CHI E’ GIROLAMO BRUZZESE, IL PENTITO DI ‘NDRANGHETA FRATELLO DELLA VITTIMA DI PESARO CHE LO STATO NON HA SAPUTO TUTELARE
LE SUE DICHIARAZIONI SONO STATE FONDAMENTALI IN DIVERSI PROCESSI, COLLABORA CON LA GIUSTIZIA DAL 2003
Era l’autunno del 2003 quando Biagio Girolamo Bruzzese – fratello di Marcello, ucciso il giorno di Natale nel centro storico di Pesaro – si presentò dai carabinieri di Polistena con una pistola in mano. Era l’arma con cui era convinto di aver ucciso il boss Teodoro Crea, di cui fino a poco tempo prima era stato il braccio destro.
Quando aveva esploso quei colpi contro il suo ormai ex capo Bruzzese era latitante da sette anni e, spiega l’Ansa, aveva già ricevuto una condanna per omicidio.
Quel giorno, convinto di aver ammazzato ancora, decise di costituirsi e da affiliato alla ‘ndrangheta divenne collaboratore di giustizia.
Crea, boss di Rizziconi in provincia di Reggio Calabria, però non era morto. Sopravvissuto all’agguato, è stato arrestato nel 2006 ed ora sta scontando una condanna in carcere al regime del 41 bis.
Quel tentato omicidio, però, non passò inosservato: pochi mesi dopo, nel febbraio del 2004, fu assassinato il suocero di Girolamo Bruzzese, Giuseppe Femia.
Gli inquirenti hanno collegato quel delitto con il tentato assassinio di Crea.
Dal pentimento di Girolamo Bruzzese sono passati 15 anni. E in questi anni con le sue parole ha contribuito a svelare dettagli fondamentali per gli inquirenti sulle attività delle ‘ndrine nella piana di Gioia Tauro.
Se si scorrono le pagine della cronaca locale il nome di Girolamo torna più volte. Le sue dichiarazioni furono fondamentali nell’operazione Saline, che riguardava i rapporti tra le ‘ndrine e alcuni esponenti politici locali e nelle inchieste Toro e Devin, che hanno portato, tra l’altro, alle condanne definitive degli esponenti della famiglia Crea.
Gli inquirenti ora sono al lavoro per capire se effettivamente l’omicidio di Marcello è correlato al pentimento di Girolamo.
Se quell’esecuzione a sangue freddo è stata una vendetta nei suoi confronti, a distanza di 15 anni. I magistrati stanno indagando per omicidio volontario premeditato con l’aggravante mafiosa.
Le modalità dell’agguato, stando alle prime ricostruzioni, sembrano quelle tipiche di un omicidio di ‘ndrangheta: due killer incappucciati hanno aspettato Marcello davanti alla sua casa, in una stradina nel centro di Pesaro. Quando è arrivato hanno sparato 30 colpi di pistola e poi sono scappati a piedi.
Molti anni prima Marcello aveva rischiato di morire in un agguato: nel 1995 erano stati uccisi suo padre Domenico e il marito di una sorella, Antonio Maddaferri. Lui, all’epoca 28enne, era riuscito a salvarsi.
Non ci è riuscito ieri, 25 dicembre, in una città lontana dalla sua Calabria, in cui, pur non avendo cambiato identità e mantenendo, quindi, un nome riconoscibile, viveva sotto la protezione dello Stato italiano, ricevendo un sussidio dal ministero dall’Interno.
Viveva in una città lontana dal suo luogo d’origine, ma non abbastanza, forse, per i sicari della ‘ndrangheta che, nonostante le tutele cui era sottoposto, sono riusciti a trovarlo.
Probabilmente qualcosa nel meccanismo di protezione del familiare di un collaboratore di giustizia non ha funzionato. E anche su questo aspetto gli inquirenti dovranno fare luce.
(da agenzie)
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