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ZINGARETTI RIBASCISCE: “NESSUN RIPENSAMENTO”

Marzo 5th, 2021 Riccardo Fucile

COSA SUCCEDE ADESSO: DALLA PINOTTI REGGENTE ALLA SFIDA BONACCINI-ORLANDO

Con le sue dimissioni Nicola Zingaretti ha spiazzato tutti: i suoi alleati e ‘compagni’ più fidati, dal suo vice Andrea Orlando al ministro Dario Franceschini e l’amico Gianni Cuperlo, la minoranza interna (Guerini e Delrio) e quelli esterni, come Matteo Salvini preoccupato per la stabilità  del nuovo esecutivo (“Stia tranquillo – lo rassicura Zingaretti- il governo proseguirà “).
Compreso il premier Mario Draghi, informato dalle agenzie di stampa. La mossa del governatore del Lazio apre scenari nel Pd che al momento non erano considerati.
E ora cosa succede? Nonostante le richieste di ripensamento, lui sembra intenzionato a guardare avanti senza tornare sui suoi passi. “Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid”.
E adesso? “Qualsiasi scelta farà  l’assemblea la rispetterò – dice oggi a margine di un evento a Roma – No, non è un tema di ripensamento che non c’è e non ci sarà . Piuttosto penso debba essere il gruppo dirigente a fare un passo in avanti nella consapevolezza di avere un confronto più schietto, franco e plurale ma anche solidale sul ruolo del Pd, i valori di riferimento, la nostra idea dell’Italia e dell’Europa. Io non ce l’ho fatta ad ottenerlo. Spero che ora sia possibile”.
Un’altra settimana per capire. Per capire se deciderà  di ritirare le dimissioni, ipotesi al momento improbabile; se ci sarà  un reggente, che potrebbe essere Roberta Pinotti o se partirà  la sfida tra Stefano Bonaccini e Andrea Orlando. O, se alla fine il governatore del Lazio lascerà  la Regione (dovrebbe restare fino al 2023) e sceglierà  la sua città , candidandosi a sindaco di Roma.
Zingaretti: “Dimissioni rigettate? Lo Statuto non lo prevede”
Lo Statuto, in caso di dimissioni, prevede che l’assemblea (in programma il prossimo weekend, il 13 e 14 marzo) può eleggere un nuovo segretario oppure sciogliersi. Se Zingaretti non tornerà  indietro, il successore dovrà  essere votato dai due terzi dei componenti. Tuttavia oggi lo stesso segretario dimissionario ha ricordato che lo Statuto non prevede che l’assemblea dem rigetti le sue dimissioni.
Ipotesi Pinotti reggente
I segretari dem sembrano essere colpiti da una maledizione: in 14 anni si sono succeduti otto segretari. La sindrome di Tafazzi, come il primo segretario caduto sotto il fuoco amico Walter Veltroni chiamava il logoramento della guerra di correnti, colpisce ora un altro leader del Pd. E come nel 2009 quando l’ex sindaco di Roma si dimise nel corso di una direzione drammatica, anche oggi Nicola Zingaretti – dopo solo due durissimi anni al Nazareno – annuncia l’addio spiazzando tutti.
Ora l’ipotesi più probabile è che tocchi a un reggente. Che potrebbe essere Roberta Pinotti, ex ministra della Difesa nel governo Renzi, oggi area Franceschini.
Ci sono già  passati Guglielmo Epifani dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani nel 2013 e Matteo Orfini, prima (qualche mese nel 2017), e Maurizio Martina dopo, in seguito all’addio di Matteo Renzi. La maledizione, appunto. Chi fa il segretario Pd, alla fine, sembra destinato a fare i conti con i soliti veleni interni.
Sfida Bonaccini-Orlando
La prossima assemblea dem potrebbe aprire anche un altro scenario. Le dimissioni di Zingaretti aprono la strada alla scalata alla segreteria di Stefano Bonaccini, 54 anni, presidente della Regione Emilia Romagna, sostenuto dai sindaci e amministratori, è indicato come un possibile aspirante a ricoprire il ruolo lasciato dal governatore del Lazio. Il suo rivale potrebbe essere, quasi certamente, Andrea Orlando: l’attuale ministro del Lavoro nel nuovo governo Draghi, leader della corrente Area Dem e vicesegretario del Pd che potrebbe decidere di ricevere il testimone da Zingaretti e lanciare così un segno di continuità  con il passato.

(da agenzie)

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ZINGARETTI TENTA DI RADDRIZZARE QUELLO CHE E’ NATO STORTO

Giugno 8th, 2020 Riccardo Fucile

IN UN PAESE DI IRRESPONSABILI E POPULISTI URLATORI VESTIRE I PANNI DEL “PARTITO DELLA RESPONSABILITA'” NON PAGA

Alla fine, la sensazione che resta è quella di un immenso sforzo di Nicola Zingaretti per raddrizzare, detta in modo un po’ gergale, ciò che è nato storto. Generoso, sinceramente animato da quell’antico senso di responsabilità  nazionale che, più volte nella storia del Pd, è diventato un cappio a cui il partito è rimasto appeso, dai tempi di Monti. E, proprio per questo rischioso, proprio nel momento in cui oggi, come allora, l’attuale assetto di governo può diventare l’incubatore di un’ondata populista di tipo nuovo nel paese.
C’è, nella relazione del segretario alla prima direzione del Pd post lockdown (a proposito: una cosa seria, d’altri tempi con cinque ore di dibattito) questo faticoso cimento, potenzialmente drammatico: la consapevolezza che, se si va avanti a colpi di “casalinate”, in autunno arriveranno i forconi, con la destra pronta a indirizzarli verso palazzo Chigi e, al tempo stesso, la consapevolezza che non ci sono alternative a questo governo, almeno per come si è messa finora. In quanto impraticabili: per le larghe intese manca una destra decente, per andare al voto manca una legge elettorale che non consegni il paese a Salvini, ma anche la disponibilità  dei tacchini di questo Parlamento ad affrontare il Natale, e così via. È addirittura complicato financo cambiare qualche ministro, in un paese dove riaprono le balere ma poco si capisce sul ritorno a scuola, perchè anche se il Pd sarebbe favorevole, in queste delicate operazioni sai dove si comincia ma non si sa dove si va a finire.
Ecco, il sentiero stretto :“la destra è lì”, “rocciosa”, pronta a cavalcare “la paura”, trasformandola in rabbia e odio, ma l’unica alternativa a questo governo è farlo funzionare, renderlo, si sarebbe detto una volta, alternativo a se stesso quantomeno nel metodo seguito finora e nella consapevolezza della sfida. È questo il senso del titanico sforzo: rendere questo governo alternativo a se stesso.
Si capisce che, al fondo di ogni passaggio in cui Zingaretti chiede una “svolta”, c’è un giudizio severo, anche se non esplicitato, che non riguarda solo gli Stati Generali, ma più in generale le incertezze di un governo chiamato a ricostruire il Paese senza un’idea di paese.
Si capisce anche che sente l’urgenza di ri-addrizzare la rotta, rispetto ai mesi nel sostegno acritico, e di riacquisire margini di iniziativa politica, come avvenuto sul terreno della legge elettorale che ha prodotto l’innesco del dialogo con Forza Italia e una certa disarticolazione della destra. Con una certa solennità , rigorosa e demodè, il segretario del Pd, tornato in giacca e cravatta con i simboli del Pd alle spalle, sceglie la via della drammatizzazione retorica parlando a suocera (il suo partito) perchè nuora (il presidente del Consiglio) intenda.
È un discorso denso di consapevolezza sul momento “cruciale”, che investe il destino stesso del paese e della legislatura, perchè è chiaro che sbagliare la ricostruzione del paese, proprio nel momento in cui dall’Europa arrivano una valanga di soldi, significa fallire ed essere travolti.
Tuttavia, proprio perchè si muove sul piano dell’invito alla consapevolezza, che rifiuta polemiche e non turba l’esistente in nome di alcuni paletti non negoziabili, resta all’interno di una classica alternativa del diavolo. Nel senso che se la crisi sociale di ottobre, evocata in qualche intervento come quello di Cuperlo, dovesse risultare più forte della capacità  del governo di evitarla, nell’assenza di alternative l’unica alternativa è il collasso.
Ecco il punto. Al netto dell’intimazione retorica, la questione politica resta squadernata: il partito della “responsabilità ” di governo riesce ad essere il “partito degli italiani”, capace di intercettare inquietudini, preoccupazioni, rabbie prima che si traducano in istinti antipolitici e di rivolta?
Finora, in questi mesi, il Pd si è limitato, con generosità , a sostenere l’azione di governo, rinunciando, in nome della stabilità , a un punto di vista autonomo, dall’immigrazione alla giustizia, alle stesse modalità  di gestione della crisi virale, che hanno visto la chiusura del Parlamento e una operazione di costruzione della leadership del premier sullo stato di eccezione.
Adesso, proprio nel momento in cui si chiude la fase dell’emergenza sanitaria e si apre la fase dell’emergenza economica, il Pd chiede “un salto di qualità ” senza però ancorarlo a un perimetro di richieste vincolanti, a partire da quegli Stati Generali, di cui non si capisce ancora programma, calendario e funzione. Si capisce che saranno una fase di ascolto, più o meno lunga, più o meno breve. Lo sforzo è immenso, il risultato, come evidente, una grande incognita.

(da “Huffingtonpost”)

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DELUSIONE E AMAREZZA, ZINGARETTI SI CONSOLA CON L’AGLIETTO DEI TERRITORI

Settembre 17th, 2019 Riccardo Fucile

IL SEGRETARIO PD STUDIA LA MAPPA DELLE REGIONI: “NON CI SARANNO RIPERCUSSIONI”… MA NEI PALAZZI ROMANI LA SCISSIONE E’ UN TERREMOTO POLITICO

Asserragliato al Nazareno. Dalla sede del Pd, Nicola Zingaretti per tutto il giorno osserva, tra delusione e amarezza, questa spaccatura prendere forma.
La scissione di Matteo Renzi lo ha lasciato sconcertato e con l’amaro in bocca: “È un errore dividere il Pd, specie in un momento in cui la sua forza è indispensabile per la qualità  della nostra democrazia”. Con i suoi fedelissimi il segretario dem studia la mappa dei territori, chi va con chi, chi scappa e chi resta. Da qui la magra consolazione: “Nelle Regioni non ci sarà  la scissione. Poca roba”.
L’operazione dell’ex segretario dovrebbe fermarsi, almeno per ora, alla Camera e al Senato. Lo stesso Renzi dice che “sindaci e governatori di Regione è bene che restino lì. Non è un’operazione per portare via amminstratori, ma per portare la gente ad entusiasmarsi”.
Quanto basta tuttavia, nonostante dal quartier generale di Zingaretti si provi a minimizzare, per vivere tutto ciò come un vero e proprio terremoto politico.
Zingaretti prova a riconquistare terreno e nel suo commento aggiunge una frase programmatica che spiega come intenda muoversi: “Ora pensiamo al futuro degli italiani, lavoro, ambiente, imprese, scuola, investimenti. Una nuova agenda e il bisogno di ricostruire una speranza con il buon governo e un nuovo Partito Democratico”. Zingaretti a quanti lo hanno sentito ha ribadito che l’attività  di governo, anche se si incentrerà  su istanze innovative come la svolta ambientale, il lavoro e il welfare, non può esaurire il compito del Pd: sarebbe ripetere l’errore compiuto proprio da Renzi.
Quindi lo sguardo è puntato sui territori. Il Pd deve trovare anche una sua nuova collocazione nella società .
Questo sarà  favorito, secondo il segretario, dal fatto che sul territorio pochi dirigenti hanno seguito Renzi, a cominciare dai sindaci, come ha precisato di buon mattino Matteo Ricci, primo cittadino di Pesaro, anch’egli ex renziano.
E anche Dario Nardella, il primo cittadino di Firenze, ha scelto di rimanere nel Pd così come i dirigenti della Toscana.
In Campania c’è chi si è affrettato a cancellare la prenotazione per il 20 ottobre alla Leopolda, sintomo di una decisione ormai assunta. Altri tentennano un po’, ma non sembrano voler compiere il grande passo. Per portare un altro esempio l’addio di Matteo Renzi al Partito democratico non ha ‘sfondato’ neanche in Emilia Romagna. Pochi i ‘proseliti’ tra i parlamentari espressione del territorio. E nessuna ‘defezione’ al momento tra i consiglieri Pd eletti in Regione dove presto si tornerà  al voto.
Per quel che riguarda dunque il Partito due sono i percorsi che indica Zingaretti.
Il primo è il cosiddetto “Modello Casal Bruciato”, dal nome del quartiere romano dove Zingaretti ha riaperto la sede del Pd dopo anni di assenza.
E poi c’è il Web, non con una piattaforma chiusa come Rousseau, bensì come strumento per scardinare le correnti e promuovere nuove forme di partecipazione su campagne, istanze e tematiche.
Infine Zingaretti ha annunciato una tre giorni (dal 3 al 6 ottobre) con un Pd in piazza per lanciare il tesseramento di tutti i simpatizzanti. Un modo per stabilizzare un partito che nei palazzi romani è a dir poco scosso.

(da “Huffingtonpost”)

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ZINGARETTI IN APNEA PER L’ULTIMO MIGLIO: DUE CHILI IN MENO, SETTE INIZIATIVE E UNA PASTICCA DI PROPOLI AL GIORNO

Maggio 14th, 2019 Riccardo Fucile

PUNTA TUTTO SULLA DENUNCIA DEL GOVERNO DELL’INCIUCIO: “SALVINI E DI MAIO PARI SONO”… TONI MODERATI, SEGNALI POSITIVI NEL TOUR, AL SORPASSO CI CREDE

Due parole antiche, ma che danno il senso della posta in gioco: “Mobilitazione straordinaria”.
È questo che ha chiesto il segretario del pd Nicola Zingaretti ai suoi per l’ultima settimana di campagna elettorale: tv, comizi, ma anche il porta a porta, “casa per casa”.
Per dare il senso di una campagna reale, non racchiusa solo nella dimensione della politica spettacolo. “Inciucio” è la parola chiave, da far passare: “Ma quale svolta a sinistra di Cinque Stelle, tutte chiacchiere. Se questa dinamica conflittuale fosse vera, allora uno dei due chiederebbe di andare al voto, o no? E invece perchè non ci vanno? Per il potere, questa è la verità ”.
Questa è la linea, per l’ultima settimana: “Il governo dell’inciucio, senza neanche più la dignità  che poteva avere il contratto. Litigano ma non rompono per mantenere il potere”.
Non prendere sul serio questo gioco di un governo che cerca di rinchiudere al suo interno il ruolo di maggioranza e opposizione, nè accreditare i Cinque Stelle come forza realmente anti-Salvini.
È la partita della vita, per il neo-segretario che si è insediato meno di due mesi fa. Consapevole che c’è ancora un pezzo del suo partito che lo aspetta al varco. Quell’asticella al 25 per cento messa da Renzi qualche giorno fa, lascia già  intendere come l’ex segretario si prepari al fuoco amico, per la serie “il problema non ero io”: “Mi hanno insegnato che i conti si fanno alla fine. Questo è il momento di menare. Al fischio finale si vede chi è rimasto in piedi”.
Lunedì a Casal Bruciato per riaprire la sezione del Pd, poi Pozzuoli, Napoli, Genova, chiusura in Piazza a Milano: l’agenda prevede 7 appuntamenti al giorno.
Al momento la sensazione è che il clima sia buono. Difficile ma buono, rispetto alle politiche.
Indicativo che in varie città , come Torino, le iniziative più larghe siano andate meglio di quelle di partito in senso stretto, con i notabili impegnati in giro a raccogliere preferenze:
“Questo litigio di Lega e Cinque Stelle — è la sua analisi – sta mobilitando più chi vota contro che chi vota a favore. Guardate i giovani: quelli alla Sapienza che cantano Bella ciao o quelli che prendono in giro Salvini sui selfie. È un segnale di risveglio e di rifiuto della cultura dell’odio”.
La bilancia segna due chili in meno, persi nelle prime settimane di campagna elettorale. Per tenere una voce decente il rimedio è una pasticca di propoli al giorno. Zingaretti, il mite, ha distribuito un paio di cartelle per fissare i punti di attacco degli ultimi giorni. In una c’è l’elenco dei cento decreti che sono stati decadere dal governo, a causa dei continui litigi.
Nell’altra invece l’elenco dei provvedimenti votati assieme in questo anno, che attesta una “complicità ” di fondo: “Di Maio ha votato tutti i provvedimenti più odiosi di Salvini, a partire da quelli sulla sicurezza. Chi vota Cinque Stelle vota per far rimanere Salvini ministro dell’Interno. Del resto lo dice anche lui che il governo deve andare avanti altri quattro anni, o no?”.
Al voto ci crede poco, anche se il conflitto sta diventando reale.
Le antenne sul territorio segnalano che, ormai, ai comizi di Salvini, la base mostra striscioni che lo invitano a rompere con Di Maio. È accaduto ad Ascoli, a Novara, un po’ ovunque. E anche il gruppo dirigente diffuso lo spinge in tal senso.
Semmai dovesse accadere, non c’è spazio per manovre di Palazzo. La posizione del Pd è stata già  recapitata in via informale al Quirinale: “Se il governo cade, come sarebbe auspicabile, si vota. Non è uno slogan. Hanno prodotto un buco economico così drammatico che è giusto che siano i cittadini a scegliere tra soluzioni diverse. Solo così se ne esce”.
Salvini e Di Maio, Di Maio e Salvini, l’uno e l’altro pari sono per Zingaretti. Anche per non polarizzare sono con uno, il che accrediterebbe l’altro come un oppositore ha lasciato cadere l’idea di un confronto tv.
Perchè anche se non si possono considerare due volti della stessa destra, cosa che il segretario del Pd non pensa, devono essere trattati come due protagonisti dello stesso sfascio: “Siamo noi l’unica alternativa. Lo spread ha toccato quota 281. E se continua a bruciare miliardi, non avremo soldi per la sanità . Altro che spostamento a sinistra, se per gestire il potere rendi più deboli le fasce più deboli. C’è poco da fare: o saranno costretti ai tagli o aumenteranno l’Iva. Questa è la verità ”.
A chi gli consiglia una comunicazione più ad effetto, rumorosa, che li sfidi sul loro stesso terreno, risponde: “Noi, anche nella comunicazione, dobbiamo rappresentare una alternativa. Hanno imprigionato il paese nella realtà  virtuale degli insulti. Noi dobbiamo essere quelli che parlano di una agenda reale”. È convinto che funzioni. Salvini è nervoso. Per ora Di Maio non ha riempito piazze limitandosi a parecchi incontri con le categorie.
Sembrano segnali “buoni”. Nel “sorpasso” ci crede.

(da “Huffingtonpost”)

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DIREZIONE PD, DISARTICOLATO IL RENZISMO

Marzo 26th, 2019 Riccardo Fucile

ZINGARETTI FA PASSARE LA LISTA UNITARIA, DA CALENDA E SPERANZA, ANCHE CON IL SOSTEGNO DEL MONDO CHE FU RENZIANO

Gli effetti speciali, per gli amanti della politica spettacolo, non ci sono. Perchè l’uomo (Zingaretti) è fatto così. Mite. Graduale, in ogni passaggio. Il “passo dopo passo”, non lo strappo.
Però, nella sostanza politica, c’è una notizia, non irrilevante, alla prima direzione del Pd della nuova era. Che non è solo un nuovo clima, composto, non polemico, attento.
Il che è di per sè una notizia, nel day after della Basilicata. Ma qualcosa di più.
E cioè un consenso ampio attorno a un nuovo posizionamento politico del Pd, che vale per le Europee ed evidentemente per il dopo.
Ecco la proposta: “Il nostro simbolo — dice Zingaretti – sarà  quello del Pd con un riferimento al gruppo Socialisti e democratici e la scritta ‘Siamo europei'”.
Consenso ampio, perchè la relazione è stata votata dal grosso della direzione. Anzi, sulla relazione si è disarticolato il renzismo che fu, con l’area di Guerini-Lotti-Martini che l’ha votata, senza neanche tanti distinguo. E i 17 irriducibili di Giachetti e Ascani che si sono astenuti.
Insomma, se la direzione doveva essere il luogo per il primo tagliando del nuovo corso, con la scusa della Basilicata, questo rischio è stato disinnescato.
Per comprendere meglio, occorre riavvolgere la pellicola del film a un mese fa, quando Renzi girava l’Italia per presentare il suo libro alimentando la suggestione della “scissione”, il veleno scorreva nel corpo del corpo del Pd, la domanda era su quanti sarebbero stati disposti a seguirlo e alcuni dei suoi minacciavano il “ce ne andiamo se Zingaretti torna a fare i Ds con quelli che se ne sono andati”.
Un mese dopo, il partito, pressochè nel suo insieme, dà  il via libera a una lista sostanzialmente del Pd, ma aperta agli altri, che dia il senso di un fronte democratico e progressista, certo alle Europee ma, se l’esperimento funziona, è chiaro che indica una direzione di qui alle politiche.
Aperta al centro e a sinistra. Per intenderci, da Calenda a tutti coloro che si riconoscono nel Pse, come Articolo 1 e i socialisti di Nencini, sulla base del ragionamento che non ha senso tenere diviso in Italia ciò che è unito in Europa.
Parliamoci chiaro: è la rottura di un tabù, perchè si tratta del primo, serio, innesco di un processo politico nuovo anche col “diavolo”, inteso come coloro che se ne sono andati, sia pur in forme prudenti, perchè, per favorire la composizione del quadro, “Articolo 1” dovrà  acconsentire una certa gradualità  e morbidezza, a partire magari da una rinuncia a candidare tutti gli uscenti, puntando su facce nuove, non divisive, e che non suscitino mai sopiti rancori. Però è altrettanto chiaro che, comunque, una campagna comune, in una stessa lista, innesca un processo graduale.
Più in generale siamo di fronte a un recupero, in perfetto spirito ulivista, di una diversa concezione del ruolo del Pd nella società  e nel sistema politico italiano, come perno di una alleanza più larga.
Il passaggio chiave è questo: “In questo istante in Italia si stanno ricostruendo alleanze con corpi diversi, Democrazia solidale, Più Europa, Articolo 1, il movimento di Pizzarotti che ha firmato una alleanza con Chiamparino. Non si tratta di ricomposizioni ma di trovare una nuova dimensione affinchè non si perda, contro i populismi, neanche un voto. Alla mezzanotte del 26 maggio il mondo e l’Europa guarderanno dove sarà  arrivata la nostra colonnina”.
In fondo, la politica è innanzitutto realismo. Si misura in termini di voti.
Tanto per fare un esempio, proprio in Basilicata i numeri rendono l’idea. Il Pd ha preso il 7,7 per cento, una lista socialista il 3,5, “Articolo 1” il 4,5.
Direbbe Catalano: il 15 è meglio del 7,7, al netto delle elucubrazioni sul voto utile che, in questi anni, hanno avuto l’effetto di produrre il voto utile sugli altri. È quel che dicono tutti i sindaci, a partire da Dario Nardella a Firenze, impegnati nello stesso giorno in una battaglia campale in oltre tremila comuni: poche chiacchiere, allarghiamo il più possibile e proviamo a vincere.
È vero, manca ancora la grande suggestione, il grande sogno, la spinta emotiva. Però è chiaro e ragionevole quel che sta accadendo. Zingaretti, eletto segretario il 4 marzo, ha due mesi di tempo per preparare la sua prima prova del fuoco, consapevole che, come si dice in gergo, “senza il soprasso”, verrebbe risucchiato in un gorgo senza fondo sia la sua segreteria — altro che fuoco amico – sia lo stesso Pd.
Perchè il tema delle Europee è già  diventato il “sorpasso”. Il chi arriva secondo tra Pd e Cinquestelle. Non il plebiscito annunciato di Salvini. È quello il risultato che cambia la fase. E ri-politicizza la dinamica sull’asse destra-sinistra, dopo un anno in cui la “narrazione” è rimasta inchiodata attorno a quella tra èlite e popolo, col Pd inchiodato al ruolo di establishment morente.
Il neo-segretario ha scelto la strada non della rivoluzione ma della “rigenerazione”, provando a mettere ordine e a rivitalizzare un campo, aprendo il più possibile, senza rompere ciò che di per sè è già  fragile. Per ora, un’ulteriore rottura traumatica del Pd sembra essere stata disinnescata.
Resta un problema che è più di fondo. Abruzzo, Basilicata, Sardegna, dicono che il marchio Pd è piuttosto logoro, anzi in alcuni casi l’operazione messa in campo dai candidati governatori è stata quella di nasconderlo, per intercettare una “sinistra diffusa” con un sistema di liste civiche.
Ne è risultato, più che un nuovo compiuto bipolarismo, una situazione politicamente ancora informe, di un polo che esiste nel paese, ma non più Pd-centrico.
Far tornare nelle vene del partito questa circolazione extra-corporea è la scommessa, in una situazione in cui ci sarà  comunque la competizione al centro con la lista della Bonino e a sinistra con quella di Verdi e Pizzarotti. In fondo, la guerra si fa con i soldati che uno ha.

(da “Huffingtonpost”)

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LA “PRIMA” DI ZINGARETTI A BRUXELLES: “SALVINI FACCIA IL MINISTRO, IN ITALIA E’ TORNATO IL TERRORISMO”

Marzo 21st, 2019 Riccardo Fucile

“PRETENDO UN MINISTRO CHE NON FACCIA COMIZI”… E CAPOLISTA NELLE ISOLE METTE LA FIGLIA DEL GIUDICE CHINNICI, UCCISO DALLA MAFIA

La prima di Nicola Zingaretti a Bruxelles da segretario è un attacco frontale a Matteo Salvini dopo la tragedia del bus ieri nel milanese. “Salvini cavalca i problemi ma non li risolve. Anzi visto che ci campa con i problemi degli italiani, ho il sospetto che non li risolverà  mai. Come sta accadendo purtroppo con la tragedia del pullman di ieri: si vuole nascondere un fatto drammatico e cioè che in Italia è tornata una forma di terrorismo dopo moltissimi anni…”, dice Zingaretti a margine dell’assemblea del Pse, dove ha modo di intrattenersi con il premier spagnolo uscente Pedro Sanchez, il leader dei laburisti britannici Jeremy Corbyn, il premier portoghese Antonio Costa.
“Io dal ministro dell’Interno del Governo del mio paese pretendo sicurezza per i cittadini – continua Zingaretti – e pretendo che invece di passare le giornate sui palchi a fare comizi per il proprio partito, ci sia attenzione massima alla sicurezza, che si alzi l’allerta terrorismo che sta assumendo forme inedite in Europa”, quella delle “schegge impazzite che finora avevamo visto in azione in Francia. La tragedia di ieri non è diventata vera tragedia grazie a dei bambini che hanno chiamato aiuto e all’intervento dei carabinieri”. Ma è un fatto che “richiede un governo presente e un ministro degli interni che faccia a questo punto una cosa semplice e rivoluzionaria: faccia il ministro degli Interni, cioè si occupi della sicurezza degli italiani”.
A Bruxelles Zingaretti insiste sull’idea di costruire una lista allargata per le europee: “Sarà  la vera novità  di questa campagna elettorale, come è stata una novità  l’afflusso di partecipanti alle primarie”.
E su questo trapela qualche nome importante: Caterina Chinnici potrebbe essere capolista per la ‘circoscrizione Isole’, magistrato, figlia del giudice Rocco Chinnici assassinato dalla mafia.
Nella famiglia socialista, dice Zingaretti, “c’è tantissima attenzione, ci sono aspettative verso l’Italia, voglia di vedere un centrosinistra combattivo che aiuti l’Italia a uscire da questo periodo drammatico”.
Il confronto con Corbyn, consumato dal caos Brexit come tutti i leader britannici, gli rafforza l’idea che “bisogna cambiare questa Europa, scommettendo su uno sviluppo sostenibile, ambientale e sociale”, in quanto: “Uscire dall’Ue non è la soluzione”.
“Molti hanno votato Lega e 5 stelle perchè cercavano maggiore giustizia, ma è passato un anno e l’Italia sta andando in senso opposto – conclude – O qui vince una famiglia che crede nell’Europa oppure se vincono i nazionalisti, cioè i capi popolo che difendono solo i loro paesi, l’Italia ci rimette sicuro perchè saremo isolati, come lo siamo sull’immigrazione, dove certo non sono i sovranisti europei che ci aiutano”.

(da “Huffingtonpost”)

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IL PD DEL MITE ZINGARETTI

Marzo 17th, 2019 Riccardo Fucile

ARCHIVIATO IL RENZISMO, FINE DEL LEADERISMO, RECUPERO DELLA MEMORIA, CRITICA AL CAPITALISMO, CAMPO LARGO DELLA COESISTENZA

Con quell’aria un po’ così, da figlio del partito in camicia azzurra e cravatta, così refrattario alla cultura dell’immagine da permettersi il lusso novecentesco di sudare, proprio come una volta, il mite Zinga una svolta l’ha impressa, nel suo grande giorno. E anche piuttosto radicale nelle parole e nei simboli.
Svolta segnata, innanzitutto e di questi tempi non è poco, da un grande recupero del principio di realtà , con qualche accenno di autocritica, grande tabù violato in un partito che, fino a poco tempo fa, la considerava un’attività  da comunisti, preferendo suonare la grancassa al leader.
E chiamando modernità  ciò che negava la storia e della sinistra, in un eterno presente senza memoria.
Ecco invece, il figlio di un partito dove si analizzava per ore anche la vittoria degli universitari alla Sapienza, figuriamoci la più grande sconfitta della storia della sinistra,
nel suo primo discorso, che annuncia il suo “cambiamo tutto”, anche lo statuto del partito per aprirlo alla società  e sottrarlo al dominio delle filiere di potere, spalancando porte e finestre.
E va al dunque, alla cruda realtà  delle ragioni per cui questo cambiamento è necessario: “Anche noi, dalla cima di questa montagna di frasi fatte, di intenti roboanti, di schemi politici, abbiamo perso di vista la quotidianità  della vita”.
Non è poco, è una critica a ciò che è stato, accompagnata da un recupero identitario, per cui il passato — grande bersaglio della cultura della rottamazione — torna ad essere, nelle citazioni di Gramsci o Moro o nella fotografia a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza, non un luogo da abitare nostalgicamente ma un campo di costruzione di senso.
Diciamolo subito. È l’inizio, solo l’inizio, di un possibile “nuovo Pd” — questo il proposito, l’ambizione, il progetto — perchè poi le migliori idee camminano sulle gambe degli uomini.
E le gambe sono di chi, finora, non è propriamente stato su Marte, ma tanta responsabilità  ha avuto in questi anni, dal neo eletto presidente Paolo Gentiloni discendendo giù pe li rami.
Non è un dettaglio, a scorrere i nomi della direzione, perfetto accrocco di correnti, come sempre è stato, su cui si è svolta una trattativa serrata fino all’ultimo su nomi e quote, sotto-quote, equilibri all’interno delle singole componenti, con poche novità  presenti proprio nella quota nel nuovo segretario, con la presenza, oltre a Carlo Calenda, soprattutto di parecchi giovani.
Però questo nuovo inizio, a giudicare dalla fotografia di giornata, segna una cesura politica, sia pur nello iato tra ciò che è ancora il corpo del Pd e ciò che dovrebbe diventare.
Bastava raccogliere, all’uscita dall’Ergife, lo sfogo di qualche irriducibile del renzismo su un discorso “da Ds” o l’entusiasmo degli altri perchè “finalmente è tornata la sinistra”, ecco bastava ascoltare qualche reazione, per dare il senso di ciò che è accaduto.
Ovvero: un cambio di “paradigma”, politico e culturale. C’era una sala di dirigenti politici, non di tifosi, attenta e ragionante, interprete di quell’ansia di rinnovamento e di alternativa, espressa dal popolo delle primarie che non vive la partecipazione come applauso al Capo e delega fideistica.
E un segretario che si è posto come interprete di una comunità  e non come un novello Prometeo che porta il fuoco agli uomini: gli attacchi al governo non sono insulti, l’atteggiamento è di chi ha imparato la lezione, l’analisi della società , delle sue sfumature e delle sue contraddizioni, non cede mai il posto al battutismo.
Nel discorso c’è tutto lo sforzo a ripristinare il primato dalla politica sulla comunicazione, dell’iniziativa sulla testimonianza, secondo l’antica lezione che la grande politica non può prescindere dalla fatica intellettuale di comprendere il tempo che ci è dato di vivere.
Ed è tornato, per prima volta nelle parole di Zingaretti, un principio di critica severa al capitalismo, alle storture del mercato, alla sbornia liberista di questi anni di crisi “in cui abbiamo governato, e non poco, anche noi”, e a una visione ciecamente ottimistica della globalizzazione che ha portato a sottovalutare il tema delle disuguaglianze: “Non abbiamo compreso quanto negli ultimi vent’anni un becero liberismo, ringalluzzito dalla fine così poco dignitosa del socialismo reale, avesse ripreso le redini del comando”.
Parole che non si sentivano da un po’, come la ricerca di un dialogo con quella periferie sociali che hanno abbandonato la sinistra e hanno creduto nei Cinque Stelle. Quel popolo, non i leader che restano avversari, è forse il primo destinatario del discorso. Sentite qui: “Una parte grande di quelli che hanno creduto in Di Maio gli si stanno rivoltando contro perchè non è rappresentata quella speranza di cambiamento che il movimento aveva intercettato e rappresentato. Non è affatto scontato che tornino a noi. Ma questo è il passaggio essenziale che si sta verificando nel quadro politico”.
Lo schema è cambiato. Dal conflitto, inteso come ossessiva ricerca del nemico, interno ed esterno, “noi e i barbari”, al tentativo di ricollocare il Pd nel cuore della società  italiana ridisegnando la sua funzione nazionale attraverso la critica dell’esistente e la cultura del “patto”.
Patto col lavoro, con l’impresa, con l’intellettualità  “prendendo noi l’iniziativa di incontrarli”, con quei corpi intermedi, ignorati e vissuti come ostacolo negli anni della disintermediazione e del populismo, per costruire una nuova agenda.
Welfare, assunzioni nella scuola, sanità , questione salariale degli insegnanti, tanto sud, mezzo intervento è su un rinnovato ruolo del pubblico e su una attenzione al sociale.
È questa attenzione a una ricomposizione del corpo sociale della sinistra la maggiore novità  del discorso. E la grande sterzata, appunto, rispetto alla disintermediazione. Popolo inteso non come generica entità  sociologica, ma come costruzione politica, con i suoi bisogni, interessi, contraddizioni.
Il che significa ri-politicizzare lo spazio politico, attorno alla distinzione tra destra e sinistra, proprio in un’epoca in cui la narrazione dominante lo ha incentrato attorno alla contrapposizione tra èlite e popolo, inteso come entità  indistinta.
Questa è la novità  che colloca la discussione sulle alleanze del “nuovo centrosinistra” fuori dal politicismo delle sigle, perchè dà  ad essa uno sfondo sociale. La proposta di Zingaretti, concreta, è sostanzialmente, di un coordinamento tra le forze di opposizione al governo, come terreno su cui costruire una alternativa.
Parliamoci chiaro: è rivolta alla Bonino, a Pizzarotti, ma anche a Leu che resta innominata perchè il neosegretario vuole gestire il passaggio con gradualità .
Però ciò che è a sinistra del Pd torna ad essere un interlocutore, non più il diavolo, a partire dalla lista per le europee perchè non ha senso che chi si riconosce in Europa nel Pse in Italia si presenti diviso “in due liste”.
E anche questa è una novità : “Non si tratta di mettere indietro le lancette dell’orologio che nessuno vuole, a cominciare da chi a mio giudizio ha sbagliato a dividersi da noi. Si tratta di non rimanere immobili e di avviare una rigenerazione di un campo plurale nel quale ognuno deve fare la sua parte”.
Renzi è assente. Lontano dalla sala, e non solo fisicamente.

(da “Huffingtonpost”)

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ZINGARETTI ALLA PROVA DELL’ASSEMBLEA CON UN DISCORSO CENTRATO SU LAVORO E AMBIENTE

Marzo 16th, 2019 Riccardo Fucile

LE NOMINE DI GENTILONI E ZANDA… TRATTATIVE A OLTRANZA SUGLI ALTRI DIRIGENTI

Sarà  un festoso rito di passaggio, come sempre. Le trattative tra e dentro le correnti continueranno fino all’ultimo momento nelle salette adiacenti, come sempre.
La platea degli oltre mille delegati sarà  chiamata a ratificare decisioni prese altrove da altri, come sempre. Ma farà  sentire la propria voce e trasmetterà  ai dirigenti gli umori di una base in rapida evoluzione.
Il grande protagonista dell’Assemblea nazionale del Partito democratico, che si riunisce per la prima volta nella sua nuova composizione eletta dalle primarie del 3 marzo domani all’Hotel Ergife di Roma, sarà  comunque lui: Nicola Zingaretti.
Il nuovo segretario riceverà  la proclamazione ufficiale dal presidente della Commissione congressuale Gianni Dal Moro, che esaurisce così la propria funzione, svolta in maniera impeccabile pur in un contesto complicatissimo.
Poi Zingaretti prenderà  la parola per il tradizionale discorso di insediamento, la cui durata è prevista intorno ai 45 minuti.
Il nuovo leader dem lavora al suo intervento almeno dall’inizio della settimana e continuerà  a limarlo nelle prossime ore, anche grazie ai suggerimenti delle persone a lui più vicine. L’Europa, in vista del voto di maggio, sarà  certamente protagonista (e qui sarà  interessante notare quanto il segretario doserà  i riferimenti al Pse e a Macron, quest’ultimo gradito ai renziani). Quindi il lavoro e l’ambiente, messi non in contrapposizione ma come elementi da tenere insieme per disegnare un nuovo modello di sviluppo sostenibile per il Paese.
E, ovviamente, il nuovo Pd, che inizierà  a prendere forma con le liste aperte per le europee, ma si svilupperà  anche negli organismi dirigenti, in particolare con i forum tematici che vedranno la partecipazione di associazioni e movimenti.
Anche per questo, il discorso di Zingaretti non sarà  rivolto solo alla platea dei delegati, ma vorrà  già  parlare al Paese, o almeno a quella parte di Paese che si sente lontana o delusa dall’onda giallo-verde: dai giovani scesi in piazza ieri per la mobilitazione green sollecitata dalla sedicenne svedese Greta Thunberg alle donne che si sono schierate contro il ddl Pillon, dalle migliaia di persone che hanno sfilato con il corteo antirazzista People a Milano a quelle che a Torino hanno voluto esprimere il proprio sì alla Tav.
Ma il suo intervento non è l’unica preoccupazione di Zingaretti in queste ore.
Con l’aiuto dei fedelissimi Mario Ciarla e Marco Miccoli, il segretario è impegnato a sminare il percorso che dovrà  portare domani all’elezione di Paolo Gentiloni a presidente e Luigi Zanda a tesoriere del partito.
Le minoranze, infatti, non intendono concedere gratuitamente il loro appoggio per garantire l’elezione all’unanimità  dell’ex premier (per la scelta di Zanda le sacche di malumore sono più radicate e quasi certamente non rientreranno del tutto).
Lo si capisce anche dalle dichiarazioni di Matteo Renzi – che ha annunciato la sua assenza “per motivi familiari” – a proposito del voto su Gentiloni: “Se è la scelta di Zingaretti, va benissimo”. Una scelta “di Zingaretti”, quindi non condivisa, come avrebbero preferito lui e i dem che ancora lo seguono.
Su questa richiesta di condivisione delle nomine insiste molto l’area guidata da Luca Lotti e Lorenzo Guerini, come il banco di prova su cui costruire eventualmente un profilo di minoranza non pregiudizialmente ostile al nuovo segretario.
Giachetti, invece, appare intenzionato a smarcarsi in ogni caso. Zingaretti sa bene di aver ricevuto dalle primarie una forza tale da consentirgli di andare avanti sulla propria strada, ma se rallentare un po’, senza pregiudicare il risultato, può servire a migliorare i rapporti interni, è disposto a farlo.
Non è detto, ad esempio, che domani presenti all’Assemblea la candidatura dei due vicesegretari (una data per certa è Paola De Micheli), che potrebbero arrivare più in là . Per la segreteria c’è ancora un po’ di tempo, dato che questa dovrà  passare il vaglio solo della Direzione.
Per il resto, si tratta soprattutto di instaurare un dialogo con tutti, che dimostri la volontà  di una gestione inclusiva del partito. Zingaretti ha già  iniziato a tessere questa tela, ma — come fanno notare i suoi — l’operazione è più complicata del previsto, data la carenza di una leadership condivisa nella minoranza.
Le tensioni interne all’ormai ex mozione Martina stanno agitando infatti anche la vigilia di questa Assemblea.
In ballo ci sono i membri da portare in Direzione (il vero ?parlamentino’ politico del partito, quello che ad esempio approva le liste per le elezioni), da eleggere anch’essi domani.
La quota riservata a questa minoranza è di circa 32 delegati: l’area Lotti-Guerini ne reclama il 70%, mentre Martina, Richetti e Orfini vorrebbero spartirsi il 50%.
Se una mediazione sulle quote di 60-40 appare raggiungibile, sarà  importante spulciare anche i singoli nomi, dato che molti appartengono a un’area grigia di confine tra lottiani e martiniani.
Da decidere è anche uno dei due vicepresidenti dell’Assemblea: se per la mozione Giachetti dovrebbe entrare Anna Ascani, è ancora aperta la trattativa interna (in pole position, la martiniana Debora Serracchiani).
Ma l’assetto complessivo sarà  trovato, come d’abitudine, solo all’ultimo momento utile dietro le quinte, mentre i delegati saranno impegnati in un dibattito da prolungare o ridurre secondo necessità .
Ma i nuovi equilibri non si capiranno solo dai dirigenti. In questo caso, infatti, sarà  interessante domani misurare gli umori dell’Assemblea, che possono aiutare a capire ad esempio se la base di provenienza renziana tenderà  a ricompattare le componenti guidate da Lotti e Giachetti in una linea dura con il segretario, oppure a divaricarle ancora di più tra una minoranza dialogante e una intransigente.
Già  durante la riunione dei parlamentari lottiani di mercoledì scorso erano emerse due linee differenti, che applausi e mugugni domani potrebbero divaricare.
Soprattutto, però, si noterà  il cambio di rotta rispetto al passato: la sala fotograferà  in maniera plastica la fine del dominio renziano sul Pd e l’apertura di una nuova fase. Riuscirà  a rinnovare la classe dirigente? Apparirà  sbilanciata a sinistra? Riuscirà  a parlare a quel civismo spesso evocato da Zingaretti?
Domani avremo le prime, seppur parziali, risposte.

(da “Huffingtonpost”)

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LA STRATEGIA DI ZINGARETTI PER LE EUROPEE: IN AGENDA TIMMERMANS, BONINO E PIZZAROTTI

Marzo 6th, 2019 Riccardo Fucile

SULLA SUA STRADA IL “NODO” MACRON CHE CON VERHOFSTADT COSTITUIRA’ UN NUOVO GRUPPO LIBERALE A STRASBURGO

Le elezioni europee di maggio sono in cima agli impegni di Nicola Zingaretti, neo-segretario Pd, indicato domenica scorsa con le primarie e in attesa della elezione ufficiale il 17 marzo all’assemblea nazionale dei Dem.
Il tempo stringe e allora il governatore del Lazio continua a riempire l’agenda di incontri: domani pomeriggio a Roma vedrà  il socialista Frans Timmermans, candidato del Pse alla presidenza della Commissione (Spitzenkandidat).
Al telefono ha sentito Federico Pizzarotti, il sindaco di Parma, ex del Movimento 5 stelle, che aveva avviato una interlocuzione con i Verdi.
La prossima settimana avrà  un secondo incontro con Emma Bonino, dopo quello di ieri andato male. Ma sulla sua strada c’è anche il ‘macigno Macron’.
Il presidente francese continua ad attirare la parte più renziana del Pd mentre non scalda affatto quella più vicina alla nuova segreteria.
Matteo Renzi, per dire, la prossima settimana sarà  in tv a Parigi per un confronto con Marine Le Pen. Il tutto a valle del manifesto per l’Europa firmato dall’inquilino dell’Eliseo ieri su tutti i quotidiani del continente: un testo che convince i renziani, ma non la nuova maggioranza zingarettiana che pure però dovrà  cercare anche con Macron il filo di un’alleanza europeista all’Europarlamento dopo le europee
L’obiettivo di Zingaretti è una lista allargata che però parta dal Pd e ne rechi il simbolo, anche se “non è un dogma”, continuano a ripetere i suoi.
Domani l’incontro con Timmermans che sarà  a Roma per un evento in mattinata al Centro Studi Americani. La prossima settimana all’incontro con Bonino ci sarà  anche Benedetto Della Vedova.
Ed è ancora da fissare l’incontro con Pizzarotti. Ma Zingaretti deve gestire anche il nuovo attivismo di Macron.
Il presidente francese ha diffuso ieri il suo manifesto per l’Europa, pubblicato su tutti i quotidiani del continente. Iniziativa che nel Pd è stata subito accolta da Sandro Gozi, che alle primarie ha sostenuto Roberto Giachetti (area Renzi).
E’ un manifesto che “dà  valore all’essere europei e, allo stesso tempo, sollecita a uscire dello status quo per rifondare l’Europa. E rompe un tabù, dicendo che si possono riformare i Trattati”, sottolinea Gozi, ex sottosegretario agli Affari europei e presidente dei Federalisti europei in un’intervista al Corriere della Sera.
Ecco, il Pd di Renzi avrebbe subito applaudito all’iniziativa del presidente francese. Non quello di Zingaretti.
La capo delegazione del Pd all’Europarlamento Patrizia Toia ha commentato così: “E’ positivo che in questo momento storico un presidente francese influente come Macron voglia far ripartire le riforme europee. Auspico però che anche dopo le elezioni Macron faccia prevalere l’ambizione europeista alleandosi con il Gruppo S&D, che questi temi li vuole portare avanti davvero, mettendo in secondo piano l’esigenza francese di rafforzare il legame con la Germania a guida conservatrice”.
Rari altri commenti, comunque non di giubilo. Perchè ora, sotto la nuova leadership, con Macron c’è un rapporto di competizione elettorale e di collaborazione dopo il voto: servirà  anche lui per costruire una maggioranza europeista e anti-sovranista all’Europarlamento, insieme al Ppe, sempre che riesca a risolvere il problema interno con il premier nazionalista ungherese Viktor Orban (i Popolari ne discutono in assemblea il 20 marzo, vigilia dell’ultimo consiglio europeo di questa legislatura). E sempre che ci siano i voti per fare l’alleanza.
Il punto è che Macron potrebbe fare da richiamo per quanti nel Pd non gradiranno la torsione socialista di Zingaretti. Certo, è presto per dirlo. E la schiacciante vittoria di Zingaretti alle primarie ha frenato le spinte di Gozi ad andare “oltre il Pd” in senso liberale, pur non avendo assorbito la sua convinzione che bisognerebbe andare oltre i socialisti, oltre le “famiglie europee nate nel secolo scorso”.
Pure Renzi — che nella sua ultima visita a Bruxelles a dicembre è stato accompagnato proprio da Gozi – ha messo da parte (per ora) l’idea di prendere “un’altra strada” politica. Ma intanto l’ex segretario continua con il tour di presentazioni del suo libro (‘Un’altra strada”, per l’appunto) e addirittura la prossima settimana sarà  lui a confrontarsi con Marine Le Pen in diretta tv a Parigi, prima serata su France 2 nel programma ‘L’emission politique’.
Nella stessa trasmissione ci sarà  anche un confronto fra Le Pen e Nathalie Loiseau, la ministra francese per gli Affari Europei che potrebbe diventare capolista alle europee per ‘La Republique en Marche’ di Macron.
Basti dire che l’ultimo leader italiano a confrontarsi con Le Pen è stato Pierluigi Bersani a Roma, su Rete 4, nell’ottobre scorso.
E’ per questo che Macron potrebbe diventare un problema da gestire per Zingaretti. Dal canto suo, l’inquilino dell’Eliseo riprende fiato dopo mesi e mesi di gogna mediatica per via delle proteste dei gilet gialli.
Ora i sondaggi gli danno ragione: nell’ultima rilevazione francese è al 23,5 per cento, in vantaggio sul Rassemblement National di Le Pen (19,4 per cento).
Insomma, Macron ha ritrovato la sua ambizione di leadership europea che in Italia ha presentato con l’intervista di domenica scorsa a Fabio Fazio su Raiuno e che oggi, su un giornale italiano ‘La Stampa’, gli viene riconosciuta ufficialmente da Guy Verhofstadt. “Macron è il leader della nuova Europa”, dice il liberale che il 12 febbraio scorso diede del “burattino” al premier Giuseppe Conte in audizione a Strasburgo, scatenando una lunga scia di polemiche naturalmente.
Ma c’è di più: con l’arrivo di Macron tra i liberali europei, il gruppo dell’Alde si scioglierà , annuncia Verhofstadt. Nascerà  un nuovo gruppo che evidentemente potrà  essere la ‘casa europea’ anche per i Dem italiani che magari si ritroveranno a non gradire le ricette socialiste di Zingaretti.
E’ presto per dirlo. Tutti aspettano le prossime mosse del nuovo segretario. Ed è per queste ragioni che le alleanze in vista delle europee sono in cima ai pensieri del governatore del Lazio.
L’obiettivo è costruire un campo largo, al centro e a sinistra in modo che tutti possano sentirsi coinvolti, così da evitare fughe insomma.

(da “Huffingtonpost”)

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