DALLA MANOVRA ARRIVA UNA NUOVA FREGATURA SULLE PENSIONI: L’ULTIMO EMENDAMENTO LEGHISTA PREVEDE CHE I LAVORATORI NEL SISTEMA PURAMENTE CONTRIBUTIVO POSSANO ANDARE IN PENSIONE A 64 ANNI, AGGIUNGENDO LA RENDITA DELLA PREVIDENZA INTEGRATIVA, MA DOVRANNO AVERE 25 ANNI DI CONTRIBUTI E NON PIÙ 20 (E NEL 2030 SI SALIRÀ A 30 ANNI)
LA CGIL ATTACCA: “SI PEGGIORANO I REQUISITI E SI RAFFORZANO LE INGIUSTIZIE”
Doveva essere un modo per la Lega di farsi perdonare la promessa tradita di abolire la legge Fornero e le tante strette di questi anni per scoraggiare le pensioni anticipate. E invece riesce a fare quasi peggio dell’anno scorso, quando ai Millennials fu imposto di uscire a 64 anni con 20 di contributi solo a patto di avere una pensione pari a 3 volte l’assegno sociale, anziché le 2,8 volte previste dalla Fornero, 1.600 euro. Roba da ricchi, si disse. Ecco allora la soluzione.
Anziché abbassare quel valore soglia proibitivo senza un lavoro stabile e ben retribuito, dal prossimo anno (ma i primi effetti si vedranno dal 2027) sarà possibile cumulare la pensione pubblica con la rendita maturata dai fondi pensione per raggiungere il requisito delle 3 volte. Gli anni di contributi aumentano però da 20 a 25. E poi ancora a 30 anni dal 2030.
Sempre dal 2030 sale pure il valore soglia a 3,2 volte. Serviranno cioè 1.710 euro di pensione (ai valori di oggi) per uscire a 64 anni. Non solo per chi cumula, ma per tutti. Anche per chi non vuole o può cumulare, perché non ha un fondo pensione o non riesce ad alimentarlo per via di un salario troppo basso.
L’emendamento alla manovra, a prima firma della deputata leghista Tiziana Nisini, approvato ieri, ha avuto una lunga gestazione. La soluzione del cumulo pubblico-privato era stata a suo tempo illustrata ai sindacati dal sottosegretario al Lavoro del Carroccio Claudio Durigon nel lontano settembre 2023: l’ultimo tavolo sulle pensioni.
Spiegata come un modo per aiutare le nuove generazioni, favorire la flessibilità e anche spingere il secondo pilastro della previdenza, quello privato. Di lì a due mesi il governo Meloni prese un’altra strada. Quella delle strette. Valore soglia spinto su a 3 volte. Addio cumulo.
Arriva ora, ma con requisiti stringenti. Ferita sanata con i “contributivi puri”, quanti cioè hanno iniziato a lavorare dopo il 1996 e che oggi sono la classe media del Paese? Probabilmente no. Vedremo con i più giovani, nel mirino di una campagna governativa per promuovere i fondi. Fatto sta che il canale anticipato a 64 anni più 20 di contributi rimane, anzi si consolida, come un “canale da ricchi”. A maggior ragione visto che tra cinque anni serviranno almeno 1.700 euro di pensione per uscire (significa stipendi buoni per trent’anni). Se si vuole integrare con la rendita, bisogna invece accettare di lavorare di più: 25 anni dal 2025 e poi 30 anni dal 2030.
A regime dunque, dal 2030, si vengono a creare due canali di pensione anticipata: 64 anni più 20 di contributi e 64 anni più 30. Ma in entrambi i casi il multiplo per accedere al pensionamento sale a 3,2 volte.
Niente di nuovo, rispetto a quanto visto nelle tre manovre del governo Meloni piene di penalizzazioni, che hanno svuotato tutti i canali anticipati, da Quota 103 a Opzione donna.
La segretaria confederale della Cgil, Laura Ghiglione, giudica la norma un «peggioramento della Fornero, crescono le ingiustizie ». Anziché «rimuovere i valori soglia, ormai irraggiungibili per la maggior parte dei lavoratori, il governo inasprisce i requisiti».
E fa un esempio: «Basta pensare ai 4 milioni di lavoratrici in part-time che, pur lavorando una vita, anche con 40 anni di contribuzione rischiano di andare in pensione solo dopo i 71 anni». Traguardo che anche molti Millennials e giovani guardano con timore.
(da agenzie)
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