta con Cefalù un sito Unesco teso a preservare le meraviglie dell’arte arabo-normanna, è stato ripristinato solo nel settembre scorso, dopo tre anni di sospensione.
E ancora: la piazza Guglielmo II, che si apre davanti alla cattedrale, è stata un parcheggio fino al giugno 2014, quando il neo-eletto sindaco Pietro Capizzi ha deciso di pedonalizzarla, proprio per ottenere il riconoscimento Unesco.
Curare le magagne non sarà facile.
Dalla Francia, però, arriva un’altra lezione. E cioè che il flusso dei turisti è fatto in realtà da persone che cercano luoghi e cose diversi.
Per cui, racconta Alexandre Bezardin di Atout France, l’agenzia nazionale per lo sviluppo turistico, analizza i mercati internazionali, organizza parternship con gli operatori e studia campagne mirate.
In India ha lanciato un concorso a premi per conquistare il fiorente mercato dei matrimoni, mentre in Gran Bretagna sfrutta il marchio del Tour de France per spingere i visitatori a strutturare pacchetti ad hoc su tutto il territorio, con grande attenzione alla manna del momento, le vacanze “nature & outdoors”.
Da questo punto di vista, ci vuole poco per immaginare che il potenziale dell’Italia è enorme, anche con investimenti limitati.
Un esempio è quello dei parchi nazionali, che attirano sempre più turisti nonostante budget ridotti all’osso, un altro quello degli alberghi diffusi, uno dei pochi modi per salvare dall’oblio le piccole comunità .
A Santo Stefano di Sessanio, alle pendici del Gran Sasso, arrivano oggi più di diecimila visitatori l’anno, per metà stranieri, mentre prima del 2005, quando partì il progetto del suo ideatore, il milanese di origini svedesi Daniele Kihlgren, vi vivevano non più di venti persone.
Kihlgren ha replicato a Matera, e comprato vecchie case in altri nove borghi. Altre iniziative sono spuntate altrove, da Apricale nell’entroterra di Ventimiglia a Borgo di Castelvetere, un paesino abbandonato dopo il terremoto dell’Irpinia.
Naturalmente, anche in questo caso, le difficoltà burocratiche si sprecano. E i finanziamenti spesso latitano.
A volte però, la buona volontà di un drappello di persone può mettere in moto un circolo virtuoso.
Una dimostrazione è il progetto Vento, la ciclabile lungo il Po da Torino a Venezia, nato attorno a un gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano, amanti della bicicletta.
Ora si è mosso il governo, che finanzierà la progettazione definitiva.
Lungo il grande fiume «un intero sistema di vita sta morendo, perchè non vi passa nessuno.
Il sindaco di Casalmaggiore, nel cremonese, mi ha detto che negli ultimi anni nel suo paese ha chiuso un negozio su tre», dice il professore-ciclista Paolo Pileri.
«Ma se riusciamo a rendere il percoso adatto alle famiglie, non solo agli appassionati, facendolo diventare continuo, piacevole, ben segnalato, qui possono arrivare 3-400 mila persone l’anno. Facendo rinascere tantissime attività ».
Incredibile a dirsi: il costo delle opere necessarie, stima ad occhio Pileri, potrebbe essere piuttosto contenuto, un’ottantina di milioni.
Emanuele Coen, Luca Piana, Stefano Vergine
(da “L’Espresso“)
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Dicembre 16th, 2014 Riccardo Fucile
IN DIECI ANNI PRECIPITATI DAL PRIMO AL DICIOTTESIMO POSTO COME MARCHIO TURISTICO
Dallo scudetto alla zona retrocessione: come abbiamo potuto precipitare in soli dieci anni dal 1° al 18 º posto come «marchio» turistico mondiale?
L’ultima edizione del «Country Brand Index 2014-15», compilato in base ai giudizi di migliaia di opinion maker, la dice lunga sulla reputazione di cui godiamo.
Restiamo primi per appeal: il sogno di un viaggio in Italia è ancora in cima ai pensieri di tutti.
E primi per il fascino delle ricchezze culturali e paesaggistiche. E così per i nostri piatti e i nostri vini. Sul resto, però…
Soprattutto sul rapporto prezzi/qualità . Eravamo al 28 º posto: due anni e siamo precipitati al 57 º. Un incubo.
«Nessun dorma», titola il capitolo dedicato al nostro Paese. Perchè è da pazzi trascurare un settore come il turismo che sta vivendo il più grande boom mondiale di tutti i tempi e che potrebbe darci una formidabile spinta per cavarci dai guai. Invece, poco o niente.
Rari accenni (10 citazioni su 46.059 parole) nello sblocca Italia, dove si parla dei «condhotel» o della necessità di «armonizzare» le offerte dei vari enti locali. Fine.
Ma dov’è la piena consapevolezza di quanto il tema sia vitale per il nostro presente e il nostro futuro?
Dice il rapporto World Travel & Tourism Council che nel 2013 l’Italia ha ricavato dal turismo in senso stretto il 4,2% del Pil e compreso l’indotto il 10,3.
La metà della promessa di troppi premier… Dice ancora che il turismo in senso stretto occupa 1.106.000 addetti (dieci volte più della chimica) e con l’indotto (compresi per capirci gli artigiani che fanno i gilè dei camerieri) 2.619.000, cioè un milione più degli addetti dell’industria metalmeccanica.
Bene: dice l’archivio dell’Ansa che su 1.521 titoli con Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, non ce n’è uno associato alle parole turismo, turistico, turisti.
Peggio ancora per Susanna Camusso: su 4.988 titoli, uno solo (uno!) associato al turismo. Per la Cgil ci sono solo i metalmeccanici, chimici, i pensionati…
E il settore che impiega quasi il 14% degli occupati? Boh…
Una cecità insensata e collettiva che negli anni ha fatto disastri: dall’abolizione del ministero alle deleghe alle regioni chiamate ciascuna a giocar per conto proprio sul mercato mondiale, dai pasticci sull’Enit al sito italia.it per il quale furono stanziati 45 milioni di euro con risultati comici come le musiche dei filmati che raccontavano le regioni ai cinesi, in 19 casi su 20 di compositori stranieri. Soldi buttati.
Col cesello finale di Matteo Renzi che due mesi fa ha chiesto ai ragazzi d’una startup palermitana: «Ce lo preparate voi un progetto gratuito sul turismo? Sarebbe una figata bestiale».
Secondo il premier, «ci manca una adeguata strategia e non sappiamo raccontare nel modo giusto il nostro prodotto.
C’è bisogno di una grande campagna di comunicazione web, un’operazione di marketing in Rete per rilanciare il nostro turismo…». Giusto.
Le classifiche «Brand Index», però, dimostrano inequivocabilmente che possiamo pure «raccontare» l’Italia con le parole più immaginifiche possibili, ma ciò non scioglierebbe i nodi fondamentali. Che sono altri.
Dicono quelle classifiche infatti che il «marchio» Italia è già conosciutissimo e primissimo per ciò di cui andiamo fieri: i tesori artistici, monumentali, paesaggistici.
Ma, come spiega il dossier a noi dedicato, non possiamo più campare di rendita: tutte quelle cose «non sono più sufficienti a farci preferire ad altre destinazioni, specie perchè il nostro rapporto qualità -prezzo è precipitato dal 28° al 57° posto, un tracollo!».
Quasi trenta punti persi rispetto all’ultimo rapporto biennale. Venezia resta Venezia, Roma resta a Roma e Capri resta Capri, ma i turisti stranieri non sono baccalà : non tornano, se si sentono bidonati.
Peggio: scoraggiano gli amici e i parenti dal venire in un Paese stupendo ma che pretende di avere una sorta di diritto di imporre ai visitatori pedaggi ingiusti.
Tanto più se, intorno, troppe cose sono insoddisfacenti. «L’Italia perde posizioni proprio perchè il suo percepito e anche il suo vissuto», spiega il rapporto Brand Index, «è quello di un Paese penalizzato da una cattiva gestione politica (24° posto), con un sistema valori che si va opacizzando sempre più (23° posto), poco attrattivo come destinazione per studi e investimenti (19° e 28°), con infrastrutture insoddisfacenti (23°), intolleranza (23°), scarsa tecnologia (29°) e una qualità della vita sempre più bassa (25°)».
L’ultimo dossier del World Economic Forum nel settore Travel & Tourism, come denuncia uno studio di Silvia Angeloni, ci rinfaccia per di più il modo in cui gestiamo le nostre ricchezze paesaggistiche: nella «sostenibilità ambientale» siamo cinquantatreesimi. Peggio ancora nell’indice «Applicazione delle norme ambientali», dove ci inabissiamo all’84 º posto.
Qualcuno pensa che sia furbo continuare ad aggiungere cemento e cemento da Taormina a Cortina, da Courmayeur a Santa Maria di Leuca?
Ecco la risposta: i turisti internazionali ci dicono che quella roba lì non gli interessa. L’Italia che vogliono vedere è un’altra. Fatto sta che, come dicevamo, nel primo Brand Index del 2005 il marchio Italia era primo assoluto. Nel 2007 quinto. Nel 2009 sesto. Nel 2011 decimo. Nel 2013 quindicesimo e nell’ultimo, 2014-2015, appunto, diciottesimo. Certo, rispetto al primo monitoraggio alcuni criteri sono stati cambiati.
E l’insieme della «accoglienza» di un Paese, dall’igiene alla qualità dei prodotti locali, dalla sicurezza ai prezzi, è diventato più importante che non la ricchezza di tesori. Il tracollo segnala un problema: chiunque sia a Palazzo Chigi la nostra reputazione è a pezzi.
Ma soprattutto il mondo del turismo ha preso atto che l’Italia non è impegnata, se non a chiacchiere, in un progetto di rilancio vero. Corposo. Decisivo. Capace di coinvolgere tutto il Paese.
Vogliamo fare qualche confronto fastidioso?
Proviamo con la Gran Bretagna, che oggi viaggia con un Pil che cresce del 3% l’anno e ha i nostri stessi abitanti. Noi siamo al quinto e loro all’ottavo posto, staccati, tra i Paesi più visitati dai turisti internazionali, ma ci hanno quasi raggiunti per i ricavi: 40,6 miliardi di dollari contro i nostri 43,9.
Qualche anno e ci pigliano. Loro hanno 17 siti Unesco, noi il triplo (50 più due del Vaticano più un paio di patrimoni immateriali) per non dire delle Dolomiti, della costa Smeralda o della Riviera sorrentina, del cibo e dei vini dove non c’è confronto.
E ti chiedi: com’è possibile che loro siano sei posti davanti a noi nel «marchio» e addirittura 24 posti (loro al 4°, noi al 28°) nella competitività turistica?
Com’è possibile che, stando al dossier Wttc, il turismo con l’indotto pesi sul loro Pil per il 10,5%, cioè più che sul nostro o che abbiano nel turismo (sempre incluso l’indotto) oltre 4 milioni di addetti e cioè quasi un milione e mezzo più di noi?
Un piccolo dettaglio dice tutto: il nostro sito web ufficiale italia.it è in cinque lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco) e il loro visitbritain.com in dieci, il doppio, compresi il russo e il cinese.
E vi risparmiamo altri confronti. Umilianti.
Ecco: non sarebbe il caso che nel Paese di Pompei, degli Uffizi, di Venezia, della Valle dei Templi e del Cenacolo leonardiano il turismo diventasse, finalmente, una grande questione nazionale?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera“)
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