DESTRA ED EGEMONIA CULTURALE, LA VIA CONFUSA DI ATREJU
UNA GRAN CONFUSIONE IDEOLOGICA SUI TEMI CENTRALI… SUL CACIOCAVALLO SIAMO TUTTI D’ACCORDO, ANCHE GRAMSCI
Non ci dobbiamo più nascondere, dice Marco Marsilio detto “il lungo”, presidente della regione Abruzzo, «giovane vecchio» di Azione giovani, durante l’evento conclusivo del primo giorno di Atreju. «Ci dicevano che eravamo catacombali», strilla al microfono, mentre attorno il pubblico accorso nella tensostruttura per ripararsi dalla pioggia compone un tappeto di suoni condito da un forte odore di sigarette iQOS.
Tra baci, abbracci, saluti e strette di mano, la situazione ricorda tanto quella scena di Caterina va in città, quando Claudio Amendola nei panni del sottosegretario postfascista Manlio Germano torna a Latina per un matrimonio e viene sommerso da ossequi e vecchi aneddoti. In questo caso, gli aneddoti sono legati ai tempi di cui parla Marsilio, quelli di Colle Oppio e del 1998, quando non c’erano i cellulari e il parlamento andava in vacanza per tutta l’estate, e quando la giovane destra voleva darsi un volto nuovo, scegliendo il nome del bambino Pelleverde de La storia infinita.
Dal 1998 a oggi
In effetti, dal 1998 a oggi, se c’è una cosa che hanno fatto questi giovani vecchi è proprio smettere di nascondersi, e chi glielo doveva dire che dalle catacombe sarebbero passati al Circo Massimo, tra Måneskin e Pink Floyd, il posto più bello della città più bella del mondo, come diranno più volte durante i panel, a riprova del fatto che la cultura italiana non ha competitor, specialmente quando si tratta di indossare occhiali con telecamere incorporate e lanciare oggetti in testa, aggiungerei.
Nel villaggio natalizio di Atreju, La Via Italiana – questo lo slogan che campeggia su ogni superficie a disposizione – c’è una grande pista da pattinaggio, un vocalist che fomenta il pubblico e mette le canzoni di Coez, adolescenti che giocano a ping pong, un presepe vivente che si rifugia sotto i tendoni per la pioggia e tanti stand di italianissima offerta, come il caciocavallo impiccato, alla faccia di chi ci vuole rifilare hot dog e pokè.
I giovani volontari indossano una felpa bordeaux, mentre i vecchi militanti si distinguono per quell’atteggiamento da rimpatriata in cui si fanno i conti con i successi altrui a distanza di decenni.
Le signore indossano accessori Burberry e trascinano cani di piccola taglia, i signori parlano a voce molto alta di fisioterapia e assicurazioni, nonostante qualcuno faccia loro segno di stare zitti.
Tra Pera e Musk
L’apertura delle danze è affidata a un confronto tra Marcello Pera e Tommaso Labate, perché noi di Atreju, dicono, siamo sempre pronti a confrontarci con chi non è dalla nostra parte, a differenza degli altri; Atreju 1, festa de L’Unità 0. L’intervento di Pera, custode della libertà, insiste su un punto: va bene essere liberali, ma bisogna anche essere conservatori.
Conserviamo il patrimonio artistico, conserviamo i monumenti, conserviamo le nostre radici, conserviamo le nostre tradizioni – nel frattempo, in sottofondo dalla pista di ghiaccio di sente John Lennon che canta Happy XMas, War Is Over, sarà che il titolo inglese ricorda qualcosa di molto italiano – conserviamo l’Occidente che dall’11 settembre del 2001 vive sotto minaccia.
Ed Elon Musk? Chiede Labate, mentre Pera elogia il nuovo corso della politica italiana. Come lo inseriamo nel quadro della tradizione italica il magnate del futuro, il tycoon del tech, quello che punta a Marte e che chiama i figli con codici alfanumerici, quello che ci ha dato PayPal e la Tesla, non proprio un campione di passatismo, se non in ottica turbocapitalista.
«È la prova che la società libera genera l’innovazione», dice Pera, «l’umanità che cresce». Innovazione e tradizione, sembra lo spot su una televisione locale che promuove il restyling di un ristorante sulla Tuscolana che fa carne alla griglia ma anche sushi.
Tre famose B
Dopo un timido applauso al pantheon di Pera, popolato da Thatcher e Reagan, «la vera cultura non ideologica», una folata di anni Ottanta che lascia il pubblico di Atreju un po’ interdetto mentre continua ostinatamente a chiacchierare a tutto volume, arriva il piatto forte della giornata. C’è da chiedersi se per mettere insieme questo trio, gli organizzatori di Atreju abbiano usato lo stesso metodo delle sessioni d’esame all’università: alla B sono chiamati in cattedra Bertinotti, Bonolis e Buttafuoco.
Il tema del loro intervento è «uomini non allineati», un po’ omaggio a Ivano Fossati, un po’ asso pigliatutto della cultura meloniana dei ministri col panciotto e dei parlamentari in Europa con i libri fuori dal coro che esprimono precisamente l’opinione comune della maggioranza spacciandola per minoritaria. Perché la domanda, di fronte a questo bizzarro panel di famose B, è d’obbligo: come mai la destra continua a credersi disallineata se sta al governo da due anni? In cosa, esattamente, si discosta dal pensiero dominante considerato che è lei a dominare?
Vorrei poter dire che la risposta è arrivata durante l’incontro, ma non è stato così. O meglio, in un certo senso il sotto testo degli interventi di Bertinotti lasciava intendere che almeno lui avesse un po’ più chiaro il senso del termine «disallineato», che in questo capannone natalizio e tradizionalista sembra essere stato scambiato per sinonimo di «non essere di sinistra».
Il vecchio comunista col cachemire si lascia trasportare dai suoi cavalli di battaglia recenti, con interventi molti simili a quelli portati da Gramellini qualche ora prima su La7: Stellantis, il capitalismo finanziario, la terza guerra mondiale a pezzi – nel frattempo, in sottofondo si sente Sarà perché ti amo. Il pubblico in sala applaude, confuso, disorientato, forse troppo disallineato, forse per la teoria del ferro di cavallo, o forse solo perché non ha capito che la loro leader, poco prima che Bertinotti parlasse di Olivetti e aziende statali, stava chiacchierando con Trump e Musk tra le nuove luci abbaglianti e barbaradursiane di Notre Dame.
L’indolenza romana
Perché è questo, in sostanza, il tema scottante, quello su cui convergono i nostri disallineati. La tecnologia, la macchina contro l’uomo, l’intelligenza artificiale, il brain rot, per usare la parola che l’Oxford Dictionary ha eletto termine dell’anno. Bonolis ci prova, con il suo savoir-faire forgiato da anni e anni di Ciao Darwin e il suo quintale di braccialetti al polso – come Giambruno, Scanzi e Pablo Trincia, il trend andrebbe studiato –, a dare un tono scherzoso, tragicomico, sordiano potremmo dire, all’evento.
«A Roma noi abbiamo la filosofia degli sticazzi», dice per ribadire il fatto che l’indolenza romana salverà l’antico popolo persino dall’algoritmo e dai nuovi miliardari del tech. Nel frattempo, una signora ride in modo sguaiato a ogni battuta del presentatore, un riflesso pavloviano da Canale 5, e per quanto simpatica sia la reminiscenza di quando Berlusconi – applauso chiamato da Buttafuoco –, la quarta B invisibile del panel, gli chiese di fare da portavoce di Forza Italia nonostante lui non lo avesse nemmeno votato, il clima di caos è irreversibile.
Di cosa stiamo parlando? Di Cina, di pensiero unico, di totalitarismo morbido, di suscettibilità diffusa, di politicamente corretto, dei buoni che hanno vinto, secondo Buttafuoco, e dei cattivi che hanno vinto, secondo Bertinotti. Sono tutti d’accordo, e dicono tutti cose diverse, accomunate da un grande terrore per un futuro incomprensibile fatto di macchine che divorano l’uomo.
Immancabile vittimismo
Eppure, qualcuno avrebbe dovuto farlo notare ai tre disallineati che è proprio la campagna social di Atreju a essere fatta di questi elementi. Immagini create con l’intelligenza artificiale, politicamente corretto strumentale – grande scandalo per una battuta di Filippo Ceccarelli a Propaganda live che ha detto «a Troia» invece di «Atreju», prontamente tacciato di maschilismo, come se non fosse un semplice gioco di parole rivolto al nulla – e vittimismo, l’ingrediente immancabile per ogni ricetta della destra italiana.
Non c’è un post, sul profilo Instagram dell’evento, che non funzioni per macchinosi parallelismi e litoti: «Atreju è come Piazzapulita, realizza interviste con gli avversari politici ma non lo fa di nascosto» o anche «Atreju è come Parenzo, combatte come una tigre ma non difende i centri sociali che lo odiano».
L’impressione è che questa giovane destra non più così giovane, ora che finalmente è uscita dal circoletto di Colle Oppio ed è arrivata sulla piazza più grande, non abbia ancora imparato a mettersi da sola nell’angolo, come se avesse tutto e tutti contro, come se la sua identità culturale esistesse solo nella negazione di quella degli altri, oppositiva e differenziale direbbe Ferdinand de Saussure.
Insiste sul concetto di disallineamento, con una leader perfettamente allineata al presente, tutto gira dalla loro parte, eppure, più che il bambino de La storia infinita, si comporta ancora da brutto anatroccolo. Non è facile rendersi presentabili dopo anni nelle catacombe – qualcuno le avrebbe chiamate «fogne», ma questa è un’altra storia, sempre infinita –, chiaro, ma per fare egemonia culturale, forse, ci vuole un po’ meno confusione ideologica, almeno sulle faccende centrali, che sul ping pong e il caciocavallo impiccato siamo tutti d’accordo, pure Gramsci.
(da editorialedomani.it)
Leave a Reply