CHE ACCADREBBE SE, DOPO LE LARGHE INTESE, BERLUSCONI FOSSE CONDANNATO O ARRIVASSE UNA RICHIESTA DI AUTORIZZAZIONE A PROCEDERE?
I TIMORI PARALLELI DI UN’IPOTECA GIUDIZIARIA SULL’ACCORDO PD – PDL
Nella discussione su formule di governo, riforme costituzionali e ricette economiche, c’è un non detto che da due mesi sottintende ogni analisi dei dirigenti di Pd e Pdl, e che rischia di incidere in modo determinante sulle decisioni a cui sono ora chiamati i due maggiori partiti: è la ventennale ipoteca giudiziaria sulla politica, «un’insidia» – come la definisce il democratico Epifani – che è posta sulla strada di quel governo a cui lavora Napolitano.
Cosa accadrebbe infatti se, dopo il varo di un gabinetto di larghe intese, Berlusconi fosse condannato e magari interdetto, o se la magistratura presentasse in Parlamento una richiesta di autorizzazione a procedere contro di lui?
È questo il bivio dinanzi al quale si trovano Pd e Pdl, di questo si discute nelle riunioni riservate, perchè oltre i temi dell’Imu e del semipresidenzialismo c’è una variabile indipendente che potrebbe costringere le due forze a cambiare strategia in corso d’opera.
È vero che la nascita del governo sarebbe posta al riparo dal problema, ma «l’insidia» nel giro di pochi mesi potrebbe manifestarsi.
Che farebbero allora i democratici, sotto la pressione della piazza e della rete, dopo che autorevoli esponenti si sono già espressi a favore dell’ineleggibilità e dell’arresto di Berlusconi?
E quali margini di manovra avrebbe il Cavaliere, quando ormai sarebbe sfumata la possibilità di andare al voto anticipato per rompere l’assedio?
La questione non è stata mai affrontata pubblicamente.
Solo una volta è emersa, proprio la sera dell’incontro tra Bersani e Berlusconi, quando il pd Fassina – in un’animata discussione televisiva con il pdl Gasparri – sbottò dicendo che la grande coalizione non si sarebbe mai potuta fare, perchè «i problemi giudiziari» del leader di centrodestra «sono un macigno», un «elemento ostativo insormontabile» per arrivare a un’intesa. Ora che Napolitano è stato rieletto al Colle, quel «macigno» è superato?
O resta quel non detto che i dirigenti democratici colsero nella frase pronunciata dal segretario all’atto del congedo?
«Non so se un mio successore potrà fare quello che io non ho potuto fare», sussurrò Bersani, senza aggiungere altro.
Di qui le difficoltà del Pd, che è chiamato a scegliere tra linea riformista e linea movimentista sul terreno più accidentato: quello del berlusconismo.
Il veltroniano Verini prova a tener chiusa quella porta, spiegando che «noi non è che dovremo appoggiare un governo Berlusconi ma un governo di Napolitano».
E anche il responsabile giustizia del partito, Orlando, prova a tener separato il nodo politico di un accordo con il Pdl, «difficile a meno che non sia Renzi a fare il premier», dal nodo giudiziario: «Perchè la questione andrebbe rovesciata. Qualora Berlusconi venisse condannato, bisognerebbe vedere come reagirebbe il Pdl: andrebbe a bruciare i tribunali o accetterebbe le sentenze? Nel qual caso, non ci sarebbero problemi».
Più che una dichiarazione distensiva, è una dichiarazione di guerra, una sfida per verificare il grado di solidità (e solidarietà ) del Pdl verso il proprio leader.
Non a caso il tema in queste ore è elemento di discussione ai vertici del partito, ed evoca nel gruppo parlamentare quanto accadde nel ’93, nel giorno di battesimo del governo Ciampi, quando le richieste di autorizzazioni a procedere contro Craxi – respinte dalla Camera prima del voto di fiducia – portarono alle dimissioni dei ministri di area Pds.
Di qui l’indecisione del centrodestra (e di Berlusconi), diviso tra l’istinto di muovere verso le urne e il desiderio di collaborare alla riuscita del governo «di Napolitano».
Ma proprio «il discorso d’insediamento del capo dello Stato – secondo il deputato di Scelta civica Dambruoso – si è steso come un ombrello protettivo sul futuro governo, rispetto a eventuali rigurgiti di questioni che potrebbero minare i rapporti di maggioranza».
Non è dato sapere se il parlamentare montiano, già noto magistrato, abbia ragione, mentre si discute sulla figura che si insedierà al ministero di Giustizia. Di sicuro il Cavaliere – come il Pd – è atteso a una parola definitiva sul non detto che tiene in sospeso le sorti del governo e della legislatura.
Ancora ieri il capo del centrodestra alla Camera ha fatto mostra di non curarsene, concentrandosi sui «problemi dell’Italia».
L’atteggiamento ha colpito il vicepresidente del Csm, Vietti, che incrociando il pdl Lupi in Transatlantico, gli ha sussurrato: «Silvio è diventato un democristiano».
Francesco Verderami
(da “il “Corriere della Sera”)
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